Una tesi e un corollario
La tesi che vorrei argomentare è la seguente. Il processo di spopolamento delle aree interne e di quelle collinari, a “vantaggio” della concentrazione della popolazione, delle attività, degli investimenti, degli interessi, dei flussi di persone e di cose sulle aree costiere, è stato un processo parallelo a quello di erosione e di dequalificazione – infine di degrado e di deperimento – d’ogni risorsa non riducibile a merce, quindi in definitiva non riducibile a quell’unica merce che è la dominatrice del nostro mondo, cioè il denaro.
Questa tesi ha un corollario. I due processi cui mi sono riferito (squilibri territoriali e de-valorizzazione di tutte le risorse fuorché una), e il loro intreccio, non riguardano solo questa parte della Sardegna, né solo la Sardegna nel suo insieme, ma anche l’Italia, l’Europa, e il mondo nel suo complesso.
Se questa tesi è attendibile, allora ne scaturiscono alcune conseguenza rilevanti.
La prima. L’azione che è stata intrapresa qui nel Barigadu, cioè il tentativo di arrestare lo spopolamento mediante una capillare azione di valorizzazione di tutte le risorse locali (dal paesaggio ai mestieri, dalle tradizioni alle case, dalle acque agli alberi, dalle persone agli animali, dal clima alle architetture, dalla solidarietà alla lingua) è l’azione giusta per contrastare quel processo ed è l’unico modo per superarne gli immensi aspetti negativi.
La seconda. Quest’azione è un’azione pilota nei confronti della speranza dell’intera umanità di sottrarsi a una prospettiva catastrofica: quindi è un’azione pilota per la Sardegna, per l’italia, per l’Europa, per il mondo intero.
La terza. È nell’interesse dello Stato – in tutte le sue articolazioni locali, nazionali e sovranazionali, appoggiare questa azione e – ove dia risultati soddisfacenti – impiegare risorse economiche e politiche per promuovere la generalizzazione degli indirizzii applicati, dei i metodi sperimentati, dei modelli elaborati.
Se guardiamo una carta antica del territorio italiano, diciamo del XVI secolo, vediamo campagne e colline oggi deserte punteggiate da casolari e masserie, chiesette e fontanili, borghi e paesi.
Se guardiamo una restituzione dei rilevamenti vaticani o napoleonici del XIX secolo, o anche un IGM di primo impianto, vediamo dei segni meno ingenui, ma una realtà molto simile.
Per secoli rapporto tra uomo e territorio è rimasto stabile: l’insediamento, in una forma o nell’altra, era diffuso su tutti i territori abitabili.
Certo, in forme diverse: dove aggregato in paesi, circondati da una campagna priva di stabili segni di presenza umana – come qui in Burigado, o in vaste zone del Mezzogiorno continentale – e dove invece più sparso nei nuclei delle masserie organizzate.
In ogni caso una presenza diffusa sul territorio, dove perfino i boschi erano segnati dalla presenza dell’uomo, che li manteneva asportando i rami e i tronchi secchi per farne legna da utilizzare per le travi o i fuochi. (Quei tronchi e quei rami che, se non fossero stati rimossi, avrebbero impedito, e più tardi impedirono, il deflusso delle acque dei torrenti, provocando inondazioni e danni sia a monte che a valle).
I nostri paesaggi, che hanno fatto innamorare dell’Italia i massimi esponenti della letteratura e dell’arte del Settecento e dell’Ottocento europei, sono nati grazie a questo equilibrio. Ne rappresentano la testimonianza e il lascito: la testimonianza, e quindi l’insegnamento; il lascito, e quindi la ricchezza.
E i nostri prodotti da quelli alimentari (le diverse carni e i modi di cucinarle, i mille formaggi tutti buoni e tutti diversi, i vini famosi fin dai tempi dei fenici e dei romani, gli oli spremuti a freddo, e le tante tantissime paste che in certe regioni si moltiplicano) a quelli di un artigianato che spesso è l’anticamera dell’espressione artistica, tutto questo ha potuto essere inventato e accumulato e reso disponibile grazie a quell’equilibrio del rapporto tra uomo e territorio.
A un certo punto quell’equilibrio si è rotto. La popolazione, le attività, gli investimenti sono franati a valle: nelle pianure litoranee, verso le coste.
Tutto lo “sviluppo” (quello sviluppo che abbiamo di recente compreso essere malato) si è rivolto verso i luoghi esterni rispetto ai cuori delle regioni.
Si è concentrato là dove il terreno era pianeggiante e poteva facilmente essere percorso dalle infrastrutture, dove potevano scorrere le macchine che nell’agricoltura avevano sostituito il bove e il mulo e perfino la fatica dell’uomo, dove le zone industriali potevano svilupparsi attingendo fiumi d’acqua dalle nascoste riserve delle falde superficiali e profonde, dove i fiumi e il mare potevano smaltire i veleni prodotti nelle fabbriche, dove le città potevano espandersi a volontà in tutte le direzioni.
In Italia ciò è accaduto, drammaticamente e tumultuosamente, negli anni del dopoguerra: prevalentemente negli anni dai Cinquanta ai Settanta, ma con code che si sono prolungate fino agli ultimi decenni del secolo scorso.
Tra il 1961 e il 1971 la popolazione rurale, ha perduto quasi 5 milioni di unita. La popolazione residente dei Comuni costieri è aumentata del 12,4% tra il 1951 e il 1961 e del 14.2% tra il 1961 e il 1971. All’inizio degli anni Settanta la metà della popolazione viveva già nei comuni costieri
Al 1951 il 45% della popolazione risiedeva in comuni piccoli e territorialmente sparsi. Al 1971 i comuni inferiori ai 10.000 abitanti raccoglievano il 35% della popolazione.
Nel complesso, si calcola che nel ventennio 1951-1971 17 milioni di italiani hanno cambiato la residenza. Un fenomeno, quindi, di dimensioni gigantesche.
Ma un fenomeno che – in tempi diversi e in modi diversi – si è sviluppato e sta sviluppandosi in tutto il mondo.
Non so se avete avuto occasione di vedere quelle fotografie dal satellite che il sito web della NASA mette a nostra disposizione. Periodicamente inseriscono una immagine, ottenuta unendo tra loro una successioni di immagini scattate dal satellite, che restituisce la visione del nostro pianeta di notte. Potete vederlo andando qui: http://www.antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/
È un’immagine per me terrificante. Le zone illuminate sono tutte lungo le coste, in Europa come in Australia, in Asia come nelle Americhe. Le vaste plaghe prive di ogni lumicino danno un’idea fortissima dei giganteschi squilibri che caratterizzano la nostra terra.
Sappiamo quali fenomeni si accompagnino alla concentrazione della popolazione, Sappiamo quali sono i grandi problemi sociali, umani,m economici, urbanistici delle aree metropolitane, i conflitti d’ogni tipo – tra cui quello con un ambiente sempre più degradato, inquinato, avvelenato. Ma io vorrei porre l’accento sul prezzo che la collettività paga per il deperimento delle risorse che avviene là dove il peso della popolazione e delle attività di riduce: nelle zone di spopolamento e d’abbandono.
Ho già accennato all’inizio a ciò che ritengo costituisca risorsa, in un modo corretto di intendere questo termine. Ho parlato di paesaggio e di mestieri, di tradizioni e di case, di acque e di alberi, di persone e di animali, di clima e di architetture, di solidarietà e di lingua e cultura.
Vorrei soffermarmi su una risorsa che è di gigantesche dimensioni e che è abbastanza trascurata. La sua importanza mi è apparsa in tutta la sua evidenza in un convegno, organizzato a Roma da Italia nostra, cui ho partecipato la settimana scorsa. Mi riferisco al territorio rurale, questo elemento che qui è davvero dominante.
Il territorio rurale – il contenitore e la matrice dei nostri paesi - è una risorsa importante per molte ragioni.
È una risorsa perché è un serbatoio di naturalità addomesticata, che racconta la storia del rapporto fecondo dell’uomo con la natura, che conserva quindi per noi e per i posteri la memoria della nostra civiltà. E senza memoria, senza consapevolezza della propria storia, una civiltà non esiste. (Vi consiglio molto caldamente, a questo proposito, di leggere il bellissimo libro di Piero Bevilacqua, Utilità della storia, Donzelli
È una risorsa perché è una riserva di natura viva, capace di restituire alla vita nostra (e dei nostri posteri) l’ossigeno, l’energia vivente, la ricreazione serena che sono gli indispensabili antidoti per i veleni che il nostro “sviluppo” produce. E sempre più l’importanza di questo antidoto appare evidente a gran parte degli abitanti della metropoli, se è vero – come è vero – che cresce ogni anno la quota di visitatori che, nei periodi delle vacanze dal lavoro, preferiscono la campagna, i monti e le colline, le piccole città e i paesi alle grandi concentrazioni vacanziere delle riviere marine, sovraffollate, metropolizzate e trasformate in divertimentifici.
Ed è una risorsa perché è la matrice di una produzione di beni i quali – se sottratti alle tendenze all’omologazione e alla mercificazione che li sta mano a mano privando di ogni individualità – possono costituire strumenti importanti sia di uno sviluppo economico sostenibile sia una vita la cui qualità non si riduca a quella degli hamburger, della coca cola e delle vitamine in pillole.
Su quest’ultimo punto vorrei un momento soffermarmi. Vorrei parlarvi dell’alimentazione del mondo.
Mi riferisco alle analisi e alle proposte di Frances Moore-Lappe, e al suo libro ‘ Diet for a Small Planet’ La Moore-Lappe è fondatrice dell’Institute for Food and Development Food First. Sostiene, e dimostra, che nel mondo esiste cibo a sufficienza a sfamare tutti i suoi abitanti se si cambia il modo di produrre alimenti rispetto a quello tendenziale. Sostiene che oggi si è adottato un approccio di tipo industriale ed estrattivo verso l’agricoltura e che da questo approccio consegue il fatto che si sta cambiando l’abbondanza in penuria. In una parola, la produzione di proteine alimentari avviene attraverso uno spreco così sterminato di prodotti alimentari primarti da mettere a rischio la capacità di alimentazione della popolazione planetaria.
"Per comprendere come ci si sia arrivati– sostiene la Moore-Lappe in un’intervista all’Espresso - bisogna risalire al prezzo dei cereali negli anni Cinquanta. All’epoca il prezzo delle granaglie era al di sopra delle capacità d’acquisto di gran parte della popolazione mondiale, di conseguenza il mercato registrava una situazione di intasamento. Così, per stabilizzare i prezzi, i produttori decisero di dare da mangiare il surplus agli animali d’allevamento. Un’abitudine rimasta immutata: le quantità di cereali date in pasto agli animali da macello superano di gran lunga quelle che vengono consumate dalla popolazione mondiale".
Secondo la Moore-Lappe, cambiando abitudini alimentari si può modificare l’equilibrio economico mondiale. Introducendo e generalizzando una dieta basata non più sulle proteine prodotte attraverso la trasformazione dei cereali in carni nella catena industriale dell’allevamento, ma su una stretta integrazione tra cereali, verdure e carni allevate naturalmente. L’esempio è la dieta mediterranea.
"Una dieta basata sulle piante piuttosto che vegetariana. Una dieta nella quale ci siano cereali non raffinati coltivati quanto più possibile localmente e senza pesticidi o fertilizzanti chimici”. Per integrare le verdure, il grano e la frutta si usano legumi, noci e semi, carne e prodotti di animali che non siano stati stati alimentati con granaglie e siano cresciuti nei pascoli aperti.
“Questa – sostiene la Moore-Lappe - non solo è la dieta più salutare, ma anche quella che pesa di meno sulle risorse della Terra. Purtroppo lo stile alimentare che ha prevalso nel mondo è quello statunitense a base di proteine e grassi animali. In questo senso gli Stati Uniti rappresentano l’apoteosi dello spreco; in questo paese: ci vogliono otto chili di grano e soia per produrne mezzo di carne. E ora stiamo esportando questo modello nel mondo”.
La Moore-Lappe fa altre due riflessioni interessanti. “La prima: sicuramente è più efficiente mangiare direttamente quello che coltiviamo senza doverlo prima somministrare ad animali. La seconda: nel mondo molti si stanno rendendo conto che l’unica strada sensata è quella di crescere e consumare cibi prodotti localmente, mantenendo la presenza di piccole e medie aziende agricole senza permettere che le nostre coltivazioni finiscano col dipendere dai fertilizzanti chimici. Non c’è dubbio inoltre che è anche più efficiente, almeno in termini energetici e sanitari, non trasportare il cibo lungo grandi distanze”.
E fa una una riflessione che definirei culturale."Riprendersi la propria alimentazione è anche una maniera per ritrovare un senso di direzione nella vita e appagamento spirituale. Nelle culture tradizionali il cibo è un elemento centrale della socializzazione; è intorno al tavolo che si incontrano i vari membri di una famiglia, che si riconnettono i percorsi personali, si celebrano gli avvenimenti importanti, e quando il cibo proviene dalla stessa comunità in cui viviamo, il senso di completezza è ancora più grande. Uno degli effetti inaspettati di quest’opera di ricollegamento tra la città e la campagna è la rinascita spirituale e morale delle comunità che ne sono interessate".
Quando si parla di modelli di sviluppo, le chiede l’intervistatrice, si finisce sempre nella dicotomia progresso-globalizzazione contro il ritorno all’antico. Come si fa a evitare questa trappola? "La soluzione è nella convivenza di scienza e tradizioni popolari. Questa convergenza nel settore agricolo sta producendo risultati interessanti: penso all’agroecologia, all’agricoltura sostenibile. Ci hanno insegnato come coltivare senza fertilizzanti chimici e gli ultimi studi scientifici ci hanno dimostrato che questi metodi producono quanto se non di più del metodo industriale intensivo. Non si tratta quindi di tornare indietro nel tempo. Ma, consapevoli delle nostre tradizioni, di proiettarci nel futuro costruendo sulle conoscenze che abbiamo acquisito".
Ho voluto citare a lungo questa intervista, e le tesi della Moore-Lappe, per sottolineare un punto. Il tentativo di sperimentare un modello di sviluppo basato sull’uso intelligente e “moderno” delle risorse locali – di quelle stesse risorse che lo sviluppo contemporaneo tende a degradare e distruggere – non è un tentativo di resistere a una direzione di marcia inarrestabile. Non è una battaglia di retroguardia. Non è la difesa assistenzialistica di piccole comunità che vogliono vivere come hanno sempre vissuto.
No. È, invece, la sperimentazione di un modello che può risolvere una crisi mondiale, che può permettere al nostro pianeta di evitare la gigantesca trappola nella quale uno sviluppo finalizzato unicamente alla crescita di alcuni grandi patrimoni privati ci sta portando.
Difendere e sviluppare le produzioni locali, promuovere le produzioni “di nicchia”, legare tutto ciò al territorio, al paesaggio, al capitale fisso sociale, alla ricchezza delle risorse che infinite generazioni hanno sedimentato qui, in questo luogo, offrire queste viventi ricchezze in uso a quanto voglianoi venure qui a goderne e a imparare da esse. Questo è un programma che non solo evita lo spopolamento – e lo spereco di risorse che ciò comporta – ma che indica una strada che il mondo intero può percorrere, deve percorrere, se vuole evitare il suo deperimento e la sua crisi.
C’è un punto sul quale occorre riflettere, un punto molto complicato, che ci indica quanto sia complesso il problema che sta dietro a tutto ciò intorno a cui ragioniamo.
Quando parliamo di territorio, di paesaggio, di campagna (e di centri storici di monumenti di casali e di filari di alberi, di colline e di terrazzamenti, e di prodotti artigianali, di tradizioni, di prodotti peculiari di certi luoghi, caratterizzati da certi particolare profumi e sapori), noi parliamo di “beni”: di oggetti che ci interessano in relazione all’uso (estetico, didattico, ricreativo, alimentare ecc.) che se ne può fare. Parliamo di qualità, di differenze, di individualità.
E in effetti l’economia classica (Adamo Smith, David Ricardo, Karl Marx) aveva individuato due valori (o due aspetti, due componenti del valore): il valore d’uso e il valore di scambio. Il primo, il valor d’uso, si riferiva proprio alla qualità e all’individualità degli oggetti in relazione all’uso che l’uomo ne può fare. Il secondo, il valore di scambio, si riferiva invece all’equivalenza tra gli oggetti, alla loro capacità di essere scambiati lì’uno per l’altro – e tutti al loro equivalente monetario.
Per il primo, il valor d’uso, ogni oggetto è un bene. Per il secondo, il valore di scambio, ogni oggetto è una merce, conta in quanto merce.
Se la teoria economica aveva individuato con precisione entrambi questi requisiti degli oggetti, e aveva dato ad entrambi l’attributo del valore, l’economia pratica del sistema capitalistico (l’unico vigente) si è polarizzata solo sul valore di scambio, la moneta, gli schei.
L’intera economia si è ridotta a questo, e il valore d’uso è scomparso dalla scena. Ogni bene è stato ridotto a merce, e il bene in quanto tale non ha più alcun riconoscimento. Questo è il punto, questo l’obiettivo da raggiungere nella riflessione teorica e nella pratica del sistema economico: restituire legittimità economica a realtà (i “beni”) che oggi hanno solo legittimità morale.
Io credo che lo sforzo di sperimentare un modello alternativo di sviluppo, basato sulle risorse in quanto beni, in quanto individualità, qualità, differenza, sia anche un modo di aprire la strada a una concezione diversa dell’economia, e quindi della società. O, almeno, a stimolare la riflessione su di essa, e la consapevolezza della sua esigenza.
Perché è solo dalla consapevolezza delle esigenze di cambiamento che nascono i cambiamenti nella realtà.