Flessibilità a Milano
La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice [1].
Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese [2]. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante [3].
L’intreccio tra posizioni “di destra” e posizioni “di sinistra”, tra impostazioni aperte agli interessi privatistici più spinti e posizioni giacobine, è una caratteristica della cultura milanese che andrebbe indagata a fondo. Qui vorrei segnalare che in questi anni di nuovo Milano si presenta con un evento dello stesso segno. Una evento importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato: grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.
Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegneranno ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero [4]. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.
Il documento parte da una critica intelligente e serrata, e del tutto condivisibile nelle argomentazioni, della pianificazione tradizionale: è sempre da una critica della pianificazione vigente che muovono i tentativi di sua demolizione. Esso accompagna a questa critica una valutazione positiva delle modifiche legislative introdotte nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Di queste modifiche legislative (e in particolare degli “strumenti urbanistici anomali”[5] che la caratterizzano) il documento interpreta correttamente – a mio parere - il significato; vale la pena di seguire l’autore in quella che per lui è un’apoteosi e per me, invece, coincide con una critica profonda.
I provvedimenti più recenti hanno segnato un significativo mutamento della legislazione urbanistica rivolto a facilitare i processi di variante del piano regolatore generale, ad introdurre un ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale, e a sviluppare forme consensuali di decisione (p.3).
Sulla base di una puntuale analisi dei nuovi strumenti normativi introdotti a partire dal “decreto Nicolazzi” del 1982, gli autori affermano, con una valutazione complessiva incontestabile, che (i corsivi sono miei)
i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni ‘90 costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana (p.23).
La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. E con quest’ultimo termine non si indica una periodo di particolare estensione e diffusione delle pratiche di corruzione (quelle pratiche, come molti giustificazionisti ricordano spesso, che “sempre ci sono state e sempre ci saranno”), ma una fase particolare della nostra storia: una fase nella quale la corruzione è divenuta chiave di volta di un sistema di potere e bussola accreditata delle decisioni politiche – in particolare di quelle relative al governo del territorio[6].
Per gli autori del documento per la Grande Milano le tendenze derogatorie e delegificatorie che si sono manifestate in quegli anni hanno la loro legittimazione nella scarsa rispondenza del piano regolatore generale rispetto alle esigenze degli operatori immobiliari. Il documento riprende e sviluppa con intelligenza le critiche alla vigente pianificazione urbanistica che sono state sviluppate negli ultimi decenni dalla cultura urbanistica italiana. Sviluppa in particolare un aspetto, che mi sembra esprimere con compiutezza il punto di vista dell’operatore immobiliare: un soggetto cui viene riconosciuta, nel documento milanese, nuova e trasparente centralità.
Mi riferisco alla questione delle “certezze e incertezze” del piano regolatore. Il documento osserva a questo proposito che il piano regolatore generale, se “produce due tipi di certezza: la certezza dei diritti esistenti, che il piano conferma, e la certezza dei diritti legati alle trasformazioni prescritte dal piano”, produce anche “due forme di incertezza, dovute alla possibile inadeguatezza delle norme nei confronti delle variabili aspettative del mercato e al possibile mutamento delle norme nel tempo. Inoltre, il processo di pianificazione aggiunge due altre forme di incertezza che riguardano il contenuto e il tempo delle decisioni” (p.29).
Su questo punto conviene soffermarsi perché nella formazione della proposta degli autori gioca un ruolo essenziale. Secondo le categorie adoperate,
”il riconoscimento degli usi esistenti costituisce la certezza dei diritti d’uso in atto e dei valori corrispondenti. La disposizione delle trasformazioni degli usi esistenti e la definizione di nuovi diritti d’uso è anch’essa una certezza — è una certezza giuridica perché il piano è una legge —, ma la prospezione dei nuovi valori legati ai nuovi diritti costituisce […] solo una certezza ipotetica. L’espressione suona come un bisticcio, ma cerca di esprimere il fatto che la prescrizione da parte del piano delle trasformazioni degli usi esistenti è in realtà una disposizione ipotetica o condizionale, in quanto la prescrizione di un nuovo uso del suolo equivale ad un’affermazione del tipo ‘se … allora’. Solo se la prescrizione del piano viene rispettata , allora i nuovi usi verranno posti in atto e si produrranno i nuovi valori” (p. 29).
Di fronte a questo sistema di certezze e incertezze del piano regolatore generale da parte degli operatori viene “una richiesta contraddittoria: da un lato si esprime la domanda di certezze che garantiscano gli investimenti, dall’altro la domanda di flessibilità per permettere di adeguare norme e programmi di investimento alle dinamiche del mercato”.
In definitiva, secondo gli autori del documento, certezze e incertezze “presentano vantaggi e svantaggi, ma le certezze legate alle trasformazioni prescritte dal piano — indicate come certezze ipotetiche — si rivelano un inutile elemento di rigidità del sistema e, per introdurre elementi di flessibilità nel sistema, la loro scomparsa risulta necessaria”.
Il ragionamento di fondo del documento è sorretto da una valutazione più generale, che costituisce in qualche modo il punto d’avvio dell’intera argomentazione (e della proposta di cui essa costituisce l’abito). Esso ha la sua premessa in una valutazione, a mio parere corretta e condivisibile, delle differenze nelle pratiche e nelle culture della pianificazione presenti in Europa. Nel documento si osserva infatti che:
“la rigidità di sistema non è una caratteristica specifica dell’urbanistica italiana ma di tutta l’urbanistica europea, ad eccezione di quella britannica. La coppia certezza/flessibilità assume caratteri molto diversi nella tradizione urbanistica continentale e in quella britannica. Il confronto tra piano regolatore e piano di struttura britannico permette di capire come il prezzo della flessibilità sia la discrezionalità amministrativa, e come la flessibilità incida sul rapporto tra piano e progetti, e quindi tra amministrazione e operatori, pubblici e privati”.
In che modo differisce questo rapporto nel modello continentale e in quello britannico?
Nel modello continentale il rapporto tra piano e progetti è regolato dal controllo di conformità, mentre nel modello britannico prevale il controllo di prestazione. Nel modello continentale le norme preesistono al progetto e formalmente sono un vincolo-risorsa per l’investitore, nel modello britannico le norme sono, almeno in parte, il frutto di un rapporto negoziale tra l’amministrazione e l’investitore.
Nello svolgere il loro ragionamento agli autori non sfugge la ragione della differenza tra l’impostazione continentale e quella britannica. La “profonda diversità” tra i due sistemi è “dovuta soprattutto al fatto che nella tradizione britannica i diritti di trasformazione urbana sono dello Stato” (p.5).
E la maggiore discrezionalità del modello britannico poggia proprio sulla circostanza “che i diritti di trasformazione degli usi del suolo sono di proprietà dello stato e ciò garantisce al modello la sua flessibilità; al contrario, la mancanza di discrezionalità che caratterizza il modello italiano e continentale è dovuta alla necessità di rispettare i diritti soggettivi di trasformazione degli usi del suolo e ciò determina le certezze formali offerte dal modello”.
Non è certo una differenza da poco. La necessità di un forte e penetrante potere pubblico nel campo delle decisioni sull’uso del territorio, di una pervasiva capacità regolatrice dello Stato sull’esercizio dei diritti immobiliari, sta nel fatto che questi erano stati venduti ai proprietari privati: erano stati individualizzati. Basta rileggere le pagine di Hans Bernoulli[7] per averne un’illustrazione convincente.
È evidente che, là dove lo Stato dispone dei “diritti di trasformazione urbana” (dove cioè il controllo delle trasformazioni è strutturale e patrimoniale) gli interessi collettivi non hanno bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi per essere soddisfatti. Ma è vero anche il contrario: dove i “diritti di trasformazione urbana” appartengono ai privati la tutela degli interessi collettivi ha bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi. Non è anche in questo senso, forse, che può esser letta tutta la discussione sull’urbanistica che si è sviluppata in Italia particolarmente dagli anni 60? Si può dire che il tentativo perseguito prima attraverso l’esproprio generalizzato delle aree di trasformazione urbanistica[8], poi attraverso l’attribuzione allo stato dello jus aedificandi[9], esprimeva proprio l’intenzione di superare il controllo regolativi (sistema dell’Europa continentale) con il controllo strutturale (sistema britannico).
Gli autori del documento dimenticano la profonda differenza strutturale che è alla base dei due modelli. Essi, anzi, si compiacciono del fatto che “malgrado la profonda diversità dei due modelli […] si manifesta sempre più nelle pratiche una loro convergenza”.
Questa, con ogni evidenza, non si esplica nello svilupparsi, nelle società del Continente, della tendenza ad attribuire allo Stato maggiori “diritti di trasformazione urbana”, ma in quella di diminuire, a favore degli interessi immobiliari privati, la capacità regolativa dello Stato anche là dove questo non dispone dei diritti di trasformazione urbana, o ne dispone in misura limitata.
È proprio alla convergenza “verso il basso” del modello continentale con quello insulare che “fanno riferimento le nuove procedure proposte per Milano”. Si propone la sintesi tra i due modelli e la costruzione di un terzo modello:
È possibile comporre parte delle qualità dei due modelli in un terzo modello caratterizzato da un relativo indebolimento dei caratteri di entrambi, ad esempio, un modello di tipo italiano che acquista flessibilità rinunciando alle certezze ipotetiche. Il modello proposto può essere definito ‘certo e flessibile’, poiché è rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo (p.4).
In altri termini, il “modello milanese” si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato.
Ma vediamo più da vicino come si articola la proposta del “modello milanese”. Esso si basa sul presupposto (sulla scelta) che “in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore — ad esclusione di particolari salvaguardie —, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi”.
Quest’affermazione può sembrare abbastanza generica. Ma essa viene subito precisata e chiarita:
“In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate” (p.47)
In sostanza, la pianificazione comunale si limiti a definire la disciplina delle parti della città già conformate, delle quali si intende conservare la stabilità dell’assetto raggiunto, e dei connessi valori immobiliari. Lì il piano sia certo e inequivocabile.
Dove viceversa si prevedono trasformazioni negli assetti (e nei valori immobiliari), lì la pianificazione sia generale, generica, “strategica”: indichi scenari, obiettivi, indirizzi. Si esprima non in un “piano” (in un documento impegnativo, specificamente riferito al territorio e opposable aux tiers), ma in un “documento”: un documento che peraltro non sia in alcun modo cogente, ma sia continuamente modificabile dai progetti e programmi presentati dagli operatori, purché adeguatamente motivati e argomentati.
In altri termini, la pianificazione dovrebbe essere “certa e flessibile” in modo profondamente asimmetrico. Nelle aree dove i valori immobiliare sono già consolidati, dovrebbe garantire (ai titolari dei valori immobiliari) la certezza della loro stabilità nel tempo. Nelle zone dove invece si possono prevedere trasformazioni, il pubblico sostituisca la certezza delle sue determinazioni con una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle “convenienze”) degli operatori privati. Quando questi ultimi si manifestassero e divenissero maturi, l’amministrazione dovrebbe tradurli in certezze.
Non sembra che ci sia molto da aggiungere. Del resto, il documento lo afferma già nelle prime pagine: il piano deve essere “rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo”.
Gli autori del documento si rendono conto di alcune delle più immediate conseguenze della loro proposta: Essi scrivono infatti:
“È evidente che l’aumento di flessibilità e di discrezionalità comporta maggiori opportunità per gli interessi individuali di accesso al piano e al mercato urbano, ma il rischio che interessi individuali prevalgano sull’interesse generale non dipende dal tipo di strumenti tecnico-giuridici disponibili quanto dalla volontà e dalla capacità politica di resistere a pressioni che sono in contrasto con l’interesse generale”.
È un’osservazione giusta, ma le conseguenze possono essere molto preoccupanti. Gli strumenti tecnico-giuridici sono un sistema di garanzie la cui ratio sta nell’assicurare che gli interessi collettivi, e quelli strutturalmente meno protetti, siano adeguatamente posti al riparo dagli errori e dalle debolezze degli uomini, e dalla partigianeria degli interessi specifici. Rinunciare a quelle garanzie, senza sostituirle con altre, significa trasformare la società in una giungla in cui solo i più forti sopravvivono[10].
A me sembra molto più ragionevole, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che regole non ce ne devono essere più. Da questo punto di vista, mi sembra molto più convincente un’altra “terza via” che si sta tentando di percorrere.
Nulla sarebbe più miope che reagire alle trasformazioni sbagliate del vigente sistema di pianificazione (o per meglio dire, del sistema di pianificazione “classico”, poiché quello vigente è già stato abbondantemente deformato) limitandosi a difendere il passato, e la lettera della tradizione. Che i metodi, gli strumenti, le tecniche della pianificazione vadano profondamente trasformati, è evidente a tutti. Strade di innovazione radicalmente differenti da quella proposte da Luigi Mazza – nel rispetto e nella continuità con i principi di fondo della tradizione – sono state percorse, sia pure in modo ancora insufficiente e parziale.
Mi riferisco, per esempio, a quel tentativo, che, con altri, ho cominciato a sperimentare a Venezia negli anni Ottanta, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni Novanta[11], che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali recenti[12], e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati[13].
È un tentativo che si basa anch’esso sulle critiche all’inefficacia della vigente strumentazione urbanistica, che tende anch’esso a introdurre elementi di flessibilità nella pianificazione e nel governo pubblico delle trasformazioni, che tende anch’esso a introdurre anche nella pianificazione italiana elementi di operatività, ma che – a differenza del “modello milanese” –conserva il primato del potere pubblico nel campo della trasformazioni urbane e territoriali.
Si tratta di quel modello basato sulla distinzione tra due tipi di “regole”:
1. quelle relative alle scelte strategiche e alle “condizioni alle trasformazioni” poste dalle esigenze di tutela delle qualità ambientali e storiche e di prevenzione dei rischi territoriali, da definire in relazione ai tempi lunghi e con prescrizioni “forti”, certe e non negoziabili;
2. e quelle relative alle concrete trasformazioni fisiche e funzionali, da decidere in relazione alle esigenze, alle opportunità, alle disponibilità di risorse e di attori, valutate nel breve-medio periodo e da definire con procedure caratterizzate da flessibilità e negoziabilità: nell’ambito, certamente (e questo è il punto fondamentale) di prestazioni preliminarmente definite.
La distinzione tra il primo tipo di regole (quelle strategiche e strutturali, valide a tempo indeterminato, formate in relazione ad esigenze permanenti o a scelte di lungo periodo) e il secondo (quelle programmatiche, legate alle esigenze, convenienze e previsioni di breve periodo, coincidenti con la durata del mandato amministrativo) consente di risolvere almeno i più rilevanti limiti di efficacia della pianificazione classica. Consente di ridurre consistentemente i tempi della formazione del piano (poiché la base informativa è costruita una volta per tutte, e sistematicamente aggiornata); consente di effettuare altrettanto sistematicamente il monitoraggio delle scelte e la valutazione dei loro effetti; e consente di distinguere molto più chiaramente di quanto oggi non sia l’ambito delle scelte tecniche e quello delle scelte politiche. Ma argomentare tutto questo richiederebbe uno spazio maggiore di quello di questo articolo.
Intendiamoci, il modello che si esprime nelle proposte dell’INU, nelle leggi urbanistiche che ho citato, nel testo unificato della Camera dei Deputati non è certo – nelle sue differenti formulazioni – limpido e privo di errori. Io stesso ne ho in più occasioni criticato questa o quell’altra applicazione. Nella sua stessa logica di fondo, non è certamente l’unico modello proponibile, e non è neppure detto che sia il migliore.
In tutte le sue formulazioni esso peraltro resta fedele ad alcune prerogative, ad alcuni principi, che a me sembrano essenziali e che del resto appartengono alla tradizione e alla prassi europea. Proverò a enunciarli:
1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,
2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,
3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,
4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,
5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.
Mi sembra che è a questi principi che bisognerebbe riferirsi nell’esame di qualunque modello di nuova pianificazione, e che è sulla coerenza con essi che si dovrebbe misurarlo.
Così come si dovrebbe ragionare sugli effetti che rischia di avere, sul sistema economico nazionale, un approccio alle trasformazioni urbane che privilegi – come quello milanese - gli interessi degli operatori immobiliari, e che anzi assuma il loro punto di vista come centrale. Resto convinto che una delle radici dei mali del sistema economico italiano (e una delle anomalie italiane rispetto ad altri paesi europei) sia nell’incompiutezza della rivoluzione borghese, nel compromesso tra borghesia capitalistica e ancien régime che fu stipulato per costruire lo stato nazionale, sull’effetto deprimente che la facile percezione di rendite (spostando gli investimenti dalle attività imprenditoriali a quelle rent oriented) ha sempre avuto sul processo d’accumulazione e sulla conseguente tensione all’innovazione.
[1] Lo ha denunciato sistematicamente Giuseppe Campos Venuti, a partire dagli anni ’80. Si veda ad esempio: G. Campos Venuti, Deregulation urbanistica a Milano, introduzione al dossier Milano senza piano – Urbanistica milanese degli anni 80, a cura di V. Erba, “Urbanistica informazioni”, n. 107, anno XVIII, set.-ott.1990. Si veda anche G. Barbacetto, E. Veltri, Milano degli scandali, Laterza, Bari 1991 e, per gli anni più recenti, F. Pagano, In assenza di una nuova legge regionale, o in alternativa..., “Urbanistica informazioni”, n. 171, anno XXVIII, mag-giu 2000.
[2] La polemica tra due assessori, entrambi del PCI, Raffele Radicioni a Torino e Maurizio Mottini a Milano, fu resa esplicita in articoli molto chiari sulla stampa quotidiana di quegli anni. Mottini può essere considerato un anticipatore della linea che affida agli interessi degli operatori e dei proprietari privati l’egemonia nella gestione dell’urbanistica. Si veda, su “L’Unità”, la posizione di Mottini il 18 agosto 1982 e la replica di Radicioni il 2 settembre 1982.
[3] Suscitò reazioni contrastanti un editoriale di “Urbanistica informazioni” (n. 60, anno X, nov.-dic. 1981) in cui criticavo le “complicità oggettive” degli atteggiamenti accademici e neutrali di parte della cultura urbanistica dell’epoca nei confronti di una linea politica emergente, che tendeva a incrinare il principio della funzione pubblica dell’urbanistica.
[4] Il pensiero e la proposta espressi nel documento della giunta milanese erano stati elaborati ed esposti da Luigi Mazza in molti dei suoi scritti: si veda, tra gli altri, Piani ordinativi e piani strategici, “CRU – Critica alla razionalità urbanistica” n. 3, 1995; Difficoltà della pianificazione strategica, “Territorio” n. 2, 1996; Il tempo del piano, “Urbanistica” n. 109, 1996; Certezza e flessibilità, “Urbanistica” n.111, 1999.
[5]Adopero l’espressione impiegata, e sviluppata, nella ricerca Murst 40%, coordinata da F. Indovina, dal titolo Meccanismi economici, procedure e regole finalizzate a indebolire il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali. Un'alternativa, e in particolare nella parte curata da I. Apreda ( Analisi degli strumenti anomali, rispetto alla strumentazione tradizionale, che sono stati introdotti nel recente passato, sia attraverso la legislazione che per iniziativa amministrativa). La ricerca è in corso di pubblicazione presso l’editore Franco Angeli.
[6] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu
[7] Hans Bernoulli è un autore oggi poco noto. Nacque a Basilea il 12 febbraio 1876, svolse attività professionale e di studio a Berlino e a Basilea. Docente di pianificazione urbana, fu titolare di cattedra alla Scuola politecnica federale di Zurigo fino al 1939, quando perse l’incarico per la sua attività politica. È morto nel 1959. Autore di numerosi scritti (di urbanistica, architettura, poesia. letteratura), il suo interesse principale è per la città. L’unico suo libro tradotto (in italiano e in francese) è Die Stadt und ihr Boden ( La città e il suolo urbano) la cui prima edizione è a Zurigo, 1945. In Italia, è stato pubblicata da Antonio Vallardi Editore nel 1951. È esaurito da tempo; ampi stralci ne sono stati pubblicati su “Urbanistica informazioni”, n.79, gennaio-febbraio 1985. Inspiegabilmente poco citato nella letteratura urbanistica italiana, un’ampia bio/bibliografia di Bernoulli è in Kunstler Lexikon der Schweiz XX Jahrhundert, ed.Huber & Co. Aktiengesellschaft, Frauenfeld 1958/1961.
[8] La proposta dell’esproprio generalizzato fu avanzata dal ministro democristiano ai Lavori pubblici Fiorentino Sullo nel 1962. Essa consisteva nel prevedere che, nell’attuazione dei piani regolatori comunali, i comuni acquisissero le aree destinate all’espansione, le urbanizzassero e le cedessero agli utilizzatori. Si tratta di un modello largamente adoperato nelle socialdemocrazie dell’Europa centro-settentrionale. Sulla proposta di Sullo, oltre alla stampa dell’epoca, vedi: F. Sullo, Lo scandalo urbanistico, Vallecchi, Firenze 1965; V De Lucia, Se questa è una città, Editori Riuniti, Roma 19922; A. Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998.
[9] Nel 1968 la Corte costituzionale (sentenza n. 55 , del 9 maggio 1968, depositata in Cancelleria il 29 maggio) dichiarò l’incostituzionalità degli articoli della legge urbanistica del 1942 che sottoponeva gli immobili destinati a spazi pubblici a vincolo a tempo indeterminato e non indennizzato (l’acquisizione pubblica, e quindi l’indennità, erano incerti e non definiti nel tempo). Tra le proposte che emersero nel dibattito giuridico per superare l’impasse acquistò particolare rilievo quella avanzata dal presidente della Corte costituzionale, il moderato Sandulli. Questi (e con lui numerosi giuristi) sosteneva la legittimità costituzionale di una legge che avesse stabilito, in linea generale ed applicata erga omnes, che l’edificabilità è un requisito che non appartiene al proprietario, ma alla collettività. La proposta apparve la prima volta in: E. Capocelatro, Intervista con il presidente della Corte costituzionale, in “L’astrolabio”, n. 27, luglio 1968, ora in “Urbanistica”, n. 53, p. 101-102. Si veda anche: V. De Lucia, E. Salzano, F. Strobbe, Riforma urbanistica 1973; E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Giuseppe Laterza editori, Roma-Bari, 1999.
[10] Quando ho mosso questa osservazione Luigi Mazza mi ha risposto, in pubblico, che la sua risposta si reggeva sul fatto che il gruppo di Comunione e Liberazione milanese (lui li definiva: i “Comunisti Leninisti”) cui faceva riferimento, e in funzione dei quali era stata calibrata la proposta, erano così convinti sostenitori del primato dell’interesse pubblico che si poteva stare tranquilli. Torniamo al cesarismo!
[11] Si veda, in particolare: L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in: Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana - 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.137-153.
[12] Le leggi urbanistiche che, in modo più o meno convincente, si rifanno ai nuovi principi sono quelle della Toscana, legge 5 del1995; Umbria, legge 28 del 1995 e legge 31 del 1997; Liguria, legge 36 del 1997; Basilicata, legge 23 del 1999; Lazio, legge 38 del 1999; Emilia Romagna, legge 217 del 2000. Una prima analisi dei loro contenuti innovativi è reperibile nel già citato sito internet.
[13] Si veda: Camera dei deputati - XIII legislatura, Resoconto della VIII Commissione permanente, (Ambiente, territorio e lavori pubblici), giovedì 11 gennaio 2001, Allegato 2, Norme in materia urbanistica. Sito internet: http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/bollet/frsmcdin.asp?percboll=/_dati/leg13/lavori/bollet/ 200101/0111/html/08/&pagpro=70n1&all=on&commis=08