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Edoardo Salzano
200110101 Un’esperienza di pianificazione concertata
3 Luglio 2008
Interventi e relazioni
Intervento a una discussione sul PTCP della Provincia di Bologna, 10 ottobre 2001

La Provincia di Bologna ha aperto la costruzione del Piano territoriale di coordinamento provinciale (secondo la legge regionale 20/2000) con un ampio dibattito di verifica del precedente strumento di pianificazione (il Piano territoriale infraregionale). Il dibattito è stato preceduto da una analisi sulla situazione del territorio e da una verifica, su questa base, degli effetti del Pti. Esso si è articolato in più giornate, ad una delle quali (10 ottobre 2001) ho partecipato con l’intervento che riporto di seguito.

Anch’io vorrei sottolineare in primo luogo – come hanno fatto quanti mi hanno preceduto – la grande qualità e completezza delle basi analitiche del lavoro. Sul piano della conoscenza, il territorio e la sua dinamica sono sotto il pieno controllo della Provincia. È stata costruite, e funziona, una macchina capace di analizzare, monitorare, verificare le trasformazioni fisiche e sociali del territorio con una perfezione che credo sia assolutamente unica in Italia.

Ciò che vorrei aggiungere a questa considerazione è che la Provincia di Bologna non si è dotata solo – per così esprimermi – di un robusto “capitale fisso sociale”: nel costruire e gestire questo si è saputa anche dotare di un qualificato “capitale mobile umano”. La provincia è ricca di una dotazione organizzativa motivata e autorevole, di una struttura tecnica e amministrativa che è una risorsa di altissimo livello.

Mi ha colpito il modo in cui questa struttura è stata capace di misurare – grazie anche al patrimonio conoscitivo formato e sapientemente gestito – l’efficacia del’azione di governo del territorio: la distanza tra i propositi, le volontà dichiarate, le strategie costruite, e le concrete modificazioni indotte nella realtà. Ha saputo costruire un bilancio critico e autocritico che è l’indispensabile piattaforma su cui andare avanti.

Ho letto con molto interesse, e ho molto apprezzato, i documenti di “ Elementi per un bilancio critico del PIT ” e “ I nodi critici che emergono dal quadro conoscitivo ”, così come i rapporti di analisi di cui sono la sintesi e la conseguenza. In termini molto sintetici, mi sembra di poter riassumere i documenti in due proposizioni. Sul versante non dirattamente controllato dalle azioni del PIT le strategie positive proposte (e accettate) sono state in larga misura disattese. Ma anche sul versante più direttamente controllato si devono registrare punti di criticità non marginali.

Vorrei ricordare alcuni di questi punti di criticità.

Il sistema delle acque , questa rilevantissima risorsa per ogni possibile sviluppo. “lo squilibrio fra emungimenti e apporti rappresenta una delle più evidenti criticità ambientali del territorio bolognese. […] Le riduzioni previste non consentono ancora di prevedere il raggiungimento di una condizione di equilibrio e men che meno un recupero di livelli dell a falda più prossimi a quelli storici; restano inoltre fuori controllo i pozzi privati, per i quali le pregiate acque sotterranee continuano ad essere una risorsa gratuita e ‘illimitata’. [… ] In sostanza l’ espansione urbana ha continuato ad interessare in modo esteso le aree maggiormente permeabili e l’attuazione delle previsioni consolidate nei PRG comporterà nel prossimo futuro, a meno di ripensamenti da parte dei Comuni, la sottrazione al funzionamento naturale di altre centinaia di ettari di terrazzi e di conoidi..[…] Rispetto all’intera estensione delle aree ad alta o elevata vulnerabilità, ormai risulta urbanizzato o destinato dai PRG vigenti ad essere urbanizzato il 43% del conoide del Reno-Lavino e il 52% del conoide del Savena-Idice” (Nodi critici ecc., p.2)

Il sistema idraulico , essenziale per l’integrità fisica del territorio e degli abitanti, grave soprattutto nella situazione della pianura: “Qui ai fattori meteorologici (anch’essi peraltro influenzati dall’azione dell’uomo) si sommano cause esclusivamente antropiche quali: la progressiva urbanizzazione ed impermeabilizzazione del territorio che, diminuendo i tempi di corrivazione, concentra i deflussi in un minor lasso di tempo aumentando i colmi di piena; la subsidenza, causata da un eccessivo emungimento d’acque di falda, ben superiore alle capacità di ricarica della falda stessa, manifestandosi con maggiore intensità nell’alta pianura rispetto alla bassa, produce di fatto una diminuzione della pendenza motrice delle aste fluviali e dei canali di bonifica. Si sono così prodotte col passare degli anni condizioni di rischio idraulico sempre maggiori (Nodi critici ecc., p.3).

Il paesaggio rurale e la biodiversità : le “dinamiche evolutive hanno effetti particolarmente dirompenti sul territorio rurale della pianura alta e media e della collina, ove erano e sono ancora in parte leggibili le strutture paesaggistiche più profondamente sedimentate nella storia: impianti di appoderamento settecentesco, ricchezza di corti rurali tradizionali, ricchezza di segni storici minori e minuti e di elementi di arredo vegetale (alberi non produttivi isolati, filari, siepi, ecc.). La perdita di questi elementi di complessità paesaggistica si traduce anche nella distruzione di habitat specifici e ancora di più nella frammentazione ed isolamento degli habitat che residuano, ossia in perdita di diversità a livello di ecosistemi” (Nodi critici ecc., p. 9)..

Il sistema insediativo . I documenti ricordano le ragioni per le quali la strategia delineata proponeva una politica di “diffusione concentrata” o di “ decentramento sui centri”, ma sottolineano poi (e misurano) come questa strategia sia lungi dall’essersi realizzata: “La strategia di decentramento delineata dal PTI è stata comunque indebolita e disattesa al punto da dover essere necessariamente riconsiderata. […] Di fatto lo ‘sprawl’ è continuato, anche nelle sue forme più ‘ costose’ per il territorio e più generatrici di mobilità sostenuto da una domanda insediativa diffusa ovunque ma anche da un’ offerta insediativa diffus a in oltre 200 centri abitati anche di piccolissima dimensione e privi di servizi di base” (Elementi per un bilancio critico del PTI, p. 19).

E, sempre a proposito del sistema insediativo, nelle conclusioni, dopo aver ricordato il modello reticolare/policentrico che si assunse, con ampio consenso, nelle strategie territoriali, si afferma: “Nel dibattito politico-culturale di allora il modello assunto fu ampiamente condiviso, in particolare dai Comuni; né allora né in seguito sono state espresse critiche di fondo, forse anche perché, con qualche ambiguità, ciascuno si sentì legittimato ad interpretarlo a proprio vantaggio: in un modello a rete ciascuno può considerarsi un nodo. Le tendenze nell’evoluzione degli insediamenti persistono invece su due direzioni diverse, opposte e complementari: dispersione di residenti da un lato e densificazione del cuore dall’altro, entrambe sostenute da spinte e condizioni molto forti” (Elementi ecc., p. 20).

L’impressione complessiva suscitata dalla rigorosa e argomentata analisi è che si siano raggiunti gli obiettivi che comportavano, per i soggetti più ; direttamente interessati, elementi di crescita, mentre sono stati largamente disattesi gli obiettivi per i quali era richiesto contenimento . Sono aumentati gli interventi e le dimensioni nei luoghi scelti come polarità del nuovo assetto, ma sono cresciute in ugual misura le aree dove si voleva frenare la diffusione. Tutto ciò suscita una riflessione su un punto che a me sembra nodale.

Il Piano territoriale infraregionale aveva assunto pienamente – soprattutto negli ultimni anni – il metodo della concertazione e l’ obiettivo del consenso . È lecito domandarsi allora se affidarsi alle pratiche concertative conduca davvero a risultati efficaci, e se non sia invece necessario conferire alla pianificazione territoriale una valenza più regolativa . Dagli stessi documenti di analisi e bilancio emergono del resto indicazioni abbastanza precise in tal senso.

In questa direzione muovono, ad esempio, le constatazioni circa il fatto che gli emungimenti privati non sono stati contenuti (Nodi critici ecc., p. 2), o che nelle aree ad elevata vulnerabilità occorrerebbe escludere “ ogni ulteriore previsione urbanistica e ogni utilizzazione che vada a danneggiare o limitare le funzioni idrauliche”, ed in più rivedere “le previsioni urbanistiche vigenti di cui non sia ancora avviata l’ attuazione” (ibidem). Alla necessità di una pianificazione più cogente si allude anche quando si pone il problema di “di come riaffermare e consolidare il contenuto degli Accordi sul piano politico, e di come renderli più pregnanti ed efficaci sul piano tecnico-operativo” ; (Nodi critici ecc., p. 11), o quando si afferma che “Il tema da affrontare è la ricerca di un vincolo di coerenza fra le politiche insediative e le politiche relative alla distribuzione dei servizi di base (con particolare riferimento a quelli pubblici e quindi soggetti a specifica programmazione), nel senso che laddove non è possibile offrire un ‘ bouquet’ di servizi di base, per ragioni di efficienza o d i mercato, dovrebbe essere considerata implausibile e inopportuna l’ urbanizzazione di nuove aree, ferme restando naturalmente le politiche a favore dei recupero” (p.12).

Queste considerazioni sull’inefficacia, in questo contesto, di politiche territoriali troppo largaìmente affidate alla concertazione, spingono a una riflessione di portata più ampia: al nodo dei rapporti tra politiche territoriali e politica tout court . Vorrei ricordare, e ricordarvi, tre casi, tre contesti di politiche territoriali concertate che ho conosciuto.

L’esperienza della riconversione del bacino della Ruhr dalla produzione minerario.ndustriale alla qualità ambientale e culturale. Mi meravigliò molto, quando esaminai il piano dell’Emscher park, scoprire come quel piano (che delineava l’assetto urbanistico e ambientale di nomerosi comuni), e mi raccontavano che quel piano veniva rigorosamente attuato pur non avendo alcuna base giuridikca e alcun valore regolativo e cogente. Il fatto è che lì era stata assunta, dalla foza egemonica (nella fattispecie lo SPD, il partito socialdemocratico di Willy Brand) la

scelta strategica, lungimirante e proiettata nel lungo periodo, di modificare alla radice un tipo di sviluppo che si considerava (e che era) obsoleto. Da questa visione strategica si erano fatte discendere le coerenti politiche – in primo luogo quelle territoriali, urbanistiche e d’ investimento – e a queste era stato indirizzato tutto l’apparato amministrativo. Il motore era una volontà politica lungimirante e determinata, capace di coerenza nel tempo.

L’esperienza della governance in Francia, per esempio nei projets urbains di Lione. Lì il coinvolgimento concertato dei privati è funzionale a una strategia d’ineresse pubblico a causa di due condizioni. La prima: esiste un potere pubblico forte, autorevole, che non teme di venire a patti con i terzi perché è comunque egemone. La seconda: il privato non è la proprietà immobiliare, ma il singolo abitante, o proprietario/abitante, e l’impresa. È il potere pubblico, insomma, che guida la danza, nell’assenza di antagonisti privati i cui interessi territoriali siano conflittuali con l’interesse generale.

L’esperienza (mi avvicino a noi nello spazio, ma mi allontano nel tempo e nel clima politico e culturale) della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna, agli inizi degli anno Sessanta. Un organismo del tutto volontario, al quale aderivano praticamente tutti gli enti locali della regione quando la Regione non era ancora stata istituita. Un organismo che “faceva” la politica urbanistica dei comuni emiliani e romagnoli:erano le circolari di quell’organismo – e non decreti ministeriali – che inducevano i comuni a praticare il calibrato dimensionamento dei piani e l’applicazione degli standard urbanistici con anni di anticipo rispetto alla legge ponte del 1967. Anche lì, anche allora, era una lungimirante volontà politica, ed un’egemonia culturale e politica, che “concertavano” ; le cento politiche urbanistiche dei comuni.

Ecco allora la disperante domanda centrale. Esiste, oggi, una dimensione politica che sappia esprimere interessi generali, indicare una strategia lungimirante e ottenere il consenso su una credibile capacità di durare e di rispettare gli impegni? Senza questo elemento, le politiche concertative sono (ove le si guardi dal punto di vista degli obiettivi generali, condivisi a parole) una mera illusione. Né – occorre aggiungere - le politiche regolative sono molto più forti, sebbene siano almeno più oneste e trasparenti.

Ho posto un problema al quale non è facile dare una risposta. Io, almeno, non ne sono capace. Questo però apre un ulteriore e inquietante interrogativo: che fare, come fare il mestiere di urbanista, di planner , di ufficio pubblico adibito alla pianificazione? Dobbiamo ridurci a sacerdoti d’una religione i cui dei sono morti? O avere la presunzione di indossare la divisa delle sentinelle del futuro, o si assumere il ruolo dei portatori professionali di interessi generali che gli altri non tutelano?

Forse la risposta (non l’unica, ma un possibile punto di partenza) sta proprio in quel patrimonio di conoscenze accumulato, nella capacità di aggiornarlo e implementarlo, di tradurlo in puntuali verifiche di ciò che viene proposto e di ciò che è possibile. Si può utilizzare quel patrimonio di conoscenze e di saperi ispirandosi a ciò che di Machiavelli diceva Ugo Foscolo, quando parlava del Segretario fiorentino come di colui che “temprando lo scettro ai regnatori / gli allor ne sfronda ed alle genti mostra / di che lagrime grondi e di che sangue”. Si può socializzare quel patrimonio, farlo diventare uno strumento di critica delle proposte sbagliate e di dimostrazione delle prospettive positive possibili, per far crescere su questa base la coscienza di una sistema di interessi, e di speranze, comuni.

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