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Edoardo Salzano
19991113 I morti di Foggia
15 Gennaio 2008
Articoli e saggi
Un articolo per l'Unita del 13 novembre 1999.

È vero quello che molti hanno detto. I crolli delle case (a Foggia come a Roma), le frane e le colate di fango e l’esondazione dei fiumi e dei torrenti (in Campania e in Sicilia come in Liguria e in Piemonte) non testimoniano solo né tanto la fragilità dei nostri territori. Essi disvelano ogni anno, e più volte all’anno, i gravissimi guasti che alcuni dissennati decenni di rapine e di saccheggi hanno provocato: dagli anni forsennati di una ricostruzione postbellica all’insegna dell’ ognuno si arrangi come può , a quelli del boom dell’edilizia e dell’automobile. Ha ragione Franco Botta, quando sull’ Unità di ieri scrive: “L’arte dell’arrangiarsi ha consentito agli interessi miopi e speculativi di avere campo libero, e tutto questo ha prodotto città che sono invivibili e fragili”.

Non da oggi questo avviene. Non da oggi le case crollano e le montagne vengono giù a pezzi e le alluvioni travolgono paesi e città. Il guaio è che a questi eventi ci siamo assuefatti. Fanno parte della routine, ormai: ci si commuove per un po’, si accusano i soliti ignoti, e poi si dimentica, senza neppure provare a cambiare qualcosa nei meccanismi che di quei drammi sono all’origine.

Una volta non era così, giova ricordarlo. Giova ricordare quello che accadde, per esempio, nel 1966, all’indomani del crollo di Agrigento (decine di palazzi crollarono in una notte, miracolosamente senza vittime), e delle alluvioni dell’Arno e dell’eccezionale alta marea di Venezia (sorella acqua minacciò di affogare due gioielli della civiltà mondiale). L’opinione pubblica insorse, il Parlamento denunciò, discusse, e subito legiferò. Venne approvata (nel 1967) una legge urbanistica: non “la riforma”, ma alcune norme semplici e razionali. Si rafforzarono le regole di controllo dell’uso del territorio, si impose la pianificazione urbanistica ai comuni diventati complici dell’”arte di arrangiarsi” a danno della collettività, si disciplinarono le lottizzazioni dei terreni imponendo standard di spazi pubblici e perequazione tra i proprietari.

Poi vennero (nel 1970) le regioni, cui la Costituzione affidava importanti compiti di governo del territorio. Con esse, emersero con evidenza le differenze nei comportamenti pubblici delle diverse parti del paese: in alcune regioni (poche) si fecero delle buone leggi e si provò a pianificare l’uso del territorio e delle sue risorse, nelle altre ci si limitò a sommare i difetti della miopia dello stato centralistico con quelli della permissività delle amministrazioni locali.

Negli stessi anni si sviluppò (grazie anche al maggiore benessere) una nuova attenzione all’ambiente, al paesaggio, alla qualità della vita. Ciò provocò, dopo anni di dibattiti e di lavoro, alcune leggi positive: sulla difesa del suolo e delle acque, sulle zone protette, sul paesaggio. Leggi che davano strumenti per un governo del territorio le cui regole fossero ispirate alla prevenzione dei rischi, alla tutela delle risorse naturali, alla salvaguardia dei patrimoni della storia e del paesaggio.

Ma negli stessi decenni maturarono tendenze di segno opposto. L a compiacenza verso l’abusivismo, e addirittura la sua legalizzazione con i condoni. Lo svuotamento dei tentativi delle pianificazioni regionali, l’ insabbiamento delle leggi di tutela, l’allargamento delle deroghe concesse per ogni evento “eccezionale”: dalle alghe in Adriatico ai Mondiali di calcio. Mentre la crescente fragilità del territorio, devastato da decenni di spreco, avrebbe chiesto regole più rigorose, controlli più accurati, impiego delle risorse più mirato, pianificazione del territorio più generalizzata e penetrante, la moda (e gli interessi emergenti) spingevano nella direzione opposta: verso la deregolamentazione, anzi, verso il disprezzo di ogni regola, e la sostituzione ad esse del’ autocertificazione. (Sapete che una Regione ha introdotto l’ autocertificazione, cioè la dichiarazione unilaterale dell’ interessato, alla concessione edilizia anche in caso di costruzioni del tutto nuove?).

Sembrava che la scoperta e la denuncia di Tangentopoli, la rivelazione dei nessi tra il sistema della corruzione e quello della deregolamentazione urbanistica e dell’elusione dei controlli, aprissero una stagione nuova. Le indagini e i processi avviati dalle preture di Mani pulite sembravano aver aperto la strada alla riscossa di una politica capace di restituire centralità all’interesse collettivo (delle generazioni presenti e di quelle future). Sembrava che la riduzione dell’ingerenza dello stato (e dei partiti) dalla gestione delle aziende e dell’economia potesse aumentare l’efficienza dello stato nella sua autorità di costruttore e custode delle regole valide per tutti, e delle infrastrutture essenziali per la vita delle aziende e delle famiglie (il suolo e la città sono una di quelle essenziali).

Molti di noi pensano che così non siano andate le cose. E allora alcuni sono sollecitati, dal crollo di Foggia, a una conclusione amara. Piangere per i morti di Foggia sembra naturale. Lo è, se in un animo alberga la pietà. Dati i tempi, e il segno che in essi sembra prevalere, sarebbe forse più saggio rassegnarsi a convivere con i lutti del territorio.

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