Chissà dov'era il ministro Prandini negli ultimi trent'anni, chissà di che si occupava. Certo non seguiva, neppure con un occhio distratto, i faticosi tentativi di varare, all'inizio degli anni '60, una riforma urbanistica, nè gli sforzi di approdare almeno, come poi si approdò, a una razionalizzazione degli strumenti di governo del territorio.
Chissà dov'era quando, all'inizio del decennio successivo, i limiti della riforma tentata e le carenze della razionalizzazione raggiunta esplosero con violenza e condussero al l'introduzione di qualche ulteriore elemento di razionalità e di modernizzazione nella legislazione per l'urbanistica e per la casa. E chissà dov'era e a che cosa pensava quando le regioni, in quei medesimi anni, quasi avendo compreso la centralità del problema del governo del territorio, cercavano di ricondurre alla logica di quella razionalità e di modernizzazione i loro codici e comportamenti.
In tutto quel vasto arco di anni, l'attuale ministro per i Lavori pubblici evidentemente non seguiva neppure come cittadino il dibattito sul governo del territorio. Non parteci pava perciò ai sentimenti di indignazione, o anche semplicemente di addolorato stupore, che scuotevano uomini d'ogni partito, autorevoli od oscuri, per gli scempi di Agrigento o il sacco di Napoli, la devastazione delle coste o il degrado dei centri storici e dei vecchi quartieri. Non condivideva la convinzione che accomunava persone diverse per posizione culturale, per milizia politica, per condizione sociale. La convinzione cioè che il territorio, questa risorsa che è di tutti, si può tutelare nell'interesse comune solo mediante una pianificazione efficace: rigorosa perchè equanime, trasparente perchè democratica, realistica perchè calibrata sui bisogni e sulle possibilità.
In quegli anni negli anni di Giacomo Mancini e di Ugo La Malfa, di Aldo Natoli e di Leone Cattani, di Aldo Moro e di Fiorentino Sullo, di Mario Alicata e di Alberto Todros. di Michele Achilli e di Lorenzo Natali, e poi in quelli di Pie tro Bucalossi e di Pietro Padula, di Guido Alborghetti e di Achille Cutrera, l'attuale Ministro dei Lavori pubblici sta va altrove, e pensava ad altro. Non sappiamo dov'era, non sappiamo a che cosa pensava.
Sappiamo però (più precisamente, immaginiamo) dove stava ne gli anni che vennero poi. Negli anni in cui cominciò e si sviluppò quella che venne definita "deregulation". Allora, egli doveva seguire con attenzione quel che facevano i suoi predecessori e i loro alleati. Quelli insomma che, articolati in un ampio "partito trasversale" cominciavano a smantellare, con sapiente gradualità, quel complesso di strumenti che si era venuti costruendo (con limiti ed errori, ma camminando nella direzione giusta ed arricchendo le possibilità dell'azione collettiva) negli anni del centrosinistra e in quelli della solidarietà nazionale.
2Maestro di Prandini è stato certamente Franco Nicolazzi; ma quanto l'allievo abbia superato il maestro. lo testimonia con evidenza il suo più recente prodotto: lo "Schema di disegno di legge recante disposizioni in materia di edilizia residenziale".L'Inu sta elaborando uno specifico documento di analisi puntuale del testo proposto dal Ministro. Qui vo gliamo limitarci a porre in evidenza alcuni punti particolaremente rilevatori, e rilevanti.
Sorvoliamo sulla riduzione delle quantità di spazi pubblici e di verde, che il ministro preconizza e decreta perchè (si legge sulla Relazione) i comuni hanno calcolato gli standard "in misura eccessiva, rapportati cioè a popolazione te orica e non alla popolazione effettiva" (sic). Sorvoliamo, oltre che sulla grammatica, sull'aumento delle cubature con sentito nei centri storici e nelle zone di completamento (il massimo passa dai 5 mc/mq attuali a 7 mc/mq) e nelle zo ne agricole (dai 300 mc/ha attuali a 650 mc/ha). Sorvoliamo insomma sui dati quantitativi. Anche se non si può mancar di esprimere sconcerto per il fatto che, dopo anni di maturazione di una sensibilità ambientalistica, e dopo che sembrava unanime il riconoscimento che la fase espansiva e quantitativa è, piaccia o non piaccia, dietro le nostre spalle, c'è chi viene oggi a proporre di aumentare, in modo quasi indiscriminato, l'entità dell'edificazione rispetto ai valori stabiliti vent'anni fa!
Ma più che questa incredibile arretratezza culturale, ci preoccupano due aspetti più strutturali del disegno di legge: lo scardinamento definitivo del metodo e degli strumenti della pianificazione urbanistica; l'abbandono di ogni tentativo di assicurare al potere pubblico locale la possibilità di condurre una strategia delle trasformazioni urbane e una politica delle aree autonome rispetto alla spe culazione immobiliare.
3Se passasse il disegno di Prandini la pianificazione urbani
stica sarebbe totalmente svuotata. Con un piano di lottizzazione o un piano particolareggiato (cioè con un'operazione comunque limitata a un pezzo del territorio comunale) si potrebbero variare "l'altezza (degli edifici), la distanza dei confini, gli allineamenti su fronti stradali, i rapporti di copertura, le percentuali di destinazione d'uso, l'in dice volumetrico virtuale, la distanza dalle sedi stradali" (art.15). Insomma, tutto.
E se qualche comune si incaponisse a non approvare piani esecutivi totalmente difformi rispetto al piano generale? Se la facoltà di trasgredire e di derogare non fosse esercitata? Ecco allora un altro modo per scardinare la pianificazione. Si stabilisce "che le modifiche di destinazione d'uso dei fabbricati o di parte di essi non comportano richiesta di alcuna autorizzazione o concessione"(art.17).
Una liberalizzazione totale, quale neppure ai tempi della discussione della legge sul condono edilizio era stata pro posta. Questo significa che si può trasformare un convento in un albergo, un quartiere residenziale in un quartiere di uffici, un gruppo di fattorie in una zona industriale,senza che il Comune possa obiettare alcunchè; con quali effetti sulla rete dei servizi e sul sistema dei trasporti, e con quali pesanti e ingovernabili modificazioni del funzionamen to dell'intero sistema urbano, è facile immaginare.
Perchè non dire più chiaramente che il piano generale (e cioè l'unico strumento finora inventato per dare una coerenza d'insieme alle trasformazioni urbane) è soppresso? Per ipocrisia? O perchè non si è capaci di vedere le conseguenze delle proprie proposte? Forse, più semplicemente, perchè non si vogliono suscitare reazioni corporative, e quindi si è disposti a tollerare che si prosegua a far piani,anche se ormai non servirebbero più a nulla.
4L'ente locale, quindi, è espropriato del suo diritto-dovere di guidare le trasformazioni territoriali. Ma a vantaggio di chi? Qui è il secondo aspetto nodale del disegno di Prandini. Questo prevede la formazione di "Programmi integrati di riassetto urbano", cui dedica l'intero quarto titolo del la legge. Esigenza giusta, da decenni sollevata, quella di rendere possibile l'esecuzione integrata delle opere e degli interventi necessari per l'urbanizzazione, o per la ristrutturazione urbanistica, o per il risanamento di interi pezzi di città. I "programmi integrati" di Prandini, però, non sono l'attuazione efficace delle scelte d'insieme, non sono lo strumento della strategia territoriale del comune. Sono l'alternativa ad essa, la sua vanificazione in termini di possibili contenuti e in termini di effettivi poteri.
Secondo Prandini i "progetti integrati" possono essere defi niti, "oltre che dagli organi competenti in materia urbanistico/edilizia anche da operatori pubblici e privati" (art. 21). Hanno "valore di piani particolareggiati" (art.20), e quindi nella logica, e nel lessico, di Prandini possono modificare integralmente le previsioni del piano regolatore generale. Non bastasse il già citato art.15, uno specifico articolo precisa che, "nel caso in cui il programma integrato non sia conforme alle previsioni degli strumenti urba nistici", alle norme e ai regolamenti, "l'approvazione dello stesso costituisce adozione di variante di detti strumenti"(art.21). E naturalmente (!) il programma integrato non richiede il preventivo insserimento nel programma pluriennale di attuazione" (art.21).
E se poi i programmi "riguardino immobili o aree (Prandini crede che le aree siano "mobili" n.d.r.) oggetto di vinco li"? Se qualche autorità dovesse opporre obiezioni per moti vi di salvaguardia ambientale o di tutela culturale o di rischio idrogeologico? La soluzione è presto trovata, con una saggia utilizzazione dei tempi della burocrazia italiana. I programmi vengono trasmessi "all'ente competente per la gestione del vincolo, il quale deve motivatamente pronunciarsi entro 40 giorni dal ricevimento; la mancata pronuncia equivale all'autorizzazione, al nulla osta od al parere favovorevole che siano all'uopo richiesti" (art.21).
Ma la prudenza non è mai troppa, Se un gruppo di imprenditori, o di proprietari di aree, o magari un'Italstat o una Fondiaria, oppure (come è più probabile) un consorzio che comprenda imprenditori e speculatori, multinazionali variamente tinteggiate e aziende locali) dovessero trovarsi di fronte un soprintendente o un geologo di Stato o un funzionario regionale svelti ad esprimere un parere "motivatamente" negativo?
Ecco la soluzione. "Nel caso di pareri negativi e/o discordanti la Giunta interessata o il diretto interessato (il corsivo è nostro n.d.r.) trasmette al Presidente della Giunta regionale copia del programma integrato". Il Presidente convoca entro 15 giorni una riunione con i rappresentanti di tutti gli enti interessati; chi non c'è, è come se avesse dato parere favorevole. Se il Presidente della Giunta regionale non provvede, provvede in sua vece il Ministro dei Lavori pubblici,
E se fosse il Comune ad opporsi, o ad essere almeno perlesso e desideroso di verifiche? Presto fatto. "Qualora la giunta comunale non si pronunci sul programma integrato di riassetto urbano entro 60 giorni dalla presentazione, il diretto interessato può richiedere al Presidente della Giunta regionale (...) che sul programma stesso si pronunci la Giunta regionale (...)". Se neanche la Giunta regionale si esprime, ecco che subentra, e "provvede in via sostitutiva", l'onnipotente ministro dei Lavori pubblici (art.21).
Il potere, insomma, passa dal pubblico al privato, e quel che resta nelle mani del pubblico si trasferisce dai consigli alle giunte, dal comune alla regione, dalla regione al governo centrale. Lo scardinamento dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio si completa con lo svuotamento dei poteri pubblici locali. Questo, almeno, è quanto risulta a una lettura cui sia sfuggita una "norma fina le" del seguente tenore: "Le precedenti norme non si applicano perchè sono solo la provocazione di un ministro distratto". Purtroppo questa norma è solo implicita.
23.11.1989