Siamo ancora nel pieno del balletto dei decreti Nicolazzi. Più che seguirne le poco aggraziate “figure” (ciò che del resto faremo nelle pagine interne) ci sembra opportuno proseguire in una riflessione già avviata nel numero scorso. Se il Nicolazzi ha potuto trovare, e ancora trova, un pur contrastato credito ciò non è solo dovuto alle “manovre dell’avversario”, o al qualunquismo imperante che farebbe degli itali anile facili prede d’ogni demagogia. Esistono – questo è il punto che vogliamo riprendere – complicità oggettive anche nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica.(Adoperiamo questo termine, certo insufficiente, perché ci sembra che esso esprima, sia pure in modo ellittico, il complesso delle azioni volte a costruire metodi e strumenti d’intervento sul territorio che ne rendano il governo efficace, trasparente, politicamente orientato).
Esistono, insomma, assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica. Oggi, nel 1982, alcuni sorridono degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell'lnu anni 50, dei metodi "ingegneristici" di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico. E altri, ugualmente, sorridono delle generose intemperanze e approssimazioni dell'Inu post sessantottesco, del tumultuoso ingresso del problema della casa nei contenuti della gestione urbanistica, della scoperta dell'insufficienza di una politica solo “quantitativa" per la fuoriuscita dalla crisi abitativa, del defatigante impegno nell'elaborazione e nella critica propositiva delle piattaforme legislative. Sono motivati quei sorrisi? Quanto meno, non sono sufficienti e proprio per ciò, stimolano a capir meglio.
Non c'é dubbio. Il patrimonio di elaborazioni e iniziative dell'urbanistica italiana deve essere assunto criticamente. In ogni momento, come ogni analogo patrimonio ideale e politico, pretende d'essere superato. Superato, però, non liquidato. Da più d'un segno, ci sembra invece di sentir aria di liquidazione. È un caso se l'impegno degli urbanisti; di molti urbanisti, abbandona la ricerca e la sperimentazione delle regole e dei metodi generali per il controllo e il governo delle trasformazioni urbane e territoriali, ed enfatizza invece il momento del progetto, dell'intervento singolare, dell'opera unica e conclusa? se l'urbanistica tende a rientrare nel ventre di una delle sue matrici; l'Architettura? È un caso se non v'è più una rivista che metodicamente e sistematicamente persegua l'obiettivo di documentare, con rigore e completezza, le più significative esperienze di pianificazione, proponendosi di rappresentarle prima d'interpretarle? se le polemiche si sviluppano nel chiuso delle corrispondenze personali anziché sulle pagine aperte delle riviste? E un caso se uno strumento decisivo per il governo del territorio, preconizzato e proposto dagli urbanisti old style dal 1959, tentato a Roma agli albori del centrosinistra e in Lombardia nella fase nascente del regionalismo (parliamo del Ppa), viene lasciato cadere come un ingombrante ferrovecchio appena può cominciarne una generalizzata sperimentazione? se la stessa problematica dei Peep e dei Pip viene considerata obsoleta, o meramente strumentale rispetto alle nuove frontiere della grande progettazione post modernista?
Gli urbanisti potranno senza dubbio cercare gli alibi, e trovarli fuori dalla sfera delle proprie responsabilità e competenze. Le sordità e gli interessi dei `politici', la neghittosità delle regioni e dei comuni, la farraginosità dei dispositivi legislativi ed amministrativi, l'incompletezza, e quindi la criticabilità, delle esperienze compiute dall'urbanistica "tradizionale". Ma oggi ci sembra, l'impegno nostro deve essere volto altrove: a cercare, e a superare, le ragioni delle nostre insufficienze; a trovare, nello sviluppo e nel superamento della nostra specifica eredità culturale le ragioni di un più preciso servizio della nostra disciplina alla società nella quale viviamo. Ogni nuova evasione rispetto a questo compito, ogni nuova fuga (in avanti o all'indietro), altro non significherebbe che cedere all'imbarbarimento, del quale il ministro Nicolazzi è l'interprete efficace, anche se forse inconsapevole.