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La Repubblica, 5 dicembre 2009

da L'Italia scombinata, cit. in: Coraggio e viltà degli intellettuali, a cura di Domenico Porzio, Arnoldo Mondadori editore, Roma 1977

Repubblica, 31 ottobre 2008. Naturalmente anche su eddyburg.

il manifesto, 1° novembre 2009

Politico ed economista, fondatore del Partito federalista (Usa)

Sofisma: Ragionamento capzioso, in apparenza logico ma sostanzialmente fallace.

L’età del neoliberalismo è terminata

Una nuova epoca si è conclusa. Secondo i lettori più attenti del mondo in cui viviamo l’epoca del neoliberalismo è terminata. La crisi del sistema finanziario globale ha segnato la conclusione di una fase particolarmente virulenta del proteiforme capitalismo.

A partire dagli USA, ancora leader del mondo, “la fiducia su un mercato finanziario del valore di 20 volte il Prodotto interno lordo mondiale annuo (ossia vent'anni di economia reale) è crollata al primo sussurro che ‘il re è nudo!’, nonostante la retorica che accompagnava la possibilità di una sua crescita continua”[1]. Non è solo una crisi finanziaria, è il crollo di un modello economico-sociale che ha avvolto la stragrande maggioranza della popolazione della “civiltà atlantica” nella “insopportabile retorica celebrativa della libertà, intesa come diseguaglianza sociale fondata sulla santificazione della proprietà privata e dell'impresa”. Un modello culturale, prima che economico (e perciò preferisco la dizione di “neoliberale” anziché “neoliberista”).

Da questo modello gli urbanisti avrebbero potuto e dovuto prendere le distanze, a tempo debito, più che i portatori di altri saperi e mestieri. Quel modello ha infatti uno dei suoi feticci nel mercato e nelle sue magiche virtù auto-regolative. Gli urbanisti attenti alle radici e alle ragioni del loro mestiere avrebbero potuto e dovuto ricordare che esso nacque proprio per risolvere alcuni dei problemi che il mercato non era strutturalmente in grado di conoscere. Il fatto è che agli urbanisti (almeno nel nostro paese) è del tutto mancata la capacità di continuare a vedere la complessità delle condizioni che determinano la vita urbana, e quindi il terreno stesso del loro lavoro. A loro scusante occorre riconoscere che anche gli altri saperi hanno subito un consistente appiattimento. Ci sono ancora economisti che sappiano analizzare l’economia attuale senza ritenerla l’unica economia possibile? E giuristi che non si adagino nell’ermeneutica del diritto dato ridotto alla sua formale astrattezza? Eppure, anche vedere la città solo come un insieme di forme avrebbe dovuto ricordare agli urbanisti che non è il mero assemblaggio di oggetti che ha mai costituito gli spazi urbani, e che non esiste forma urbana che non sia anche forma di società.

Tant’è. Ancora oggi c’è chi si gingilla con le pratiche volte a “migliorare” la città, a renderla più “vivibile” (per chi?), più “sostenibile” (o “sopportabile”, e per chi e cosa?), affidandosi alle regole del mercato e alla loro saggia utilizzazione. Non è altro da questo, ad esempio, la “perequazione urbanistica”, grazie alla quale incrementando le rendite immobiliari (e quindi accrescendo le dimensioni dell’urbanizzazione) si ottengono i necessari vantaggi sociali (le elemosine di spazi illusoriamente utilizzabili per la collettività).

Che cos’è il mercato

Ma intendiamoci su che cosa sia il mercato. Se per mercato intendiamo il luogo fisico nel quale si scambiano i prodotti del lavoro dell’uomo, allora bisogna riconoscere che esso è una delle cause fondamentali della nascita della città e uno dei suoi luoghi eccellenti. Ed allora forse proprio riferendoci a questo mercato, al mercato come luogo dello scambio e dell’interazione tra i prodotti dell’uomo, e riflettendo su che coisa siano oggi i prodotti dell’attività umana che è opportuno e utile scambiare, è proprio a partire da qui che potremo sforzarci di riconoscere le regole necessarie per agevolare questo mercato, per configurare in funzione di esso la città di domani (a partire da quella di oggi).

La produzione dell’uomo ha sempre dato luogo a beni che appartenevano a diverse categorie. Beni finalizzati alla sussistenza, alle esigenze materiali della vita, e in gran parte costituiti da elementi appartenenti al mondo materiale. E beni finalizzati ad altre esigenze della vita: la conoscenza, i sentimenti, il godimento estetico. L’economia (capitalistica) si è formata in relazione alla prima categoria di beni. Ha inventato meccanismi tecnici, sociali, culturali (la loro importanza è in ordine inverso rispetto all’elencazione) capaci di aumentarne al massimo la produzione, fino a farla trascendere dal regno della necessità a quello dell’abbondanza, della ridondanza, dell’opulenza. Per farlo, ha dovuto ridurre in merce ogni realtà coinvolta nel processo produttivo. Ha dovuto alienare il lavoro: finalizzarlo ad altro da sé, trasformarlo, da strumento per la crescita dell’uomo a strumento per la crescita della quantità di merci.

Possiamo dire che la città ha preso forma, si è affermata in quanto tale nel percorso della civiltà assumendo come propri principi ordinatori i luoghi ordinati allo scambio dei beni: sia nella loro forma di merci (i prodotti orientati alla sussistenza) sia nella loro forma di beni (quelli della conoscenza, dei sentimenti, del godimento estetico).

La divinità imperscrutabile del neoliberalismo

Dobbiamo però, prima ancora di tentare qualsiasi operazione tendente a ricostituire a rivivere alcuni elementi di quel mercato (ossia di promuovere spazi dedicato all’ scambio di beni), sbarazzarci definitivamente d’ogni sudditanza all’altro mercato: quello delle merci del lavoro capitalistico (del lavoro alienato). Perché se invece per mercato intendiamo quella divinità imperscrutabile del neoliberalismo cui tutto è sottomesso, allora esso della città è la morte.

Riflettiamo sulle parole d’un economista vivo, cioè capace di ragionare in termini di utilità sociale (e non aziendale) dell’economia possibile; un economista, tra l’altro, che ha scritto parole lucide sul mestiere dell’urbanista e della sua pianificazione: Giorgio Ruffolo.

Secondo Ruffolo oggi viviamo “una nuova vulgata neoliberista [che] si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico”[2]. Abbandonando ogni senso critico e dimenticando la lezione liberista sui limiti del mercato, questo è insomma divenuto la misura non solo del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società.

Questa vulgata non è innocente. Dietro di essa si nasconde una pratica di classe che è stata acutamente indagata. Si tratta del neoliberalismo, che non è una forma ammodernata della vecchia concezione dell’economia e della società tipica della società borghese e della sua ideologia, ma qualcosa del tutto nuovo. Per dirla con uno dei suoi più acuti studiosi, David Harley “il neoliberalismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Esso è un progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Lo studioso americano apertamente sostiene che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e quindi come tale occorre trattarla[3].

È a questo scenario che occorre riferirsi quando si sente parlare oggi della necessità di “tener conto del mercato”. Dimenticare che la pianificazione urbanistica è una delle pratiche inventata (dalla società borghese) per risolvere problemi che lo spontaneismo del mercato era incapace di affrontare non è solo grave errore intellettuale. È anche subalternità a un disegno politico che è forse il rischio più grave che corre oggi la democrazia.

Che succede in Italia

Eppure, è quello che succede in Italia a proposito del territorio e del suo governo. Succede ovviamente a Milano, nelle modalità di “governo del territorio” esplicitamente subalterno alle scelte delle grandi società immobiliari, teorizzata da intellettuali provenienti dalla sinistra (Luigi Mazza, Stefano Moroni) e praticata dal ceto politico più omogeneo al neoliberismo. Succede in Toscana, dove l’autorevole ispiratore della politica del territorio della giunta di centrosinistra, Massimo Morisi, ha esplicitamente sostenuto che bisogna fare entrare a pieno titolo il mercato nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica, e che la pianificazione deve svolgersi su due “gambe”, tenendo conto delle finalità e delle regolazioni del pubblico e delle finalità e del dinamismo del mercato, poiché solo in tal modo si può garantire sviluppo, modernizzazione e capacità competitive. E succede nel Parlamento nazionale, dove si accetta pressoché unanimemente che le localizzazioni industriali possano avvenire (proposta di legge Capezzone e altri) senza alcuna di quelle verifiche di necessità, di adeguatezza e di coerenza territoriale che solo una corretta pianificazione del territorio può assicurare.

Verrebbe da dire che siamo alle frutta con il nostro Belpaese. Anche perché il “mercato” al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Non è quello della dinamica capitalista, ma è quello del parassitismo proprietario. Ed è un mercato il cui predominio sulla città produce (lo ha dimostrato la storia) segregazione di gruppi sociali, spreco di risorse comuni, disagio delle persone e delle famiglie, penalità al sistema produttivo e infine (tanto per adoperare un altro concetto divenuto idolo delle piazze) ulteriore motivo di “perdita di competitività” di un sistema già pesantemente degradato e inefficiente.

Le regole: quali? Come?

Liberarsi dell’illusione che il mercato possa riuscire a imprimere alla realtà della città e del territorio un ordine diverso da quello della trasformazione del cittadino in cliente, dell’uomo in consumatore di merci sempre più inutili, della persona umana a strumento cieco della produzione di merci opulente è il primo passo. E un passo necessario anche perché questo modo di orientare il processo economico restringe sempre di più l’area degli obesi e allarga sempre di più quella dei miserabili: mentre la bilancia della ricchezza pende sempre di più dalla parte del Nord mondo quella della moltitudine pende sempre più sul versante dei Sud del mondo.

Ma un secondo passo è necessario: quali regole sostituire al mercato? O più precisamente, come costruire un sistema di convenienze e penalità, di sollecitazioni e di divieti, di incentivi e di disincentivi che consentano di migliorare l’ambiente della vita dell’uomo? Anche qui, la premessa a ogni decisione tecnica è nell’assumere consapevolezza di alcuni principi, sulla cui base misurare l’adeguatezza o meno delle tecniche, dei metodi, degli strumenti, degli obiettivi specifici scelti. Naturalmente siamo in un campo in cui le opinioni possono essere molto differenti: tuttavia è necessario cimentarvisi, salvo poi a calibrare i principi in relazione a quelli proposti da altri[4].

Alcuni princìpi

In un mondo in cui concorrenza e competizione sono il modo in cui gli attori agiscono per trasformare la realtà, e in cui la vittoria la guadagna non chi ha più ragione ma chi ha più forza, occorre proporsi invece di difendere chi, oltre ad avere ragione, ha meno forza degli altri soggetti. Allora scendono subito in campo due realtà che posseggono entrambe queste caratteristiche: il territorio e i posteri.

La terra. Del territorio vorrei mettere in evidenza un primo elemento: il valore della terra non urbanizzata. Credo che la consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale debba costituire un principio essenziale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa fondamentale, oggi e domani. L’azione che compiono le forme elementari della fauna e della flora è decisiva. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale: a partire dall’oscuro lavorìo che fanno gli organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono porosa, permeabile, suscettibile di ospitare i germi della vita vegetale.

Certo, non è un principio che non abbia margini di negoziabilità, di calibratura rispetto ad altri principi anch’essi ragionevoli. Ci sono esigenze della società che possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quelle esigenze intanto hanno la stessa durata e necessità di quella di conservare la terra, e poi che non possono essere soddisfatte altrimenti.

Non è solo le terra come mera naturalità il bene che deve essere prioritariamente protetto: è anche il territorio in quanto deposito di ricchezze che il plurimillenario lavoro dell’uomo ha prodotto e che è un patrimonio per l’intera umanità. E non credo di dover argomentare sulla rivista di questo Dipartimento universitario questioni e definizioni per le quali proprio da qui sono nate riflessioni e azioni che sono entrate nel bagaglio culturale di tutti. Il territorio come natura, il patrimonio come patrimonio: questo è il primo soggetto che va difeso. C’è un altro soggetto, altrettanto rilevante, tanto ce l’elencazione avrebbe potuto cominciare da lui: è l’umanità, e in primo luogo la sua componente più debole perché solo virtuale: i posteri.

Non credo di dovermi dilungare sull’argomentazione della necessità di questo soggetto, e del principio della sua difesa. Del resto, la parte sana del dibattito sulla sostenibilità costituisce proprio la rivendicazione della necessità di salvaguardare patrimoni e risorse per le “generazioni future”; almeno fino a quando il termine “sostenibilità” non è stato assimilato a “sopportabilità”, da assoluto è diventato relativo e ha cominciato a essere non contrapposto, ma mediato con termini alternativi e sopraffattori, come sviluppo economico (di questa economia)

L’uomo. Nel campo dell’uomo, oltre al principio della tutela degli interessi dei posteri che n’è un altro che merita grande attenzione, poiché è anch’esso in gran parte sopraffatto: l’equità tra gli uomini. Un’analisi critica dell’impiego concreto di termini correnti nelle pratiche urbanistiche rivela che a questo proposito di commettono grandi e nefaste mistificazioni. Di continuo vengono proposti obiettivi apparentemente condivisibili da tutti, quali vivibilità, riqualificazione, rigenerazione. Come si fa a non ritenere unanimemente condivisibile l’obiettivo di rendere più vivibile una quartiere o una città, di aggiungergli qualità, di rigenerarne il funzionamento e l’aspetto? Eppure basterebbe porsi la domanda chiave per chi persegue l’obiettivo dell’equità: per chi? Per quali soggetti sono concretamente predisposte, finanziate e attuate quelle operazioni mirate a raggiungere vivibilità e sostenibilità attraverso la riqualificazione e rigenerazione della città? E allora si scoprirebbe che quei termini così gradevoli e accattivanti, in realtà servono a costruire quartieri e città dai quali i deboli, i privi di redditi sufficienti, e via via fasce più estese degli abitanti, vengono esclusi, allontanati, sfrattati.

La società. La storia ha cambiato il rapporto tra la terra e l’uomo. Oggi si sa che il rapporto tra uomo e terra (e territorio) non più essere gestito dal singolo abitante della terra: il partner di ciò che c’è nel territorio è la società. È alla società che spetta quel complesso di attività che si chiama governo del territorio. Attraverso quali strumenti? Attraverso quali istituzioni?

Storia e ragione hanno concorso a dimostrare che, essendo il territorio un sistema, il governo del territorio deve essere anch’esso sistemico. Il territorio pretende metodi di governo per i quali il tutto sia più importante delle sue parti. Ecco perché lo strumento principe è la pianificazione: la pianificazione vera, quella che interpreta, valuta, decide tenendo conto dell’insieme dei problemi e degli interessi; non quella che insegue gli eeventi e decide pezzo oper pezzo. E se gli interessi sono in conflitto tra loro? Ciò è inevitabile in una società divisa, quale è quella che storicamente conosciamo. Ecco allora la grande parola: democrazia. Parola ambigua, utilizzata per coprire modi molto diversi di assicurare il rapporto tra amministratori e amministrati. Forse una parola che esprime una tensione, rispetto alla quale le istituzioni sono sempre inadeguate a esprimere compiutamente.

Pianificazione democratica, insieme a consapevolezza del valore della terra e ricerca dell’equitàsociale, sono quindi tre principi fondamentali da assumere.

Elementi di metodo

Questi non sono ovviamente tutti i principi basilari sulla cui base tentar di individuare quali regole possano guidare, al posto della cecità interessata del mercato, ma sono sufficienti a delineare alcuni primi elementi. Li elenco rapidamente.

La pianificazione del territorio consiste, in ultima analisi, nel costruire un bilancio tra la domanda di trasformazione di spazio e l’offerta di spazio trasformabile. Credo che si debba continuamente tener presente questa caratteristica della pianificazione. Analizziamone brevemente i termini.

Domanda. Le esigenze della società provocano la necessità di trasformazioni del territorio: per realizzare abitazioni, fabbriche, attrezzature, infrastrutture e cos+ via ho bisogno di intervenire su singole componenti dello spazio e di operare in esse trasformazioni orientate alle nuove utilizzazioni. La prima domanda è da porsi è la seguente: quali trasformazioni sono socialmente necessarie, cioè sono motivate dall’esigenza di migliorare la condizione della società sul territorio? Una cosa è, per esmpio, migliorare l’accessibilità all’istruzione o dotare di unì’abitazione conveniente chi ne ha bisogno, altra cosa è l’esigenza di migliorare il valore d’una determinata proprietà o di un determinato comparto della produzione di merci. La valutazione della domanda di trasformazione è parte del primo passo di una pianificazione corretta: ad esso alludeva la pratica, quasi totalmente abbandonata, di basare le scelte della pianificazione su un rigoroso e trasparente calcolo dei fabbisogni..

Offerta. Il territorio, nel suo insieme (sistema) e nelle parti che lo compongono, presenta diverse esigenze di conservazione. Anche la valutazione delle diverse esigenze di conservazione (e, corrispettivamente, delle diverse possibilità di trasformazione) costituisce l’altra parte del primo passo d’una pianificazione corretta. È perciò prioritaria una lettura attenta, rigorosa, completa, libera da qualsiasi preconcetto che non sia quelli di individuare le caratteristiche proprie del territorio, che ne determinano la qualità e il valore sociale per l’umanità nel suo complesso. Una lettura prioritaria rispetto a qualsiasi altra considerazione o valutazione riferita specificamente al territorio. E altrettanto prioritarie devono essere, a mio parere, le concrete decisioni che ne derivano.

Cominciammo a ragionare su questa tesi quando, con alcuni colleghi, lavorammo da una parte al nuovo piano della città storica di Venezia e, dall’altra parte, all’attuazione della “legge Galasso”, in particolare per il piano paesaggistico dell’Emilia-Romagna. Fu allora, tra il 1980 e il 1985, che cominciammo a valutare e sperimentare la possibilità di ogni atto di pianificazione. Una prima componente, che definivamo “strutturale”, abbastanza rigida e ferma nelle sue determinazioni, costruita con un iter “lento” che coinvolgesse la responsabilità di diversi attori espressivi degli interessi generali, doveva avere tra i suoi contenuti essenziali proprio quello di definire le regole che l’esigenza di tutelare l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio pongono a qualunque trasformazione. Una seconda componente, che definivamo “programmatica”, avrebbe dovuto decidere - nell’ambito e nel rispetto delle regole stabilite dalla componente strutturale – quali delle trasformazioni ammesse fosse da praticare nel breve periodo in relazione alle esigenze sociali, alle opportunità economiche, alle scelte politiche dell’amministrazione.

Il racconto del modo in cui eravamo approdati a questa proposta, e qualche cenno sul modo limitato, deformato, pasticciato fino alla perversione con cui quel metodo è stato applicato è stato più ampiamente descritto in un ampio contributo pubblicato in una pubblicazione del Centro Osvaldo Piacentini[5].

Due condizioni

Riferirsi a principi e a metodi per individuare le regole necessarie a fare ciò che il mercato non sa e non può fare è certamente necessario. Ma è bene aver presenti anche alcune condizioni che sarebbero necessarie perché le regole abbiano efficacia, e che invece nella nostra società sono presenti solo limitatamente. Vi accennerò soltanto, perché trattarle con una certa sufficienza richiederebbe spazi e tempi di maggiore ampiezza.

La prima condizione cui mi riferisco è la piena disponibilità, da parte della collettività, del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà.

Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deveo stabilire che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, non appartiene al proprietario ma alla collettività.

Questa premessa era molto viva nella consapevolezza della cultutra e della politica dei veri liberali e della sinistra, qualche decennio fa: ora sembra scomparsa: la rendita, anzichè una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.

La seconda condizione, per fortuna meglio raggiunta in molte situazioni, è la presenza, nelle amministrazioni pubbliche, di uffici affidati a persone capaci, motivate, autorevoli, capaci di esprimere al meglio una seria e rigorosa cultura della pianificazione pubblica. Chi mi aiutato a rafforzare questa convinzione è stato un mio maestro amatissimo, ben noto nell’ambito(nel contesto) dal quale questa rivista nasce: Edoardo Detti, Daddo. Uno dei miei vanti è che non ci sia, in nessuna città o provincia d’Italia, un piano che venga definito “piano Salzano”. Fin dalle prime esperienze professionali ho sempre preteso, per collaborare con un’amministrazione, che vi fosse, o che fosse rapidamente costituito, un ufficio adibito alla pianificazione.

Perché questa non si esaurisce nel disegno, e neppure nell’adozione e nell’approvazione di un documento tecnico, di un “piano”. Essa è un’attività continua e sistematica, è il metodo permanente di lavoro dell’amministrazione pubblica. Non può essere tale se non è basata su un ufficio che sia, appunto, capace, motivato, autorevole, che sappia collaborare con intelligenza e rigore culturale e professionale con i politici. Nella speranza che questi comprendano il ruolo della pianificazione, l’ampiezza del suo respiro, la responsabilità che comporta. Sarebbe molto utile, quindi, che gli urbanisti pubblici abbiano anche, tra le loro capacità, quella di essere buoni maestri per i loro amministratori.

[1] Ugo Mattei, “Beni a perdere”, il manifesto, 2 dcembre 2008

[2] Giorgio Ruffolo, “La società non può essere sacrificata al dio mercato”, la Repubblica, 14 agosto 2001

[3]David Harvey, Breve storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, 2007.

[4] Per la distinzione tra “valoori” e “principi” si veda Gustavo Zagrebelsky, "Valori e conflitti della politica", la Repubblica, 22 febbraio 2008

[5] E. Salzano, “L’articolazione dei piani urbanistici in due componenti: come la volevamo, come è diventata, come sarebbe utile”, Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentini, n.11-12, anno 10, aprile 2008, tomo 2.

“Mai, dai tempi di Mussolini, un governo italiano ha interferito in modo così sfacciato e preoccupante sui media. I giornalisti, e glli altri italiani, hanno tutte le ragioni a protestare” (1° ottobre 2009)

La Stampa, 6 settembre 2009

Dal sito http://22passi.blogspot.com/

La Stampa, 17-21 agosto 2009.

Un piano urbanistico o territoriali deve essere un piano: deve essere uno strumento che esprime le scelte sul territorio di una determinata istituzione, in termini tali che esse siano comprensibili ed efficaci: che cioè siano chiare per tutti i soggetti coinvolti, e che inducano effettivamente le trasformazioni proposte. Altrimenti un piano è un insieme di chiacchiere.

Il primo aspetto critico del Ptrc è proprio questo: è un insieme di scritti spesso condivisibili, ma è del tutto inefficace proprio là dove le analisi sono più corrette, gli obiettivi più giusti, gli auspici più condivisibili. Là dove, ad esempio, si argomentano la necessità di interrompere il consumo di suolo, di tutelare il paesaggio e l’agricoltura, di assumere come obiettivi a qualità e non alle quantità.

Chi non si accontenta dell’apparenza e cerca la sostanza e va a questa (al fascicolo delle Norme tecniche d’attuazione) scopre il piano è una truffa. Nessuna delle affermazioni condivisibili verrà tradotta in pratica: comuni e province, che sono i principali esecutori del piano, sono lasciati liberi di seguire i suggerimenti, oppure di fare esattamente il contrario. Una sola cosa è chiara: guai a intralciare in alcun modo l’attività edilizia; se questa entra in contrasto con altre finalità, destinazioni, progetti, questi devono cedere il passo.

Le uniche cose efficaci del Ptrc sono quelle che la Giunta regionale riserva a se stessa: la infrastrutture per la viabilità (quelle che più se ne fanno, più aumenta il traffico e più ce ne vogliono), gli approdi turistici, le “cittadelle aeroportuali”, i nuovi insediamenti previsti lungo la grande viabilità e soprattutto ai nodi del sistema autostradale. Attorno a questi, aree di due chilometri di raggio sono sottratte alla potestà della pianificazione comunale. Lì si concentreranno nuovi grandi interventi terziari (per il commercio, gli uffici, la ricettività turistica, la ricreazione) contribuendo all’ulteriore svuotamento dei centri urbani esistenti dalle attività che ne assicurano la vitalità. In compenso a questa sottrazione di potere si lasciano le mani libere ai comuni di lasciar costruire praticamente dappertutto. Contravvenendo alla legge, la regione ha rinunciato ad applicare le norme del Codice del paesaggio, quindi a proteggere la più nobile delle risorse regionali. Ma è stata tra le prime ad applicare il “piano casa” di Berlusconi, che affida la soluzione di un problema drammatico per i senza casa all’arricchimento di chi la casa l’ha già.

Sotto le brillanti apparenze (luccicanti specchietti per le allodole) il Ptrc rivela la strategia territoriale ed economica dell’attuale maggioranza regionale: puntare tutto sulla crescita della rendita immobiliare. Quella dei grandi investitori, gestita dalla giunta regionale, e quella piccola e piccolissima, affidata al bricolage degli interessi polverizzati sul territorio, lasciata ai comuni. Il pensiero liberale e l’economia classica avevano compreso che lasciare le briglie sciolte alla rendita significa privilegiare gli impieghi parassitari del reddito: quelli che, a differenza del salario e del profitto, aumentano le ricchezze personali senza alcuna ricaduta d’interesse generale. E in più, come comprendiamo oggi, significa distruggere il paesaggio, la natura, la bellezza, che costituiscono la nostra vera risorsa.

I punti della critica cui ho qui accennato sono sviluppati in un corposo documento che, a nome di oltre un centinaio di associazioni, comitati e gruppi di cittadini attivi abbiamo consegnato alla regione (è accessibile qui: http://eddyburg.it). Il risultato di questo lavoro è che siamo riusciti a discutere delle proposte della regione in decine e decine di incontri, e a far crescere la consapevolezza che un Veneto diverso da quello proposto dal Ptrc è necessario e possibile.

La Stampa, 17-21 agosto 2009.

Repubblica, 24 agosto 2009

Eduardo Salzano è un urbanista molto noto e non solo in Italia. Un urbanista militante, nel senso che ha sempre coniugato la teoria, l’attività di docente alla Università IUAV di Venezia e di saggista, con le pratiche dell’impegno anche politico. Un suo libro, «Fondamenti di urbanistica» ristampato di recente da Laterza, è un raro esempio di chiarezza su metodi è obiettivi della pianificazione. Oggi tra le altre cose, cura un sito (eddyburg.it) che si occupa di governo del territorio. Negli ultimi anni ha dedicato molta attenzione alla Sardegna che considera uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo e sta seguendo con grande interesse il dibattito in corso sulla tutela delle sue aree litoranee. La sua posizione su questi argomenti è molto netta.

- Il ritardo nel dibattito ha pesato: i partiti, anche quelli di sinistra, arrivano tardi a riconoscere l’importanza della questione ambientale. Penso al discorso di Berlinguer sull’austerità del ‘77, che non aveva determinato conseguenze, come se mancasse il coraggio di entrare nel merito. O alla linea di prudente attesa del movimento sindacale, che poteva constatare che al consumo di territorio non corrispondeva una contropartita occupazionale accettabile.

«Mi sembra che si registrino due carenze gravi. Da una parte, un forte ritardo a dare il giusto peso alla questione ambientale. Questa viene intesa in un senso molto riduttivo, che porta a risolvere il problema a furia di maquillages e di mitigazioni, mentre quello che è irrimediabilmente in crisi è il modello di sviluppo basato sulla crescita quantitativa della produzione di merci. Non posso non riferirmi alle analisi di Claudio Napoleoni e di Franco Rodano, che hanno trovato una intelligente eco politica nella proposta dell’austerità di Enrico Berlinguer. Chi esprime oggi molto lucidamente il paradosso della crescita è Carla Ravaioli, per esempio in “Un altro mondo è necessario”, pubblicato da Editori Riuniti nel 2002.

Ma dall’altra parte, c’è un vizio di fondo della cultura italiana, che si riflette anche nelle posizioni e nelle sensibilità delle élites culturali. Un vizio che definirei come l’ignoranza del territorio. L’interazione tra azione dell’uomo e trasformazioni del territorio, e le ricadute che queste hanno sul destino vicino e futuro della società, è del tutto estraneo alla cultura corrente, anche a quella “alta”».

- Questi indugi hanno pesato anche in Sardegna: molti paesaggi costieri sono stati cancellati e i turisti più attenti cominciano ad accorgersene. Si è depauperata la materia prima, e non si avvera il meraviglioso programma: molto volume edificato uguale ricchezza per tutti. Crescono gli abitanti di alcuni centri litoranei e si prefigura un vuoto al centro dell’isola per lo spopolamento di paesi.

«I nostri territori sono pieni di ricchezze inaudite. Millenni di storia hanno lasciato il loro deposito, e hanno costruito un patrimonio di bellezza inestimabile: ancora viva, ancora presente nella vita, nei sapori e negli odori, nelle parole e nelle musiche, nei mestieri e nei saperi dei nostri popoli. Ci sono tesori di qualità nascoste nelle nostre terre, forse nelle colline e nei monti ancora più che nelle coste. Questa è la risorsa che dobbiamo utilizzare: modelli nuovi di turismo (anzi, di conoscenza, ricreazione, godimento), non più su quelli basati sullo sfruttamento rapace e intensivo di beni che sono disponibili anche altrove (sole, sabbia, acqua). Milioni di persone oggi, miliardi nei prossimi decenni, chiedono qualità, conoscenza di cose diverse, comprensione di ritmi di vita diversi da quelli affannosi delle omologate metropoli. È in vista di questi nuovi, grandi flussi che occorre lavorare; è per essi che occorre in primo luogo individuare, riconoscere e tutelare, e poi rendere disponibili a una fruizione intelligente, le ricchezze dei nostri paesaggi. C’è indubbiamente un grande ritardo nella comprensione di questa necessità, e dei grandi orizzonti che essa apre».

- Forse qui in Sardegna la politica ha in parte recuperato il ritardo e rimosso alcuni equivoci. C’è la vittoria di Soru.

«La Sardegna di Soru è un esempio di intelligenza e di volontà. È venuto un segnale forte. A me è sembrato di scorgervi una saggezza molto antica: l’orgoglio di chi rifiuta ogni colonizzazione, e sa vedere la miseria morale e la rapacità che si nascondono dietro gli orpelli della cosiddetta modernizzazione. Ma è una strada molto difficile, perché è contro una corrente che sembra travolgere tutto. Mi ha dato molta speranza, però, vedere quanto sia largo il consenso che la politica di tutela del paesaggio delle coste ha trovato nell’opinione pubblica, non solo nell’isola».

- Le case da vendere producono scarsi vantaggi. Eppure resiste il mito dell’imprenditore che viene dal mare. Nello sfondo ricompare ciclicamente la scena nel romanzo di Conrad, ogni volta che il villaggio costiero avvistava il brigantino e «cominciavano a picchiare i gong, a issare le bandiere, le ragazze si ornavano i capelli di fiori, la folla si allineava sulla riva...». Pesa la disoccupazione: una famiglia in gravi difficoltà vende anche le cose più belle che possiede...

«Mi ha colpito molto la lucidità di Soru nello svelare, all’assemblea dei sindaci del 6 settembre scorso, la truffa nascosta dietro quel mito. Come ho scritto nel presentarlo su eddyburg.it, ho apprezzato la consapevolezza del ruolo della Regione, la responsabilità di rappresentare anche le generazioni future, la fermezza nel sostenere che “il turismo non è vendere la terra”. Sono tre aspetti strettamente collegati tra loro. Governare è in primo luogo responsabilità: non è solo mediare tra gli interessi presenti. Responsabilità nei confronti di valori che non appartengono solo al “locale” né solo al “presente”. La bellezza che natura e storia hanno costruito non può essere degradata per gli interessi dei pochi proprietari attuali. Ciò che i millenni hanno creato deve essere tutelato nell’interesse delle generazioni future. Chi può rappresentarle, se non provvede un governo lungimirante?»

- Però in alcune aree della Sardegna e forte l’insofferenza nei confronti di vincoli a tutela del paesaggio o di altri beni culturali che vengono dallo Stato o dall’Europa: tarda a passare l’idea della solidarietà ecologica e generazionale.

«Sono meno pessimista di te. Grandi eventi (lo tsunami in Asia, la guerra nel Medio Oriente, le grandi epidemie moderne, l’inquinamento delle metropoli) fanno comprendere a gruppi sempre più vasti di cittadini che il destino delle civiltà umane è solidalmente legato, e che da soli non si resiste al male del mondo. Un giorno si comprenderà anche quali sono le cause, e allora si sarà maturi per sanarle. Io ho molta fiducia nell’uomo, soprattutto da quando ha scoperto (sta scoprendo) che è maschio e femmina».

- L’impressione è che le scelte più vicine al bene ambientale siano molto condizionate. Una disposizione che viene da lontano, è più rigorosa ma ha spesso la debolezza di non essere condivisa localmente. Non è una questione semplice: il principio di sussidiarietà è normalmente letto nel senso di garantire ad un’autorità inferiore una certa indipendenza rispetto ad un potere centrale.

«Ci sono cose che si vedono bene da vicino, e cose che si vedono bene da lontano. La sussidierietà rettamente intesa (all’europea, non alla padana) consiste proprio nel dire che a ciascun livello di governo spettano tutte, e solo, le decisioni su argomenti che solo a quel livello possono essere efficacemente governati. Ora mi sembra del tutto evidente che la tutela dell’ambiente naturale e storico e lo sviluppo di un turismo aperto alla prospettiva e chiuso alla rapina, sono questioni la cui responsabilità ricade sul livello regionale. Sostenere il contrario significa avere i paraocchi, e vedere solo il sacco di biada che si porta appeso al collo».

- La Regione dopo l’approvazione della legge di provvisoria salvaguardia deve redigere nuovi strumenti per sostituire i piani paesistici che due diverse sentenze hanno bocciato. Servirebbe indicare il metodo, anche considerando i tempi che non sono lunghi.

«A me sembra che lo sforzo da fare consiste nel tenere insieme due cose: una risposta tempestiva (nel tempo stabilito dalla legge) all’esigenza della salvaguardia, e l’avvio di un processo di conoscenza, governo e monitoraggio sistematico delle trasformazioni. Io partirei perciò da tre compiti pratici da svolgere in parallelo: 1) costituire un ufficio formato da personale prevalentemente interno, qualificato e soprattutto motivato (Roosvelt diceva che sarebbe un errore esiziale affidare la gestione di una riforma a personale che non ci crede); 2) utilizzare le conoscenze, e le proposte di tutela, che derivano dal lavoro fatto per la predisposizione degli atti bocciati dalla giustizia amministrativa, per una prima stesura di un piano; 3) mettere in piedi un sistema informativo territoriale capace di costruire e sistematicamente aggiornare il quadro conoscitivo essenziale per individuare, catalogare, riconoscere i dati del territorio, diffonderne la conoscenza, definire le regole per la sua conservazione / trasformazione».

- C’è la questione degli obiettivi. E non è cosa di poco conto se si guarda il dibattito di questi mesi: c’è chi ancora dà per scontata l’idea di trasformabilità, con qualche eccezione, delle aree che hanno fortunatamente resistito.

«A mio parere la questione va posta diversamente. Il nostro territorio è costituito da parti, elementi, componenti, ciascuna delle quali ha una sua individualità, delle qualità ancora riconoscibili, soggette dalla storia a trasformazioni le quali le hanno a volta arricchite a volta degradate. Si tratta di leggere questo processo e i suoi esiti. Si tratta di individuare insomma le regole che la storia (quella antica e quella recente) hanno seguito. Criticamente: nel senso di distinguere quelle che hanno dato risultati positivi, e di queste incoraggiare e promuovere la permanenza, cioè la conservazione attiva del paesaggio che hanno determinato. E di distinguere, per converso, le regole che hanno degradato e distrutto, e queste modificarle promuovendo trasformazioni che migliorino la qualità del paesaggio. Per fare un esempio, proprio il caso della villa di Soru che Pili ha presentato come uno scandalo. Lì Soru ha trasformato una brutta casa in stile tirolese in una tranquilla e sobria costruzione (senza aggiungere un metrocubo), e ha sostituito un bosco di essenze importate dall’Australia con piantagioni di alberi e arbusti tipici di quei paesaggi».

La buona cultura urbanistica italiana dell’ultimo mezzo secolo ha sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio. Prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne. Elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.

I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare Edoardo Detti (al cui insegnamento Sandro Roggio qui accanto rinvia) e alla sua difesa delle colline di Firenze. Ricordare, scavalcando l’Appennino, la difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti. Ricordare il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo. E, per restare vicini a Castelfalfi, ricordare l’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.

La buona cultura urbanistica ha compreso che non solo le forme, ma anche le comunità devono essere tutelate. L’azione di tutela non è mera conservazione, ma amorevole accompagnamento e guida delle dinamiche della vita che consenta il prolungamento nel tempo delle regole, gli equilibri, i connotati (le “invarianti strutturali”) che la qualità di quei paesaggi, urbani e rurali, hanno costruito e mantenuto fino a oggi. Non solo le forme vanno tutelate, ma il loro rapporto con gli uomini: con le società che quei luoghi hanno abitato e spesso ancora abitano, li hanno costruiti e mantenuti per secoli e ancora possono essere aiutati a farlo.

Una società che cambia, ovviamente, negli individui che la compongono, negli obiettivi che la muovono, nei valori che la alimentano. Ma la saggezza ispirata da quei paesaggi storici e dalla loro storia sollecita a conservare, nelle trasformazioni, la fedeltà ai principi basilari e alle regole di fondo che hanno presieduto alla loro costruzione e consentito la loro durata. Così, le diverse funzioni che coabitano nelle città e nei paesi storici possono cambiare, ma deve essere conservata la mescolanza di ceti e mestieri, l’equilibrio tra residenti e forestieri e tra quotidianità ed eccezionalità e lo stretto rapporto tra la forma e le attività che caratterizzano il costruito e quelle che caratterizzano e disegnano il non costruito, il rurale.

Nulla di tutto questo è riconoscibile dei progetti proposti per Castelfalfi. Dove una volta il costruito prendeva risorse dal non costruito per accrescere il proprio benessere e restituiva forma del territorio agrario, paesaggio, domani dominerà esclusiva la monocultura turistica, la quale tutto prende al paesaggio senza nulla restituire. Gli stessi soldi prodotti dallo sfruttamento del territorio tornano alle multinazionali che lo sfruttamento hanno organizzato.

Qui altri haiku di Basho

citato da Zagrebelky, 23 aprile

Una bella confezione

che racchiude un uovo vuoto

Nel mondo dominato dal consumismo siamo abituati a vedere (e siamo spesso obbligati a comprare) confezioni che avvolgono oggetti che magari sono di scarsissima utilità, o di utilità discutibile, o addirittura del tutto inutili. Si tratta di confezioni che ingannano il consumatore ingenuo e lo spingono a comprare gli oggetti solo perchè sono avvolti nelle affascinanti, ricche, lussuose confezioni, che non servono a nulla se non ad alimentare il business dei rifiuti.

Così sembra, a un primo esame, il PTCR approvato dalla Giunta Galan. Una serie nutrita, ricca, spesso intelligente di analisi, descrizioni, quadri conoscitivi, ragionamenti, perorazioni, delineazione di obiettivi e strategia, espressioni di volontà, che avvolgono un prodotto (le norme tecniche d’attuazione) del tutto inconsistente.

Ma se proviamo a leggere le norme, accanto alla loro inconsistenza formale scopriamo che esse rivelano l’ideologia e la strategia della regione, e quindi preannunciano le scelte di merito che, in modo del tutto discrezionale, la regione compirà nel concreto.

Il prologo: rivela e ribadisce

le intenzioni

Il prologo delle norme tecniche d’attuazione, parole prive di efficacia precettiva, già rivela comunque una cosa interessante. Si parla dei “vincoli giuridici gravanti sul territorio veneto”. La questione dei “vincoli” meriterebbe un ragionamento serio: rinvio al breve articolo che ho scritto in proposito per numero 15 di Carta: in due parole, chi demonizza i “vincoli” ritiene che l’unica utilizzazione ragionevole del territorio sia quella edilizia.

La Giunta dichiara che provvederà successivamente (non si sa quando) ad applicare l’unico strumento legislativo che richieda di porre vincoli di tutela del paesaggio, l’ambiente, i beni culturali: il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Rinuncia cioè all’unico strumento che potrebbe dare efficacia al piano e a tradurre le intenzioni proclamate in fatti. Non solo, ma promette che, disattendendo al suo dovere (come proclama l’articolo 9 della Costituzione e reiterate sentenze della Corte costituzionale) non aggiungerà vincoli di livello regionale a quelli già prescritti a livello statale.

La giunta afferma esplicitamente che il piano non è efficace. Sempre nel Prologo alle norme, quando definisce “Il PTRC di seconda generazione”, dichiara che è un piano “di idee e scelte, piuttosto che di regole, un piano di strategie e progetti, piuttosto che di prescrizioni”. Le norme stabiliscono più avanti che “le strategie e i progetti” li fa la Regione, scavalcando le autonomie degli enti locali.

Il prologo ritorna ancora sull’argomento, e precisa che “il PTRC persegue gli obiettivi non mediante prescrizioni imposte ai cittadini e limitative dei loro diritti”. Di quali diritti si preoccupa il piano è chiaro, i diritti dei proprietari immobiliari, quelli che sono interessati allo “sviluppo del territorio”, senza fastidiosi “vincoli”.

Progetti strategici

La questione del potere emerge fin dai primissimo articoli. L’articolo 5 contiene la ricca polpa del Ptrc: i “progetti strategici”. Questi sono strumenti che sottraggono la potestà delle scelte agli istituti rappresentativi della democrazia: decide la regione, e al tavolo dei decisori l’unico che partecipa in rappresentanza del comune è il sindaco. Il Consiglio, comunale o provinciale, non conta più nulla. Guardiamo alcuni dei “progetti strategici” (ma la Regione si autorizza a inserirne altri): l’attività diportistica (se vuole, ne progetta quanti ne vuole e li pianifica in barba al comune); l’ambito portuale veneziano; la neonate “cittadelle aeroportuali” (accanto agli aeroporti può autorizzare i comuni a “introdurre forme di valorizzazione delle aree sottoposte a vincolo […] attraverso misure di perequazione e compensazione che interessano aree contigue”, cioè regali di cubature); le aree circostanti le stazioni ferroviarie della rete metropolitana regionale e i caselli autostradali; quelli che il piano definisce “hub principali della logistica” (Verona Quadrante Europa, un analogo sistema policentrico tra Padova, Venezia e Treviso), e una serie di altri “terminal intermodali”. Ciascuno, ovviamente, col suo contorno di cemento, mattoni, asfalto, e soprattutto affari.

Campagna edilizia

La valorizzazione del territorio agricolo e dei paesaggi rurali sono proclamati a ogni pie’ sospinto nelle chiacchiere. Nel merito, tutto il territorio rurale è suddiviso in quattro tipi di aree: agricoltura periurbana, agropolitane in pianura, ad elevata utilizzazione agricola, ad agricoltura mista a naturalità diffusa. Pensate che, per contrastare il consumo di suolo e difendere naturalità e agricoltura, da tali aree sia esclusa l’urbanizzazione? Tutt’altro. Nelle prime e nelle seconde bisogna “localizzare prioritariamente lo sviluppo insediativo”, in quelle ad agricoltura periurbana bisogna “garantire l’esercizio non conflittuale delle attività agricole rispetto alla residenzialità”, in quelle “agropolitane” bisogna addirittura “garantire lo sviluppo urbanistico attraverso l’esercizio non conflittuale della attività agricole”. E nelle stesse aree ad elevata utilizzazione agricola bisogna “limitare”, non vietare, “la penetrazione in tali aree di attività in contrasto con l’obiettivo della conservazione delle attività agricole e del paesaggio rurale”

Le norme, insomma, non solo non forniscono cartografie definite, criteri certi, limiti, indici, parametri oggettivi, metodi per salvaguardare le risorse naturali, ma addirittura sollecitano a non creare conflitti alla tranquilla crescita dell’edilizia nelle residue zone rurali del Veneto.

La continua preoccupazione di tutelare la possibilità dei proprietari di edificare sul loro terreno traspare in ogni norma. Perfino nel definire la rete ecologica, per la quale il piano non dà nessuna prescrizione tassativa, l’unica preoccupazione è nella direzione dell’edificabilità: bisogna ispirarsi “al principio dell’equilibrio tra la finalità ambientale e lo sviluppo economico” e bisogna evitare “per quanto possibile la compressione del diritto di iniziativa privata”!

Capannoni e grattacieli industriali dappertutto

Per il sistema produttivo il piano definisce una gran quantità di tipologie territoriali, con una fantasia eccezionale. Vi sono i “territori urbani complessi”, i “territori geograficamente strutturati”, quelli che sono invece “strutturalmente conformati”, e poi le “piattaforme produttive complesse regionali”, le “aree produttive con tipologia prevalentemente commerciali”, nonché le “strade mercato”. Ma accanto a queste, che sembrano occupare,nell’indeterminatezza della cartografia, quasi tutto il territorio di pianura e di collina, il piano individua le “eccellenze produttive”, che attraversano orizzontalmente tutte le aree predette e che “la Regione valorizza mediante appositi interventi e progetti che ne assicurino lo sviluppo”.

In tutte queste aree (che non sono né perimetrate nelle cartografie né caratterizzate da regole definite) bisogna “contrastare il fenomeno della dispersione insediativa” individuando “linee di espansione delle aree produttive”, definendo “modalità di densificazione edificatoria sia in altezza che in accorpamento”.

Molto simili sono le indicazioni del piano per le aree urbane. Dietro il titolo accattivante “Città, motore del futuro” si rivela la medesima strategia. Nessun vincolo allo sprawl, al consumo di suolo, alla continua espansione disordinata e frammentata della città sul territorio rurale: guai a porre “vincoli”! In aggiunta alla prosecuzione e all’intensificazione dello “svillettamento” (del resto ulteriormente stimolato dalla recentissima legge perr lo sviluppo dell’edilizia), si sospingono comuni, province, costruttori, proprietari a densificare le aree urbane esistenti, compattare, riempire, annaffiare il terreno di mattoni, cemento e asfalto per far crescere grattacieli.

Nelle relazioni si fornisce la giustificazione: c’è un drammatico problema della casa, un grande fabbisogno insoddisfatto di abitazioni. Ma si trascura il fatto che chi ha bisogno di un alloggio è il giovane o l’immigrato, il quale non ha le risorse per accede a un mercato caratterizzato da prezzi sempre più alti: un mercato nel quale, come spiegano gli economisti seri, l’accrescimento delle costruzioni non porta a una riduzione e dei costi, ma anzi ad un loro aumento.

La strategia

La strategia della Giunta del Veneto è ben descritta in un documento preliminare al piano: quello scritto da Paolo Feltrin, esperto di politiche amministrative, dedicato a “La seconda modernità veneta e il territorio”. Sembra la relazione di un urbanista, e trova preciso riscontro nelle scelte contenute nella normativa.

L’analisi della situazione territoriale del Veneto è precisa, nella sua efficace sinteticità. Tutti i fenomeni più rilevanti sono descritti: dalla prevalenza dei modelli abitativi unifamiliari e sparpagliati (lo “svillettamento”, lo sprawl), l’inefficienza del sistema della mobilità (addebitato all’insufficienza della rete stradale), il ruolo assunto dai caselli autostradali (sempre più caratterizzati dalla presenza di strutture del terziario) la desertificazione della rete dei centri storici (giustamente addebitata all’alto livello dei canoni di locazione e alla concorrenza delle nuove strutture commerciali). Il fatto è che questi elementi, che vanno letti tutti come elementi di crisi da correggere o rimuovere, vengono visti come dati ineliminabili, segni di vitalità di un sistema che deve essere assecondato (e razionalizzato) nel suo trend.

Su questa linea, peraltro condivisa da una parte della cultura urbanistica italiana, si arriva ad affermazioni francamente aberranti. Come quando si afferma che c’è ancora tanta campagna nel Veneto sicche il consumo di suolo non è un problema reale, poiché la percentuale di terreno rurale è di molto superiore a quella delle terre coltivate (come se l’attività economica del settore primario fosse l’unica ragione della salvaguardia del suolo dall’urbanizzazione). O quando si afferma che si devono assumere decisamente i caselli autostradali come le nuove polarità da incentivare. ribadisce così, per un verso (la prosecuzione dello svillettamento) e per l’altro (l’enfatizzazione delle autostrade), il cancro della tendenziale esclusività della motorizzazione individuale.

Che fare

Per concludere: il Ptrc non ha nessuna capacità regolativa, non esercita nessuna tutela di ciò che va tutelato, non fa nessuna scelta nelle infinite trasformazioni che si possono compiere sul territorio. Ciò significa che, da un lato, esso costituisce il quadro più favorevole per l’ulteriore scatenamento degli “spiriti animali” di quel capitalismo italiano intriso di rendita ben più che di profitto, volto all’appropriazione parassitaria delle risorse ben più che dal loro impiego nell’innovazione e in uno sviluppo socialmente, o anche solo economicamente, paragonabile a quello di altri paesi europei. Ed è, dall’alto lato, un quadro nel quale la massima discrezionalità e capacità autonoma d’intervento è lasciata ai poteri forti, in primo luogo a quelli della regione (della sua giunta), che comunque governa i rubinetti della spesa diretta e indiretta.

Ma è anche un insieme di elementi nel quale vi sono due aspetti da cogliere positivamente. In primo luogo, c’è una messe di documenti analitici che forniscono un quadro oggettivo della situazione reale del territorio, in tutte le sue componenti essenziali. A quel patrimonio informativo possono attingere quanti vogliano proporsi di promuovere una strategia diversa, e alternativa a quella della maggioranza regional. Ma in secondo luogo, c’è la delineazione d’una strategia di potere che stimola (che deve stimolare) a coglierne le contraddizioni per costruirne un’altra, alternativa e diversamente capace di guadagnare consensi per contrastare così la strategia, l’ideologia e il gioco di potere espressi nel Ptrc.

Il complesso dei documenti approvato salla Giunta è visibile nel sito della Regione Venbeto. Ciò che dicono in pubblico gli uomini della Giunta è leggibile qui.

Robert Reich è stato ministro per il lavoro nel governo Clinton. L'articolo è su "il manifesto" del 14 luglio 2009

Citato in Logos, 3 luglio 2009

Citato da Giorgio Napolitano, 23 aprile.

Da I vandali in casa (1956)

La Repubblica, 24 giugno 2009

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