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La Repubblica, 24 giugno 2009

Da il Mondo, 24 ottobre 1961


"Festa padana a Pontida", il manifesto, 5 giugno 2009,

il manifesto, 2 dicembre 2008

Ciò di cui stanno discutendo governo e regioni ha pochissimo a che fare col tema. La questione della casa è del tutto marginale. É un pretesto che Berlusconi ha scelto per rilanciare l’attività economica responsabile della distruzione del territorio fin dagli anni del dopoguerra: l’edilizia senza freni né vincoli. Non è certo consentendo ai proprietari di case e capannoni di ampliare i volumi di cui già dispongono che si ottengono alloggi a prezzi accessibili alle persone che costituiscono oggi la domanda inevasa di case. Questa domanda è costituita dagli immigrati, richiamati dalla richiesta di forza lavoro, dalle nuove famiglie, dai lavoratori precari, da quanti hanno trovato un lavoro distante dal luogo dove lavorano. Si tratta di una domanda, prevalentemente di alloggi in affitto, che l’attuale mercato della casa non può soddisfare: altrimenti, non sarebbe così consistente il numero delle case vuote, in attesa di compratore. Non è certo l’incremento dei volumi esistenti la risposta.

Si parla anche di edilizia sociale realizzata dai costruttori e data in affitto per un certo numero di anni a prezzi contenuti. Ma a quali condizioni? Spesso si tratta di aree destinate alla formazione di spazi pubblici, nelle quali si lascia che i proprietari costruiscano residenze impegnandosi a darle in affitto per qualche anno, oppure di aree agricole nelle quali il comune concede ai proprietari un’opportuna variante urbanistica. Così, dopo qualche anno il proprietario avrà avuto in regalo un’area divenuta edificabile. Intanto, la città cresce a dismisura, e quella esistente si intensifica e appesantisce.

Quello scelto da Berlusconi è certamente un modo per aumentare la quantità di volumi edificati, e quindi il carico urbanistico: la necessità di strade, fogne, altre infrastrutture, servizi scolastici e sanitari, spazi pubblici. Tutti beni che diventano più scarsi via via che gli standard urbanistici sono dimenticati o cancellati, e che le risorse che dovevano servire per realizzarli (gli oneri di urbanizzazione e di concessione) vengono dirottati ad altri fini. Ed è un modo per ottenere un risultato che sta profondamente a cuore agli attuali reggitori della cosa pubblica: liberarsi di quelle insopportabili pastoie costituite dalle regole della pianificazione urbanistica, territoriale e paesaggistica. Liberarsi dalle regole tese a risparmiare la terra dove non è necessario invaderla con la repellente crosta di cemento e asfalto che sempre più cancella i nostri patrimoni.

L'Unità, 23 maggio 2009

da "il manifesto", 12 marzo 2009

Marco Boschini e Michele Dotti, L’anticasta. L’Italia che funziona, EMI 2009. Con interventi di : Jacopo Fo, Maurizio Pallante, Alex Zanotelli, Franca Rame, Francesco Comotto, Chiara Sasso, Gianluca Finiguerra, Alessio Ciacci, Andrea Segrè, Luca Falasconi, Ezio Orzes, Rossano Ercolini, Ignazio Garau. Il libro può essere ordinato a Commercio equo

Che si fa per evitare che il territorio venga devastato, cementificato, impermeabilizzato, distrutto nelle sue qualità, invaso da rifiuti d’ogni genere, trasformato da risorsa a rischio per la vita degli uomini, negato nella sua natura di patrimonio comune e ridotto a merce, materia bruta di arricchimenti individuali? In Italia, oggi, poco o nulla.

Pochi decenni fa era diverso, almeno in vaste parti della penisola, in regioni che erano modelli cui tentar di adeguarsi. Ma non serve guardare all’indietro, salvo per imparare che un altro modo di trattare il territorio è possibile: e se lo è stato, può tornare a esserlo. Non serve la nostalgia, serve guardare avanti, e in primo luogo comprendere.

Come sempre nei periodi cupi bisogna cominciare dalle idee: sono le idee che guidano i fatti, e sono le parole che esprimono le idee. Quindi sforziamoci di ragionare su alcune parole del territorio. Poi cercheremo di comprendere che cosa si più fare.

Le ideologie

Intanto sgombriamo il campo da un equivoco. Non è vero che le ideologie siano scomparse. Chi lo sostiene e non è ignorante lo fa strumentalmente: per nascondere il fatto che c’è un’ideologia dominante, che condiziona i nostri pensieri e i nostri atti. Se ce ne accorgessimo, ci comporteremmo diversamente, perché i nostri pensierideterminano le nostre azioni.

Se non pensassimo che l’affermazione individuale è il valore primario e la premessa necessaria della felicità riscopriremmo la felicità dello stare insieme, del lavorare insieme per un comune destino. Se non pensassimo che la civiltà “occidentale” è la migliore dell’universo ci interesserebbe comprendere gli altri, visitare le altre culture con rispetto – e così riusciremmo a comunicare anche la nostra senza sopraffazione. Se non pensassimo che sviluppo significa aumentare la quantità di merci (e quindi di ricchezze materiali) prodotte, scopriremmo che sviluppo può significare invece crescita della capacità di comprenderci, di conoscerci, di amarci, di esplorare nuovi mondi della geografia e della storia, del pianeta e dello spirito, di contribuire allo sviluppo di tutti.

E magari comprenderemmo che, anziché disporre di una casa in proprietà (una per noi, e una per ciascuno dei nostri figli) sarebbe meglio se ci fosse un’ampia disponibilità di case in affitto, di buona qualità edilizia e urbanistica, alla portata dei redditi di ciascuno, nei luoghi dove sono necessarie. Scopriremmo che anziché avere in casa una lavatrice e un asciugatoio, e il piccolo scoperto privato con le panche e il barbecue, e lo stenditoio sul terrazzino di casa, sarebbe più conveniente poter disporre di queste utilità, efficienti e funzionanti, negli spazi comuni del complesso in cui abitiamo, come succede nei paesi più civili del nostro da mezzo secolo a questa parte. Comprenderemmo anche che in Italia ottenere queste cose significa combattere battaglie difficili, sconfiggere nemici potenti, e che quindi abbiamo bisogno di costruire subito le solidarietà necessarie per diventare più forti e più convincenti degli altri.

Il primo passo da compiere per vivere meglio sul territorio (e nella società) è allora comprendere qual’è l’ideologia dominante, saperla criticare in ogni aspetto della nostra vita, saper individuare le sue radici, e collaborare con chi – come noi – si sforza di costruire una “contro-ideologia”. Una ideologia, un insieme di principi, di priorità, di regole, di speranze, alternative rispetto a quelle che ci condizionano (e ci opprimono).

La terra

Chiamiamo terra il territorio vergine, dominato dalla natura. Dobbiamo avere consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa compiono le forme elementari della fauna e della flora. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale. A partire dall’oscuro lavorìo che compiono i vermi e gli altri organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono la terra porosa, permeabile, suscettibile di ospitare e nutrire i germi della vita vegetale.

Le esigenze della società possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non può essere soddisfatta altrimenti. E bisogna sentire comunque questa scelta come una perdita, che è stato necessario subire ma che ci si deve proporre di risarcire, restituendo alla natura qualche altro frammento del pianeta che non è più necessario all’urbanizzazione.

Il territorio

Il territorio è qualcosa di più che la terra. Il territorio è il prodotto della storia (del lavoro e della cultura degli uomini) e della terra (della natura e del suo oscuro lavorìo). Le civiltà umane hanno aggiunto qualità alla natura: non sempre, e non tutte. A volte, per accrescere la qualità nuova, hanno distrutto qualità preesistenti. Non possiamo ricostruire quello che c’era e oggi non c’è più, ma possiamo imparare a comportarci in modo diverso da quei nostri avi che hanno distrutto invece di proseguire il lavoro dei loro predecessori.

Anche le qualità prodotte dalla storia dobbiamo conoscerle, amarle, rispettarle. Non solo ci rivelano spesso bellezza e saggezza, ma ci raccontano la storia, la nostra storia, la storia della civiltà che è parte di noi. Senza conoscenza della storia può esistere il presente, ma non può esistere un futuro migliore

Dobbiamo conoscere, amare e rispettare tutte le qualità presenti nel territorio. Nelle loro parti, e nel sistema che costituiscono nel loro insieme.

Sistema

Il territorio non è un semplice magazzino. Gli elementi che lo costituiscono hanno ordine tra loro, sono connessi in modo che una modifica in un punto, un’azione su uno di essi, modifica tutte gli altri.

Estrarre ghiaia e sabbia dall’alveo di un fiume riduce la quantità di materia inerte che arriva al mare, quindi comporta l’erosione dei litorali. Irrorare con prodotti velenosi un’area permeabile rende pericolosa l’acqua in tutta la regione alimentata dalla sottostante falda acquifera. Rendere artificiali le sponde di un tratto di fiume ne aumenta la velocità e la portata, e può provocare inondazioni e distruzioni a valle.

Non parliamo poi delle trasformazioni provocate dalla cattiva urbanistica. Aprire un supermercato alla periferia della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc; al tempo stesso, stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti. Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico.

La pianificazione

Se il territorio è un sistema, anche le azioni che lo trasformano devono essere viste in modo sistemico. L’uso del territorio e le sue trasformazioni devono essere governate nel loro insieme. Il metodo che è stato inventato quando si è compreso che il territorio doveva essere governato è la pianificazione (territoriale e urbana). Essa è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

I conflitti

Il territorio è un patrimonio; è un insieme di risorse; è un sistema. Esso è anche l’ambiente nel quale si svolge la vita dell’uomo. Man mano che l’umanità si è sviluppata (in tutti i sensi in cui questo termine può essere adoperato) è diventata sempre più ricca e complessa la rete delle relazioni che legano gli uomini tra loro, che costituiscono la società. Il territorio quindi non è più l’habitat del singolo uomo, ma è divenuto l’habitat della società.

Le trasformazioni indotte da ogni singolo uomo si sommano tra loro e modificano l’intero sistema. Le esigenze di ciascuno non possono essere soddisfatte se non affrontando (e soddisfacendo) le esigenze di tutti. Il territorio è un patrimonio che deve essere utilizzato nell’interesse di tutti.

Ma il territorio, e le risorse che in esso sono depositate, possono essere utilizzati in modi diversi, possono servire interessi diversi. Il territorio è perciò anche il luogo dei conflitti tra diversi gruppi sociali.

La pianificazione è anche il metodo (e il complesso di strumenti) attraverso i quali i conflitti vengono regolati. Di conseguenza la pianificazione non può essere governata da individui o gruppi che esprimano interessi di una parte sola della società: deve essere governate dalle istituzioni e dalle procedure mediante le quali si manifesta la sovranità della comunità nel suo insieme.

La pianificazione è insomma appannaggio esclusivo del potere pubblico.

Le regole

Poiché il territorio è soggetto alle azioni di una pluralità di attori, la pianificazione deve esprimersi mediante un insieme di regole, che costituiscono al tempo stesso i limiti e le opportunità per le azioni che ciascuno ha la capacità e il potere di esercitare.

Le regole devono valere per tutti: in tal senso devono essere eque. Ma esse non sono né oggettive né neutrali. Nella situazione presente (ma in qualche misura in tutte le situazioni) esse premiano alcuni interessi, ne penalizzano altri. È essenziale che sia chiaro a tutti (che sia trasparente) chi dalle regole della pianificazione urbanistica è premiato e chi è colpito.

Nella concreta situazione italiana il conflitto dominante è tra due gruppi di soggetti: (1) quelli interessati alla valorizzazione economica della propria proprietà, cioè quelli che utilizzano il territorio come una macchina per accrescere la loro ricchezza personale; (2) quelli interessati a veder soddisfatte le loro esigenze di cittadini: accesso a un’abitazione a prezzo ragionevole, disponibilità di spazi e servizi pubblici efficaci e comodi, assenza di rischi e di bruttezze, possibilità di godere delle diverse qualità del patrimonio comune.

In questa fase della vita pubblica italiana il primo gruppo di interessi è indubbiamente il più forte. È esso in particolare che domina il processo delle decisioni, che conosce gli strumenti mediante i quali si formano e trasformano le regole.

La prima funzione delle regole è quindi quella politica e didattica: prima di definire le regole tecniche occorre definire un gruppo di regole che costituiscono i principi che la collettività sceglie per governare il proprio territorio.

I principi

Per chiarire ciò che intendo potrà servire un esempio: l’enunciazione dei “principi” che apre le norme del Piano strutturale (”Statuto dei luoghi”) del comune di Sesto Fiorentino (FI). Si tratta di alcune affermazioni abbastanza semplici, che dovrebbero costituire la base delle specifiche regole del piano e dei conseguenti comportamenti.

Città, società, territorio

La città, il territorio dal quale è nata e di cui essa fa parte, gli uomini e la società che la costruiscono, la abitano e la utilizzano, fanno parte di un unico sistema.

La pianificazione è finalizzata a garantire un rapporto equilibrato tra comunità e territorio, nel rispetto dei principi enunciati nel presente Statuto dei luoghi e nei limiti dettati dalle leggi vigenti.

La tutela dell’ambiente

Si attribuisce priorità logica e culturale alla tutela dell’integrità fisica del territorio, intesa come preservazione da fenomeni di degrado e di alterazione irreversibile dei connotati materiali del sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera, considerati singolarmente e nel complesso, con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalle forme di insediamento dell’uomo.

In funzione di tale priorità il piano strutturale subordina le trasformazioni fisiche e funzionali del territorio a specifiche condizioni ed esplicita gli elementi da considerare per la valutazione degli effetti ambientali delle trasformazioni previste o prevedibili.

I luoghi e la loro identità

Si riconosce che i diversi luoghi che compongono il territorio comunale possiedono ciascuno una specifica identità, derivata dalla loro “biografia” ovverosia dal modo in cui, nel tempo, gli abitanti e il territorio hanno interagito.

Il piano strutturale individua come “Unità territoriali organiche” gli ambiti all’interno dei quali possa essere formata o promossa o tutelata la formazione di comunità stabilmente legate al territorio e dotate di sufficienti dotazioni elementari e, sulla base di questo principio, determina l’organizzazione del territorio.

Il piano strutturale inoltre promuove la preservazione delle testimonianze materiali della storia, e la conservazione delle caratteristiche, strutturali e formali, che ne siano espressioni significative.

Il territorio come patrimonio per domani

Si riconosce la necessità e la responsabilità, nei confronti delle generazioni future, di non disperdere la straordinaria ricchezza e bellezza del territorio comunale così come ci sono state tramandate attraverso il secolare lavoro della natura e dell’uomo.

Il piano strutturale è volto prioritariamente, pertanto, al recupero e alla valorizzazione dell’esistente e, in armonia con i principi sanciti dalla legge urbanistica regionale, considera prioritariamente il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti rispetto ad ogni ulteriore consumo di suolo.

La città e il territorio più vasto

Si riconosce l’appartenenza di Sesto Fiorentino ad un territorio più ampio di quello comunale e coincidente, a seconda degli aspetti considerati, con l’area della Piana, l’area metropolitana, la provincia, il bacino idrografico e la regione.

Sulla base di questo principio e del principio di sussidiarietà, il piano strutturale stabilisce, in accordo con le previsioni degli altri enti territoriali, la localizzazione e le forme d’uso degli elementi di rilevanza sovracomunale.

La città come casa della società

Si riconosce la città come luogo di massima espressione della vita civile e della vita politica nel quale la convivenza sociale facilita l’esercizio attivo dei diritti individuali.

Il presente piano è volto pertanto a favorire la convivenza sociale attraverso:

- un sistema di regole di uso del territorio che garantiscano la massima diffusione dei diritti primari di cittadinanza quali la salute, la mobilità, la libertà di cultura e di istruzione pubblica, la casa, la sicurezza sociale;

- una specifica attenzione agli spazi pubblici affinché siano resi attrattivi, sicuri e utilizzabili da tutti, con particolare attenzione per i cittadini più deboli come i bambini, gli anziani, i portatori d’handicap;

- la definizione di un assetto della mobilità che temperi l’esigenza di spostarsi con quella di garantire la salute e la sicurezza dei cittadini.

In particolare, il piano strutturale si pone l’obbiettivo specifico di formare un “sistema delle qualità”, organizzando la città e il territorio a partire dal pubblico e dal pedonale, in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, i luoghi dedicati alla ricreazione e quelli finalizzati al consumo comune (dell’istruzione, della cultura, dell’incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell’amministrazione e della giustizia e così via).

La città come costruzione collettiva

Si riconosce la necessità che i vantaggi derivanti ai singoli cittadini dalle trasformazioni urbanistiche siano temperati a favore della qualificazione complessiva della città (prevedendo la cessione di aree per le attrezzature o realizzandone alcune, compensando gli effetti sull’ambiente, e così via).

Il presente piano pertanto stabilisce quali prestazioni debbano essere richieste, nel complesso, alle trasformazioni urbanistiche, demandando agli strumenti attuativi il compito di definire nel dettaglio le modalità attraverso le quali garantirne il raggiungimento e i rapporti fra pubblico e privato.

Lo strumento della pianificazione

Si riconosce l’istituto della pianificazione come lo strumento necessario per garantire la coerenza, nello spazio e nel tempo, dell’insieme delle trasformazioni del territorio, assicurando la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte e la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Naturalmente non basta che i principi siano scritti nelle norme: occorre che essi siano posti preliminarmente in discussione, che arrivino a tutti gli abitanti, che costituiscano l’oggetto di molte riunioni nel corso dei quali si illustri, si articoli, si modifichino le formulazioni. Bisogna che questa discussione sia accompagnata dall’illustrazione e il dibattito sul territorio: sulle sue caratteristiche, rischi, problemi, regole che esso stesso pone alle trasformazioni. E bisogna che la fedeltà a questi principi sia il parametro sulla cui base i cittadini verificheranno e valuteranno le scelte degli amministratori.

Uno scoglio: la rendita

Perché, se si vuole che il territorio sia amministrato con saggezza e lungimiranza, sono così importanti le regole? E perché l’urbanistica non può non essere “regolativa” e “autoritativa”? La risposta è semplice: regole forti sono l’unico strumento disponibile per cercar di contenere gli effetti della proprietà privata dei suoli e, nell’ambito del sistema economico sociale italiano, dell’appropriazione privata delle rendite urbane.

Per poter governare efficacemente il territorio la collettività deve avere la piena disponibilità del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà: quindi, avere regole forti adoperate da un potere pubblico autorevole e determinato.

Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deve essere consapevole che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, di per sé non appartiene al proprietario ma alla collettività.

Questa premessa era molto viva, qualche decennio fa, nella consapevolezza della cultura e della politica dei veri liberali e della sinistra. Ora sembra scomparsa: la rendita, anziché una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.

Chiarissima è la strategia di cui il “piano casa” di Berlusconi è un tassello. Il territorio viene trasformato da due tipi di interventi: le grandi opere (autostrade e aeroporti, ferrovie, “nuove città”, complessi commerciali, stadi ecc.) e gli interventi di riorganizzazione e completamento delle aree urbane. In ogni paese moderno la coerenza dell’insieme di queste trasformazioni è affidato alla pianificazione urbana e territoriale. Anche in Italia è stato così, a partire dalla legge del 1942. La pianificazione si è via via evoluta, dando spazio (in Italia a partire dal 1985, legge Galasso) alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, e ampliando (sebbene ancora in misura del tutto insufficiente) la possibilità dei cittadini e delle associazioni di intervenire sulle decisioni.

A un certo punto tutto questo è cambiato. Si è iniziato con le grandi opere: quelle sottratte alla pianificazione sono diventate sempre di più. Si è proseguito con i grandi complessi: a Venezia, in questi giorni, due nuove “città” volute dai poteri forti per valorizzare terreni sulla Riviera del Brenta e sul bordo della Laguna ricevono dai piani una mera ratifica. Ora il quadro si completa sottraendo alla pianificazione, quindi al controllo pubblico preventivo, anche le operazioni mediante le quali le città si trasformano: lasciate all’interesse individuale esse diventeranno più mattoni e cemento, e meno verde, piazze, servizi per tutti.

La forte componente demagogica di B. accresce il rischio di questa strategia, che proseguirà finché non si leverà dalla società un BASTA forte, argomentato, radicato in mille lotte e in una matura consapevolezza dei rischi e, soprattutto, delle possibilità alternative.

Scatenare gli “spiriti animali” della speculazione edilizia più forsennata e rozza per dare uno choc all’economia, un colpo alla burocrazia e un volano enorme all’edilizia: questo, secondo le sue parole, il progetto di politica urbanistica dell’uomo che gli italiani, aiutati da una legge elettorale balorda, hanno scelto per governare. Si potranno aumentare del 20% le cubature di tutti gli edifici residenziali esistenti e della stessa quantità le aree coperte dagli edifici ad altra destinazione. Si potranno demolire e ricostruire, con il 30% in più, gli edifici costruiti prima del 1989. Tutto questo in deroga ai piani regolatori e ai pareri degli uffici: basta la certificazione di un tecnico.

Siamo alla follia. Si cancellano non pochi decenni, ma alcuni secoli di tentativi di regolare un mercato (quello dell’utilizzazione del suolo a fini urbani) che, lasciato alla spontaneità, stava distruggendo le città e rendendone invivibili le condizioni per gli abitanti e le attività. La regolamentazione del territorio nell’interesse collettivo non nasce nei paesi del socialismo reale, e neppure in quelli del welfare state, ma agli albori del XIX secolo nei paesi del capitalismo maturo. Arrivò più tardi nei paesi in cui le debolezza dell’imprenditoria moderna lasciava ampio spazio alla rendita, come l’Italia. Qui la regolamentazione urbanistica venne introdotta, nell’epoca fascista, dopo un conflitto che vide, all’interno di quel mondo, la vittoria delle forze del profitto su quelle della rendita: fu nel 1942, quando la legge del fascista Gorla fu approvata contro le resistenze dei difensori del privilegio indiscriminato della proprietà privata.

Aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) significa compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. Significa privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra. Non dimentichiamo che scatenare l’attività edilizia indiscriminata provocherà la distruzione di paesaggi, di beni artistici e culturali, di testimonianze storiche e di bellezza: insomma, di tutte le componenti del patrimonio comune, già così debolmente tutelati nel nostro paese. Non è un caso che uno dei presidenti regionali che darà il via al provvedimento è quel Cappellacci, viceré della Sardegna in nome di Berlusconi, cui lo champagne di festeggiamento del trionfo elettorale fu offerto da quel tale che aspetta di costruire 300mila mc sulla necropoli punica di Tuvixeddu-Tuvumannu.

E riflettiamo sul fatto che affidare le decisioni delle demolizioni e ricostruzioni e degli ampliamenti edilizi al parere tecnico di professionisti pagati dagli stessi operatori immobiliari interessati significa sottrarre ogni decisione non a una parassitaria burocrazia, ma ai pareri di qualificati funzionari pubblici e alla possibilità dei cittadini di concorrere, mediante le procedure della pianificazione urbanistica e l’intervento diretto di partecipazione, alle scelte di trasformazione dei territori sui quali vivono. Da quale palazzo o palazzetto della politica nascerà il segnale di una protesta che fermi la marcia verso la devastazione?

Da il manifesto, 2 dicembre 2008.

Cit. in G. Zagrebelsky, "Le parole della democrazia", la Repubblica, 23 aprile 2009

il manifesto, 25 aprile 2009


LA QUALITÀ DELLA CITTÀ PUBBLICA

Ringrazio molto Concetta Fallanca e Flavia Martinelli, che mi hanno invitato a questo incontro. E ringrazio Enrico Costa per le sue parole.

Sono particolarmente contento quando riesco a venire qui, nel Mezzogiorno. Anch’io sono di questa parti, sono napoletano anche se da molti anni vivo altrove. Delle molte patrie che ciascuno di noi ha, mi sento ancora molto legato alla mia patria meridionale. Ma rifuggirò di parlare in dialetto, di rivestire le mie considerazioni con un’ottica meridionale. Credo che uno degli sforzi che dobbiamo fare, in queste regioni “basse” della penisola, è quello di pensare fuori dai nostri luoghi, per poter connettere i nostri luoghi al resto del mondo. Guai a isolarci, a chiuderci nella nostra “specificità”, nel nostro idioma.

Il mio intervento, che temo non sarà breve, sarà costituito da una premessa, da due tempi d’una storia e da una conclusione.

LA PREMESSA.

Vorrei partire da una frase molto bella di Francesco Indovina. In un recente incontro pubblico (il testo è in eddyburg) ha detto: “La città è bella perché è buona”. Questa frase è la sintesi di un pensiero che voglio rapidamente sviluppare.

“La città è bella perché è buona”

La qualità di una città (sorvolo per un momento sul termine “pubblica”) sta nel fatto che essa è in primo luogo una città giusta, appropriata, buona, in rapporto a tre elementi: il luogo, il governo, la società (Indovina dice “i cittadini”).

La qualità del luogo è data dalla collaborazione della natura e della storia. Essa deve in primo luogo essere compresa, negli elementi che la caratterizzano e la rfendono meritevole d’essere conservata. Nostro compito deve essere quella di custodirla, mantenerla, se necessario restaurarla, se possibile migliorarla. E’ il prodotto dei nostri avi, dobbiamo lasciarla più ricca ai nostri posteri. “La bontà – per tornare alle parole di Indovina - è la buona cura dei luoghi, loro arricchimento, l’attenzione alla trasformazione

La qualità del governo, la bontà del governo, è racchiusa in alcune parole: il primato del’interesse generale, la capacità di ascolto, l’attenzione al conflitto non considerato come un fastidio, l’equità, la solidarietà, l’accoglienza, “la dilatazione dei servizi collettivi quali strumenti per rendere operativi i diritti di cittadinanza (senza i servizi sono parole vuote)”, la capacità di disegnare un futuro. Per il governo buono “il problema è la povertà non i poveri; è la clandestinità non i clandestini; è la prevenzione non la repressione; sono problema i motivi di disagio, non i giovani. La bontà di un governo si misura dal rifiuto di vivere alla giornata, e dalla capacità di coniugare intervento immediato e prospettiva futura”.

Se parliamo di qualità della società, dobbiamo innanzitutto ricordare che “i cittadini hanno il governo che si meritano ma anche i governi hanno i cittadini che si meritano”. Così, ad esempio, se chi governa non raccoglie i rifiuti in modi ragionevoli ed efficaci non può pretendere che non vengano essi vengano gettati per strada.

Città pubblica

Qualità della città pubblica. Ragioniamo su questo attributo: "pubblica". Per me questo attributo significa due cose.

Significa che la città è, nel suo insieme, un bene comune. Quindi è necessaria una regìa pubblica, un governo pubblico per la costruzione, la trasformazione, il controllo del suo insieme. E’, se volete, il principio dal quale nasce – come componente tecnica – la pianificazione: il sistema di regole nell’a,mbito delle quali ciascun operatore svolge la sua azione.

E significa che nella città hanno un peso determinante gli spazi pubblici. Nella mia interpretazione della città gli spazi pubblici hanno un peso rilevantissimo, per una molteplicità di ragioni:

1. perché la città nella storia si forma, si organizza, acquista la propria identità e sviluppa la propria forza negli spazi pubblici;

2. perché negli spazi pubblici si manifesta pienamente, si realizza quel trascendimento dall’individuale al sociale, dal privato al pubblico, dall’intimo all’aperto, dal singolare al collettivo nel quale si realizza la società;

3. perché gli spazi pubblici costituiscono il luogo nel quale può manifestarsi la politica, cioè l’intervento del cittadino – meglio, dell’abitante – nel governo della città.

IL PRIMO TEMPO DELLA MIA STORIA

Non vi spaventate. Non vi porto troppo lontano, troppo indietro nel tempo. Solo al decennio che vide nascere, in Italia, lo strumento di misura degli standard urbanistici e lo slogan del diritto alla città.

Le trasformazioni del dopoguerra

E’ una storia che inizia, in Italia, alla fine degli anni 50, per una serie di eventi di diverso ordine:

1. la trasformazione economica: l’attività produttiva prevalente, che fino ad allora era l’agricoltura, diventa l’industria;

2. la trasformazione territoriale: avviene in pochi lustri una gigantesca migrazione - qualcuno l’ha definita “biblica” - dal sud al nord, dalle campagne alle città, dalle zone interne ai fondovalle e alle coste;

3. la trasformazione sociale: l’elemento più emblematico e significativo è l’ingresso delle donne entrano nel mercato del lavoro, cioè nel lavoro extracasalingo;

4. la trasformazione culturale: la sprovincializzazione della cultura italiana, e in particolare l’affermazione di una cultura urbanistica e d’una cultura economica moderne: il tema della riforma urbanistica e della programmazione economica

Alcune date

Ricordiamo alcune date significative:

1959, il Codice dell’urbanistica dell’INU;

1962, la Nota aggiuntiva al bilancio di Ugo La Malfa, individua negli squilibri territoriali una delle cause significative delle difficoltà del paese e afferma la necessità della programmazione economica;

1962, vede la luce la legge 167/1962, che permette di espropriare consistenti quantità di aree per realizzare interventi organici di edilizia abitativa integrata con servizi differenti tipologie abitative e di gestione;

1963, una violenta campagna di stampa induce la DC ad abbandonare il tentativo di riforma urbanistica, basato sull’esproprio generalizzato delle aree d’espansione e di ristrutturazione presentato dal ministro democristiano Fiorentino Sullo;

1963, un organismo di massa, l’UDI (Unione donne italiane), apre una grande campagna per una legge d’iniziativa popolare (vengono raccolte oltre 50mila firme) e affronta il tema dei servizi collettivi nella città e nei piani regolatori. Al convegno di lancio politico dell’iniziativa tre delle quattro relazioni generali sono svolte da tre urbanisti: Giovanni Astengo, Alberto Todros, Edoardo Detti;

1966, crolli ad Agrigento, alluvioni a Firenze e Venezia, rivelano i danni dell’assenza della pianificazione; si apre un grande dibattito nel Parlamento e nel paese;

1967, il Parlameno approva la “legge-ponte” urbanistica, che generalizza la pianificazione comunale, disciplina le lottizzazioni urbanistiche e introduce gli standard urbanistici;

1968, viene emanato il decreto legge che stabilisce gli standard urbanistici: il diritto per ogni abitante, esistente o futuro, di disporre di eterminate quantità di spazi pubblici, da prevedere e vncolare nei piani urbanistici;

1968, le sentenze n. 55 e n. 56 della Corte costituzionale che invalidano alcuni articoli della legge 1150/1942 e indicano al legislatore la strada possibile, e costituzionalmente corretta, d’una riforma del regime degli immobili;

1969, nel marzo la Fiat rende noto che assumerà 15mila operai nel Mezzogiorno, altrettante famiglie (circa 60mila persone) si trasferiranno a Torino aggravando la congestione:prezzi delle case, servizi, traffico; inizia una vertenza sindacale che, incrociandosi con le lotte studentesche, porterà dopo pochi mesi:

1969, 19 novembre, al grande sciopero generale nazionale per la casa, i servizi, i trasporti la pianificazione, il Mezzogiorno

Due processi paralleli

Da questo momento in Italia si svolgono due processi paralleli.

Da un lato, una forte e continua iniziativa dei sindacati dei lavoratori e dei partiti di sinistra per ottenere dal Governo e dal Parlamento leggi efficaci. “Nella battaglia per la riforma urbanistica il detonatore è la casa", scrive il responsabile del PCI per l’urbanistica, Alarico Carrassi. L’iniziativa conduce alla legge per la casa nel 1971 e si sviluppa poi fino alla legge Bucalossi che prevede, tra l’altro, il finanziamento degli standard urbanistici (1977), e alle leggi per il recupero abitativo (1978) e per l’equo canone per le locazioni nel mercato privato (1979).

Ha scritto uno storico: “Negli anni 1969-1971 le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano diventate più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centro-sinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio” (P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, p.445)

Vengono lanciate e raccolte parole d’ordine forti, capaci di mobilitare: “la casa come servizio sociale”, “diritto alla città”.

Dall’altro lato, si manifesta una forte reazione delle componenti più regressive dello schieramento conservatore: la strategia della tensione si esprime con le bombe di Brescia (Banca dell’agricoltura) e di Roma (BNL), con il tentativo di colpo di stato di Valerio Borghese, con l’azione dei servizi segreti e con le ricorrenti crisi di governo ad ogni minaccia di nuova iniziativa dei sindacati.

Risultati e insegnamenti

Riflettiamo sui risultati e sugli insegnamenti di questo periodo.

Sul piano legislativo e normativo segnalerei due grandi successi:

- l’affermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);

- l’apprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella edilizia sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dell’intervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero dell’edilizia esistente e degradata (1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).

Mi interessa, soprattutto in questa sede, sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale. Ciò ha dato alle masse (donne 1963, operai 1969) le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo. Due le condizioni che lo hanno consentito:

1. la capacità degli intellettuali di piegarsi ad ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e quella di trovare le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;

2. la capacità della società di costruire gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni

Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: l’applicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte degli urbanisti e delle istituzioni, che per esempio hanno applicagli standard urbanistici e la zonizzazione finalizzata al loro calcolo come criterio di progettazione qualitativa della città, anziché come mero strumento di verifica del rispetto quantitativo. Sia da parte della politica e della società, dove dobbiamo registrare la graduale perdita nella politica della capacità di azione riformatrice (non “riformista”) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi dell’uomo nell’individualismo, nell’intimismo, nel privato.

Il ragionamento dovrebbe allargarsi molto a quanto succedeva nel resto del mondo, al montare e all’espandersi delle pratiche neoliberali e neoliberiste, alla pervasività dell’azione di trasformazione del capitalismo iniziata con la dottrina Truman (1947) e sviluppatasi con il quartetto Tatcher, Reagan, Deng Xiaoping, Pinochet (primi anni 70). quell’insieme di ideologie e di pratiche che ebbe, come suo principale agente per l’Italia, Bettino Craxi. Così però passiamo alla seconda parte della mia storia

SECONDA PARTE DELLA MIA STORIA

Parliamo dei nostri anni, di questa fase della nostra storia nella quale siamo ancora immersi.

Tutto è cambiato

La prima sensazione è questa: quanto siamo lontani dalla fase che ho finora ricordato. Così lontani che appare spesso sterile ricordarla, si rischia di cadere nella pericolosissima sindrome della nostalgia, di un rimpianto paralizzante perché ricorda scenari non ricostruibili, perduti per sempre.

Tutto è davvero cambiato. Allora per prima cosa è necessario comprendere dove ci troviamo: costruire una carta geografica del mondo e della città di oggi. Se non lo facciamo, se non dedichiamo all’analisi l’attenzione e il tempo necessari, ci riduciamo a inconsapevoli servi di forze e interessi che ci sovrastano. Il secondo passo sarà comprendere che cosa fare per cambiare un mondo e una città che non ci piacciono – se alla fine della nostra esplorazione riterremo che non ci piacciono: comprendere che cosa fare per conferire ad essi qualità, paer fare il nostro mestiere di urbanisti – se riterremo che il mondo e la città stiano drammaticamente perdendo qualità.

L’uomo e la società

I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: per denunciare una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.

A me sembra che l’aspetto centrale sia quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”: la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.

Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.

Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, appiattita sul breve periodo, priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.

Il mondo e la città

Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.

Si è diffuso ed è diventato egemone un “pensiero unico”, per il quale gli unici “valori” sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla civiltà “occidentale”, o “atlantica”. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anch’esse forse portatrici di verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dell’umanità si potrebbe assumere.

Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese. Inutile ricordare qui i suoi effetti sull’ambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta.

Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dal quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).

Le politiche urbane del neoliberalismo

Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne sono una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.

Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune, nella città e nel territorio, che può dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.

Il modello della città del neoliberalismo

È descritto con efficacia da Jean-François Tribillon in uno scritto ripreso su eddyburg: “Lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …), scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana. I gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento / oppressione di cui sono oggetto. Lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice” (la “infrastruttura globale” descritta da Saskia Sassen).

Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli. Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.

L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione. La distribuzione dell’informazione è organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.

Nasce una controegemonia?

In tutt’Europa nascono movimenti di protesta: spesso deboli, frammentari, episodici, qualche volta collegati in reti più ampie, anche internazionali. Si tratta di proteste che riguardano prevalentemente due temi:

(1) la difesa dagli sfratti, dall’espulsione dalle case e dai quartieri sottoposti a processi di rigenerazione e riqualificazione che spostano gli abitanti originari nelle più lontane periferie;

(2) la difesa di spazi pubblici (piazze, parchi, edifici pubblici) sottratti all’uso collettivo dall’edificazione o dalla privatizzazione.

Sono proteste che cominciano ad emergere nei forum sociali nei quali si esprimono le forze, culturali e sociali, che non credono che la globalizzazione del neoliberalismo porti benessere e felicità a tutti, e cercano altre vie per affermare i diritti dell’umanità.

Il “diritto alla città”

Tra questi diritti riemerge un diritto antico, evocato alla fine degli anni 60 del secolo scorso da Henri Lefebvre, ripreso da David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole d’ordine dei movimenti e nel lavoro dei ricercatori: il diritto alla città. Un diritto che spetta agli uomini e alle donne non in quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto membri della società: in quanto cittadini o in quanto abitanti ancora privi del diritto di cittadinanza.

E’ un diritto che si concreta in due aspetti principali, dai quali tutti gli altri derivano:

1) Il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi);

2) Il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

La tesi che abbiamo discusso e approvato al Forum sociale europeo del 2008 è che la risposta positiva all’esigenza di diritto alla città è costituita dalla capacità di realizzare nel concreto quel modello di habitat dell’uomo che abbiamo definito “la città come bene comune”. Ma di questo, magari, parleremo in un’altra occasione.

CHE FARE, DA DOVE PARTIRE

Come cittadini

Ricordiamo innanzitutto che, prima di essere urbanisti, siamo cittadini. Naturalmente come cittadino non posso dare consigli, posso solo esporre il mio pensiero. Io penso che in questo momento non si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.

Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra

- i partiti che esprimono con pienezza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,

- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo,

- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.

Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.

In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date: Essi crescono mese per mese e, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano di una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose. Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società sia rappresentata dall’onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti.

L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti

Come esperti e come urbanisti

Ma non siamo solo cittadini. Siamo intellettuali, depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città “bella perché buona”, nel senso che ho indicato all’inizio. E a quelle esigenze dobbiamo e saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni 60

Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole d’ordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in che modo le pratiche correnti della “urbanistica reale” rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in particolare delle componenti più deboli.

Poche settimane fa abbiamo organizzato a Venezia, in collaborazione con la Rete delle Camere del lavoro della CGIL, un convegno proprio sui temi che stiamo discutendo qui. Molte esperienze sono state illustrate del modo in cui le organizzazioni territoriali del sindacato si adoperavano per far comprendere agli abitanti quali erano le cause del disagio urbano, e quali i modi per combatterle. Mi meraviglia il fatto che oggi, chi ha studiato per conoscere queste cose, e le insegna ai propri studenti, non riesce a trovare i canali e le parole per spiegarle ai cittadini.

La questione degli spazi pubblici

Mi sembra che, tra le diverse componenti componenti della città pubblica, quella che offrr, più delle altre, un terreno privilegiato, di critica e di proposta, è la questione delle attrezzature, degli spazi pubblici. E’ un terreno progettuale con ampie possibilità, anche in relazione alla nostra professionalità. Vorrei suggerirvene tre, anche sulla base delle esperienze che ho svolto o sto svolgendo.

Un primo argomento è quello che definisco la costruzione del “sistema delle qualità”: Si tratta di non vedere gli spazi pubblici come degli immobili (aree ed edifici) separati, ma di costruire una rete di percorsi protetti, piacevoli e sicuri per chi va a piedi o spinge la carrozzella, che colleghino tra loro, collochino in un’unica rete, tutti i luoghi utili e belli: le scuole e il verde, il mercato e l’ambulatorio, il giardino e l’edificio storico, la sponda del fiume e la piazza, il luogo di culto e il teatro e così via. Si tratta di costruire l’alternativa alla città formata dalle abitazioni e dalle automobili. E si tratta di un disegno, di un sistema, che può proiettarsi all’esterno della città, toccare i luoghi belli delle campagne e delle colline, le spiagge e i boschi.

Un secondo tema, a proposito del quale ci sono esperienze significative anche in Italia, è quello del recupero alla convivialità e alla socievolezza, di luoghi adibiti a depositi di automobili, o comunque malamente utilizzati. Un’esperienza significativa è stata compiuta nella piccola città di Arenzano, in Liguria. Ne trovate qualche elemento in eddyburg, così come vi trovate un riferimento al progetto Urban a Cosenza: un’esperienza interessante, giunta a buon fine e poi, malauguratamente, abbandonata.

Un terzo tema, utile anche per promuovere, assistere e cercare ddi mettere in rete le proteste dei cittadini, è quello della difesa di spazi pubblici minacciati dalla privatizzaazione o dalla utilizzazione a fini di speculazione. Stiamo progettando, come eddyburg ma con un progetto di costituzione di una iniziativa nazionale ed europea, una “mappa degli spazi pubblici, e/o dei beni comuni: sia per raccogliere e diffondere la conoscenza di ciò che già c’è, o puà esserci, sul territorio, sia per mobilitare i gli abitanti alla difesa e al miglioramento di ciò che c’è.

La prossima sessione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg (che svolgeremo a settembre probabilmente ad Alghero) sarà dedicata a questo insieme di temi. Ci proponiamo di lanciare, nell’occasione, la proposta di “nuovi standard urbanistici”. Vorremmo proporre di ampliare la gamma degli standard, in tre direzioni: allargare l’attenzione agli standard territoriali (oggi riguardano sostanzialmente i servizi di vicinato), prendere in considerazione nuove esigenze (la balneazione, il fine settimana, il bisogno di aria pulita nella campagna ecc.), inserire nel ragionamento degli standard anche beni che meritano di essere aperti alla fruizione comune e aperta in ragione della loro bellezza, del loro interesse stirucoi, della loro qualità ambientale.

Quattro nodi

Non posso trascurare, prima di concludere questa relazione, quattro temi che sono i veri nodi della pratica professionale e del governo delle trasformazioni territoriali in questi anni in Italia. Sono riassunti in quattro parole: rendita, edificabilità, perequazione, partecipazione.

Rendita

Secondo l’economia classica la rendita è la componente parassitaria del reddito. Infatti, a differenza delle altre forme di reddito (il salario, che remunera il lavoro, il profitto, che è il risultato dell’attività di gestione della produzione) la rendita corrisponde unicamente alla proprietà di un bene che è desiderato da altri soggetti. Essa non svolge nessuna funzione sociale, neppure nellaa logica derl sistema capitalistico.

I maestri dell’urbanistica ci hanno insegnato che l’appropriazione privata della rendita urbana (la proprietà privata dei suoli urbani) è la causa maggiore di tutti i disagi che nascono nella città, all’indomani del trionfo della rivoluzione capitalistico-borghese. La consapevolezza di ciò era presente, negli anni ai quali mi sono riferito nella prima parte della mia storia, alle forze politiche e culturali progressiste, e perfino, in alcuni momenti, agli stessi esponenti del capitalismo italiano (ricordo parole molto chiare dei fratelli Gianni e Umberto Agnelli all’inizio degli anni 70).

Oggi le cose sono profondamente e drammaticamente cambiare anche su questo argomento centrale per il destino della città e per il benessere dei suoi abitanti. Oggi la rendita urbana, e il suo continuo accrescimento sono considerati addirittura il motore dello sviluppo. Non c’è sindaco, non c’è amministratore, non c’è politico (salvo rare eccezioni) che non attribuisca virtù positive all’incremento delle aree urbanizzate – e quindi all’incremento della rendita fondiaria. Le operazioni di trasformazione urbana sono guidate dalle volontà di aumentare il valore immobiliare delle aree investite, non dal benessere degli abitanti. Anzi, questi vengono espulsi per facilitare la valorizzazione immobiliare. Finché questo nodo non verrà sciolto non ci sarà futuro positivo per le città e i suoi cittadini.

Edificabilità

Da che cosa deriva l’edificabilità di un suolo? Per un urbanista la risposta è ovvia. Se non ci fosse stato un processo storico sociale che ha con dotto alla costruzione delle città esistenti, se gli investimenti pubblici non avessero realizzato le urbanizzazioni primarie e secondarie, se la decisione pubblica del piano urbanistico non avesse definito l’utilizzazione edilizia dell’area, nessun suolo sarebbe stato edificabile per funzioni urbane.

La lotta per ottenere il riconoscimento giuridico di questa verità oggettiva ha conosciuto fassi diverse, ma quel principio oggi, nel nostro paese, non è stato ancora pienamente codificato sul piano normativo. Ciò ha indotto qualche urbanista a teorizzare (e a praticare) la tesi secondoi la quale esiste un “dirittoo edificatorio” attribuito dal piano urbanistico: un “diritto” che una successiva decisione (un successivo piano) non può modificare, se non compensando adeguatamente il proprietario interessato. Sulla base di questo “diritto” si sono rese edificabili, nel PRG di Roma, aree vastissime, ancora oggi in edificate, che non esiste alcun motivo oggettivo per rendere edificabili.

Eppure, come ho dimostrato tutta la giurisprudenza è costante nel dichiarare che qualsiasi decisione urbanistica relativa all’edificabilità può essere modificata, riducendo o eliminando l’edificabilità, nel rispetto di due sole condizioni: che la decisione sia motivata da ragioni d’interesse pubblico, e che le spese legittimamente e documentatamente sostenute dai proprietari a causa di precedenti decisioni (per esempio, nel caso di lottizzazioni convenzionate già in parte urbanizzate a opera dei proprietari) debbano venir rimborsate.

Perequazione

C’era già con la disciplina dei piani di lottizzazione vigente dal 1967. Nella pratica si è estesa a tutti gli strumenti di pianificazione attuativa, come ripartizione degli oneri e vantaggi nell’attuazione del piano. Oggi si tende a trasformarle in una spalmatura dell’edificabilità su tutto il territorio. In questi termini è secondo me un’operazione perversa, che tende a rafforzare la convinzione che l’edificabilità sia un “diritto” di tutto il territorio (di tutte le proprietà), e tende ad aumentare il consumo di suolo.

È diventata, da strumento attuativo e limitato alle aree di trasformazione urbanistica, criterio generale da adottare per accrescere la rendita immobiliare, il vero “motore dello sviluppo”: di uno sviluppo perverso, che ha perso ogni contatto con i reali bisogni degli uomini.

Partecipazione

Dopo essermi soffermato sui nodi che strangolano la possibilità di accrescere davvero gli standard qualitativi del nostro territorio, vorrei accennare a una questione che può rappresentare un antidoto alle cattive pratichedi governo del territorio che le precedenti tre parole (rendita, edificabilità e perequazione) hanno evocato. La quarta parola è “partecipazione”. La speranza sta infatti nella capacità e volontà dei cittadini a intervenire nei conflitti del governo della città, esprimendo con forza e convinzione la volontà che le trasformazioni siano guidate dall’interesse collettivo, dall’esigenza degli abitanti di avere un ambiente urbano adeguato, fruibile da tutti.

Gli strumenti formali della partecipazione sono debolissimi. Nella legislazione urbanistica c’è solo l’istituto delle “osservazioni “ ai piani. A proposito, trovo aberrante che nella legge urbanistica calabrese l’istituto delle osservazioni venga ridotto, sicché vi abbiano diritto solo le persone che sono colpite direttamente dalle scelte dei piani. Se il mio terreno ha una destinazione che non mi fa guadagnare abbastanza, se una strada minaccia la mia proprietà, posso criticare e proporre un’alternativa. Se il piano riduce il verde pubblico, minaccia l’aria che respiro, mi rende disagevole raggiungere la scuola o il mercato, sottrae ingiustificatamente aree agricole, lascia costruire dove il terreno è permeabile e inquina la falda agricola, allora non posso criticare e proporre.

E’ una decisione aberrante, e mi meraviglio fortemente che nessuno abbia protestato. Come nessuno ha protestato perché in tutte le fasi della formazione dei piani sono fortemente presenti gli interessi economici (naturalmente prevarranno quelli della grande proprietà immobiliare) e sono praticamente assenti i cittadini.

Oggi ci sono in Italia varie esperienze di introdurre ben più largamente la partecipazione. Ma molto spesso ci troviamo davanti a pratiche orientate più a catturare il consenso su scelte preconfezionate, che ad attivare effettivamente pratiche di “governo dal basso”, di partecipazione effettiva dei cittadini alle scelte. Devo dire che credo oggi molto di più alla partecipazione che si esprime in iniziative spontanee degli abitanti che di quello "guidata dall’alto”. Ma esistono esempi significativi anche di partecipazione “top-down”. Il caso, certo rarissimo se non unico, del comune di Cassinetta di Lugagnano, ai margini dell’area milanese, dove un sindaco coraggioso è riuscito ad adottare un piano “a crescita zero” con il consenso di tutti i cittadini. Lo ha fatto intrecciando strettamente la discussione sul piano regolatore con quella del bilancio comunale, adoperando la partecipazione come strumento di appropriazione dei cittadino informati delle decisioni sul futuro del loro paese.

Una domanda finale

Altre parole mi vengono in mente sulle quali bisognerebbe ragionare. Tutte suscettibili di significati diversi, anche alternativi. Penso a parole come vivibilità, sostenibilità, qualificazione, rigenerazione, qualità: parole sulle quali abbiamo ragionato in particolare nell’ultima edizione della Scuola di eddyburg, scoprendo le mistificazioni e l’attivazione di azioni e poteri che da esse possono scaturire.

Io credo che, per interpretare correttamente quelle e altre parole occorra porsi ogni volta una domanda finale, a proposito di ogni pratica urbana nella quale siamo coinvolti – come attori, o come semplici osservatori critici.Chi ci guadagna e chi paga? Nell’immediato e in prospettiva, al di là della parola impiegata per raccontarla. Credo che sia un interrogativo essenziale per chi si occupa del governo del territorio

Grazie ancora a tutte e a tutti.

LA CITTÀ COME BENE COMUNE

Tre parole

In Europa cresce il movimento che rivendica la città come bene comune. Che cosa significa questa espressione? Interroghiamoci sulle tre parole che la compongono

Città

Nell’esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città à la casa di una comunità.

Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.

Bene

La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.

Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.

Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.

Comune

Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.

Nell’esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo, e anche membro dell’umanità: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia storia.

Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze è perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.

LA DIMENSIONE PUBBLICA NELLA CITTÀ EUROPEA

Nella storia

Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.

Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.

Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del sistema di piazze) cittadine.

Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.

Gli spazi comuni nel welfare state

Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. A differenza delle fabbriche (che nella società capitalistica diventano i luoghi della socializzazione dei lavoratori) gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti i cittadini possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E sono il luogo dell’incontro con lo straniero.

Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si estende a tutta la città. Il governo della città non è più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci, nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso.

L’emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. In Italia è negli anno 60 del secolo scorso che, parallelamente al superamento al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell’ufficio, nasce una forte e vittoriosa tensione per ottenere, nei piani attraverso cui si organizza la città, spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini

Non solo gli spazi pubblici, anche la residenza: la casa come servizio sociale

Nella città moderna anche l’abitazione diventa un problema che non può essere abbandonata alle soluzioni individuali. C’è (c’è sempre stata) l’esigenza di assicurare all’insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso da un’accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia.

Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e servizi. L’aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita) va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni.

Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan “la casa come servizio sociale”. Con questa parola d’ordine non si chiede che l’abitazione venga offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

LA CITTÀ COME BENE COMUNE

NELLA FASE ATTUALE DEL CAPITALISMO

Il primato dell’individuo sulla società

Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Si discute sulle cause del cambiamento. Ci si domanda perché hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità, che hanno schiacciato luomo sulla sua dimensione economica (di strumento della produzione di merci), che hanno reso la politica serva dell’economia.

Le due componenti dell’uomo che ne caratterizzano l’individualità (quella privata, intima, e quella sociale, pubblica) avevano forse trovato un equilibrio, che si rifletteva nell’organizzazione della città: la vita si svolgeva nell’abitazione e nella piazza, nello spazio privato e in quello pubblico, senza barriere tra l’uno e l’altro. Oggi, con Richard Sennett, constatiamo con angoscia “il declino dell’uomo pubblico”. E nella città lo vediamo pienamente rappresntato.

E non trascuriamo le ragioni strutturali, a partire dal suolo urbano. Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee: il libro di Hans Bermpulli, La città e il suolo urbano, lo racconta in modo molto efficace. Nel XIX secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, in molti paesi dell’Europa è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.

Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.

Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).

In Italia si è abbandonato ogni tentativo di ridurre il peso della rendita immobiliare. Si sono stretti legami forti tra rendita finanziaria e rendita immobiliare. Le grandi industrie (come la FIAT e la Pirelli) hanno dirottato i loro investimenti dall’industria alla speculazione immobiliare. Da oltre un decennio si è interrotto qualsiasi impegno dello Stato nel campo dell’edilizia sociale. Una proposta di legge presentata dai partiti che attualmente governato prevede addirittura di lasciare ai promotori immobiliari la realizzazione e gestione delle attrezzature pubbliche, e la stessa pianificazione urbanistica, che dovrebbe limitarsi ad accettare i progetti urna mistici presentati dalla proprietà immobiliare.

Tutto questo avviene nel quadro di una fortissima spinta verso le soluzioni individuali. Non solo si riduce il welfare state, ma si convincono i cittadini (attraverso il monopolio dell’informazione televisiva e l’onnipresenza della pubblicità) che raggiunge il benessere chi si arrangia per conto suo, calpestando le regole ed evitando di pacare le tasse. In Italia, negli ultimi venti anni, il declino dell’uomo pubblico è avvenuto in modo crescente.

Il modello della città del neoliberalismo

Come ha scritto Jean-François Tribillon, nel modello neoliberale

“- lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …),scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana;

- i gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento/oppressione di cui sono oggetto;

- lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice”.

Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli.

Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.

L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione.

La distribuzione dell’informazione o organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.

Le conseguenze sociali

La realizzazione del modello neoliberalista, se arricchisce i ricchi, colpisce tutti quelli che ricchi non sono.

È colpito il lavoro dipendente, nelle fabbriche e negli uffici, dove il postfordismo ha dato luogo (come ha raccontato nella sua relazione Oscar Mancini) a un mercato del lavoro dove non solo i diritti, ma anche la condizione materiali dei lavoratori si sono fortemente indeboliti. Si riduce la sicurezza del lavoro, si riducono i salari, si riduce la solidarietà nel luogo del lavoro.

E' colpita la condizione delle donne, cui le attrezzature e i servizi promossi dal welfare state urbano fornivano strumenti essenziali per ridurre il peso del lavoro casalingo: dagli asili nido alla scuola, dall’assistenza ai malati e agli anziani alla ricreazione e allo sport.

È colpita la condizione dei giovani, che in un mondo dominato dall’individualismo, dall’assenza di motivazioni ideali e di solidarietà, in una società che non dà alcuna certezza di futuro, in una città privata della presenza di spazi pubblici adeguati, sono abbandonati alle tentazioni della fuga da se stessi mediante la droga e l’alcool, la trasformazione dello stress e della depressione nel vandalismo e nella violenza.

È colpita la condizione degli anziani, ai quali da una parte è tolto lo spazio per comunicare ai giovani le proprie esperienze e il proprio sapere, e dall’altra parte patiscono di diventare un peso per la faiglia, alla cui assistenza sono costretti a ricorrere.

È colpita la condizione delle giovani coppie e di chi, per ragioni di lavoro, deve abbandonare la residenza originaria, ed è costretto dal mercato inmnmobiliare ad abitare in luoghi lontani dal posto di lavoro e a impiegare parte consistente del suo tempo in mezzi di trasporto spesso inadeguati.

Sono colpiti, il generale, tutti i cittadini, ai quali la società neoliberale toglie via via gli spazi di partecipazione consapevole al governo, privilegiando la governabilità sulla democrazia, l’accordo discreto con i potenti alla trasparenza delle procedure,

COME RESISTERE, COME REAGIRE

Tre direttrici d’azione

Per resistere, per reagire, per iniziare a preparare una città diversa da quella che il capitalismo dei nostri tempi ci prepara, dobbiamo orientare l’azione lungo tre direttrici:

1. dobbiamo lavorare sulle idee, sulla conoscenza, sulla consapevolezza delle persone: informazione e formazione del maggior numero possibile di cittadini;

2. dobbiamo sostenere, incoraggiare e promuovere azioni dal basso per difendere i beni comuni là dove sono minacciati e per conquistarne di nuovi;

3. dobbiamo individuare e proporre esempi positivi, che dimostrino che una città diversa è possibile, che il potere e la partecipazione dei cittadini ad esso possono essere adoperati per rendere migliore e più giusto l’ambiente della vita dell’uomo.

La città come bene comune è la concezione

che permette di soddisfare il diritto alla città

Il tema della “città come bene comune” deve essere proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. La “città come bene comune” è una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a partire dai più deboli. È una città che assicura a tutti i cittadini un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno. È una città che garantisce a tutti l’accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi.

È una città nella quale i servizi necessari (l’asilo nido e la scuola, l’ambulatorio e la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico, il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in localizzazione adeguate, sono aperti a tutti i cittadini indipendente dal loro reddito, etnia, cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze siano luogo d’incontro aperto a tutti i cittadini e i forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli.

Ed è una città nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini, in cui essi partecipano alla gestione del potere non solo nel momento dell’elezione ma in ogni momento significativo delle scelte. Devono essere garantiti la trasparenza del processo delle decisioni sulla città e sul suo funzionamento, e la possibilità dei cittadini a esprimersi e ad avere risposte alle loro proposte. Tutto ciò richiede ai cittadini di imparare a conoscere gli obiettivi, gli strumenti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella città: quelli che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro conoscenze liberamente.

Realizzare e far funzionare una simile città è l’unico modo per realizzare, per tutti, il diritto alla città, nei due aspetti dell’appropriazione dell’uso della città (valore d’uso e non valore di scambio), e di partecipazione piena al suo governo.

Regole chiare, trasparenti, condivise

Controllo dell’uso del suolo e delle urbanizzazioni

La prima condizione perché ciò possa avvenire è che le trasformazioni della città (sia quelle che comportano opere sia quelle che si verificano solo con cambi d’uso e di proprietà) avvengano sulla base di regole chiare, definite in modo trasparente, applicate senza deroghe e favoritismi. Esse devono essere definite con la condivisione della maggioranza degli abitanti, i quali devono intervenire in quanto cittadini e non in quanto proprietari di terreno o di edifici.

La seconda condizione è che il governo cittadino abbia il pieno controllo sull’uso del suolo, delle urbanizzazioni, del loro uso, e che possa impiegare gli incrementi di valore degli immobili, derivanti dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, alla realizzazione e al funzionamento delle opere che servono a tutti i cittadini.

Il governo pubblico delle trasformazioni del territorio, la pianificazione urbanistica, è il momento di sintesi della lotta per il diritto alla città e per la costruzione della città come bene comune.

Un punto di partenza

Per iniziare la costruzione di una città più giusta occorre combattere a partire dalle esigenze più sentite dalla popolazione: la difesa degli spazi pubblici minacciati dalla privatizzazione e dall’abbandono del welfare, la conquista o la difesa di un alloggio a prezzi compatibili con il reddito, la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale sono già l’argomento di molte lotte nella città e nel territorio. . Occorre appoggiare, incoraggiare e promuovere le iniziative, aiutarle a mettersi in rete, a condividere obiettivi e strumenti.

In tutte le città d’Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d’America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo. In molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo , le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.

Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzate spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all’uso comune), sulle comodità e sugli arredi.

Le iniziative e le vertenze devono essere utilizzate non solo in vista dei loro obiettivi concreti e immediati. Esse devono aiutare a far crescere la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune.

Mi sembra che gli articoli (28 agosto; 3 e 7 settembre) che il manifesto ha dedicato al nuovo ponte veneziano non accennino a una questione che secondo me è essenziale. Quel ponte, che secondo Orsola Casagrande e Calatrava è meraviglioso, che secondo Massimo Cacciari non avrebbe potuto costare meno di quello che è costato, non serve a nulla. Se spendere quindici milioni di euro per fare una cosa assolutamente inutile è un esempio di buona amministrazione, allora chi ha inventato quel ponte e chi ha deciso di realizzarlo meriterebbero un premio. Quindici milioni di euro per accorciare di due o tre minuti il tragitto da piazzale Roma a Lista di Spagna sono davvero troppi. Gli unici a cui il ponte può servire sono i futuri proprietari e utilizzatori dell'ex sede del Compartimento ferroviario, che è al suo piede. Chi saranno? Vedremo.

Può essere che quel ponte sia una meraviglia dell'architettura. Ma è proprio la città storica di Venezia il luogo che ha bisogno di nuovi monumenti (a quindici milioni l'uno)? Non sarebbe stato meglio investire quei soldi per restaurare l'edilizia storica e conservarne la proprietà al patrimonio pubblico, cioè ai cittadini? O investirlo nelle periferie? Certo, il ponte aumenterà l' appeal di Venezia nei mass media . Molte più persone verranno a visitare la città. Le frotte di turisti cresceranno ancora. Gli affari delle bancarelle di junck aumenteranno. Scompariranno altri negozi di salumieri, fornai e fruttivendoli, per essere sostituiti da gelatai, pizzerie e dalla paccottiglia che affligge tutti i luoghi del turismo stupido. Poco importa se si ridurranno ancora le case disponibili per chi a Venezia lavora, se i vaporetti saranno sempre più intasati, se le calli e i ponti, invasi da frettolose carovane di turisti «mordi e fuggi», saranno ancora meno disponibili a chi vuole ammirare i tesori della città.

Purtroppo l'dea di città degli attuali successori della Serenissima è identica a quella che hanno i governanti di tutte le altre città che, per accrescere il proprio reddito, competono contro le altre per strappar loro masse più consistenti di consumatori. Magari altrove stanno un po' più attenti a non distruggere, per arricchire pochi mercanti, il patrimonio di cui sono venuti in possesso. Credo che siano queste le critiche che il ponte della Costituzione (il nome è l'unica scelta giusta a proposito di quell'oggetto) solleva, oltre a quella espressa in nome dei disabili. E non è facile nasconderle sotto una pietra, come il sindaco vorrebbe. La storia ricorderà gli errori, e i nomi di chi li ha commessi e celebrati. C'è solo da aspettare.

Il tema

Il tema che mi è stato assegnato mi sembra particolarmente centrato. Per una ragione di fondo e per una ragione contingente.

La ragione di fondo. Il nesso tra i tre termini (città, comunità, spazi pubblici) esprime compiutamente l’essenza stessa della civiltà urbana: dalla nascita, anzi, dall’ invenzione della città, fino alle sue attuali difficoltà.

La ragione contingente. Le cause della crisi attuale della città (e della civiltà urbana) stanno proprio nella decadenza progressiva e concatenata di quei tre termini (città, comunità, spazi pubblici): una decadenza che comincia con la riduzione della comunità a mera aggregazione di individui, prosegue con l’erosione e il decadimento degli spazi pubblici, e non può concludersi – se non la contrastiamo - che con la morte della città.

La ricchezza, il senso, i problemi della civiltà urbana non sono del resto comprensibili se non si tiene stretta la triade urbs, civitas, polis: città come realtà fisica, città come società, città come governo.

GLI SPAZI POUBBLICI NELLA STORIA DELLA CITTà

La città nasce con gli spazi pubblici

Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. Si può dire che l’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.

È questa la ragione di fondo per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.

La piazza: incontro, mixitè, rappresentazione, celebrazione

Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). Le piazze come i luoghi della mixitè e della libertà.

Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città. E il ruolo che svolgevano era sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui erano riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.

I luoghi del consumo comune

Le piazze non erano solo dei luoghi aperti. Erano lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.

Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Le piazze e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.

Non sono comuni solo gli spazi pubblici

Se noi guardiamo con una certa attenzione la rappresentazione di una città del medioevo europeo troviamo la puntuale testimonianza di questo ruolo ordinatore del sistema degli spazi pubblici. Ma troviamo anche un più ampio significato del concetto di spazio pubblico. Vediamo che non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcos’altro. Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengano ordinati.

Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Regole scritte, a volte disegnate, e regole determinate dalla cultura costruttiva. Regole prescritte dalla politica fondiaria della città, che a volte era padrona del terreno sul quale la città sorgeva, e ne dava in uso i lotti alle famiglie, altre volte imponeva norme e criteri per l’utilizzazione delle aree private.

Possiamo dire che inizia un percorso dal concetto di spazio pubblico al concetto di città pubblica: non sono più comuni, collettivi, pubblici solo una serie di spazi ritagliati dall’insieme del contesto urbano, ma è la città in quanto tale che riconosciamo come struttura comune, collettiva, pubblica.

DALLA FABBRICA AL WELFARE

Una rottura…

l conflitto tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra momento individuale e momento collettivo si è sempre manifestato nella storia – come quello tra esclusione e inclusione. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese esso assume una configurazione particolarmente rilevante per la città.

Il prevalere dell’individualismo porta a due conseguenze, entrambe negative. Sul versante della struttura, esso conduce alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando una delle basi della capacità regolativa della polis. Sul versante dell’ideologia conduce all’affievolirsi dei vincoli e dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.

Ma dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica provocano effetti di segno opposto. L’inclusione di tutti i portatori di forza lavoro, i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città “la cui aria li renderà liberi” pone le premesse materiali all’allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe che di quel sistema è l’inevitabile prodotto conduce al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Possiamo dire che s’indebolisce la solidarietà cittadina ma nasce e s’irrobustisce la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, germoglia una nuova domanda di spazio pubblico.

Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica nasce la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse.

… e una faticosa conquista

L’incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali riuscì a incidere in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Nel corso del “secolo breve” possiamo infatti vedere l’affermarsi di alcune componenti di quel carattere pubblico della città che prenderà il nome di “diritto alla città” e, nei nostri anni e con un significato analogo, “città come bene comune”.

Lo vediamo nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare: dall’apprendimento alla cura della prole, dalla salute alla cultura. Le scuole, gli asili nido, le biblioteche, gli ambulatori e gli ospedali, i parchi e le palestre cominciano a diventare presenze la cui quantità e qualità misura il grado di civiltà dei diversi stati.

Nei paesi della socialdemocrazia europea interi quartieri, intere parti di città vengono progettate, costruite e gestite per le famiglie degli operai e degli impiegati, con una ricchezza di dotazioni pubbliche che solo molto più tardi vengono raggiunte altrove.

Le riforme in Italia

In Italia, all’inizio del XX secolo cominciano a nascere iniziative mutualistiche e municipali per affrontare socialmente il problema della casa per determinate categorie di cittadini più bisognose. Ma poi occorre aspettare la caduta del fascismo, l’instaurazione della Repubblica “fondata sul lavoro” e il superamento della fase contraddittoria della ricostruzione per compiere alcuni passi rilevanti.

È negli anni Sessanta del secolo scorso che si sviluppano iniziative che conducono ad avvicinarsi al raggiungimento di tre grandi obiettivi della “città pubblica”:

- la presenza diffusa e generalizzata di spazi destinati alle attività collettive

- il controllo pubblico di tutte le componenti dello stock abitativo (dall’edilizia pubblica a quella sociale e a quella privata);

- la generalizzazione della definizione e del controllo di regole comuni alle trasformazioni del territorio, in particolare quelle derivate dall’urbanizzazione

Questi obiettivi sono stati raggiunti in modo incompleto. In particolare, non è stato raggiunto quello che avrebbe dovuto costituire la base strutturale degli altri obiettivi: il controllo della rendita immobiliare

La rendita

Ricordiamo che cos’è la rendita. Essa è la quota di reddito che non corrisponde né allo svolgimento di un lavoro (salario) né al’esercizio di un’attività imprenditiva (profitto). Esso remunera unicamente la proprietà. In particolare, la rendita immobiliare urbana si forma e cresce per effetto delle decisioni e gli interventi della collettività, storica e attuale. Che un suolo da agricolo sia diventato o diventi oggi urbano non è dipeso né dipende certo dall’ingegno, dall’imprenditorialità, dal lavoro del suo proprietario. Perciò gli economisti classici e il pensiero liberale parlano di rendita parassitaria. È la città, la sua espansione, la sua attrezzatura che determinano l’incremento del valore della rendita. Quindi è fortissimo l’interesse dei proprietari di dettar legge nelle regole della città. Storicamente ci sono riusciti spesso, soprattutto in Italia. Ed è la pressione della rendita, e l’arrendevolezza verso di esse dei decisori pubblici, che rendono invivibili le città.

Controllare la rendita immobiliare, il suo accrescimento e la sua destinazione, è la condizione perché la collettività possa raggiungere nel concreto i propri obiettivi. Finché quella condizione non viene raggiunta il conflitto tra interesse pubblico e interessi privati dei proprietari immobiliari minaccia continuamente di veder soccombere il primo. Perché ciò non avvenga è necessario che l’interesse collettivo sia rappresentato da un potere politico fortemente determinato a difenderne le ragioni. Un simile potere politico, in Italia, si è manifestato solo in brevi ed eccezionali momenti, ma poi è stato sempre rapidamente sconfitto.

Successi e limiti

Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati davvero centrali, in Italia, dal punto di vista della conquista di un assetto soddisfacente per la città e per l’affermazione del suo carattere pubblico. È utile ricordarne qualche elemento.

Sul piano legislativo e normativo i due grandi successi:

- l’affermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);

- l’apprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dell’intervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero dell’edilizia esistente e degradata (1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).

Un insegnamento positivo......

Vorrei sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale che c’è stato in quegli anni. Ciò ha dato alle masse le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo.

Due le condizioni che lo hanno consentito:

1. la capacità degli intellettuali di ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e cercare e trovare gli argomenti, i fondamenti teorici, le possibilità tecniche e le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;

2. la capacità della società di costruire e adoperare gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni

...e un insegnamento negativo

Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: l’applicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte degli urbanisti e delle istituzioni.

Ad esempio, gli standard urbanistici e le “zone territoriali omogenee” erano stati concepiti come strumenti per misurare, prescrittivamente, le quantità di spazi pubblici riservati nei piani urbanistici. Sono diventati la stanca formula di progettazione della città, dividendola artificiosamente in zone A, B, C, e così via, ignorando e cancellando la complessità, la mixitè, l’articolazione reale degli spazi che della città costituiscono l’essenza.

Ancora un esempio. L’applicazione pedissequa degli standard urbanistici (tanti mq per la scuola elementare, tanti per gli ambulatori, e i mercati, e le chiese, tanti per il parcheggi, e il verde ecc.), ha condotto spesso alla suddivisione dello spazio pubblico nelle sue diverse componenti funzionali (qui la scuola, là il mercato, più in là l’asilo nido, altrove la palestra e gli impianti sportivi, altrove il parco) dimenticando l’insegnamento della “piazza”, del luogo dove gli interessi confluiscono e le persone s’incontrano.

Ma un insegnamento negativo è venuto anche dalla politica e della società, dove si è manifestata la graduale perdita della capacità di azione riformatrice (non “riformista”) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi dell’uomo nell’individualismo, nell’intimismo, nel privato.

LA SVOLTA

Crisi del carattere pubblico della città

Certo è che oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diverse da quelle che la storia delle nostre città ci suggerisce, sia che le osserviamo alla luce del lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.

Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Oggi moltissimi, anche nell’area “riformista”, non si vergognano di parlare di “vocazione edificatoria” dei suoli, e di considerare perverso “vincolo” ogni destinazione del terreno che non sia quella edilizia. Oggi si propone di sostituire la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare come nella proposta di legge Lupi per il governo del territorio, che si riuscì a fermare nella XV legislatura ma che è oggi di nuovo in discussione in Parlamento.

Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Il Disegno di legge delega” in materia di edilizia reso noto afferma che il governo è delegato a emanare norme, in particolare, per quanto riguarda la “individuazione degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia e di conservazione comunque realizzabili quali espressione del diritto di edificare connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia”. Un’affermazione che in questi termini non era mai apparsa nel diritto italiano, e che ci si era invece illusi, nella prima metà degli anni Settanta, di capovolgere esplicitamente ne suo contrario .

Gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’interesse comune, sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario rigorosamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Alle piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’interesse del frequentatore all’acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’integrazione, della varietà, della libertà d’accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’outlet, dall’aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.

L’abitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale. Ognuno è solo al cospetto del mercato, e di un mercato caratterizzato dall’incidenza crescente della rendita. Cancellata da un decennio ogni risorsa destinata all’edilizia sociale. Privatizzata l’edilizia pubblica, realizzata con i contributi di tutti i lavoratori. Ridotta ai margini la disponibilità di alloggi in affitto, proprio quando il lavoro diventa precario, oggetto di un inseguimento che obbliga a una maggiore mobilità sul territorio.. Demolita ogni forma di contenimento dei canoni di locazione delle case private, contribuendo con ciò poderosamente all’aumento della povertà e dell’emarginazione.

L’uomo e la società

Perché tutto questo è successo? Se diamo un giudizio negativo sul cambiamento che si è manifestato, sul suo senso e sui suoi risultati, e vogliamo contribuire a invertire la tendenza, dobbiamo innanzitutto comprendere le ragioni .

La ragione di fondo sta certamente nel mutato rapporto tra uomo e società.

I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: per denunciare una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.

L’aspetto centrale è quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”: la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.

Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.

Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.

Il mondo e la città

Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.

Si è diffuso ed è diventato egemone un “pensiero unico”, per il quale gli unici “valori” sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla civiltà “occidentale”, o “atlantica”. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anch’esse forse portatrici di verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dell’umanità si potrebbe assumere.

Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese.

Inutile ricordare qui i suoi effetti sull’ambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta – il vero e proprio saccheggio di risorse esauribili nella ricerca di una continua e crescente produzione di merci sempre più gratuite, suiperflue, ridondanti, prive di finalità con i bisogni reali di crescita dell’uomo.

Inutile ricordare i suoi effetti sul lavoro. Questo costituisce la strumento essenziale dell’uomo per comprendere e trasformare il mondo di cui è parte. Esso è la base della dimensione sociale della persona umana. Oggi è reso precario, privato dei diritti, sempre più marginale rispetto al processo delle decisioni.

Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dalla quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).

Le politiche urbane del neoliberalismo

Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città.

Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.

Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune - nella città e nel territorio - che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.

Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti:

- quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni;

- quando il crollo delle Twin Towers ha fornito la giustificazione – o l’alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.

Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: quello della loro consistenza fisica e quello della loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.

CHE FARE, OGGI PER DOMANI

Un riepilogo

Credo che sia emerso chiaramente che al concetto di spazio pubblico attribuisco un significato molto ampio. È spazio pubblico la piazza, diventano spazio pubblico gli standard urbanistici, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e una politica di pianificazione del territorio, in tutte le sue componenti.

In questa sua accezione la conquista dello spazio pubblico è stata, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.

Credo di aver sufficientemente argomentato come e perché gli spazi pubblici siano oggi a rischio. Ho accennato ai rischi principali. Ho individuato la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E ho indicato la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia.

Opporsi, come?

A questi rischi bisogna opporsi. Per farlo occorrono a mio parere due cose.

Da un lato, la consapevolezza piena della condizione in cui viviamo e, insieme, quella della nostra possibilità di concorrere alla sua modificazione. La storia non è ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo inevitabilmente vittime passive e imbelli.

Dall’altro lato, la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa. Per dirla con Italo Calvino, per resistere all’inferno, dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Che cosa c’è nell’inferno “che non è inferno”?

Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica. Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo alla politica. È alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Io li ho vissuti.

Oggi non è più così. Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.

Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra

- i partiti che esprimono con pienezza e arroganza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,

- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo,: per esempio, credono ancora che il Prodotto interno lordo sia l’unità di misura del livello di civiltà raggiunto, o che il termine “sviluppo” coincida con quello di continuo aumento della produzione e del consumo di merci indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale, oppure che la governabilità sia più importante della democrazia;

- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.

Orfani della politica

Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.

In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società, espressiva di principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, sia rappresentata dall’Onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario.

L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Gli esperti

Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Siamo intellettuali, siamo depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.

Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole d’ordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in che modo le pratiche correnti della “urbanistica reale” rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in particolare delle componenti più deboli.

la Repubblica, 3 aprile 2009

Dal sito web Regioni.it, 24 marzo 2009. Anche in eddyburg.

Da "la Repubblica", 14 marzo 2009

Sapete perchè proprio l'8 marzo è la festa della donna? Leggete qui

"I due fronti della crisi", la Repubblica, 12 novembre 2008

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