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Urbandata è nata da successive integrazioni. L’avvio è stato l’unificazione degli archivi di due grandi produttori europei: il Centre de Documentation sur l’Urbanisme (cdu), organismo della Direction Générale de l’Urbanisme, de l’Habitat et de la Construction del Ministère de l’Èquipement, des Transport et du Logement, e il London Research Center (lrc), centro di ricerche e consulenza al servizio di una trentina di comunità locali e del governo del Regno Unito. Successivamente, grazie ai contatti intrattenuti dal Coordinamento nazionale delle biblioteche di architettura, dal Sistema bibliotecario e documentale dello iuav e dall’Oikos di Bologna, anche l’Italia è entrata nella collaborazione, costituendo ad hoc l’associazione Archinet. Contemporaneamente aderiva la Spagna, tramite il Centro de Informaciòn y Documentaciòn Cientifica (cidc) del Consejo Superior de Investigaciones Cientificas (il csic è l’equivalente spagnolo del Consiglio nazionale della ricerca).

Nel 1997 ha aderito all’iniziativa anche una rilevante struttura di ricerca della Germania, il Deutsches Institut für Urbanistik (difu), il cui ruolo è fornire documentazione e svolgere ricerche per le comunità locali della Repubblica democratica tedesca. Nel 1999 è entrato tra i partrner di Urbandata il Vati ( Magyar regionális Fejlesztési és Urbanisztikai Közhasznú Társaság / Hungarian Public Nonprofit Company for Regional Development and Town Planning), prestigiosa struttura di pianificazione regionale e locale magiara. Con la costituzione, nel 2001, della Greater London Authority e lo scioglimento in essa del London Research Center, partner inglese è divenuto la Gla . Contemporaneamente in Francia è stata costituita l’associazione Urbamet, che comprende il due precedenti soci francesi e quindi li ha sostituiti.

Dal 1998 Urbandata è costituita come associazione di diritto francese. Oggi i suoi membri sono: Urbamet (Francia), il difu (Germania), la Gla (Gran Bretagna), l’associazione per l'informazione di settore appositamente costituita Archinet (Italia), e il Cindoc-Csic (Spagna), Vati (Ungheria): qui accanto i collegamenti ai siti dei partner I presidenti dell’associazione sono stati: Catherine Bersani, Anne Page, Claude Allet, Edoardo Salzano; dal dicembre 2000 è presidente Carmen Vidal.

Urbandata produce un CD-rom, Urbadisc, che contiene le banche di dati prodotte dalle diverse agenzie nazionali. Oggi esso contiene i seguenti archivi: Acompline and Urbaline (Regno Unito), con circa 150.000 documenti; Docet, Bibliodata, Art-Press, e Archivio Progetti A Masieri (Italia): 55.000 documenti circa; ORLIS (Germania): 200.000 documenti circa ; Urbamet (Francia): 207.000 documenti circa; Urbaterr (Spagna): 87.000 documenti circa. È aperta la ricerca per il passaggio dal formato CD-rom al formato web, deciso dall’Assemblea generale dei soci di Budapest (2001) e ribadita a Londra (2002). Sulla ricerca sono impegnati particolarmente i partner italiano e francese.

Membri di Urbandata, associati ad altri operatori, hanno svolto una ricerca con finanziamento dalla Commissione europea (MLIS2000) per predisporre un prototipo di lessico multimediale e multilingue nel campo della pianificazione e della costruzione. Il prototipo Muleta è stato realizzato e ne è in corso l’implementazione.

Il mondo non è più giusto

Il mondo non è oggi più giusto di quanto fosse quando, 50 anni fa, ho cominciato ad occuparmi di politica. E non è aumentata rispetto ad allora la speranza di cambiarlo.

La distanza tra chi possiede la ricchezza e i mezzi di produzione e chi ne è escluso è aumentata, e così è aumentata (nell’insieme del mondo, in ciascun paese, nelle nostre città) la povertà: sia quella reale sia quella percepita.

L’equilibrio tra la dimensione pubblica e quella privata di ogni uomo si è rotto, e l’individualismo sta tendenzialmente cancellando ogni diverso principio, a partire dalla solidarietà.

Il trionfo della globalizzazione sta cancellando ogni realtà culturale diversa da quella della cultura dominante.

La crescente consapevolezza dei limiti dello sviluppo non ha significativamente cambiato il rapporto tra utilizzazione delle risorse naturali e loro disponibilità: anzi, questa sta vistosamente decrescendo.

La riduzione dei beni, anche i più essenziali alla vita, a merci aumenta ogni giorno, e riduce la disponibilità di beni comuni.

Nelle stesse parti del mondo favorite dallo sviluppo economico in atto è cresciuta la precarietà del lavoro e con essa l’insicurezza del futuro, ed è minacciata la stessa coesione sociale.

Scomparsa la ricerca di alternative

Ciò è certamente dovuto alla fase attuale del proteiforme sistema capitalistico-borghese. Ma, a differenza che nelle fasi precedenti, è venuta meno (nel mondo, in Europa, in Italia) la presenza di forze antagoniste caratterizzate dalla ricerca di soluzioni alternative.

Il crollo dell’Unione sovietica e del blocco dei paesi socialisti; il disfacimento del tentativo dei paesi del Terzo mondo, iniziato nel 1955 col Patto di Bandung, di costruire un’alternativa all’ideologia e alla prassi dei due blocchi antagonisti; la pesante erosione delle conquiste del Welfare state nei paesi del “capitalismo avanzato”; la crescente subordinazione delle politiche verso il Sud del mondo alla logica dell’espansione del mercato capitalistico: tutto ciò è implicito nella compiaciuta constatazione del “crollo delle ideologie”.

I nuovi dogmi universali

Ciò ha comportato – sul piano culturale, sociale e politico –il costituirsi di un’ideologia, largamente condivisa e tendenzialmente egemone, caratterizzata da un numero rilevante di opinioni tramutate in verità indiscutibili, in veri e propri dogmi. Enunciamone alcuni:

- il primato del “mercato” come misuratore dell’efficienza delle soluzioni non solo nel campo della produzione di merci ma in ogni settore della vita sociale e culturale;

- la validità indiscussa e generale (indipendentemente da ogni contesto economico, sociale e culturale) di una democrazia rappresentativa in cui la delega tende a cancellare ogni partecipazione, e comunque depurata da ogni possibilità di conflitto;

- la fiducia illimitata nella tecnologia e nelle sue “innovazioni” come risolutrice di ogni conflitto tra espansione produttiva e ambiente naturale;

- l’assunzione di parametri meramente quantitativi, e riducibili alla moneta, quali misura del valore d’ogni realtà umana e sociale;

- di conseguenza la crescita del prodotto interno lordo come obiettivo dominante e misuratore dello sviluppo.

Le opzioni politiche del passato

Ancora mezzo secolo fa le opzioni politiche, in Europa e nel nostro paese, erano riassumibili in tre:

- quella moderata, che assumeva il sistema capitalistico-borghese come l’unico orizzonte possibile;

- quella socialdemocratica, che assumeva quel sistema come suscettibile di correzioni e “riforme” che lo rendevano accettabile;

- quelle social-comunista, che si proponeva di sostituire quel sistema economico-sociale con uno radicalmente diverso.

In Italia queste tre opzioni assumevano caratterizzazioni peculiari, dovute sia alla presenza nel blocco moderato di componenti ideologiche anticapitalistiche, sia al carattere gradualistico della transizione “oltre il capitalismo” proposta dal blocco social-comunista.

Il comune riconoscimento di principi incarnati nella resistenza al fascismo e ratificati nella carta costituzionale consentiva di introdurre significative trasformazioni, in particolare per quanto riguarda il ruolo del lavoro nel processo economico e nel contesto sociale, e la crescente introduzione di elementi di Welfare. Ciò nel quadro di una democrazia concepita e vissuta come delega nutrita dalla partecipazione comportata dal carattere stesso dei “partiti di massa”.

In definitiva, in una realtà radicata nel sistema economico-sociale capitalistico, esisteva un’ampia, e a volte maggioritaria, tensione verso la costruzione di un orizzonte alternativo.

Il nuovo quadro politico

Oggi il quadro è radicalmente mutato. Esso è caratterizzato, da un lato, dal formarsi di una destra che non si riconosce più nel sistema di principi della Resistenza e della Costituzione e che, soprattutto, ha estremizzato i principi di subordinazione della legge all’interesse individuale, di riduzione dello stato a mero erogatore di servizi all’interesse privato più forte, di riduzione del lavoro a mero strumento per l’accrescimento dei redditi dei proprietari dei mezzi di produzione, e ha promosso la sostituzione dell’incremento dei patrimoni finanziari e immobiliari all’investimento produttivo (della rendita al profitto).

Ma dall’altro lato la crisi del social-comunismo e quella del blocco moderato a direzione democristiana hanno dato vita a una formazione politica che, dissolta nel Partito democratico la componente originata dal Partito comunista italiano, non si definisce più di sinistra. Essa ha assunto integralmente la concezione “interclassista” tipica del moderatismo democratico-cristiano, fino a proclamare la scomparsa della “lotta di classe”, come se questa fosse un’azione politica e non invece in primo luogo un dato strutturale del sistema economico-sociale capitalistico.

Lo sbocco impresso da Veltroni al processo iniziato con le esperienze di maggioranze di “centrosinistra” segna un mutamento radicale del quadro politico. La forza che dichiara di opporsi alla destra e di esserne l’unica alternativa, ha tagliato ogni ponte alla sua sinistra, nella prospettiva della scomparsa di quest’ultima e del graduale assorbimento dei suoi componenti (e soprattutto dei suoi elettori).

Le esternazioni dei suoi esponenti più significativi, a cominciare dal suo leader, lasciano comprendere facilmente come i “valori” in cui essi si riconoscono sono gli stessi che alimentano l’ideologia della formazione elettoralmente antagonista. Sono esattamente quei “dogmi universali” di cui ho prima elencato i più significativi.

Rischi per la democrazia

Le prossime elezioni sembrano giocarsi tutte tra due soli contendenti in campo: il Pdl e il PD. Nonostante gli sforzi di tenere aperto il confronto a tutte le componenti in campo, il risultato elettorale rischia di essere quello del dominio dell’uno o dell’altro dei due contendenti maggiori. Oppure, nel caso di un pareggio, dell’intesa tra loro.

Questa prospettiva è estremamente rischiosa, in primo luogo per la democrazia. Il perverso meccanismo elettorale, creato dalla destra ma tollerato dalle altre forze in campo, provocherà qualcosa che si avvicina molto a quella che Alexander Hamilton definì, due secoli fa, “la tirannia della maggioranza”.

La pervasività con la quale sono diventati opinioni correnti quei “dogmi universali” che nutrono l’ideologia delle due formazioni dominanti; l’incapacità delle formazioni alternative di trovare un’unità sufficiente; la magistrale rapidità e determinazione con la quale Veltroni ha liquidato ogni rapporto politico, ideale e culturale con la sinistra: tutto ciò rende il risultato elettorale estremamente rischioso.

La prospettiva è riassumibile nello slogan: due partiti, una ideologia, un dominio.

La chiusura del futuro

La piattaforma comune ai due partiti, il PdL e il PD, e il substrato della loro comune ideologia, è l’assunzione del sistema economico-sociale dato (quello capitalistico nella fase della globalizzazione neoliberista) come l’unica realtà possibile. Il loro dominio (sia che fossero congiunti sia che rimanessero disgiunti) rappresenterebbe perciò anche la scomparsa d’ogni significativo sforzo di costruire un futuro diverso:

- nelle coscienze dei cittadini, dimostrando la fallacità, o almeno la discutibilità, di quei “dogmi universali”, e la validità di principi diversi e, dove necessario, alternativi;

- nella garanzia di futuro rappresentata dalla difesa dei risultati dei progressi compiuti quando erano egemonici i principi nati dalla Resistenza e definiti dalla Costituzione, in particolare per quanto riguarda la dignità del lavoro, i diritti del welfare, la tutela dei beni comuni;

- nella possibilità di sperimentare, propagandare, affermare nella realtà modi alternativi di regolare il rapporto tra uomo e ambiente, tra sviluppo delle persone e della società e meccanismi economici, tra dimensione privata e dimensione pubblica.

Una scelta di sinistra

Per chi condivide queste considerazioni la scelta elettorale è obbligata. Esiste una sola lista nella quale si esprime una posizione critica nei confronti del sistema economico-sociale in atto e dei suoi “dogmi universali”, e che si riferisca a principi adeguati e condivisibili. È una formazione che è oggi un insieme di posizioni e storie che non hanno ancora trovato una sintesi tra le diverse esigenze che esprimono: in particolare, quella che assume come principio fondamentale la difesa del ruolo sociale del lavoro, e quella che concentra la sua attenzione sulla difesa dell’ambiente. Si tratta comunque, in ogni caso, di esigenze che esprimono una critica di fondo del vigente assetto, e che hanno trovato primi momenti di sintesi nelle varie esperienze “rosso-verdi”.

Sia pure con le approssimazioni dei programmi elettorali troppo sintetici, in quello della Sinistra l’Arcobaleno appaiono impegni rilevanti su punti molto concreti (sui quali invece il programma di Veltroni appare largamente allineato con quello della destra). Mi riferisco in particolare alla difesa del ruolo e dei diritti del lavoro e del welfare, al diritto alla casa e a quello al trasporto collettivo, al rifiuto delle Grandi Opere coerenti con il veltroniano “ambientalismo del fare”.

Una sinistra da costruire

Vedo il voto per La Sinistra l’Arcobaleno come il primo passo verso un impegno politico volto a contribuire alla costruzione di una formazione politica interamente nuova. Di essa anzi si può cominciare a costruire la piattaforma - culturale, prima ancora che politica - approfondendo il confronto sui diversi aspetti del generale problema: come pensare, sperimentare, costruire il superamento del vigente sistema economico-sociale, su quali principi, con quali forze sociali, e salvaguardando in primo luogo le conquiste delle fasi più alte delle stagioni delle riforme del sistema economico-sociale.

Una piattaforma da aiutare a costruire a partire dalle questioni proprie dei mestieri e degli interessi di ciascuno di noi.

Un grande campo di lavoro mi sembra che si apra proprio sui temi della città e della sua vivibilità, del territorio e del paesaggio, della tutela e dello sviluppo dei beni comuni: campo nel quale, se il PdL è apparso come il partito degli speculatori e il PD come quello dell’ambiguità, la Sinistra ha dimostrato un’attenzione del tutto insufficiente.

Una sinistra aperta

Il confronto non deve restare chiuso nell’ambito dell’attuale formazione Sinistra l’Arcobaleno. Deve essere aperto nei confronti delle realtà sociali che non si riconoscono in nessuna delle formazioni politiche presenti, ma che esprimono la tensione verso nuove strade per un impegno politico capace di costruire una società profondamente diversa da quella attuale.

E deve essere aperto nei confronti delle stesse posizioni oggi confluite nel PD. Questo si presenta oggi come un contenitore elettorale, in cui l’apparato mediatico e gli slogan di facile consumo nascondono una grande varietà di posizioni, certamente non tutte riconducibili all’ideologia dominante e ai suoi dogmi. Il modo in cui il contenitore è stato costruito e bloccato ha impedito ogni dibattito con le posizioni di sinistra, ed è certamente sentito come una mortificante limitazione per persone e gruppi spinti ad aderire al PD unicamente dal timore di non esprimere, votando a sinistra, un “voto utile” alla sconfitta di Berlusconi.

Così come non può non manifestarsi disagio per la posizione del tutto anomala che il PD ha assunto nel quadro europeo, dove molte socialdemocrazie hanno mantenuto fermo il loro riferimento sociale alle forze del lavoro dipendente e aperta la ricerca per la costruzione di un’alternativa al sistema economico sociale dato.

Dopo le elezioni, se la Sinistra l’Arcobaleno avrà raggiunto un sufficiente consenso sarà possibile costruire, su questa base, il lavoro necessario per sconfiggere compiutamente non solo Berlusconi, ma il più esteso berlusconismo.

Edoardo Salzano

Venezia, 24 marzo 2008

Sugli argomenti toccati da questo scritto si vedano i cocntributi raccolti nella cartella per altre valutazioni e analisi sul quadro politico italiano, quelli nella cartella " Capitalismo oggi" sulle questioni più di fondo: che si sbaglierenne a trascurare o sottovalutare.

Premessa

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati.

Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali. Sembrano avere un particolare interesse nella ricerca di una messa a punto del ruolo della Provincia. Questo istituto è stato infatti caricato, a partire dal 1990, di competenze e compiti del tutto nuovi e, in larga misura, estranei alla sua tradizione e alle ragioni stesse della sua fondazione: ricordiamo che la provincia nasce dalla prefettura napoleonica, organo di esercizio locale dei poteri centrali dello Stato, i cui confini erano tracciati in ragione del percorso che poteva compiere in un giorno la carrozza del contribuente del fisco per raggiungere l’ufficio delle finanze, o di quello che potevano compiere i gendarmi per sedare la sommossa nel luogo più lontano dalla caserma.

La Provincia, in definitiva, non riesce oggi a individuare con facilità un proprio spazio tra i “due vasi di ferro” costituiti dalla Regione (e dello Stato, con cui la Regione tende a identificarsi) e dal Comune, luogo antico e di consolidata residenza dei poteri elettivi e dell’identificazione della cittadina e del cittadino. Forse – si spera - la funzione di coordinamento dei numerosissimi attori che intervengono nelle trasformazioni del territorio (da quelli istituzionali a quelli parapubblici, a quelli portatori d’interessi diffusi e a quelli espressione d’interessi privati) può conferire nuovo smalto e rinnovata ragion d’essere all’anello intermedio della catena dei poteri locali: può essere la nuova ragione della Provincia

È ragionevole questa ipotesi? E la stessa attenzione alla governance, non nasconde forse rischi dai quali occorre guardarsi, e non è forse portatrice di illusioni? La pratica della pianificazione del territorio e il dibattito culturale che ha dato luogo alla riforma del 1990 possono fornire qualche argomento sul quale è utile riflettere e discutere.

Un dibattito lungo tre decenni

La decisione di attribuire alla Provincia compiti di pianificazione del territorio è la conclusione di un dibattito molto ampio. La discussione sulla pianificazione d’area vasta si è sviluppata infatti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta: di essa ha fatto parte integrante la ricerca della “dimensione conforme” e degli “ambiti ottimali”.

Sono state proposte e sperimentate diverse strade. Finalmente, nel 1990 si è approdati a una soluzione unanimemente accettata. Con la legge 142 del 1990 (poi integrata e ridefinita nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) si sono individuati i tre livelli di pianificazione validi in Italia (comunale, provinciale e regionale), attribuendo al livello provinciale la denominazione di “piano territoriale di coordinamento”. Una denominazione ricavata dalla legge 1150/1942, che aveva essa stessa alle spalle più di un decennio di irrisolti dibattiti sulla intercomunalità e sulla sovracomunalità.

Ricordiamo il dettato del DL 267 del 2000:

La provincia, inoltre, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali [1].

Una definizione, come si vede, dal linguaggio arcaico, e dal contenuto molto sommario. Ma si tratta – non dimentichiamolo – di una indicazione che dovrebbe essere di mero principio, poiché la competenza legislativa in materia urbanistica fu trasferita alle Regioni, nel 1948, dall’articolo 117 della Costituzione della Repubblica, ed è entrata in esercizio a partire dal 1970.

Le tre funzioni della pianificazione territoriale

La realtà si è mossa, al di là della legge. E le legislazioni regionali hanno arricchito il quadro normativo e messo a punto metodi e pratiche nuovi. È possibile definire con maggior precisione (e magari con una varietà di declinazioni) la pianificazione provinciale in Italia.

A ben vedere, l’esegesi legislativa, l’esame comparato delle legislazioni regionali, l’analisi delle pratiche professionali e amministrative e l’esplorazione della letteratura consentono di indicare tre funzioni essenziali cui la pianificazione territoriale provinciale (e in generale la pianificazione territoriale, a tutti i livelli) deve adempiere.

Una prima funzione può essere definita strategica. Si tratta di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società. È una funzione che richiama i concetti di “futuro”, di “comunicazione”, di “consenso”.

Una seconda funzione può essere definita diautocoordinamento. Si tratta di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno (trasparenza) possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia. In che modo, però, definire le scelte proprie della Provincia? Può soccorrere un’applicazione corretta del principio di sussidiarietà: ma su questo tornerò più avanti.

Una terza funzione può essere definita diindirizzo. Il livello di pianificazione più direttamente operativo (che è anche quello più tradizionale e sperimentato) è quello comunale, i cui piani sono soggetti all’approvazione degli enti sovraordinati[2]. L’esigenza di razionalità nei rapporti istituzionali, così come è stata intesa nell’urbanistica classica e come è definita nella maggioranza delle più recenti leggi bregionali, pretenderebbe invece che la coerenza tra le scelte dei diversi enti, e la loro riconduzione a finalità d’interesse generale, non avvenisse più con i tradizionali sistemi di controllo a posteriori sulle decisioni degli enti sottordinati, ma indirizzandoa priori, mediante opportune norme, la loro attività sul territorio.

Le competenze territoriali della Provincia

Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Ma questo principio viene tirato da una parte e dall’altra, a seconda degli interessi di chi lo invoca. Conviene perciò rifarsi a una definizione ufficiale: a quel vero e proprio statuto dell’unione europea che è il Trattato istitutivo della comunità europea, stipulato a Roma nel 1957. Secondo l’articolo 3b, aggiunto al Trattato con l’accordo di Maastricht (1992)[3].

nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.

Il principio di sussidiarietà è stato coniato, su sollecitazione di Jacques Delors, per difendere le prerogative dei governi nazionali nei confronti della comunità europea: parte, per così dire, “dal basso”, e attribuisce agli organismi sovranazionali solo ciò che al livello nazionale non può essere efficacemente governato.

Ma esso è suscettibile anche della lettura inversa: il principio di sussidiarietà afferma anche che, là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E che la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti. É su questa base che è possibile distinguere in modo sufficientemente rigoroso e certo le competenze territoriali della Provincia da quelle della Regione e del Comune.

I contenuti della pianificazione provinciale

Applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree:

A) La tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla capacità di sopportazione del territorio (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva. É evidente che questo compito spetta in modo prevalente alla Provincia, a causa della scala, generalmente infraregionale e sovracomunale, alla quale le risorse suddette si collocano.

B) La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale. Il limite superiore, rispetto all’insieme di elementi collocabili in questa categoria, dovrebbe essere costituito da ciò che viene definito dalla pianificazione di livello regionale.

Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale (a differenza delle precedenti), richiedono ugualmente una visione di livello sovracomunale per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale (per esempio, il dimensionamento della residenza e delle attività), oppure che le normative comunali contraddicano le scelte relative alle grandi opzioni d’uso del territorio (per esempio, in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e delle risorse ambientali).

Mi sembra che tutti i contenuti della pianificazione provinciale pongano con forza la questione del rapporto della provincia con tutti gli altri soggetti che hanno competenze o esercitano poteri o producono azioni nelle trasformazione del territorio.

La pratica della concertazione

Distinguere le competenze tra i diversi livelli istituzionali è essenziale perché conduce a comprendere a quale degli enti appartenga la responsabilità delle scelte, e della decisione finale. Ma deve sollecitare anche a praticare efficacemente e correttamente lla pratica della concertazione (una delle pratiche adoperate e adoperabili per regolare i rapporti tra portatori d’interessi pubblici) là dove non viene praticata, o viene applicata in modo insufficiente o distorto.

La concertazione ha una delle sue ragioni essenziali nella necessità di abbreviare i tempi delle decisioni in tutte le (numerosissime) questioni nelle quali diversi enti rappresentativi di interessi pubblici e collettivi sono coinvolti. Si tratta di abbandonare la prassi di trasferire le “pratiche” da un ufficio all’altro, con relativa lettera di trasmissione debitamente firmata e protocollata in uscita e in entrata, di collocarle in ordine nella relativa pila di pratiche sulla scrivania del dirigente del competente ufficio, da questo trasmetterla al funzionario istruttore, da questo poi restituirla per la firma al dirigente, trasmessa all’ufficio mittente, per poi collocare questo segmento del procedimento in serie con tutti gli altri necessari segmenti. Si tratta si abbandonare di questo procedimento iperburocratico.

Si tratta di stabilire invece che, quando ne ricorre la necessità, oppure periodicamente, funzionari delegati dei diversi uffici competenti per una questione si riuniscono, discutono, decidono, verbalizzano la decisione assunta, stabilendo la data di un successivo incontro in quei soli casi in cui uno o più degli uffici coinvolti ha bisogno di approfondire la conoscenza della questione[4].

Naturalmente, nell’ambito di questo procedimento (che sembra nuovo solo perché l’antica prassi ministeriale delle “conferenze di amministrazioni” e delle “conferenze di servizi” è stata abbandonata o corrotta negli ultimi decenni) occorre distinguere con cura i portatori dei diversi interessi, e il sistema delle garanzie cui i procedimenti oggi (sia pure in forme spesso distorte dal barocchismo normativo e dallo smarrimento della ragione originaria dei diversi passaggi procedimentali) sono espressione. Ma a questo, nella materia della pianificazione, dovrebbe provvedere un’avveduta e aggiornata legislazione regionale.

L’esigenza del consenso

Analogamente a un piano comunale o a un quadro di riferimento regionale, il piano provinciale è, in ultima analisi, un progetto di trasformazione del territorio. E quando dico “trasformazione” non penso solo a opere nuove e nuovi insediamenti: penso anche a interventi, e regole, e politiche che invertano il processo di degrado in atto in molte parti del territorio, e che perciò costituiscano il contenuto di un progetto di “conservazione”. Come dice Pierluigi Cervellati, anche la conservazione è una trasformazione, anche la conservazione richiede un progetto.

Ora è evidente che, per rendere efficace un progetto di trasformazione del territorio occorre ottenere il consenso, oltre che dei soggetti pubblici direttamente coinvolti, anche dei soggetti privati che devono concorrere all’attuazione delle scelte. Molti sono i modi per ottenerlo, molte sono le pratiche messe in atto per conseguire il risultato.

Le pratiche però, a mio parere, si valutano (e si costruiscono) in relazione al loro contesto. Altro è operare in paesi dove l’autorità dell’amministrazione pubblica è forte, e dove gli interessi privati che si vogliono coinvolgere sono quelli degli imprenditori e degli usagers (come nelle esperienze francesi), altro è adoperare quelle medesime pratiche dove l’autorità pubblica è debole, e gli interessi che si vogliono coinvolgere (o che si riesce a coinvolgere) sono in primo luogo quelli della proprietà immobiliare, e degli altri “attori” volti alla percezione di rendite vecchie e nuove.

Ma forse vale la pena – a questo punto – di spendere qualche parola sulla governance: un termine che sempre più spesso, come dicevo, tende a sostituire quello di government.

La governance: come nasce, come è

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni[5].

[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale [6]

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Devo dire che questa interpretazione mi è tornata in mente quando qualche giorno fa, in uno dei convegni che abbiamo organizzato a Venezia nella Settimana della facoltà di Pianificazione del territorio, ho ascoltato con grande interesse l’eroico sforzo posto in essere dall’Ufficio del piano della Provincia di Milano, per costruire un decente piano di coordinamento provinciale, in una situazione legislativa del tutto particolare: in una situazione nella quale la Provincia è privata di poteri nel campo della pianificazione, poiché il Piano territoriale provinciale è sottoposto al preventivo parere dell’Assemblea dei comuni prima ancora dell’adozione e poi, una volta adottato, prima dell’approvazione[7].

Ciò significa, nella sostanza, che non esiste alcuna autonomia della provincia nel definire le proprie scelte territoriali. Il progetto elaborato in sede tecnica non esprime infatti alcuna autorità politica prima dell’adozione[8]. È chiaro che in una situazione siffatta, dove tutto il potere è dei comuni (e della Regione) non resta altro da fare ai tecnici che cercar di costruire il consenso dei comuni: anzi, di cercare di costruire il piano provinciale con una procedura bottom-up.

Ma alle volte la reazione a un sistema perverso induce a trovare soluzioni che, con gli opportuni adattamenti, possono essere applicati a situazioni non perverse facendole anzi diventare virtuose. È su questo che vorrei adesso riflettere.

La governance: che cosa può essere

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti meno difensivi di quello britannico, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti [9]

altri come

le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica [10].

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali [11].

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Distinguere gli interessi

Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione è, a mio parere, quella tra enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto.

Allo stresso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali . La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Qualche esempio della raggiungibilità di risultati positivi, nella riduzione dei tempi e quindi nel miglioramento del rapporto tra amministratori e amministrati. Nella Regione Lazio, fino a pochi anni fa, il tempo medio di approvazione di un PRG comunale era di 7 anni, e non credo che sia molto migliorato. In Emilia-Romagna invece, grazie a un diverso rapporto tra Regione, Province e Comune, il tempo massimo di approvazione di un piano comunale era un anno fa di sei mesi, ed è stato ulteriormente ridotto. In Toscana i tempi di approvazione sono stati rivoluzionati dalla procedura delle conferenze di pianificazione dalla prassi delle conferenze dei servizi nelle quali di decide.

Il tavolo pubblico-privato

Un tavolo diverso, a mio parere, è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali:

per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore

e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricerso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere.

Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: l’attore che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni.

Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Perché altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del “retino”) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Le esperienze di governance che conosco sono poche. È con una certa imprudenza che mi permetto perciò di avanzare un’ipotesi, sulla quale mi interesserebbe avere conferme – o smentite.

L’ipotesi è che la governance, nel campo del governo del territorio, funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario - nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto da noi, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole.

E sono certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio sia quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

[1] Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 20, comma 2.

[2] Poiché siamo in Campania colgo l’occasione per sottolineare che, in Campania, i piani comunali non sono approvati da un unico ente (generalmente le Regioni hanno delegato le province), ma: i piani dei comuni capoluoghi di provincia sono approvati dalla Regione, quelli compresi nelle Comunità montane (104 comuni su 158) da queste, e solo il residuo (53 su 158) dalla Provincia.

[3] L’articolo è stato ratificato e ridenominato come articolo 5 con l’accordo di Amsterdam (1997).

[4] Come, seppure in termini assai diversificati, fanno la legge 5/1995 della Regione Toscana, la legge 28/1995 e la legge 31/1997 della Regione Umbria, la legge 23/1999 della Regione Basilicata, la legge 38/1999 della Regione Lazio, la legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna.

[5] Holec Nathalie, Brunet-Jolivald Genevieve, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.

[6] Idem, p.

[7] Legge Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, “Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia”.

[8] L’adozione è infatti quella fase procedimentale nella quale l’organo politico collegiale assume la paternità del piano: questo prima di allora è un mero atto tecnico, in quanto tale privo di qualunque autorità se non quella morale.

[9] Bagnasco Arnaldo e Le Gales Patrick, cit in Holec, Brunet, op. cit., p.

[10] Marcou Gérard, Rangeon Francois e Thiebault Jean-Louis, cit. ibidem, p.

[11] Ibidem

La Provincia di Bologna ha aperto la costruzione del Piano territoriale di coordinamento provinciale (secondo la legge regionale 20/2000) con un ampio dibattito di verifica del precedente strumento di pianificazione (il Piano territoriale infraregionale). Il dibattito è stato preceduto da una analisi sulla situazione del territorio e da una verifica, su questa base, degli effetti del Pti. Esso si è articolato in più giornate, ad una delle quali (10 ottobre 2001) ho partecipato con l’intervento che riporto di seguito.

Anch’io vorrei sottolineare in primo luogo – come hanno fatto quanti mi hanno preceduto – la grande qualità e completezza delle basi analitiche del lavoro. Sul piano della conoscenza, il territorio e la sua dinamica sono sotto il pieno controllo della Provincia. È stata costruite, e funziona, una macchina capace di analizzare, monitorare, verificare le trasformazioni fisiche e sociali del territorio con una perfezione che credo sia assolutamente unica in Italia.

Ciò che vorrei aggiungere a questa considerazione è che la Provincia di Bologna non si è dotata solo – per così esprimermi – di un robusto “capitale fisso sociale”: nel costruire e gestire questo si è saputa anche dotare di un qualificato “capitale mobile umano”. La provincia è ricca di una dotazione organizzativa motivata e autorevole, di una struttura tecnica e amministrativa che è una risorsa di altissimo livello.

Mi ha colpito il modo in cui questa struttura è stata capace di misurare – grazie anche al patrimonio conoscitivo formato e sapientemente gestito – l’efficacia del’azione di governo del territorio: la distanza tra i propositi, le volontà dichiarate, le strategie costruite, e le concrete modificazioni indotte nella realtà. Ha saputo costruire un bilancio critico e autocritico che è l’indispensabile piattaforma su cui andare avanti.

Ho letto con molto interesse, e ho molto apprezzato, i documenti di “ Elementi per un bilancio critico del PIT ” e “ I nodi critici che emergono dal quadro conoscitivo ”, così come i rapporti di analisi di cui sono la sintesi e la conseguenza. In termini molto sintetici, mi sembra di poter riassumere i documenti in due proposizioni. Sul versante non dirattamente controllato dalle azioni del PIT le strategie positive proposte (e accettate) sono state in larga misura disattese. Ma anche sul versante più direttamente controllato si devono registrare punti di criticità non marginali.

Vorrei ricordare alcuni di questi punti di criticità.

Il sistema delle acque , questa rilevantissima risorsa per ogni possibile sviluppo. “lo squilibrio fra emungimenti e apporti rappresenta una delle più evidenti criticità ambientali del territorio bolognese. […] Le riduzioni previste non consentono ancora di prevedere il raggiungimento di una condizione di equilibrio e men che meno un recupero di livelli dell a falda più prossimi a quelli storici; restano inoltre fuori controllo i pozzi privati, per i quali le pregiate acque sotterranee continuano ad essere una risorsa gratuita e ‘illimitata’. [… ] In sostanza l’ espansione urbana ha continuato ad interessare in modo esteso le aree maggiormente permeabili e l’attuazione delle previsioni consolidate nei PRG comporterà nel prossimo futuro, a meno di ripensamenti da parte dei Comuni, la sottrazione al funzionamento naturale di altre centinaia di ettari di terrazzi e di conoidi..[…] Rispetto all’intera estensione delle aree ad alta o elevata vulnerabilità, ormai risulta urbanizzato o destinato dai PRG vigenti ad essere urbanizzato il 43% del conoide del Reno-Lavino e il 52% del conoide del Savena-Idice” (Nodi critici ecc., p.2)

Il sistema idraulico , essenziale per l’integrità fisica del territorio e degli abitanti, grave soprattutto nella situazione della pianura: “Qui ai fattori meteorologici (anch’essi peraltro influenzati dall’azione dell’uomo) si sommano cause esclusivamente antropiche quali: la progressiva urbanizzazione ed impermeabilizzazione del territorio che, diminuendo i tempi di corrivazione, concentra i deflussi in un minor lasso di tempo aumentando i colmi di piena; la subsidenza, causata da un eccessivo emungimento d’acque di falda, ben superiore alle capacità di ricarica della falda stessa, manifestandosi con maggiore intensità nell’alta pianura rispetto alla bassa, produce di fatto una diminuzione della pendenza motrice delle aste fluviali e dei canali di bonifica. Si sono così prodotte col passare degli anni condizioni di rischio idraulico sempre maggiori (Nodi critici ecc., p.3).

Il paesaggio rurale e la biodiversità : le “dinamiche evolutive hanno effetti particolarmente dirompenti sul territorio rurale della pianura alta e media e della collina, ove erano e sono ancora in parte leggibili le strutture paesaggistiche più profondamente sedimentate nella storia: impianti di appoderamento settecentesco, ricchezza di corti rurali tradizionali, ricchezza di segni storici minori e minuti e di elementi di arredo vegetale (alberi non produttivi isolati, filari, siepi, ecc.). La perdita di questi elementi di complessità paesaggistica si traduce anche nella distruzione di habitat specifici e ancora di più nella frammentazione ed isolamento degli habitat che residuano, ossia in perdita di diversità a livello di ecosistemi” (Nodi critici ecc., p. 9)..

Il sistema insediativo . I documenti ricordano le ragioni per le quali la strategia delineata proponeva una politica di “diffusione concentrata” o di “ decentramento sui centri”, ma sottolineano poi (e misurano) come questa strategia sia lungi dall’essersi realizzata: “La strategia di decentramento delineata dal PTI è stata comunque indebolita e disattesa al punto da dover essere necessariamente riconsiderata. […] Di fatto lo ‘sprawl’ è continuato, anche nelle sue forme più ‘ costose’ per il territorio e più generatrici di mobilità sostenuto da una domanda insediativa diffusa ovunque ma anche da un’ offerta insediativa diffus a in oltre 200 centri abitati anche di piccolissima dimensione e privi di servizi di base” (Elementi per un bilancio critico del PTI, p. 19).

E, sempre a proposito del sistema insediativo, nelle conclusioni, dopo aver ricordato il modello reticolare/policentrico che si assunse, con ampio consenso, nelle strategie territoriali, si afferma: “Nel dibattito politico-culturale di allora il modello assunto fu ampiamente condiviso, in particolare dai Comuni; né allora né in seguito sono state espresse critiche di fondo, forse anche perché, con qualche ambiguità, ciascuno si sentì legittimato ad interpretarlo a proprio vantaggio: in un modello a rete ciascuno può considerarsi un nodo. Le tendenze nell’evoluzione degli insediamenti persistono invece su due direzioni diverse, opposte e complementari: dispersione di residenti da un lato e densificazione del cuore dall’altro, entrambe sostenute da spinte e condizioni molto forti” (Elementi ecc., p. 20).

L’impressione complessiva suscitata dalla rigorosa e argomentata analisi è che si siano raggiunti gli obiettivi che comportavano, per i soggetti più ; direttamente interessati, elementi di crescita, mentre sono stati largamente disattesi gli obiettivi per i quali era richiesto contenimento . Sono aumentati gli interventi e le dimensioni nei luoghi scelti come polarità del nuovo assetto, ma sono cresciute in ugual misura le aree dove si voleva frenare la diffusione. Tutto ciò suscita una riflessione su un punto che a me sembra nodale.

Il Piano territoriale infraregionale aveva assunto pienamente – soprattutto negli ultimni anni – il metodo della concertazione e l’ obiettivo del consenso . È lecito domandarsi allora se affidarsi alle pratiche concertative conduca davvero a risultati efficaci, e se non sia invece necessario conferire alla pianificazione territoriale una valenza più regolativa . Dagli stessi documenti di analisi e bilancio emergono del resto indicazioni abbastanza precise in tal senso.

In questa direzione muovono, ad esempio, le constatazioni circa il fatto che gli emungimenti privati non sono stati contenuti (Nodi critici ecc., p. 2), o che nelle aree ad elevata vulnerabilità occorrerebbe escludere “ ogni ulteriore previsione urbanistica e ogni utilizzazione che vada a danneggiare o limitare le funzioni idrauliche”, ed in più rivedere “le previsioni urbanistiche vigenti di cui non sia ancora avviata l’ attuazione” (ibidem). Alla necessità di una pianificazione più cogente si allude anche quando si pone il problema di “di come riaffermare e consolidare il contenuto degli Accordi sul piano politico, e di come renderli più pregnanti ed efficaci sul piano tecnico-operativo” ; (Nodi critici ecc., p. 11), o quando si afferma che “Il tema da affrontare è la ricerca di un vincolo di coerenza fra le politiche insediative e le politiche relative alla distribuzione dei servizi di base (con particolare riferimento a quelli pubblici e quindi soggetti a specifica programmazione), nel senso che laddove non è possibile offrire un ‘ bouquet’ di servizi di base, per ragioni di efficienza o d i mercato, dovrebbe essere considerata implausibile e inopportuna l’ urbanizzazione di nuove aree, ferme restando naturalmente le politiche a favore dei recupero” (p.12).

Queste considerazioni sull’inefficacia, in questo contesto, di politiche territoriali troppo largaìmente affidate alla concertazione, spingono a una riflessione di portata più ampia: al nodo dei rapporti tra politiche territoriali e politica tout court . Vorrei ricordare, e ricordarvi, tre casi, tre contesti di politiche territoriali concertate che ho conosciuto.

L’esperienza della riconversione del bacino della Ruhr dalla produzione minerario.ndustriale alla qualità ambientale e culturale. Mi meravigliò molto, quando esaminai il piano dell’Emscher park, scoprire come quel piano (che delineava l’assetto urbanistico e ambientale di nomerosi comuni), e mi raccontavano che quel piano veniva rigorosamente attuato pur non avendo alcuna base giuridikca e alcun valore regolativo e cogente. Il fatto è che lì era stata assunta, dalla foza egemonica (nella fattispecie lo SPD, il partito socialdemocratico di Willy Brand) la

scelta strategica, lungimirante e proiettata nel lungo periodo, di modificare alla radice un tipo di sviluppo che si considerava (e che era) obsoleto. Da questa visione strategica si erano fatte discendere le coerenti politiche – in primo luogo quelle territoriali, urbanistiche e d’ investimento – e a queste era stato indirizzato tutto l’apparato amministrativo. Il motore era una volontà politica lungimirante e determinata, capace di coerenza nel tempo.

L’esperienza della governance in Francia, per esempio nei projets urbains di Lione. Lì il coinvolgimento concertato dei privati è funzionale a una strategia d’ineresse pubblico a causa di due condizioni. La prima: esiste un potere pubblico forte, autorevole, che non teme di venire a patti con i terzi perché è comunque egemone. La seconda: il privato non è la proprietà immobiliare, ma il singolo abitante, o proprietario/abitante, e l’impresa. È il potere pubblico, insomma, che guida la danza, nell’assenza di antagonisti privati i cui interessi territoriali siano conflittuali con l’interesse generale.

L’esperienza (mi avvicino a noi nello spazio, ma mi allontano nel tempo e nel clima politico e culturale) della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna, agli inizi degli anno Sessanta. Un organismo del tutto volontario, al quale aderivano praticamente tutti gli enti locali della regione quando la Regione non era ancora stata istituita. Un organismo che “faceva” la politica urbanistica dei comuni emiliani e romagnoli:erano le circolari di quell’organismo – e non decreti ministeriali – che inducevano i comuni a praticare il calibrato dimensionamento dei piani e l’applicazione degli standard urbanistici con anni di anticipo rispetto alla legge ponte del 1967. Anche lì, anche allora, era una lungimirante volontà politica, ed un’egemonia culturale e politica, che “concertavano” ; le cento politiche urbanistiche dei comuni.

Ecco allora la disperante domanda centrale. Esiste, oggi, una dimensione politica che sappia esprimere interessi generali, indicare una strategia lungimirante e ottenere il consenso su una credibile capacità di durare e di rispettare gli impegni? Senza questo elemento, le politiche concertative sono (ove le si guardi dal punto di vista degli obiettivi generali, condivisi a parole) una mera illusione. Né – occorre aggiungere - le politiche regolative sono molto più forti, sebbene siano almeno più oneste e trasparenti.

Ho posto un problema al quale non è facile dare una risposta. Io, almeno, non ne sono capace. Questo però apre un ulteriore e inquietante interrogativo: che fare, come fare il mestiere di urbanista, di planner , di ufficio pubblico adibito alla pianificazione? Dobbiamo ridurci a sacerdoti d’una religione i cui dei sono morti? O avere la presunzione di indossare la divisa delle sentinelle del futuro, o si assumere il ruolo dei portatori professionali di interessi generali che gli altri non tutelano?

Forse la risposta (non l’unica, ma un possibile punto di partenza) sta proprio in quel patrimonio di conoscenze accumulato, nella capacità di aggiornarlo e implementarlo, di tradurlo in puntuali verifiche di ciò che viene proposto e di ciò che è possibile. Si può utilizzare quel patrimonio di conoscenze e di saperi ispirandosi a ciò che di Machiavelli diceva Ugo Foscolo, quando parlava del Segretario fiorentino come di colui che “temprando lo scettro ai regnatori / gli allor ne sfronda ed alle genti mostra / di che lagrime grondi e di che sangue”. Si può socializzare quel patrimonio, farlo diventare uno strumento di critica delle proposte sbagliate e di dimostrazione delle prospettive positive possibili, per far crescere su questa base la coscienza di una sistema di interessi, e di speranze, comuni.

Per rendere “competitivo” il nostro povero paese hanno deciso di anticipare alcuni dei più perversi istituti della proposta di legge Lupi accompagnandoli con una fortissima dose di centralismo statale. L’articolo 9 del disegno di legge che accompagna il decreto per la competitività introduce infatti procedure che raggiungono due risultati: scardinare le procedure garantiste ed autonomiste della pianificazione urbanistica, aumentare il peso della grande proprietà immobiliare. Ma ecco in sintesi la legge (allegato il testo dell’articolo 9 presentato in Commissione, e le note ministeriali d’accompagnamento).

Il Governo (e per esso, oggi, il ministro Lunardi), “per promuovere lo sviluppo economico”, individua (con qualche segno di pennarello su una carta geografica, o magari un semplice elenco) “gli ambiti urbani e territoriali di area vasta, strategici e di preminente interesse nazionale, ove attuare un programma di interventi in grado di accrescerne le potenzialità competitive a livello nazionale ed internazionale, con particolare riferimento al sistema europeo delle città”. D’intesa con le regioni interessate. E se le regioni non ci stanno? Il Governo si propone di adottare “procedure sostitutive”. In queste aree i comuni, anche sulla base delle proposte di privati, formulano i programmi d’intervento. Se sono in contrasto con i piani urbanistici, si può derogare con l’accordo di programma. Per attuare gli interventi i comuni, o i soggetti da loro delegati, possono disporre il “trasferimento di diritti edificatori” e possono attribuire “ incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana”. Se mi regali un parco o l’area per una scuola, in cambio di permetto di edificare il doppio o il triplo di quanto sarebbe giusto e necessario.

Ad alcune “aree strategiche” vengono affidati compiti specifici. Così, nell’area Messina-Reggio Calabria il compito affidato ai comuni (o a chi per loro) è quello di prevedere tutto quello che serve per realizzare ilk Ponte sullo Stretto.

L’esigenza dello “sviluppo”, magari “sostenibile”, fornisce la pelle d’agnello sotto la quale camuffare il solito lupo della vecchia, familiare, speculazione immobiliare. Ho rivisto da poco Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi. Le forme sono certamente molto cambiate, la sostanza è la stessa. In più, una dose di centralismo.

Caro Presidente,

un lettore di Eddyburg mi ha inviato l’articolo di Pierluigi Properzi, che ti allego. Sono veramente indignato. Mi dicono che il Properzi è stato anche vicepresidente dell’INU, e che è ancora membro del gruppo dirigente.

Come sai è da tempo che non condivido la linea dell’INU. Devo dire che le ragioni di fondo erano già presenti quando mi dimisi da direttore di Urbanistica informazioni, e sono state confermate in tutta la gestione successiva alla sconfitta della mia posizione al congresso di Milano. Speravo che con la tua presidenza le cose sarebbero cambiate, ma così non è stato. Anzi, le nostre recenti polemiche dimostrano che le differenze si sono consolidate.

Ciò non mi avrebbe sollecitato a un passo per me così doloroso come quello che sto per compiere, perché la differenza delle posizioni è il sale della crescita culturale, dei singoli e delle comunità. Ma che un membro del gruppo dirigente dell’INU si permetta di insultare una persona come De Lucia è veramente qualcosa che non riesco a sopportare. Significa, tra l’altro, che l’INU ha perso la memoria della propria storia, quindi della propria natura.

La consapevolezza di ciò – come la presenza nell’INU di tante persone cui sono legato da vincoli di stima e di amicizia - mi rende molto amaro, caro Paolo, quanto sto per fare. Ti chiedo infatti di comunicare al Consiglio direttivo, perché ne prenda atto, le mie dimissioni da appartenente all’INU e alle strutture delle quali l’Istituto mi ha designato membro.

I film che abbiamo visto, nella postazione fuori dalla sala e qui dentro, ci danno molti elementi per comprendere un momento della nostra storia che è stato decisivo: la fase della ricostruzione del paese dopo la fine della guerra e la sconfitta del nazismo e del fascismo.

Molti elementi, non tutti. Alcuni li dobbiamo aggiungere noi, utilizzando qualcosa che abbiamo appreso dai libri e dai giornali e – i più vecchi di noi - la memoria personale.

Abbiamo visto - nella pellicola “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiata da Carlo Doglio e girata per la regia di Nicolò Ferrari - qual’era la situazione di miseria e di arretratezza del nostro paese, dopo la guerra e – soprattutto – dopo il ventennio fascista.

Le immagini e le parole sulle campagne, sul Mezzogiorno, sui paesi arroccati sulle montagne e sulle colline o dispersi nei latifondi e sul loro isolamento e il loro abbandono, sulla mancanza d’acqua in vaste zone del paese, sui metodi arcaici dell’agricoltura dove uomo e animale quasi si scambiano i ruoli – tutto questo ce lo hanno raccontato.

Abbiamo visto la complessità e l’impegno del grande sforzo di ricostruire su basi diverse – modernizzando ma senza rompere il tessuto tradizionale di solidarietà sociale – un paese diventato vecchio, e dissanguato dai conati imperialisti del regime di quel tempo. Le immagini e le parole sull’esperienza dei nuovi borghi rurali della Basilicata (in primo luogo la Martella) e quelle sulla riforma agraria, ne hanno dato immagini ed episodi.

Non abbiamo visto però, se non marginalmente, il motore di quella tentativo di cambiare l’Italia, riscattando dalla miseria, dall’abbandono, dalla sete, dall’ignoranza, dalla sottoccupazione endemica masse sterminate di abitanti delle campagne, delle zone interne, del Sud.

Non abbiamo visto l’epopea dell’impegno collettivo - immane, generoso, spesso punito nel sangue - delle lotte sindacali e contadine: l’impegno dell’ intero movimento sindacale e operaio italiano.

Un impegno unitario, pienamente nazionale, teso a liberare il Mezzogiorno e le campagne dall’arretratezza e dalla miseria.

Un impegno unitario e nazionale che trovò la sua espressione - più che il suo simbolo - nel fatto che un uomo del mondo bracciantile del Sud, un uomo di Cerignola, in terra di Puglia, Giuseppe Di Vittorio, diventasse negli anni difficili del dopoguerra e della ricostruzione il più grande leader dell’intero movimento sindacale italiano.

Ma si sa, dodici minuti di pellicola non possono raccontare tutto. Io però voglio sottolineare il nesso tra

- processo di riforma (di riforme strutturali, quali erano quelle per cui si lottava allora, non di riforme elettorali e istituzionali, quali quelle di cui sciaguratamente ci si limita a parlare oggi) - tra processo di riforma e processo di rinnovamento delle basi della società da un lato,

- e movimenti e lotte di popolo dall’altro: movimenti e lotte guidati da una politica che era tesa, allora, a incidere sui meccanismi reali della società, e non solo sul gioco superficiale dei poteri.

Quel nesso che del resto è perfettamente individuato e sentito da Carlo Doglio – il generoso sociologo bolognese d’adozione, apostolo del riscatto della “povera gente” attraverso l’intreccio tra pratiche sociali e pratiche urbanistiche – negli ultimi fotogrammi del film.

Doglio individua con molta precisione il nocciolo dei valori che la storia sociale ha depositato nella città e che non devono essere perduti, dei valori che nella città moderna (anche quella disegnata con le migliori intenzioni) rischiano invece d’essere smarriti.

Avete visto le immagini dei casermoni anonimi e tristi, dei quartieri recintati e chiusi, degli insediamenti nei quali i bambini venuti in città dalle campagne non sanno dove giocare. E avete visto, per converso, come quel popolo, quei cittadini vivessero prima nei paesi “poveri ma accoglienti” – dice il film - , dove le piazze, gli spazi pubblici erano i luoghi nei quali la comunità si riconosceva come tale, e l’uomo si sentiva parte di una società.

Insomma, il ruolo degli spazi pubblici come vera cerniera tra l’ uomo sociale e la città umana Carlo Doglio l’aveva colta quasi cinquant’anni prima della Compagnia dei Celestini.

Alcune immagini mi hanno particolarmente colpito. Nei nuovi borghi della riforma incompiuta gli uomini, la sera, in assenza di spazi comuni, prendono il cavallo o la motoretta e vanno al vecchio paese, dove trovano gli amici, l’osteria – e magari la casa del popolo. E nel borgo le donne rimangono sole: gli spazi comuni sono lontano dalle abitazioni, e le donne rimangono nella loro solitudine casalinga.

Le donne, la condizione delle donne: accorgersi di questa servitù e di questa esigenza di riscatto in quegli anni significava davvero saper guardare bene addentro alla società del tempo e ai suoi disagi, e ben avanti nel tempo.

Sono dovuti passare quasi tre lustri prima che la consapevolezza evocata da Doglio diventasse norma e strumento. Mi riferisco al decreto per gli standard del 1968 che impose di riservare, in tutti i piani urbanistici, determinate quantità di spazi pubblici e d’uso pubblico in ragione del numero dei cittadini previsti.

E poiché parliamo di questo, di quella regola e di quello strumento che noi tecnici chiamiamo gli standard urbanistici – e poiché poi ho sottolineato il ruolo delle forze sociali, della spinta del popolo organizzato, per ottenere i cambiamenti nella società e nella città, voglio parlarvi di un libriccino che ho riscoperto qualche giorno fa. E’ una storia della quale i film di De Carlo e Doglio non potevano dar conto, perché è avvenuta dopo: sebbene – l’ho appena detto – nei loro lavori ce n’erano i germi e – per così dire – l’attesa.

Il libriccino che ho ritrovato raccoglie gli atti di un convegno sul tema “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico”, organizzato dall’UDI (Unione Donne Italiane), a Roma, il 21-22 marzo 1964. Di quel libriccino, stampato ma fuori commercio e fuori dalle biblioteche universitarie, mi hanno colpito due cose che hanno a che fare con questa manifestazione.

La prima: quattro anni prima che gli urbanisti riuscissero a far diventare legge dello Stato la loro richiesta che anche in Italia - come negli altri paesi europei – ci fossero aree in misura adeguata per le esigenze della collettività (asili nido e scuole, campi sportivi e palestre, biblioteche pubbliche e ambulatori, piazze e giardini), quattro anni primi una grande organizzazione di massa aveva organizzato e svolto una vasta campagna di mobilitazione dell’opinione pubblica, aveva raccolto migliaia di firme in calce a una proposta di legge d’iniziativa popolare, e aveva posto al centro della sua iniziativa un convegno di studi. Quel lavoro ebbe uno sbocco, se quattro anni dopo la rivendicazione di più spazi per le cittadine e i cittadini diventò legge.

(E’ vero, l’elemento scatenante perché si arrivasse alla “legge ponte urbanistica” e al decreto sugli standard fu la frana di Agrigento e lo scandalo che quell’evento rivelò. Furono provvedimenti dettati dall’emergenza. Ma una volta tanto il movimento popolare che si era determinato indusse il legislatore a rispondere all’emergenza con un intervento strutturale).

La seconda cosa che in quel libricino mi ha colpito. A quel convegno due delle quattro relazioni fondamentali furono svolte da due urbanisti già allora famosi – due uomini cui l’urbanistica italiana deve moltissimo, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti.

Due figure di rilievo, nelle cui vite l’attività professionale e l’attività politica si erano sempre strettamente intrecciate, ed entrambe avevano alimentato un loro ruolo importante nell’attività di direzione culturale – in particolare, nel’Istituto Nazionale di Urbanistica di cui Astengo era il portavoce e Detti divenne il Presidente in anni difficili.

Non era la concertazione con gli interessi forti che cercavano allora gli urbanisti.

Non era la pretesa di far sedere gli interessi immobiliari al tavolo delle decisioni che stimolava gli urbanisti a cercare nuove soluzioni legislative.

Non era lo sforzo di perequare gli interessi dei proprietari fondiari che li affaticava.

Ciò che invece li impegnava

- era lo sforzo di soddisfare le esigenze della vita sociale delle donne e degli uomini, di dare risposta alle domande che salivano dai settori avanzati del popolo,

- era la ricerca di soluzioni che, nell’organizzazione della città, riducessero la sperequazione – quella sì ingiusta, e da assumere come avversario! – tra chi ha un’area e diventa straricco se ottiene di edificarla, e chi – come tante donne, tanti bambini, tanti uomini, come la Compagnia dei Celestini nel libr di Benni – cerca uno spazio per giocare, per crescere, per diventare comunità.

Ho parlato fino adesso soprattutto di uno dei film che abbiamo visto: quello intitolato “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiato da Carlo Doglio e girato sotto la regia di Nicolò Ferrari. E ripensando al titolo mi colpisce – mi sembra tanto lontano dall’oggi – che urbanistica significava, per quegli uomini, cose un po’ diverse da quello che sembra oggi.

Significava occuparsi

- delle trasformazioni economiche e sociali del paese,

- dei diritti concreti delle masse diseredate,

- del benessere dei lavoratori e delle componenti più deboli della popolazione: le donne, i bambini, i contadini emigrati nella città, gli abitanti dei tuguri e delle baraccopoli – di quei campi di concentramento nelle lontane periferie delle città che ci ricordano quelli dove, da decine di anni, vivono sull’altra sponda del Mediterraneo centinaia di migliaia di palestinesi.

E’ una faccia del paese, e della storia italiana di quegli anni, che Doglio richiama alla nostra memoria: la faccia della sorgente (il Mezzogiorno, i campi, le zone interne collinari e montuose) di quella grande, e impetuosa, e largamente sregolata trasformazione dell’Italia, da paese prevalentemente agricolo e rurale, a paese prevalentemente industriale e cittadino.

Una trasformazione largamente sregolata, che provocò danni e disastri - umani sociali economici e territoriali - di cui molte generazioni pagheranno il prezzo.

Perché non fu raccolta, in quegli anni, l’esortazione che – nell’interesse comune – veniva da quei brevi messaggi cinematografici: si ricostruisca il paese mediante la pianificazione. Il film di Doglio si conclude proprio con queste parole: “La ricostruzione diventi pianificazione urbanistica, strumento di tutti e non arma di pochi”.

L’altro film che abbiamo visto or ora anche in questa sala, quello dal titolo “La città degli uomini”, sceneggiato da Giancarlo De Carlo e da Elio Vittorini, diretto da Michele Gandin, rivela un’altra faccia dell’Italia di quegli anni – e, per tante ragioni, anche dei nostri anni. Protagonista è la città, “la città degli uomini”.

Anche lì, la sensazione piena che la città non è solo le case e le strade, è anche gliuomini che la abitano e vi lavorano. E, soprattutto, è per gli uomini.

Un antico brocardo medievale proclamava: “L’aria della città rende liberi”. Si riferiva evidentemente a quel periodo lungo e fondativo della storia della città in Europa nel quale la città, amministrata da una borghesia che ospitava nelle sue fabbriche uomini liberi da balzelli e legami feudali, e perciò era disposta a vendere liberamente la propria forza di lavoro - torme di contadini cacciati dalla miseria, dalle angherie dei signore e dei suoi sgherri, dalle pestilenze- affluiva nei luoghi della libertà.

Nei luoghi nei quali diritti comuni e consumi comuni legavano gli uomini in un’unica cittadinanza, un’unicà società – solidale nelle sue elementari regole di convivenza.

Giancarlo De Carlo ed Elio Vittorini sottolineano come, fin dai tempi più remoti, “costruimmo la città per stare insieme”. E affermano – proprio all’inizio del film – che da “Babilonia a New York” (due città oggi unite da eventi orrendi), dall’uno Evo all’altro, due sono state le ragioni che hanno sollecitato gli uomini a stare insieme nelle città: il bisogno e la lotta per la sua soddisfazione, la libertà e la lotta per la libertà.

Da sempre, insomma, la città è il luogo dell’appagamento e della dialettica. Ma poi, nella lunga storia dell’uomo, qualcosa deve essere accaduto che ha minacciato di tramutare il bene in male, che ha tramutato l’appagamento in solitudine e la dialettica in caos.

Il film – lo avete visto e sentito - ha un lungo avvio costruito con i ritmi della città. Ritmi sonori e ritmi visuali: i clacson delle automobili e l’ossessiva ripetizione delle finestre. I telefoni, le macchine da scrivere, le sirene delle ambulanze e quelle delle fabbriche.

Oggi, la città è – dice De Carlo- ”un ritmo che attrae e disorienta”. Luogo della libertà possibile, e luogo dell’alienazione. Luogo della folla e luogo della solitudine.

Agghiaccianti, indimenticabili alcune delle sequenze del film.

La sequenza che segue la lunga attesa nelle macchine, l’uomo investito. L’ambulanza, la folla, la traccia di gesso sull’asfalto che ricorda l’uomo che non è più, le ruote dell’automobile che ne calpestano la memoria. Il commento: “Un uomo che muore non è che un incidente”.

La sequenza della lunga smisurata serie di uomini visti di schiena, nutrirsi faccia al muro sullo stretto banco del self service. Il commento: “Nutrirsi non è più una festa comune”.

E la sequenza della lunghissima, insopportabilmente lunga passeggiata della donna distrutta, interiormente devastata quanto esteriormente normale e quasi accattivante. Una donna sola e disperata, che cammina tra la folla assente, estranea, lontana. Il commento: “Non vediamo chi ci passa accanto disperato”.

A me, a dire il vero, di questo film è sembrata più forte la critica alla città d’oggi – alla città come cominciava a configurarsi in quegli anni – che la sottolineatura degli elementi positivi. E quando li vediamo, essi ci rinviano quasi tutti alla dimensione comunitaria.

E’ così quando il film richiama alla città come il luogo nel quale si svolge la “lotta per accrescere la libertà, e le immagini sono quelle della fabbrica e di uno sciopero operaio.

E’ così quando il film definisce, tra le positività della condizione urbana, la “possibilità inesauribile di comunicare”, le immagini sono quelle, bellissime, nutrite di echi di René Clair e di Cesare Zavattini, delle case a ballatoio dell’area milanese, dove nelle lunghe vie esterne che danno accesso agli alloggi si svolge una vita che è, a un tempo, individuale e sociale: sull’uscio di casa, e insieme sulla pubblica via. Come era fino a pochi anni fa nelle calli di Venezia o nei vicoli del Mercato a Napoli – o, se volete, negli spazi pubblici dei PEEP meglio riusciti, come quello di Giancarlo De Carlo.

Quei film furono girati, nel 1954, con la speranza che fossero proiettati nelle sale commerciali seguendo i film della programmazione normale. Il loro obiettivo non era quello di farne dei documenti d’archivio, o dei testi multimediali adatti a nutrire le aule universitarie e le carriere accademiche.

Il loro obiettivo era quello stesso della Compagnia dei Celestini: aiutare le cittadine e i cittadini a comprendere

- che il miglioramento delle loro condizioni di vita, materiali e morali, passa attraverso la conoscenza di meccanismi complessi che governano il loro destino,

- che essi hanno – in un regime democratico, quale quello che è stato conquistato all’Italia da una legione di martiri – il diritto e quindi anche il dovere di intervenire su quei meccanismi, per ottenere che le ruote girino a vantaggio del popolo e del suo futuro, e non a vantaggio dei padroni e della loro immediata ricchezza,

- che a questo fine essi, le cittadine e i cittadini, devono praticare l’urbanistica, la pianificazione, l’amministrazione della città, perché è attraverso questi strumenti che si cambia il futuro degli uomini: che si dà loro la possibilità di utilizzare le possibilità dello stare insieme, dell’esser diventati più ricchi, più consapevoli, più forti.

E in quei film c’è un insegnamento e un messaggio rivolto agli urbanisti, ai tecnici, a quelli come me e come molti di voi. Si fa effettivamente il proprio mestiere se ci si pone al servizio non di chi dà più soldi, ma di chi deve vivere la città.

Cercare e stimolare la partecipazione delle cittadine e dei cittadini non è qualcosa che si deve fare per ottenere gratificazione e popolarità, e neppure solo perché è un loro diritto. È qualcosa che si deve fare perché il nostro lavoro venga su bene, perché serva a ciò cui deve servire.

Oggi la situazione è certo più complicata di venti o cinquant’anni fa. Allora c’erano istituzioni, rappresentative dei cittadini (un po’ meno delle cittadine), che costituivano un riferimento sicuro.

Lo costituivano perché erano espressione di partiti e correnti politiche che rappresentavano grandi progetti di società, grandi e definiti sistemi di interessi e forze sociali, che si ponevano come generali: come capaci – magari in alternativa e in conflitto gl’uno con gli altri – di esprimere un futuro migliore per l’intiera società.

Le cose sono cambiate.

Se conoscere il passato e riflettere su di esso è utile per comprendere il presente e progettare il futuro, ogni rimpianto e ogni nostalgia servono solo a riscaldare qualche cuore senile.

Se abbiamo compreso che le cose sono cambiate, che non esiste più – o non esiste ancora - un circuito virtuoso tra popolo > partiti politici > istituzioni > urbanistica, allora credo che dobbiamo comprendere anche che occorre ricostruire quel circuito cominciando dal basso, dal popolo, dalle cittadine e i cittadini. Che la partecipazione (alla progettazione della città e alla progettazione della politica) è un compito di tutti, nel quale dobbiamo tutti sentirci impegnati.

Credo che è anche questo che hanno voluto fare, le amiche e gli amici della Compagnia dei Celestini (e se di Compagnia si tratta, possiamo chiamarli compagne e compagni) con questa bella manifestazione. Alla quale, spero, molte altre ne seguiranno.

Prima una email, poi un’altra. Telefonate e appuntamenti mancati. Tutto in un paio di giorni. Poi ho rilasciato una intervista a una voce femminile anonima che non conoscevo, che me la chiedeva per pubblicarla in un sito sconosciuto. Al sito avevo dato un’occhiata: un po’ confuso, testi belli, immagini interessanti, ottimo italiano, grafica un po’ dozzinale. Si chiama Dentro il cerchio (www.luccone.com).

L’anonima intervistatrice ha un nom de plume (oggi si dice "nome di mouse"?) che ricorda uno di quei servizi domestici che c’erano una volta (La Rapida, La Perfetta): si chiama La pregiatina. Tiene un rigoroso anonimato, ed è eccezionalmente professionale. Quando, due giorni dopo, ho letto il testo dell’intervista sul blog mi sono meravigliato della fedeltà e della correttezza della restituzione. Se volete verificare, andate al sito, in fondo c’è l’elenco delle rubriche, le pregiate interviste de La pregiatina sono in quella denominata Converso controverso. Precisamente qui.

Anche per me, come per molti che lo conoscono e ne hanno scritto, di Pietro Ingrao sembra esemplare soprattutto lo stile: il modo in cui esercita, e vive, il difficile mestiere del politico. Pensare a Ingrao significa pensare alla possibilità che la politica sia qualcosa di diverso, di profondamente e radicalmente diverso, dall’immagine corrente della politica (e dei politici) di oggi. Oggi, che la politica è diventata nel migliore dei casi politique politicienne (possiamo tradurre “la politica politicante”), nei peggiori, politica affaristica – e nella media, politica come personale affermazione sociale.

Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta perciò su tre versanti.

Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.

Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani alla fine lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.

E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, ricordo un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; in un angolo del podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando nelle questioni che erano state sollevate, nelle proposte che erano state formulate. Il merito delle cose - al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile – era questo che contava: con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.

Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un'eccezione).

Ho accettato la proposta di presentarmi in una lista che appoggiasse Gianfranco Bettin come Sindaco di Venezia. Per alcune ragioni che ritengo doveroso esprimere.

Non perché abbia intenzione di rientrare nella politica e nell’amministrazione: ho già dato abbastanza, e abbastanza ho ricevuto. Sono stato consigliere comunale a Roma per dieci anni, consigliere comunale e assessore a Venezia per altrettanto tempo, e consigliere regionale nel Veneto per quattro anni. Ho lavorato all’opposizione e al governo in anni nei quali – checché se ne dica – fare politica nell’amministrazione pubblica era molto più pulito e gratificante di quanto oggi spesso sia diventato. Non mi spinge la voglia di ricominciare oggi, che le ragioni per cui si combatte per il potere diventano sempre più indecifrabili.

Neppure perché io sia un “Verde”. Ho molto rispetto e amicizia per gli amici delle liste Verdi, ho lavorato spesso con loro e ho cercato di aiutarli a comprendere che un albero non è una foresta, e che se si ama una foresta non si può vederla solo come un puntolino su un pianeta. La mia, però, è un’altra storia: io la politica - le sue ragioni, emozioni, tensioni, le sue regole severe, le sue vittorie e i suoi fallimenti - le ho apprese da comunista. E poiché “natura di cose altro non è che nascimento di esse”, tale sono rimasto, inguaribilmente temo.

Ho accettato la proposta che mi è stata fatta perché ho paura: paura per Venezia. Vedo il rischio di una convergenza, d’interessi e di miti, su una “idea di Venezia” molto lontana da quella che alimentò la discesa in campo di Massimo Cacciari all’inizio degli anni Novanta. Un’idea di Venezia che vede senza tremori la galoppante omologazione di Venezia ai moduli di una “modernità” che è in crisi in tutto il mondo, e che qui viene osannata come la soluzione di tutti i problemi.

Una “modernità”, se andiamo bene a vedere, basata sulle Grandi Opere (e concimata dagli affari, grandi e piccoli). Fuori di Venezia si potrà anche sorridere della querelle sul Mose. e sulla metropolitana sublagunare. Chi conosce Venezia (e l’ha compresa: le due cose non coincidono necessariamente) non sorride, e anzi ha paura. Ma bisogna che mi spieghi un po’ meglio.

Venezia, la vita che in essa si svolge, la sua organizzazione urbana, il suo rapporto con l’acqua e con gli altri elementi naturali, il tempo della vita quotidiana, sono diversi da quelli di qualsiasi città contemporanea. Sono la testimonianza del fatto che si può vivere in un altro modo: che si può passeggiare senza automobili, mandare i bambini per strada senza paura, incontrarsi in tutte le ore del giorno in quegli esemplari spazi di vita sociale che sono i campi, andare al lavoro e tornare a casa godendo del percorso che si compie, a piedi o sui canali con i vaporetti. E la forma stessa della città, la solida leggerezza delle sue architetture, il tracciato dei suoi canali e delle sue fondamenta, la sua dipendenza dal ritmo delle maree, il suo ritrovato rapporto con la laguna (oltre che la sua storia) testimoniano ed esprimono la capacità di governare un rapporto con la natura che produce bellezza e qualità della vita: una capacità che altrove si è persa, e affannosamente si ricerca.

A me sembra che chi sostiene la “modernizzazione” di Venezia, e proponga per ottenerla di affidarsi alle Grandi Opere, promuova di fatto la cancellazione del carattere speciale di Venezia, e la sua riduzione a ciò che le altre città del mondo sono diventate. Venezia invece può essere considerata e governata come una scuola di modernità: come un luogo che può consentire di sperimentare, a vantaggio di tutto il mondo, un modo rinnovato di produrre. Rinnovato rispetto a quello che vogliamo lasciarci dietro le spalle, perché non distruttivo delle risorse e realmente “sostenibile”. E rinnovato rispetto a quello che due secoli fa la Repubblica Serenissima ci lasciò perché capace di utilizzare, in una prospettiva non più “industrialista”, le innovazioni che la scienza di questi ultimi secoli ha messo a disposizione del genere umano.

È in questa prospettiva che vedo due questioni di merito, sulle quali il centro-sinistra da tempo è diviso: il Mose e la Sublagunare.

Entrambi i progetti si pongono sulla stessa linea. Entrambi pretendono di applicare alla laguna e alla città quelle regole ingegneristiche, rigide, astrattamente funzionali che contrastano e contraddicono gli equilibri che un millennio di sapiente governo dell’ambiente hanno costruito. Ed entrambi sono caratterizzati dal fatto di non essere utili e di costare moltissimo.

Non è utile il Mose (o almeno, è fortemente in dubbio la sua utilità). Se le maree proseguono con i ritmi e i livelli attuali, bastano gli interventi diffusi per ridurne l’impatto a livelli accettabili. E se invece il futuro vedrà un aumento straordinario dei livelli di marea, allora è dimostrato che la chiusura delle bocche di porto sarebbe così frequente da ridurre la laguna ad un lago: meglio sarebbe allora chiuderla stabilmente, con una spesa mille e mille volte inferiore.

E non è utile (anzi, è dannosa) la Sublagunare. Una metropolitana si giustifica solo con flussi di massa, la Sublagunare non potrebbe non produrre l’effetto di drenare ulteriori flussi di visitatori a Piazza San Marco e negli altri siti, già resi invivibili dal turismo attuale. Negli anni in cui si cercava di ragionare e non ci si faceva sedurre dall’ideologia del progresso, si era convinti che il turismo dovesse essere “governato”, e che a questo fine fosse utile e opportuno arrestare i flussi ai terminali di terraferma (Fusina e Tronchetto), e da lì farli proseguire in battello per Venezia. Se si vuole facilitare l’accessibilità alle funzioni direzionali di Venezia, allora la soluzione è stata indicata da molti anni, proprio a partire dai sindacati veneziani. Basterebbe riorganizzare l’attuale rete del ferro in Terraferma e utilizzare l’imponente asta ferroviaria del Ponte della Libertà per portare i pendolari a Santa Lucia e alla Marittima: luoghi dai quali, come a tutti è noto, si giunge facilmente e piacevolmente in ogni parte della città a piedi o con i civilissimi vaporetti.

Del resto, della qualità di Venezia, del suo insegnamento terribilmente moderno, fanno parte integrante il tempo e il modo dei percorsi. Venezia è bella anche perché permette di vivere il tempo dei percorsi, a piedi o in vaporetto, come spazi nei quali ti distendi e ti arricchisci godendo la visione della città, delle sua case, i suoi campi, i suoi abitanti. Il tempo del percorso non è a Venezia, come è nelle altre città contemporanee, una sofferenza la cui durata va minimizzata, ma un piacere che s’inserisce nella giornata come una pausa naturale e gioiosa.

I due candidati “maggioritari”, Brunetta e Costa, hanno entrambi più volte dichiarato il loro favore per il Mose e per la Sublagunare. E i DS, nonostante molti mugugni e qualche resistenza, non sembrano volersi impegnare a fondo perché questi due temi siano affrontati come meritano. Del resto, è proprio una giunta nella quale i DS sono determinanti che ha approvato, senza nessun dibattito consiliare, un incredibile e incoerente ammasso di carte denominato PRUSST (programma di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio), che prevede la realizzazione di un primo tronco della Sublagunare, da Tessera all’Arsenale. Ed è quella stessa giunta che ha rinunciato subito, al suo primo insediamento, a operare con qualche efficacia contro la trasformazione della città in un emporio di squallidi e squalificate merci prodotte, uguali in tutto il mondo, per i turisti “mordi e fuggi”.

Nella sua lettera agli elettori Arnaldo (Bibo) Cecchini ha scritto che “i poteri delle amministrazioni locali sono talmente irrisori rispetto ai processi reali (per Venezia: il trionfo della mono-cultura del turismo in centro storico e del modello insediativo e produttivo della città diffusa in terraferma) che quel che si può fare è davvero poco”. Su questo punto Bibo (la cui bella lettera condivido in grandissima parte) sbaglia. Il comune ha i mezzi per contrastare sia la “città diffusa” che il trionfo della monocultura turistica. Solo che il Comune di Venezia, ha teorizzato (e soprattutto praticato) il liberismo urbanistico: l’assessore all’urbanistica ha più volte affermato che non si dovevano vincolare le destinazioni d’uso, per non ingessare il mercato e la città!

Il cronista attento, poi, registra, tra i primi atti della Giunta Cacciari, la revoca di una deliberazione, approvata dalla Giunta Casellati (proponente l’assessore Maurizio Cecconi) con la quale si decideva di applicare le facoltà concesse ai comuni dalla cosiddetta Legge Mammì: la facoltà impedire la sostituzione di determinati tipi di esercizi commerciali con altri. Applicare questa deliberazione avrebbe permesso, per esempio, di evitare la proliferazione dei fast food (per anni le giunte di sinistra avevano vittoriosamente contrastato il primo tentativo a Campo San Luca), e di difendere gli esercizi commerciali tradizionali contro l’invasione dei rivenditori di paccottiglia.

Queste sono le mie preoccupazioni. So per quale destino di Venezia lavorerebbe Renato Brunetta. Temo che Paolo Costa lavorerebbe nella stessa direzione, visto che il DS si è mostrato così arrendevole, incapace di imporre un programma serio e di garantirne il rispetto. Non vedo, francamente, alternative diverse da quella di tentar di condizionare una maggioranza di centro sinistra con la presenza determinante di un raggruppamento ispirato da un’altra idea di Venezia, diversa da quella che accomuna Costa e Brunetta. Un raggruppamento che si riferisca ad una personalità – come quella di Gianfranco Bettin – che ha dato prova non solo di coraggio civile e capacità di ascolto, ma anche di capire Venezia, e di volerne una diversa da quella delle Grandi Opere e della monocultura turistica.

Piacevole (è scritto in buon italiano, ciò che è abbastanza raro nella letteratura di genere) e in gran parte condivisibile, il saggio di Francesco Ventura: nell’ispirazione di fondo che lo muove, nella passione che lo anima, nei puntuali appunti che muove all’urbanistica della Toscana Felix. In gran parte condivisibile, se non fosse per due errori, tra loro strettamente connessi, che rendono poco utile l’intero ragionamento.

In sostanza Ventura propone che sia il decreto di vincolo a definire i criteri che le azioni dell’uomo devono rispettare perché i beni siano tutelati nei loro caratteri propri. Scrive Ventura: “È l’atto di vincolo, e non il piano, che deve dire in concreto in quel luogo quali sono i limiti che qualsiasi atto di piano, pubblico o privato, deve rispettare. Il vincolo deve determinare inequivocabilmente l’oggetto concreto della tutela in ogni specifico luogo, se si vuol tentare di raggiungere una tutela efficace, rigorosa e certa”.

Ventura non spiega perché un atto amministrativo essenzialmente monocratico (il decreto di vincolo) dovrebbe compiere quella medesima operazione che le leggi vigenti affidano alla pianificazione: una procedura soggetta a garanzie di trasparenza e di coerenza (spesso violate, ma chi si oppone alle violazioni?), pienamente conforme al regime democratico nel quale viviamo (pieno di difetti, lo sappiamo: ma vogliamo abolire la repubblica per restaurare il Re, esautorare il parlamento e i consigli comunali per ripristinare i tiranni e i podestà?). O per meglio dire, lo spiega con un pre-concetto: la pianificazione è essenzialmente, strutturalmente, per sua propria natura cattiva.

Questo è appunto il secondo errore di Ventura. Egli ritiene che la pianificazione territoriale e urbanistica, e anche quella “con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, sia esclusivamente, univocamente, totalitariamente fondata sul valore venale. È un errore identico a quello che avrebbe fatto uno scienziato (quale Ventura indubbiamente è) il quale, avendo conosciuto solo le donne ospitate nel manicomio criminale, sostenesse che tutte le donne sono assassine. La pianificazione è uno strumento. Come tutti gli strumenti può essere adoperato in più modi, buoni e cattivi. Peccato che Ventura abbia conosciuto solo quella cattiva, o solo da quella sia stato conquistato.

Per carità, si tratta di una tesi perfettamente legittima sotto il profilo culturale. Ma ha senso discuterne? Non sarebbe meglio comprendere che cosa precisamente la legislazione vigente dispone, e far sì che sia rispettato? Lavorare perché effettivamente le soprintendenze siano attrezzate per entrare nel processo di pianificazione? I contenuti che Ventura vorrebbe attribuire al vincolo sono esattamente quelli che la buona pianificazione (quella fedele alle prescrizioni e alla ratio della legge Galasso e delle successive versioni del Codice del paesaggio) deve possedere. E che già possedeva quando Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli tutelavano le colline e i paesaggi di Siena, Edoardo Detti quelle di Firenze e Giovanni Astengo quelli di Assisi.

Ventura aiuti a far sì che la Regione Toscana rispetti la priorità dei precetti dettati dall’esigenza della tutela su ogni ammissibile trasformazione che quelle leggi, e le sentenze costituzionali, prescrivono a tutte le istituzioni della Repubblica. Temo che sostenere che la pianificazione è in ogni caso, e irrimediabilmente, perversa finisca per essere utilizzato come alibi da chi vuole utilizzarla per spalmare “perequazioni” anche sui beni paesaggistici. Dimenticando che, a partire dalle sentenze costituzionali 55 e, soprattutto, 56 del 1968 tutti dovrebbero sapere che le limitazioni determinate da ragioni di tutela paesaggistica non danno diritto a nessun indennizzo delle proprietà vincolate.

1.Paesaggio, territorio, società

Il paesaggio rappresenta ed esprime il rapporto, diverso nelle diverse fasi della storia, che lega la società al territorio. Un rapporto che non va in una direzione soltanto. La società, collaborando con la natura (o violentandola) costruisce il paesaggio, come ha magistralmente dimostrato Emilio Sereni1. Ma il paesaggio, condizionando la vita dell’uomo, contribuisce a sua volta a modificare la società, come ha raccontato brillantemente Piero Bevilacqua2.

Ragionare sul paesaggio in Italia, domandarci in che modo in questi anni appena trascorsi e nei prossimi si trasforma e si trasformerà il paesaggio della Bella Italia ci porterà quindi ad affrontare i due aspetti della questione: il paesaggio e il territorio. Cominciamo da quest’ultimo.

2. Il territorio

Il territorio non è uno spazio neutrale e indifferente, come lo possiamo immaginare vedendo una piatta carta geografica. Il territorio è una realtà complessa, è un sistema nel quale tutte le parti sono in reciproca relazione, e un’azione su una esercita modificazioni su tutte le altre. Del territorio il paesaggio è la forma, il volto: come un viso esprime l’anima di un uomo, così il paesaggio riflette il carattere, la struttura, la storia – e infine la bellezza o la bruttezza – del territorio.

Il carattere del territorio italiano è espresso da due elementi essenziali, che lo rendono del tutto particolare. È un territorio accidentato e fragilissimo. È un territorio ricchissimo di testimonianze storiche. Ed è proprio l’intreccio tra questi due caratteri che ne fa la singolarità, la bellezza, la ricchezza.

L’uno e l’altro carattere, ciascuno per se stesso, meriterebbe (dobbiamo dire:”avrebbe meritato”) un massimo di cura e attenzione. Per evitarne il degrado fisico, reso facile dalla sua fragilità. Per evitarne il degrado estetico e culturale, la cancellazione della storia di cui è intriso e della bellezza che ne sintetizza le qualità.

Eppure, sappiamo tutti che questo territorio, questo paesaggio, questo insieme di bellezze e ricchezze e qualità, è soggetto a un deperimento che sembra irreversibile. Ne hanno distrutto (ne abbiamo distrutto) una grandissima parte. Si sono accaniti sulle sue parti più belle: le coste, le valli, i boschi. Si sono accaniti nelle pianure più fertili, nei terreni resi fecondi da milioni di anni di depositi vulcanici o alluvionali.

E si sono accaniti su margini delle città, creando una nuova caratteristica del paesaggio italiano d’oggi: mi riferisco alla perdita del confine tra la città e la campagna, tra il costruito e il libero, tra l’urbano e il rurale. In qualunque altro paese dell’Europa civile questo confine permane netto: basta sorvolare il territorio in aereo o col computer per rendersene conto.

3. La società

Veniamo all’altro protagonista della storia del paesaggio, e all’altro responsabile del suo presente e del suo futuro: la società. È facile affermare che la nostra società è radicalmente mutata dai secoli che hanno conformato i nostri paesaggi più belli. Meno facile è comprendere il senso del cambiamento, la sua radice, le sue conseguenze sul territorio. Meno ancora è l’afferrare i cambiamenti che sono in corso nei decenni più vicini a noi: vi siamo ancora dentro.

La radice del cambiamento sta in quel grandissimo evento che fu la rivoluzione borghese – che si svolse tra il XVIII e il XIX secolo – e la conseguente affermazione del sistema economico capitalistico. Quell’evento provocò grandissimi benefici al genere umano (soprattutto nelle regioni del mondo dove mise più profonde radici) ma anche grandissimi disastri.

La nostra cultura impiego molto tempo per rendersi conto che uno dei disastri più grandi fu quello che è derivato dal cambiamento del rapporto tra uomo e natura. Questo cambiamento toccò due punti fondamentali: l’uso del territorio e la sua appartenenza.

Per secoli l’uomo ha utilizzato la natura rispettandola, adeguandosi ai suoi ritmi, alle sue regole, alle sue forme. L’ha trasformata e foggiata, ha costruito – come ha scritto Emilio Sereni – una “seconda natura”, conformata dal lavoro dell’uomo. Ma non l’ha violentata, non l’ha negata, non l’ha cancellata. I nostri più bei paesaggi, quando non sono quelli direttamente prodotti dalla natura, sono quelli prodotti dalla collaborazione (verrebbe da dire “paritetica”) tra l’uomo e la natura. Il senso della misura, dell’equilibrio, della riproducibilità delle risorse naturali sono stati per secoli i connotati del lavoro dell’uomo. La Repubblica Serenissima di Venezia, nel XV secolo, ordinò che tutte le trasformazioni della natura lagunare dovesse essere ispirate ai tre criteri della gradualità, sperimentalità, reversibilità: era la codificazione di una norma non scritta che già vigeva da secoli.

E per secoli il territorio è stato considerato un bene comune. Gli “usi civici”, le “università agrarie”, le “regole” che definiscono gli usi comunitari di vaste zone dell’Italia sono una permanenza ancora viva di questa realtà.

Tutto questo è cambiato. Proprio quando l’aumento della popolazione avrebbe richiesto una maggiore parsimonia nell’uso della natura questa da coprotagonista è diventata schiava. Anzi, la natura è diventata materia prima d’ogni trasformazione richiesta dall’esigenza del continui e inarrestabile allargamento del processo di produzione: del processo di trasformazione dei beni in merci, delle qualità in quantità. La società è diventata, da partecipe alla costruzione del territorio e del paesaggio, divoratrice dell’uno e dell’altro. Uno dei passaggi decisivi di questo processo è stato l’appropriazione privata del territorio, la frantumazione dei beni comuni in una miriade di proprietà private.

4. La fase aristocratica della tutela

La necessità di proteggere il paesaggio cominciò ad acquistare rilevanza istituzionale, in Italia, nei primissimi decenni del secolo corso. Mi sembra di poter dire che in una prima fase, che ha caratterizzato l’intera prima metà del XX secolo, ha prevalsu una visione aristocratica del paesaggio in tre sensi. (1) La consapevolezza del “valore” del paesaggio era percepita esclusivamente dalle aristocrazie culturali e politiche, dai “ceti alti” della cultura e del reddito. (2) Il “valore” del paesaggio era individuato solo nella sua qualità estetica, e i luoghi da tutelare erano i “bei paesaggi”. (3) Anche in conseguenza di ciò, la tutela era affidata allo Stato.

Una intuizione che andava al di là di questa concezione può dirsi quella espressa da un ministro della Pubblica Istruzione che si chiamava Benedetto Croce. Questi introdusse per la prima volta il nesso tra paesaggio e identità di un territorio.

Il filosofo napoletano, quale ministro per la Pubblica istruzione nell’ultimo ministero Giolitti, scrive nel 1920:

“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo”3.

È interessante rilevare che è dall’ambito di una visione estetica (la quale oggi ci appare limitata) del paesaggio che nasce, in Italia, l’esigenza della tutela e la sua interpretazione in funzione dell’identità nazionale. E la responsabilità di questa tutela non può che appartenere allo Stato, espressione della collettività nazionale. È su questa stessa linea che si collocano le leggi Bottai del 1939, sia pure cogliendo alcuni elementi di novità per quanto riguarda soprattutto la strumentazione.

5. La fase democratica della tutela

Il quadro cambia radicalmente con la costituzione della Repubblica. Nella Carta costituzionale della Repubblica italiana (1948) la tutela del paesaggio entra tra i massimi principi del nostro ordinamento. Il testo attualmente vigente (speriamo che resista ancora alle spallate demolitorie!) dell’articolo 9 della Costituzione è il seguente: «la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

La Repubblica, non lo Stato: la Repubblica è costituita da stato,regioni,province e comuni. È a questo insieme di istituzioni che è affidata la tutela:non a una soltanto di esse, sebbene la Costituzione lasci aperta la possibilità di attribuire ruoli e preminenze diverse alle diverse istituzioni – e sappiamo che successivamente si sono configurate responsabilità in capo soprattutto, ma non esclusivamente, a Stato e regioni.

Ho voluto sottolineare questo aspetto perché questa attribuzione molteplice della tutela del paesaggio significa anche che, quando una delle istituzioni non adempie correttamente alla sua responsabilità, altre possono esercitarla in sua vece. Si può sostenere insomma una sorta di diritto (o dovere) di supplenza: se lo Stato non tutela adeguatamente, la regione o la provincia o il comune hanno il diritto/dovere di intervenire. E viceversa, se la Regione opera male e non tutela, il dovere dello Stato è di intervenire anche laddove la competenza formale sia stata attribuita alla regione.

L’equilibrio delle istituzioni è un elemento fondamentale di una democrazia ben operante. Credo che parteggiare per l’una di esse contro l’altra, per il centralismo statale oppure per il localismo comunale, sia un errore, e un limite al raggiungimento di risultati positivi. Utilizzando il detto di Deng Tsiao Ping, direi che bisogna scegliere volta per volta il gatto che afferra meglio il topo.

Nella concretezza delle situazioni territoriali, per molti anni, il compito della tutela è stato svolto più dai livelli locali della Repubblica che da quelli centrali. Negli anni 60 e 70 del secolo scorso spesso sono stati comuni virtuosi, con una pianificazione urbanistica avveduta e lungimirante, ad esercitare una tutela efficace sui loro territori. Soprattutto là dove la loro azione era accompagnata, e spesso preceduta, da una politica dei partiti (soprattutto ma non esclusivamente dai partiti della sinistra) che vedeva nella tutela delle qualità del territorio un elemento della sua proposta politica. Mi riferisco ad aree come la Toscana, l’Emilia-Romagna, l’Umbria, il Trentino e il Sud Tirolo, ma anche il Piemonte, parti della Lombardia e del Veneto. Se in molte parti di questa regioni noi vediamo ancora paesaggi sopravvissuti all’onda cementizia lo dobbiamo anche a valorosi sindaci e ad avveduti dirigenti politici di quegli anni.

Ma in quegli stessi anni abbiamo anche registrato episodi in cui sono stati gli organi centrali a correggere scelte comunali perverse e distruttive. Ricordo ancora la riscrittura di un PRG di Napoli devastante, nel 1972, compiuta dal Consiglio superiore dei LLPP (artefici principali Antonio Iannello e Michele Martuscelli). E ricordo l’intervento del ministro allo stesso dicastero, Giacomo Mancini, che salvò l’integrità dell’area dell’Appia Antica con una correzione autoritativa del PRG di Roma.

Bisogna dire che in quegli anni non c’era solo una Costituzione che costituiva un punto di riferimento certo, ma anche una cultura politica e un senso dello Stato che consentivano di guardare lontano: anche agli interessi del futuro.

Mi sembra di poter dire in sostanza che con la Costituzione si era entrati, dalla fase aristocratica della tutela, alla fase democratica, di cui forse il Codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce l’ultimo momento. Purtroppo devo aggiungere che, a mio parere, siamo entrati in una fase ulteriore, che definirei la fase post-democratica. Una fase dalla quale solo il consolidarsi, propagarsi ed estendersi di iniziative come la Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio potrà consentirci di contribuire all’uscita. Ma vediamo in che cosa la presente fase si caratterizza.

6. La fase post-democratica

Della fase attuale vorrei mettere in evidenza tre caratteristiche, che riguardano i cambiamenti intervenuti nella politica, nella società, nella cultura dominante, e che sono le cause vicine o lontane di tutti i disastri che dobbiamo registrare e patire, sia nella vita del territorio che in quella della città – e quindi, nella vita delle generazioni presenti e di quelle future: il rapporto tra il tempo del territorio e il tempo della politica; il rapporto tra la dimensione pubblica e quella privata nell’uomo; il rapporto tra l’economia, la politica e il territorio.

Sul primo punto. Si è determinata una frattura crescente tra i tempi lunghi del territorio, della sua formazione e delle sue trasformazioni, e i tempi brevi della politica. Il territorio vivi tempi lunghi, a volte lunghissimi. Milioni di anni sono stati necessari per foggiare la forma dei nostri territori: per far emergere le montagne, corrugarsi le valli, formarsi con i sedimenti vulcanici e con quelli alluvionali e fertili pianure. Millenni di lavoro e la cultura di generazioni sono stati necessari per formare i paesaggi che oggi ammiriamo, e che fanno della nostra terra un mosaico di bellezze. Lustri e a volte decenni sono necessari perché gli effetti indotti dalle trasformazioni programmate, per esempio, da un piano regolatore, si traducano in concrete modificazioni del modo in cui città e territorio sono organizzati e vissuti dai cittadini.

Una saggia politica del territorio avrebbe bisogno di una politica lungimirante, capace di costruire una strategia, un progetto di società e un conseguente progetto di città, e di realizzarlo con pazienza e con costanza. Oggi, invece, la politica si è interamente appiattita sul breve periodo: è diventata miope. Non ha la pazienza di seminare e di attendere il raccolto: vuole raccogliere subito, portare via quello che già c’è. Il fatto è che, anche nella politica, ciascuno (ciascuna persona, ciascun gruppo, ciascun partito) guarda al suo interesse immediato. Vale solo ciò che è spendibile prima delle prossime elezioni. È evidente che una visione simile è distruttiva per il territorio.

Sul secondo punto. Nel corso della sua lunghissima vicenda l’uomo ha imparato che non tutte le esigenze della sua vita possono essere soddisfatte individualisticamente. Così, nel corso della lunghissima elaborazione dei bisogno e del suo progressivo soddisfacimento, l’uomo ha arricchito la sua stessa natura. L’uomo ha così acquisito una duplice componente della sua natura: in ciascuno di nui c’è la componente individuale, personale, privata, e la componente comunitaria, sociale, pubblica. Questa due componenti, l’uomo privato e l’uomo pubblico,hanno storicamente raggiunto un equilibrio. Nell’ultima fase, la fase che attraversiamo, l’uomo privato ha cacciato l’uomo pubblico: la persona umana si è individualizzata: siamo entrati nella fase, per adoperare le parole del sociologo Richard Sennett, del “declino dell’uomo pubblico”4.

L’individualismo è diventato trionfante: è la pulsione dominante. Si è persa la consapevolezza che più la società diventa complessa più cresce la necessità di risposte comuni a problemi comuni. La città e il territorio, i problemi che pongono, la necessità di governare in modo ragionevole e lungimirante le loro trasformazioni esigono invece una forte presenza dell’uomo pubblico che c’è in ciascuno di noi: un forte senso della responsabilità collettiva, una forte disponibilità ad azioni collettive.

Il terzo punto. In una società bene ordinata l’economia è certamente una dimensione importante. Ma ogni fase dell’economia ha avuto un suo motore, un suo obiettivo dominante. L’economia nel cui ambito viviamo da alcuni secoli, l’economia capitalista, ha come suo motore la ricerca del massimo profitto da parte di ciascuno dei possessori dei mezzi di produzione. Questo obiettivo è raggiungibile mediante la massima produzione di merci. Ora non è detto che questo obiettivo corrisponda al massimo del benessere sociale. Perciò la politica si è sempre posta il problema di guidare l’economia, o almeno si è posta, nei confronti dell’economia, come un altro potere. La storia della democrazia può essere letta proprio in questo modo: come quella diell’affermazione di un potere che, esprimendo gli interessi della maggioranza dei cittadini, potesse contrastare, o almeno condizionare e condividere, gli interessi dei padroni dell’economia.

È ormai chiaro a tutti che la politica si è completamente appiattita sul potere economico. Si è costituita una ideologia, un modo corrente di pensare, per il quale l’economia data, questa economia, è considerata inevitabile: al punto che la politica non riesce più a pensare alla sperimentazione di alternative percorribili. E poiché per questa economia non esistono beni (cioè cose cha abbiano valore per sé) ma solo merci (cioè oggetti scambiabili con denaro) ecco che si tende a trasformare in merci anche beni preziosi come il paesaggio, la storia, la bellezza del nostro territorio, le sue risorse irriproducibili: in una parola, il suo patrimonio.

7. Occorre ripartire: da dove?

Queste sono le tendenze in atto. E credo che, se ci sforziamo un poco, riusciamo a leggerle in ciascuno degli episodi di dissipazione del paesaggio a cui assistiamo, e in ciascuna delle cause immediate a cui li facciamo risalire. Sul fatto che, lasciando il mondo in balia di queste tendenza, si tenda verso una catastrofe esiste ormai una vstissima letteratura. Il bellissimo ultimo libro di Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo5, ne costituisce un quadro di grandissima efficacia.

È impossibile, almeno per me, comprendere se il sistema economico sociale capitalistico sarà in grado di auto correggersi (Franco Rodano sosteneva che il capitalismo è come Proteo, il mostro che cambiava continuamente forma e natura per sfuggire alla stretta di Ercole), oppure se sarà necessario e possibile immaginare e costruire un sistema del tutto diverso. Quello che so è che, in qualunque modo il cambiamento si manifesti, sulla direzione di marcia influiranno le sollecitazioni che verranno dalle controtendenze che si manifesteranno nella società.

E devo dire (lo scrivo da tempo sul sito web eddyburg e sul settimanale Carta) che vedo ben poche cose si muovono in controtendenza nelle istituzioni e nell’accademia, non ne vedo nessuna nella politica ne vedo invece molte nella società.

In tutt’Italia si manifestano ormai tensioni e interessi che si esprimono in quasi tutte le regioni d’Italia e spesso si concretano nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.

In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze).

Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale pubblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati. Del resto, gli studiosi che analizzano gli effetti del neoliberalismo negli ambiti urbani prevedono già lo svilupparsi di nuovi conflitti, generati dall’aggravarsi del problema della casa, dalle carenze o dai maggiori costi dell’acceso a servizi ormai indispensabili alle famiglie, dal crescere del disagio derivante dall’organizzazione dei trasporti.

I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.

È un lavoro nel quale spetta anche agli esperti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. E insieme alla corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliorano o peggiorano, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.

1 Emilio Sereni. Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1961.

2 Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1969

3 B. Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920.

4 Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006

5 Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma Bari 2008

Possono piacere o non piacere (a me non piacciono, e dirò perchè) ma una cosa è certa: Questi nuovi mega centri commerciali sono strutture che influenzano poderosamente il funzionamento del territorio, a una scala molto vasta. Inducono flussi di traffico, trasformano l’ambiente, provocano trasformazioni nelle zone circostanti. Sono quindi strutture che, sulla base di una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, vanno localizzate sulla base di un piano di livello almeno provinciale. E sono strutture nuove, le quali quindi devono essere regolate da una legge: una legge regionale che definisca dimensioni, condizioni, procedure. In quella zona non esista un piano che preveda questa megastruttura, e non esiste una legge regionale che stabilisca i requisiti e le attenzioni.

A me sembra del tutto intollerabile che le regioni, cui è attribuita la potestà di governare il territorio, che dal 1972 hanno la competenza e la responsabilità della legislazione urbanistica, siano inerti di fronte a questi episodi.

Nel merito, questi centri commerciali territoriali mi sembrano esprimere una tendenza molto preoccupante.

Guastano la città: le svuotano del commercio, che contribuisce poderosamente a renderle vive e vitali: il commercio che è stato all’origine della loro creazione. Allontanare il commercio dalla residenza, dai servizi, dalla vita quotidiana significa castrare le città, renderle un dormitorio, trasformarle a poco a poco in luoghi spenti.

Guastano il territorio: concentrare in un punto grandi quantità di negozi significa generare una dinamica di flussi completamente nuova, significa alterare profondamente il funzionamento di vasti territori. Seppure si scegliesse di farli è del tutto insensato localizzare strutture che hanno questo peso, questa capacità gigantesca di attrarre flussi di traffico, senza un piano generale dell’assetto del territorio: un piano esteso almeno all’intera provincia, che ne verifichi la funzionalità nei confronti di tutto il territorio.

Guastano la nostra vita, il nostro ambiente: i grandi centri commerciali implicano che sempre meno si adoperino i piedi per le necessità quotidiane e sempre più l’automobile. Implicano che sempre più si inquini, sempre più si sprechi l’energia, sempre più si accumulino nell’atmosfera i veleni che ci uccidono.

Informazioni molto più ampie su Borgarello e dintorni le potete trovare nel servizio di Fabrizio Bottini: Centro commerciali apocalittici. Centri commerciali integrati

Se non riuscite ad ascoltare la trasmissione al link sopra provate a cercarla nel comodo archivio di Radio anch’io

Un indicatore ormai classico della salute dei fiumi è la quantità dei pesci che risalgono la corrente. Franco La Cecla, un bravo antropologo che ha insegnato da noi a Venezia, mi indusse a comprendere che la salute di una città è rivelata dalla quantità dei bambini che stanno per strada.

Naturalmente (e prevengo subito un’obiezione possibile) quando pensiamo a una città in buona salute non pensiamo a una città le cui strade sono popolate dai bambini e dai ragazzi che Roberto Saviane descrive nel bellissimo e scandaloso Gomorra: a una città schiava dei clan camorristici che utilizzano i bambini per strada come servi delle aziende malavitose. Pensiamo a una città normale, dove vige la “legge comune”, dove le cittadine e i cittadini sono rispettosi degli altri e dei diritti di ciascuno, dove magari ciascuno ilo sabato lava l’automobile davanti casa per andare il pomeriggio all’outletfactory o allo shopping center, dove la domenica invita gli amici a mangiare arrosto al barbecue nel giardinetto, e gli altri giorni fa la fila per raggiungere l’ufficio o accompagnare il bambino a scuola.

In questa città, nella città dove abitiamo, bambini per strada ce ne sono pochi. Prevalentemente sono accompagnati. Spesso i marciapiedi sono occupati dalle automobili, non dai pedoni né dalle carrozzine. Spesso le piazze sono dei grandi parcheggi, a volte organizzati a volte casuali: raramente sono rimasti luoghi d’incontro, di svago, di apprendimento reciproco, di confronto, di esibizione, di festa.

Penso a Venezia, penso ai suoi campi i quali – quando non sono resi deserti dall’abbandono demografico e dalla monocultura turistica – sono luoghi vivi, ricchi di animazione e di persone di tutte le età e le condizioni. Penso che una volta tutte le città erano ugualmente vissute nei loro spazi pubblici; che una volta ogni paese, anche il più piccolo e periferico, aveva la sua piazza, il suo fuoco della vita sociale.

Perché non è più così? Occorre domandarselo. Occorre chiedersi qual è la radice del problema. Se non si parte dall’individuazione del problema non si trovano soluzioni: si possono solo applicare cerotti, si può solo nascondere il problema, o allontanarlo un poco.

Vogliamo dare ai bambini e ai ragazzi la chiave della progettazione della città. Ma per dargliela non come un giocattolo, ma come uno strumento per agire, allora dobbiamo innanzitutto aiutarli a comprendere che cosa la città è e che cosa potrebbe essere, che cosa è stata, perché è diventata quello che è, e come si può rinnovarla nel suo modo di essere: quindi, in che direzione, verso quale visione di città la sua progettazione deve essere indirizzata.

C‘è chi sostiene (e io sono tra questi) che la città è stata inventata quando l’uomo ha sentito il bisogno di stare insieme perché solo così, solo in comunità, riusciva a soddisfare esigenze nuove che erano nate nel corso dello sviluppo economico e sociale della civiltà umana. Se riflettiamo a fondo sulle vicende della nascita e dello sviluppo della città, ci rendiamo conto che essa è nata come luogo finalizzato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze che i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano risolvere da soli. E’ nata per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali.

Riconosciamo chiaramente questa natura della città se osserviamo ciò che rimane delle città foggiate prima dei tempi moderni: i nostri “centri storici”. Ho citato Venezia, ma in tutte le parti antiche delle città possiamo vedere come i luoghi, gli spazi, gli edifici dedicati alle esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali hanno caratterizzato le città, hanno dato a ciascuna di esse una particolare identità e riconoscibilità, sono state la ragione della sua particolare bellezza.

Osserviamo con uno sguardo attento ai siti, e cercando di immaginare la storia che sta dietro ad essi, i centri storici delle città italiane o francesi, tedesche od olandesi, spagnole o austriache. Lo sguardo sarà colpito da alcuni grandi edifici, adorni e ricchi, più maestosi degli altri, collocati al margine o al centro di piazze, o sistemi di piazze, a loro volta abbellite da fontane e statue e da studiate pavimentazioni. E magari ricorderemo le antiche storie che ci raccontano come in questi luoghi (nella piazza della cattedrale o in quella del palazzo del governo o in quella del mercato) donne e uomini, vecchi e bambini si incontravano nelle ore del lavoro e in quelle dello svago, e come in quegli stessi luoghi i cittadini accorrevano a frotte, in ogni occasione gioiosa e festosa, o ad ogni allarme o pericolo.

Ma non sono soltanto questi “monumenti” a costruire l’immagine della città, a costituire la sua identità Se non ci lasciamo distrarre più del dovuto dalla Grande Opera della Cattedrale o del Palazzo, osserviamo ancor oggi che la loro bellezza non sta solo nei loro volumi, ma dal contesto nel quale sorgono, che ne sottolinea - e quasi ne determina – lo splendore. Osserviamo ancora oggi, attorno a questi edifici e spazi, il regolare allinearsi delle casette “normali”, dove abitano e lavorano i cittadini e le loro famiglie: case uguali nelle strutture (le altezze, le larghezze, la forma del tetto, il modello delle finestre, nelle regioni piovose il portico sulla strada principale). Come nel contrasto armonico tra il coro e la voce solista, l’uniformità regolare della “edilizia minore” sottolinea l’importanza, la centralità, il ruolo dominante dei grandi volumi e dei grandi spazi (la cattedrale, il mercato, il palazzo del governo, il tribunale): i grandi volumi e i grandi spazi nei quali si identifica e si celebra la città.

La città si manifesta insomma come un insieme organico di opere, concepite e prodotte per soddisfare le esigenze non solo delle singole famiglie (la casa) ma della società nel suo insieme. Perciò affermo stesso (e torneremo su questa affermazione) che la città non è un insieme di case, ma è la casa della società.

Questa era la città, nei secoli nei quali l’uomo la inventò e la rese la più bella e la più ricca – la più complessa - delle sue costruzioni. In essa non mancavano le contraddizioni e i contrasti, ma si trattava di momenti di una dialettica nella quale lo “spirito cittadino” finiva per prevalere sulle divisioni. Le condizioni di igiene e di sicurezza non erano certo confrontabili a quelle che la civiltà moderna consente, nei suoi luoghi più alti, di raggiungere: ma, appunto,erano condizioni condivise, di cui tutti ugualmente pativano e che dipendevano dal generale livello di progresso tecnico raggiunto.

Oggi moltissimi vivono il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell’uomo e della donna dei nostri tempi (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Oggi la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, per persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri: a causa del traffico e del rumore, del pericolo, del prezzo delle case, dello stesso disegno degli spazi pubblici. Oggi la nostra salute è minacciata dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, i rumori ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Oggi l'abnorme produzione di rifiuti minaccia di seppellirci.

Voglio sottolineare soprattutto quell'aspetto della crisi della città che è il traffico: è forse il nemico peggiore dei bambini nella città, il maggiore concorrente per l’uso dei loro spazi, il maggior rischio per la loro incolumità.

Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità è l'aspetto più emblematico e paradossale della crisi della città. Questa è stata infatti storicamente (l’ho appena ricordato) il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della “civiltà dell'automobile”, nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

E i luoghi dedicati all’incontro, allo scambio, alla reciproca partecipazione delle informazioni e dei sentimenti di persone appartenenti a età, ceti, condizioni, mestieri diversi – le piazze, i luoghi simbolo della città – sono divenuti le aree destinate al deposito degli ingombranti attrezzi di metallo, le automobili, divenuti più importanti delle persone cui dovrebbero servire.

Perché questo è avvenuto? Esiste una letteratura ampia e contraddittoria sulla crisi della città: una crisi di cui certamente molte sono le ragioni. Ma c’è una ragione che è centrale e nodale per comprendere.

All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati dal processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto in Europa, fin dalla fine del Settecento un poderoso aumento della popolazione e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Nell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.

Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. Fino alla nascita delle megalopoli e del “pianeta degli slum” – che comincia a caratterizzare gran parte dell’odierna umanità urbana - le città sono state luoghi nei quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini erano tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendevano di essere soddisfatte. E’ nata quindi una fortissima domanda di fruizione urbana: di lavoro “libero” (affrancato dalla servitù), di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.

Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.

Un aspetto particolarmente importante della crisi della città è costituito dal cambiamento profondo che v’è stato nella proprietà del suolo urbano. Prima del trionfo del sistema capitalistico borghese il suolo della città era generalmente indiviso: sia che appartenesse a un potente del sistema signorile (re o vescovo o feudatario che fosse), sia che le istituzioni cittadini lo avessero riscattato, esso apparteneva a un unico proprietario. Quando anche la proprietà era attribuita a soggetti diversi, in ogni caso la sua gestione era attribuita a un organo che esprimeva la collettività. In particolare apparteneva al governo della città la decisione sul dove costruire, che cosa, con quali regole.

Su questa base, la città poteva sorgere con la funzionalità e la bellezza che i suoi costruttori desideravano. E le trasformazioni rese necessarie dal mutamento delle esigenze e delle condizioni potevano avvenire senza dover sottostare ai vincoli di una proprietà parcellizzata e dominatrice.

Ad un certo momento della storia tutto ciò scomparve. Si era manifestato un cambiamento radicale delle regole che governavano la società. Una nuova classe si era impadronita del potere togliendolo alla classe dei grandi proprietari fondiari, ai re e alle loro corti: era avvenuta la “rivoluzione borghese”, che sbalzò dai troni e dai castelli i monarchi e il loro seguito di feudatari e insediò al loro posto i rappresentanti della borghesia.

La rivoluzione borghese, là dove si manifestò, portò grandi vantaggi all’umanità: aumentò enormemente la produzione di beni materiali, migliorarono l’alimentazione, la salute, il benessere delle persone e dei popoli direttamente interessati (non altrettanto può dirsi dei popoli invasi dal colonialismo). Me nelle stesse aree del mondo dove aveva trionfato essa distrusse qualcosa che meritava di sopravvivere. Scomparve la proprietà indivisa della terra,scomparve la base strutturale che aveva permesso alla città di essere bella e funzionale. Come ha scritto un acuto studioso e un appassionato propagandista della questione, Hans Bernoulli, “il suolo era divenuto libero. Non era più proprietà né titolo di diritto della nobiltà o del clero: era dei borghesi o dei contadini ai quali era stato ripartito o venduto. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune”[1].

“Allora non si pensava affatto”: non si riflette mai abbastanza al fatto che la storia che conosciamo, la registrazione degli eventi accaduti, non esaurisce tutte le possibilità; allora andò così, ma avrebbe potuto anche andare in un altro modo. Allora, tuttavia, la borghesia, che aveva inventato e promosso la dimensione sociale nella fabbrica (un luogo dove gli individualismi non possono sopravvivere alla catena di montaggio), non riuscì a proiettare quella medesima dimensione nella città. L’abbandonò all’individualismo più sfrenato, alla speculazione più devastante.

Enormi sono state le conseguenze di questa trasformazione nel destino delle città. Il suolo urbano non fu più la base della “casa della società”, il fondamento dell’ordine e della bellezza della città: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo. La liquidazione della proprietà indivisa del suolo generò necessariamente la speculazione. Da quel momento in poi, per la città, tutto fu più difficile.

La lotta per conquistare, nei tempi moderni, migliori condizioni di vita (e soprattutto di vita comune) nelle nostre città ha sempre dovuto scontrarsi con la volontà dei proprietari delle aree di lucrare il massimo possibile dall’utilizzazione edilizia della loro proprietà. Questo scontro è sotteso a tutte le vicende urbanistiche delle nostre città, e anche a una parte consistente di quelle più generalmente politiche.

Un momento particolarmente espressivo fu costituito da quella stagione (parlo degli anni Sessanta del secolo scorso) quando vide la luce una legge che stabiliva gli standard urbanistici: che prescriveva che in tutti i piani regolatori delle città dovesse essere riservata una determinata quota di spazi da destinare alle esigenze collettive dei cittadini: scuola, verde, ricreazione, salute e così via.

Fu una lotta aspra, che acquistò in determinati momenti il carattere di una vertenza di massa. Furono decisivi tre aspetti: il movimento dell’emancipazione femminile, che pretendeva che al nuovo ruolo produttivo delle donne si accompagnassero provvedimenti che riducessero il peso lavoro domestico; gli esempi che provenivano dalla saggia amministrazione di numerose città italiane, soprattutto in Emilia Romagna e in Toscana; i tentativi dei settori più avanzati dell’industria di ridurre il peso della rendita immobiliare e di ottenere, anche per questa via, un miglioramento delle condizioni di vita nelle città, che inevitabilmente si ripercuotevano sulle tensioni rivendicative dei salariati.

Credo che la stagione delle riforme (riforme della struttura del paese) avviata negli anni del primo centro-sinistra sia ancora tutta da studiare. C’è da riflettere sui risultati che allora furono raggiunti, delle ragioni per cui a un certo punto il vento cambiò direzione e le conquiste raggiunte, lungi dal prolungarsi, vennero abbandonate e – spesso – rovesciate nel loro contrario. Certo è che oggi il peso della rendita immobiliare, sempre forte nel nostro paese per ragioni che affondano nella storia della sua unità statuale, è aumentato a dismisura rispetto a quegli anni.

C’è da riflettere, ma soprattutto c’è da domandarsi che cosa si può fare, nel concreto, per trasformare le cose: per rendere oggi la città più vicina alle ragioni della sua creazione: più bella, più amica delle cittadine e dei cittadini e soprattutto dei più deboli. Credo che sia importante partire proprio dai bambini, sia perchè – come dicevo all’inizio – la loro presenza nelle strade, le piazze e i luoghi pubblici è un indicatore della salute della città, sia perché è a loro che è affidato il futuro, e quindi è importante la direzione di marcia che ad essi viene impressa dall’ambiente nel quale vivono.

Sono convinto che per dare ai bambini la chiave della progettazione della città, come promette il titolo di questo intervento, occorre fare in primo luogo uno sforzo di fantasia: ribaltare il modo di vedere, pensare la città e, a partire da questo ribaltamento, riprogettare e ricostruire la città. Non vi preoccupate: non saranno necessarie demolizioni massicce, solo un modo nuovo di fare cose che comunque si fanno, o si devono fare. Proverò a spiegarmi.

Ho detto all’inizio che la città non è un insieme di case. Eppure, nella testa delle persone (e anche nell’immaginazione e nei disegni di molti bambini, e nei progetti di molti urbanisti) la città non è altro che un insieme di case collegate tra loro da una rete di strade. Questo è il “pieno” della città, a cui fa riscontro il “vuoto” costituito dagli spazi liberi, dai residui di campagna in attesa di edificazione, dai corsi d’acqua sopravvissuti come discariche, e dagli spazi più o meno avaramente concessi agli usi collettivi.

Questa è la concezione e la struttura della città che occorre rovesciare, manifestando una diversa intenzione di vivere la città, obiettivi diversi da quelli di avere più case e più automobili, e un progetto di città diverso. Un’operazione non utopistica, come non è utopistico rovesciare un guanto. Un’operazione che è stata tentata in più occasioni. Io stesso, ho partecipato a tentativi interessanti ( a Carpi, a Imola, a Sesto Fiorentino) che brevemente riassumerò precisandone l’intenzione, gli obiettivi e il progetto che ne risulta.

L'intenzione è quella di rovesciare modo tradizionale di considerare la città: di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi della ricreazione e della ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al “consumo comune” (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).

L'obiettivo, di conseguenza, è quello di costruire un "sistema" formato dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali, culturali collegandole fra loro sia attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale protetto più filari di alberi) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.

Nelle città grandi e medie la formazione di un piano regolatore o di un piano particolareggiato sono l’occasione giusta per cominciare la costruzione di un sistema di spazi ispirati a questa intenzione e a questo obiettivo. Ma la rivendicazione di un uso diverso degli spazi comuni può essere un tema ricorrente per dare ai bambini le chiavi della città. Non c’è borgo, non c’è paese nel quale non vi siano germi o possibilità di luoghi per la comunità. Non c’è borgo e non c’è paese nel quale non si possano strappare alle automobili spazi per incontrarsi, per stare insieme, per giocare insieme e imparare insieme gli uni dagli altri, per organizzare meglio la propria vita sociale.

Centrare l’attenzione sull’uso degli spazi pubblici, sulla loro qualità, sicurezza, accessibilità, vitalità e vivibilità non è cosa che sia utile solo ai bambini. E’ un contributo generale a costruire una città migliore e, attraverso essa, una società migliore.

Sono convinto che la città può essere ricondotta a essere l’ambiente favorevole alla vita dell’uomo se gli uomini saranno capaci di restituirle, anche nelle cose, la sua natura originaria di “casa della società”: di luogo (o insieme di luoghi) la cui forma e la cui funzione siano complessivamente al servizio di quelle esigenze che l’uomo, maschio o femmina che sia, non è capace di soddisfare da solo, ma riesce a soddisfare efficacemente, economicamente, durevolmente, solo se insieme agli altri e per tutti.

La città nel suo insieme e le sue parti vitali devono quindi essere visti, sentiti e organizzati come “beni comuni”. Beni quindi, e non merci: prodotti e servizi che valgono di per sé, non in quanto possono essere scambiati con altri o con la moneta. Comuni quindi, e non individuali: elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.

Il primo passaggio operativo che, secondo logica, discende da questa asserzione è che la disponibilità del suolo sul quale la città è costruita appartenga alla collettività, attraverso le istituzioni che la esprimono. Non necessariamente nel senso che divenga pubblica la proprietà del suolo, ma nel senso che la collettività sia padrona delle decisioni su ciascuna delle trasformazioni che concorrono a fare della città uno strumento utile alla società, e dei valori, anche economici, che dalle scelte e dalle opere della collettività derivano.

Il secondo passaggio operativo è che le trasformazioni della città (la sua espansione, il completamento, il restauro, il rinnovo, la ristrutturazione delle sue parti, l’integrazione e il rifacimento dei suoi elementi, l’introduzione delle innovazioni tecnologiche e così via) avvengano nel rispetto del carattere sistemico della città, della sua natura di organismo, di insieme di parti tra loro legate in modo che le modifiche di ciascuna di esse influisce sul funzionamento di ciascuna delle altre.

“Il tutto è più importante delle sue parti”: questa frase rappresenta con efficacia la città, la visione olistica che è necessaria per comprenderla e per governare le sue trasformazioni. Ma essa ci rinvia anche a un altro e più vasto “tutto”.

La città è parte del territorio, delle nostre regioni e continenti e del nostro pianeta. La città è una parte della crosta terrestre. E’ quella parte nella quale più intense sono, a un tempo, l’accumulazione di cultura e la dissipazione di energia. La città è il luogo dove sono massimi la creatività dell’uomo e la sua capacità distruttiva. La città, quindi, è anche il luogo dove al massimo possibile la creatività dell’uomo, e la sua capacità di inventare l’ambiente della propria vita, devono essere impiegate per recuperare un equilibrio con la natura.

La natura è qualcosa che la cultura e il lavoro dell’uomo sono deputati a utilizzare e a trasformare. Ma si tratta di utilizzare e trasformare risorse che sono finite, e che spesso non sono riproducibili. Anche di questo la progettazione della città e del territorio devono farsi carico. Accennare al come farlo richiederebbe un tempo altrettanto lungo di quello di cui ho finora approfittato. Mi limiterà a dire – poiché parliamo di bambini e di ragazzi – che aiutar loro a comprendere che città e ambiente, natura e storia, urbanistica ed ecologia, sono capitoli della stessa vicenda e strumenti della stessa azione è essenziale perché la loro partecipazione alla società e alle sue decisioni sia illuminata, la loro salute materiale e morale migliore, la rivendicazione dei loro diritti consapevole e determinata.

[1] Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Corte del Fontego Editore, Venezia 2006, p. 35-36

La legge Lupi: che cos’è, che cosa fare dopo

Organizzato dalla Seconda Facoltà di architettura del Politecnico di Torino e da Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, il convegno si è svolto alla Sala Zodiaco del Castello del Valentino. Hanno aperto i lavori Roberto Gambino(vicepreside della Facoltà) e Vanda Bonardo (presidente di Legambiente Piemonte). Hanno presentato il libro Flavia Bianchi (responsabile del settore territorio di Legambiente Piemonte) ed Edoardo Salzano con l’intervento che segue. In calce una sintesi del dibattito, nel quale sono intervenuti Roberto Gambino, Raffaele Radicioni e Claudio Malacrino (urbanisti), Maria Teresa Roli (presidente di Italia Nostra), i docenti del Politecnico Giovanni Maria Lupo, Silvia Saccomani, Castanza Roggero.

Parliamo oggi di quella legge, dal titolo “Principi per in materia di governo del territorio”, che la Camera dei deputati ha approvato il 28 giugno 2005. Quella “legge Lupi” che aspetta, nelle stanze di Palazzo Madama, che la fine della legislatura le assegni uno dei due destini possibili: che la getti nell’archivio delle intenzioni rimaste tali, oppure, come ancora è possibile, che qualche furbacchione, con uno svelto colpo di mano la porti all’approvazione.

Che la legge Lupi venga sepolto in quell’archivio nel quale giacciono prodotti molto più nobili non è solo una speranza mia, ma – credo – è l’auspicio di molti di quelli che hanno compreso di che cosa si tratti. Alcuni di questi (Roberto Camagni, Vezio De Lucia, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Luigi Scano, Paolo Urbani, Antonio di Gennaro, Luca De Lucia), preoccupati come me del silenzio che circondava questa legge, si sono impegnati a mettere insieme alcuni scritti di critica che erano apparsi in varie sedi, e che erano quasi tutti raccolti nel sito eddyburg.it. Così, grazie soprattutto a Maria Cristina Gibelli, che ha lanciato la proposta e ha curato il libro, e all’editore Alinea, che lo ha tempestivamente allestito, è nato questo piccolo lavoro che oggi presentiamo.

I contenuti della Legge Lupi

Inizio con l’esaminare alcuni punti della versione della legge Lupi che ha ottenuto il via libera dalla Camera dei deputati. La Legge Lupi in pelle d’agnello, come l’ho ribattezzata su eddyburg.it dopo le modifiche introdotte nell’aula del Parlamento. Se queste infatti hanno in qualche punto addolcito il linguaggio, non hanno minimamente intaccato il carattere generale della legge: una legge che privatizza l’urbanistica. Come ha sottolineato Flavia Bianchi, in essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contenere: quelli della proprietà immobiliare.

Voglio sottolineare che il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contenere e condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto).

Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge.

La norma chiave è l’articolo 5, comma 4:

“Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”.

Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.

Del resto, il rinvio al’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso agli onorevoli Iannuzzi, Realacci, Mantini, Sandri, Vigni, Chianale, Lion, firmatari della coraggiosa proposta di sostituzione di cui sopra, è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.

Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miopi per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio.

Nel sistema “innovativo” e “moderno” le scelte sono concordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7). Se riflettete su ciò che sta avvenendo a Milano sulla base degli “obiettivi strategici” potete farvene un’idea.

Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo un vero “pasticcio di legge”.

Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili?

Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane?

Dell’articolo 5 ho già detto: esso è il centro dell’edificio.

L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Soffoca il ruolo delle province, rendendolo facoltativo. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendo la sostenibilità al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni: in cui il termine “sostenibile” è diventato sinonimo di “sopportabile”. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale (chi vuol capire come, legga gli scritti di di Gennaro e Scano in proposito). Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali: devono limitarsi a recepire le tutele della pianificazione sovraordinata.

L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”.

Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio del nuovo PRG di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).

L’articolo 8 (già ne ho commentato un aspetto) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari.

Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!).

Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”! Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.

Concludo questa rapida analisi con qualche ulteriore perla.

L’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura).

E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere “l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari).

E infine l’articolo 13, ultimo comma:

“Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”.

Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. Per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico si sostituisce, al “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso” (fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica).

Con buona pace di quanti sostengono che l’opposizione, in Parlamento, avrebbe fatto un ottimo lavoro e corretto positivamente il precedente testo cucinato dall’onorevole Lupi (amorevolmente assistito dall’onorevole Mantini), è opportuno precisare che quest’ultimo comma è stato aggiunto nel dibattito in Aula. Non solo: le “opposizioni” si sono astenute!

Una ideologia “bipartisan”?

Non è ancora legge ma – come diceva Flavia Bianchi nel suo intervento - la ideologia della Legge Lupi ha già lavorato nell’urbanistica italiana.

La legge Lupi non nasce come il parto di una volontà appena maggioritaria, che col suo 51% schiaccia un’altra volontà, fortemente ostile e portatrice di un disegno radicalmente diverso. Non è così. La legge Lupi esprime convinzioni, progetti, interessi, timori, esperienze che pervadono un arco ampio di gruppi e soggetti del mondo della politica, della cultura, dell’amministrazione.

Tracce dei “principi” e delle pratiche che la legge Lupi si propone di generalizzare sono evidenti in molti luoghi: in non poche legislazioni regionali; nelle pratiche di comuni, regioni, province sia al Nord che al Sud del paese; nelle pubblicazioni accademiche e in quelle specialistiche; nelle associazioni di categoria.

Indicative del generale clima “lupesco” mi sembrano due circostanze. La prima: che alcune connotazioni di fondo della legge Lupi fossero già presenti nel disegno di legge presentato da un nutrito gruppo di deputati della Margherita, guidati dall’on. Mantini. La seconda: che l’Istituto nazionale di urbanistica abbia svolto un ruolo di sostegno e di supporto alle impostazioni delle proposte Lupi e Mantini in tutto l’iter legislativo.

Pochi si sono scandalizzati, nell’area politico e culturale del centro-sinistra quando l’on. Mantini ha proclamato che la legge licenziata dalla Camera dei deputati è una legge bipartisan. Oppure quando l’on Lupi ha dichiarato che “il clima di collaborazione con cui il testo è nato pone le basi per andare avanti” al Senato.

Del resto, chi ha seguito le consultazioni della Commissione senatoriale ha potuto constatare che, agli incontri con le associazioni più critiche nei confronti della legge, i rappresentanti del maggior partito d’opposizione erano assenti e che perfino il rappresentante di una regione “rossa” come l’Emilia Romagna ha dato alla legge parere favorevole.

L’ideologia della Legge Lupi

Per concludere, vorrei cercare allora di riassumere gli elementi fondamentali dell’ideologia e della strategia espresse dalla legge Lupi. Elementi di fronte ai quali ci troveremo ancora, nei prossimi mesi e anni.

Si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari.

Si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi e spazi di vita comuni per i cittadini. Gli “standard urbanistici” sono sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”.

Si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio, contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria.

Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del paese, avviate con i condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare.

Ciò che si dovrebbe fare invece

Speriamo che domani si possa cominciare a parlare di “ciò che si dovrebbe fare invece”. Devo dire che – come il libretto testimonia – molti di noi hanno da tempo avanzato proposte positive, anche in occasione della critica alle proposte del governo. Nello stesso libretto le troverete, per esempio, nel testo a mia firma che apre il libro e in quello di Alberto Magnaghi e Anna Marson.

Esse si basano tutte su una convinzione e una consapevolezza.

La convinzione che – come scrivono Magnaghi e Marson – il principio basilare da affermare è “la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come bene comune [non alienabile senza il consenso della comunità], essenziale per il benessere delle comunità su di esso insediate”.

La consapevolezza – per adoperare le parole di Roberto Camagni – che ”il territorio come bene collettivo non viene adeguatamente garantito dal puro operare dei rapporti di mercato”, e “richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa”.

Il dibattito

Tutti gli interventi nel dibattito hanno condiviso le critiche alle legge Lupi, argomentato nelle due relazioni introduttive. Così sono stati condivisi gli indirizzi propositivi cui Salzano ha accennato, sebbene occorra (Radicioni) insistere con maggior forza sulla necessità di un controllo pubblico sulla formazione, trasformazione e distribuzione della rebdita, che costituisce il nodo rale della questione.

La maggior parte degli interventi (Bianchi, Radicioni, Gambino, Malacrino, Lupo, Roli) ha sottolineato, anche raccontando numerosi esempi di malgoverno del territorio in Piemonte, come la Legge Lupi si proponga di generalizzare una cultura che si è diffusa nel paese da tempo: a far data (precisa Malacrino) dagli anni Novanta, quando, a partire dalla legge Botta-Ferrarini, si è reintrodotto il rapporto diretto tra Stato e comuni, sono proliferati i “programmi complessi” in deroga alla pianificazione ordinaria, e alcune parole magiche (sussidiarietà, concertazione), spostate dal loro contesto, sono diventate grimaldelli per trasferire il potere alle immobiliari.

Il PRG (osserva Roli) viene considerato da molti sindaci un insieme di regole di cui occorre sbarazzarsi per avere le mani libere, ciò che i “programmi complessi” hanno aiutato a fare. Invece le regole sono indispensabili perchè consentono a tutti di interagire con le decisioni avendo un insieme certo di riferimenti.

Alla corruzione del sistema della pianificazione ha contribuito l’enfasi posta sulle grandi opere (Gambino, Lupo), e la vicenda del PRG di Torino, di cui oggi si possono verificare gli effetti, testimonia esemplarmente che il danno maggiore è venuto prima della proposta legislativa (Lupo).

L’Università non ha svolto un ruolo sufficiente: essa dovrebbe fare più leva sull’interrelazione tra le diverse discipline e sull’attenzione al concreto processo di trasformazione del territorio, che deve partire dalla consapevolezza degli elementi di storicità (Roggero).

La critica alla Legge Lupi (hanno osservato Gambino e Saccomani) non deve indurre ad esprimere una rozzezza parallela a quelle del legislatore, sforzandosi di cogliere sempre la compessità del reale e la parziale verità che in talune formulazioni della legge può nascondersi. Occorre però (questa convinzione è stata ribadita da tutti) che la legge con passi a nessun costo.

Eddyburg

Un’iniziativa cominciata per caso ha raccolto un’adesione inaspettata.

Perchè? Non tanto la qualità del prodotto, il sito eddyburg.it. E neppure tanto per la mancanza di altri prodotti analoghi.

Ciò che ha reso eddyburg.it un sito popolare è la diffusa sensazione di crisi del nostro mestiere.

Il quadro

L’urbanistica è sempre stata un mestiere legato al tentativo di far assumere un ruolo adeguato ai beni, i valori, gli interessi comuni. Oggi l’individualismo ha vinto, prevale e domina in tutti i campi

L’urbanistica è un mestiere che ha sempre avuto un legame essenziale e costitutivo con la politica, intesa come governo della società in nome di interessi generali. Oggi la politica, la politica in questo senso, non c’è più.

L’urbanistica è un mestiere che lavora per il futuro, perchè le trasformazioni del territorio, che l’urbanistica vuole progettare e governare, sono durevoli e richiedono impegni di lungo periodo. Oggi la miopia è diventata la forma unica della visione di chi comanda.

L’urbanistica è un mestiere che ha sempre visto la rendita (in particolare quella urbana) come l’ostacolo più grande alla costruzione di una città e un territorio caratterizzai da equità, funzionalità, bellezza. Oggi la rendita immobiliare è diventata la categoria economica dominante.

Perchè questa scuola

Per sopravvivere in questo quadro l’urbanistica deve porsi nettamente controcorrente: deve essere alternativa rispetto alla tendenza dominante.

Ricordiamo Italo Calvino:

“L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Con la scuola di eddyburg ci proponiamo di raccogliere quelli che vogliono resistere e dare spazio al “non inferno”.

Ci proponiamo di dar loro gli strumenti per lavorare:

- strumenti di conoscenza e d’azione,

- strumenti del nostro mestiere, ma non strumenti neutrali,

- strumenti tecnici, ma finalizzati ad un ideale.

Il tema del corso: il consumo di suolo

Abbiamo scelto quest’anno un tema concreto, un tema d’azione possibile, attorno al quale molti altri si annodano e che esamineremo da molteplici punti di vista: il consumo di suolo

E’ un prodotto vistoso delle ombre del quadro cui ho accennato.

E’ una questione centrale non solo in Italia e non solo in Europa.

E’ un modo di governare il territorio che comporta

- perdita di qualità naturali, storiche, culturali,

- perdita di valori identitari essenziali per le civiltà del mondo,

- perdita di risorse per il futuro dell’umanità

Eppure, il consumo di suolo si può combatterlo, altri lo fanno, vedremo come.

La legge Lupi

Insieme al consumo di suolo, parleremo anche della minaccia più immediata: della legge Lupi.

Una legge che non ci preoccupa tanto di per sè; che questa destra italiana faccia orribili leggi non ci meraviglia più,

e neppure pensiamo che un testo così scollacciato e informe possa venire approvato,

ma ci preoccupa perchè

il sostanziale consenso politico con cui la legge è maturata,

e il silenzio dell’opinione pubblica,

ci fanno temere che quella ignobile legge esprime una tendenza che è maggioritaria.

Alla fine del corso

ragioneremo insieme sul che fare dopo questa prima occasione d’incontro:

- che fare in generale, per l’urbanistica inn Italia,

- che fare per proseguire questa esperienza (se ci avrà soddisfatti),

- che fare per migliorare eddyburg.it

1.

Strano paese l’Italia. Ogni volta che si va all’estero, negli altri paesi d’Europa, ci si meraviglia di come stiano attenti a custodire la natura, a conservare il paesaggio, a aggiungere qualità al territorio. Fenomeni come il consumo di suolo, che da noi investono ogni anno migliaia e migliaia di ettari, vengono combattuti da decenni in Gran Bretagna, in Germania, Iin Francia e nei Paesi bassi. Nel progettare le strade si segue il più possibile l’andamento del terreno e si allontanano i cartelloni pubblicitari da tutte le visuali di un certo interesse. Da noi il territorio è considerato poco più d’una pattumiera.

Eppure, in questa situazione che indigna molti c’è qualcosa che si è salvato, e ancora si salva, meglio che altrove. Dirò qualcosa che farà forse stupire qualche mio collega, ma io credo di non sbagliare se dico che in Italia siamo all’avanguardia per quanto riguarda i nostri centri storici. Non c’è forse la cura minuziosa e quotidiana che in Austria e in Germania si pone alla conservazione dei piccoli centri tradizionali, e in Gran Bretagna e in Francia alla tutela dei monumenti più rilevanti e celebri, ma la sostanza dei nostri centri storici ne fa, ancora oggi, dei meglio conservati e dei più vivibili d’Europa.

Credo che questo dipenda dal fatto che, in Italia, si sono comprese prima che altrove tre verità importanti:

1.che ciò che ha valore e merita di essere conservato della nostra storia non sono soltanto i monumenti, le costruzioni eccezionali e “artistiche”, ma le città storiche nel loro insieme: che esse sono un valore perché testimoniano modi di vivere e di abitare nei quali tra le cose e l’uomo c’è equilibrio, formano nel loro insieme ambienti vivibili che la cultura e la tecnica moderne riescono raramente a eguagliare.

2. che la bellezza e l’utilità dei centri storici non è costituita soltanto dalle pietre che li formano, dai materiali e dalle forme degli edifici e degli spazi aperti che li organizzano, ma anche dalla società che li vive: dagli uomini e le donne, dai bambini e dai vecchi, dai lavoratori nei diversi mestieri, dai residenti stabili e dai viandanti e visitatori che vi arrivano.

3.che i centri storici non vivono separati dal territorio che li circonda, ma devono saper ricostituire con questo (con i nuovi quartieri e con gli altri centri antichi e nuovi, con i nuovi luoghi di produzione e con le vie di comunicazione, con le campagne e i paesaggi aperti) un rapporto efficace: se non si progetta l’insieme del territorio, anche i centri sstorici decadono.

2.

Un momento significativo della comprensione di queste verità è costituita da un documento, approvato nel 1960 in un convegno di studiosi e di amministrazioni comunali particolarmente consapevoli: c’erano Ascoli Piceno ed Erice, Bergamo e Ferrara, Genova e Perugia, Venezia e Gubbio. Mi riferisco alla cosiddetta Carta di Gubbio, nella quale si delineano alcuni essenziali principi, a mio parere ancora oggi in gran parte validi:

Era una fase particolarmente significativa della nostra storia. Nel dopoguerra si era costruito per ogni dove. L’esigenza di una ricostruzione rapida di tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra prevalse, in Italia, su ogni altra esigenza e attenzione. Alla fine degli anni 50 si cominciavano a vedere i danni di un’edificazione senza scrupoli. Si cominciava a sentire come un delitto la devastazione dei vecchi centri e quartieri con edifici moderni. Furono gli anni in cui l’esigenza di una profonda riforma urbanistica diventò un grande tema politico e culturale. Bisognava salvare qualità preziose che minacciavano di scomparire. Ecco perciò l’impegno della cultura e dell’amministrazione più avveduta per correre ai ripari.

Di fronte agli scempi che si perpretavano la Carta di Gubbio pone in primo piano la salvaguardia:

“Si invoca una immediata disposizione di vincolo di salvaguardia, atto ad efficacemente sospendere qualsiasi intervento, anche di modesta entità, in tutti i Centri Storici, dotati o nodi Piano Regolatore, prima che i relativi piani di risanamento conservativo siano stati formulati e resi operanti”

Salvaguardia rigorosa, in attesa di compiuti atti di pianificazioni, basati su un accurato studio dei centri storici, finalizzati alla conservazione di tutti gli elementi e le regole che ne determinano la qualità. Pianificazione coordinata con quella dell’intero territorio comunale: la tutela e il risanamento

“come premessa allo stesso sviluppo della città moderna e quindi la necessità che esse facciano parte dei piani regolatori comunali, come una delle fasi essenziali nella programmazione della loro attuazione”.

Ma non basta il risanamento fisico:

“nei progetti di risanamento una particolare cura deve essere posta nell’iindividuazione della struttura sociale che caratterizza i quartieri e che, tenuto conto delle necessarie operazioni di sfollamento dei vani sovraffollati, sia garantito agli abitanti di ogni compatto il diritto di optare per la rioccupazione delle abitazioni e delle botteghe risanate, dopo un periodo di alloggiamento temporaneo, al quale dovranno provvedere gli Enti per l’edilizia sovvenzionata; in particolare dovranno essere rispettati, per quanto possibile, i contratti di locazione, le licenze commerciali ed artigianali ecc., preesistenti all’operazione di risanamento”.

Possiamo dire che da allora, in Italia, la buona cultura urbanistica e e la buona amministrazione hanno sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Riassumo brevemente le ragioni della qualità del patrimonio costituito dagli insediamenti storici:

1.Sono testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio.

2.Sono il prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne.

3.Sono elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.

3.

I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare

- Edoardo Detti e alla sua difesa del centro storico e delle colline di Firenze.

- La difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti.

- Il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo.

- L’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto del centro storico e delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.

- Il piano del centro storico di Bologna, con il quale Pierluigi Cervellati introdusse per la prima volta nella pianificazione di un centro storico l’attenzione, e soprattutto la pratica, della difesa degli abitanti attraverso l’impiego – in un centro storico accuratamente pianificato con l’impiego dell’analisti tipologica – della programmazione dell’edilizia abitativa pubblica.

È all’inizio degli anni 70, del resto, che anche qui ad Asolo ci fu una coraggiosa battaglia e una coraggiosa scelta, grazie alla quale abbiamo ancora un centro storico intatto e bellissimo, ancora vivo e vitale, nonostante i suoi problemi. Mi riferisco alla scelta di evitare – con il PRG del 1973 - di manomettere con nuove pesanti costruzioni e con l’espansione dalla collina verso la piana il delicato assetto di uno dei più bei centri collinari.

4.

Riprendiamo il nostro ragionamento e veniamo all’oggi. Ogni centro storico ha una duplice caratteristica, una duplice funzione, e pone quindi una duplice serie d'esigenze, le quali sono due facce d'una medesima medaglia.

Da un lato, vi è il ruolo e il valore che deriva ai centri antichi dalla loro storicità: dal fato cioè che in essi si è verificata, nel corso dei secoli, una intensa accumulazione di valori, la quale fa oggi dei centri storici un patrimonio di grandissima rilevanza.

Dall'altro lato, vi è il ruolo che deriva dal fatto che nei centri storici si deve vivere, si deve lavorare, si deve abitare: che perciò essi devono essere comunque porzioni vive, attive, dinamiche degli organismi urbani e territoriali di cui sono parte.

I due aspetti sono strettamente intrecciati, e si sostengono anzi l'uno con l'altro. Infatti, mentre è ormai chiaro che i centri storici non trovano la ragione della loro bellezza solo nelle pietre e negli intonaci da cui sono costituiti, ma anche (e in modo essenziale) nella vita che in essi si svolge, è chiaro che solo nella misura in cui diverranno un patrimonio effettivamente considerato come tale - e perciò attivamente tutelato, messo in valore, concretamente utilizzato dalla collettività nazionale - i centri storici potranno diventare ancora una volta luoghi realmente vitali, sedi di attività non lesive dell'assetto formale che il trascorrer dei secoli e l'accumularsi del lavoro umano ha conferito a essi, ma capaci invece di integrarsi fecondamente con gli antichi valori.

Si apre a questo punto un problema di notevole rilevanza metodologica, al quale mi limiterò ad accennare. Tutelare in modo effettivo i centri storici significa, per quel che s'è detto, trovare un rapporto equilibrato e organico tra “strutture vitali” e “strutture formali”; significa in altri termini individuare, tra i “tipi organizzativi”, le attivita, le specifiche forme della vita produttiva presenti nella nostra epoca, quali siano quelli che possono non solo non risultar dannose all'assetto formale dei centri storici, ma anzi costituirne il contenuto organico e omogeneo, e perciò ravvivarlo e conferirgli nuova forza.

Questo è il tema che è di fronte a noi. Come fare della tutela, della conservazione, del risanamento e restauro, non qualcosa che sia fine a se stesso, ma la premessa e l’occasione per ripristinare una nuova vivibilità e vitalità del centro storico.

5.

A questo punto dobbiamo rilevare che nel nostro paese – a differenza degli altri paesi dell’Europa – se la politica della conservazione sembra abbastanza saldamente presente, manca assolutamente una politica che si faccia carico dei problemi concreti dell’assetto economico e sociale dei nostri territori, in particolare di quelli più delicati e preziosi.

Non mancano le spinte e le sollecitazioni economiche sul territorio e sulle città. Ma sono spinte e sollecitazioni di un’economia malata: un’economia che bada più all’appropriazione dei beni comuni e alla loro trasformazione in merci, che punta più alla rendita parassitaria che al profitto d’impresa, che divora il patrimonio storico anziché investire nel futuro, che riempie disordinatamente il territorio di edificazioni che spesso servono solo a chi le costruisce.

Ma non ci sono risorse per affrontare problemi per i quali in altri paesi di destinano investimenti importanti. Non ci sono risorse per un’edilizia abitativa a prezzi ragionevoli. Non ci sono risorse per aiutare i comuni a dotare le città e i paesi delle attrezzature necessarie per la vita civile. Non ci sono risorse per contribuire a restaurare e riqualificare patrimoni comuni importanti per il presente e il futuro, come appunto l’edilizia storica. Non ci sono leve per incentivare le utilizzazioni virtuose, socialmente e culturalmente utili, degli spazi per l’artigianato di qualità, il piccolo commercio vitale per i centri urbani, un’agricoltura radicata nelle specificità dei territori.

E invece, cresce a dismisura la ricchezza di chi sui beni comuni, sul territorio e sulla città, specula in modo sempre più smaccato. Non so quanti di voi hanno visto domenica scorsa il programma di Report dedicato all’urbanistica romana. Avete sentito grandi imprenditori confessare candidamente che, grazie alle scelte di una pianificazione compiacente con il loro interessi, il valore di aree acquisite pochi anni fa è aumentato di cinque e dieci volte.

In altri paesi dell’Europa, di cui pure facciamo parte, la pianificazione pubblica anticipa e guida le scelte degli investitori immobiliari. E sulle operazioni di trasformazione immobiliare l’incremento della ricchezza privata dovuto alle scelte della collettività ritorna in misura molto larga nelle casse pubbliche, per essere spese negli interventi utili per l’intera comunità. Da noi succede il contrario: con i nostri soldi, con le tasse, paghiamo i guasti, i disagi, le congestioni, i malfunzionamenti che un uso dissennato del territorio provoca alle nostre vite.

6.

Gli approdi della cultura urbanistica più avanzata si sono per lo più tradotti in strumenti e iniziative di salvaguardia, ma queste non sono sufficienti per tutelare con efficacia i centri storici e i loro paesaggi..

La pianificazione urbanistica ha contribuito alla tutela dei centri storici, scongiurando pesanti manomissioni e indirizzando l’attività edilizia verso il restauro e il recupero del patrimonio edilizio esistente. E questo benché i centri storici non siano riconosciuti né tutelati in modo specifico dalle leggi nazionali in materia di tutela del paesaggio e dei beni culturali, e sono disciplinati in modo fortemente disomogeneo dalle leggi urbanistiche regionali.

Ma risultati del tutto insoddisfacenti sono stati raggiunti con riferimento al secondo ruolo dei centri storici, quella di luogo privilegiato per vivere, lavorare e incontrarsi. Ai problemi legati allo spopolamento, alla terziarizzazione, alla degradazione collegata al turismo di massa, alla chiusura di servizi e attività commerciali di base, non sono state fornite risposte compiute, né sotto il profilo legislativo, né all’interno delle elaborazioni tecniche e culturali degli urbanisti.

Così come per la città nel suo complesso, la domanda di pianificazione si è ampliata negli anni, senza trovare adeguate risposte nella strumentazione ordinaria. Come ci si attrezza per facilitare la vita nelle città, e quindi nel centro storico? Quali attività sono da favorire e quali da escludere, in periferia e nel centro? Le politiche per la casa, i trasporti, i servizi ambientali, i servizi sociali, gli spazi pubblici devono trovare una declinazione specifica quando riguardano i centri storici? e fino a che punto sono influenzate dalle decisioni che riguardano le periferie o i territori circostanti?

Per Asolo, ci siamo sforzati – insieme all’amministrazione e ai numerosi cittadini che siamo riusciti a coinvolgere nel nostro lavoro – di fornire alcune risposte, sulle quali ragioneremo nel pomeriggio. E certo che localmente molto si è fatto, soprattutto negli ultimi anni, e molto si può ancora fare. Un grande rulo spetta ai comuni. È certo difficile, significa navigare controcorrente. Ma è ciò che feca a Gubbio, nel 1960, un gruppo di comuni animosi che sapevano guardare lontano.

Siamo convinti che il problema di Asolo sia parte di un problema molto più generale, che non riguarda solo gli asolani ma l’intera comunità nazionale, e di cui la comunità nazionale deve prendere consapevolezza. Bisogna che l’Italia decida se vuole davvero vedere e vivere nel suo patrimonio storico come qualcosa che essa possiede più d’ogni altra nazione, qualcosa che costituisce la ragione del suo prestigio nel mondo, qualcosa che nessuna concorrenza della Cina o della Malaysia può toglierle, perché è unico e serve per tutto il mondo di oggi e di domani. A condizione non solo che questo patrimonio venga amorevolmente conservato, ma che si investa in esso perché possa essere adoperato nel pieno delle sue possibilità, con l’impegno di quelle risorse finanziarie, amministrative, legislative che in altri paesi vengono largamente desinati ai beni comuni, e che da noi vengono invece troppo spesso dilapidati in opere inutili e inutilmente costose.


Democrazia, una parola difficile

Abbiamo lavorato con parole difficili. La prima è forse la più difficile: democrazia.

Non fermiamoci a immagini facili e agiografiche della democrazia. Io oscillo tra due definizioni. La prima è quella di Chirchill: "E’ un sistema di governo pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più". E quella di Luciano Canfora:

La democrazia […] è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, "diritti"

Non rinuncio a nessuna di queste due definizioni: né alla democrazia come male minore, né alla democrazia come tensione verso l’eguaglianza e la crescita di nuovi diritti. E’ quest’ultima però quella che meglio possiamo utilizzare per passare all’altra parola difficile, la partecipazione. Del resto, anche Paba mi sembra che concordasse con questa impostazione, quando diceva che "la democrazia non è una cosa quieta".

Possiamo allora intendere la partecipazione come il lavoro per far entrare nella democrazia (nell’attuale sistema di governo) nuovi diritti: nuovi soggetti sociali, finora esclusi dal processo delle decisioni o marginali rispetto ad esso. Soggetti sociali portatori di nuovi interessi, di nuovi bisogni – e anche, ricordavano Paba e Baruzzi, di nuova ricchezza, di nuovi valori.

Partecipazione, dunque, come alimento e condizione della democrazia. Ma quali spazi consente la democrazia attuale, l’attuale sistema di governo, alla partecipazione intesa in questo senso? Vorrei regalarvi una più lunga citazione di Canfora:

A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).

E ancora:

Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).

Questo è l’orizzonte (nel senso di limite valicabile) nel quale si colloca la nostra azione. E allora non possiamo né dobbiamo farci spaventare dalle difficoltà. Per calibrare l’ottimismo della volontà sul pessimismo della regione ricordiamo Italo Calvino:

L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Il nostro compito può essere proprio questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".

Un'altra parola: Partecipazione

Naturalmente si è ragionato molto anche attorno alla seconda parola del nostro tema: Partecipazione. Vorrei riprendere quattro temi che mi sembrano centrali.

1. La partecipazione nella nostra storia.

Proprio qui a Bologna, in Emilia Romagna, ricordiamo come si comportava la sinistra; ne accennava Tarozzi nel suo intervento. Quando c’erano i partiti, i "partiti di massa (il comunista, il socialista, la democrazia cristiana) allora esistevano dei progetti di società, che i partiti - e le oggi deprecate ideologie - esprimevano. La politica aveva e dava una prospettiva, animava degli ideali: basta leggere quel bellissimo libro di Alcide Cervi e Renato Nicolai, I miei sette figli, per comprendere lo spessore che animava e nutriva la politica, e che dalla politica era animato e nutrito.

Oggi questo non c’è più. Ed è anche da questa decadenza che nascono le difficoltà del rapporto con la politica: del rapporto tra il popolo e la politica. E da questo nascono anche le difficoltà della politica con la terza parola del nostro convegno: la Urbanistica. A questo proposito vorrei che ricordassimo che le poche leggi di riforma (leggi riformatrici, non riformiste) negli strumenti di governo del territorio sono nate in determinate ragioni della nostra storia, per effetto della spinta di grandi organismi di massa e della sensibilità democratica (adopererei proprio questo termine) delle forze politiche.

Mi riferisco all’inserimento dell’obbligo di riservare determinati spazi per i servizi collettivi e il verde nei piani regolatori, statuito con il decreto sugli standard del 1968, che ha indubbiamente tra i suoi motori principali la lunga camopagna popolare ingaggiata dall’Unione donne italiane dall’inizio degli anni Sessanta, con una serie di iniziative attorno a una legge d’iniziativa popolare.

E mi riferisco all’iniziativa delle tra centrali sindacali che ebbe il suo epicentro nello sciopero nazionale generale del 19 novembre 1969 per la casa, i servizi, i trasporti, che condusse alle leggi di riforma dei primi anni Settanta.

Oggi, sei Camere del lavoro hanno dato vita a un’iniziativa che va di nuovo nella medesima direzione. Il sindacato dei lavoratori esce dalla fabbrica, acquisisce consapevolezza del fatto che l’organizzazione della città e del territorio incide pesantemente sulla vita dei lavoratori e suoi costi, e decide di porre il tema al centro delle sue vertenze. E’ un segnale promettente, una speranza.

2. Partecipazione e decisione

Esistono vari modi di partecipare, di influire al processo delle decisioni. Bibo Cecchini ne ha parlato in modo condivisibile, e le stesse esperienze illustrate hanno esemplificato significati e accezioni diverse della partecipazione. Per continuare a ragionare su questo tema, vorrei invitarvi a rifletters su due aspetti: i gradi della partecipazione, la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica.

Il grado più elevato della partecipazione è indubbiamente il concorso ala decisione. A questo proposito, alle istanze partecipative (il vicinato, il quartiere, la città) può essere delegata la decisione, oppure esse potranno esprimersi mediante proposte su cui il decisore sarà o meno tenuto a esprimersi, oppure potrà essere un mero condizionamento della decisione. Il modo maggiore o minore in cui l’istanza partecipativa contribuisce alla decisione varia evidentemente in relazione al carattere del decisore e al peso del "partecipatore".

Il grado minimo, ma essenziale, sembra a me essere la trasparenza del processo delle decisioni. Questo grado dovrebbe essere garantito sempre: in sua assenza la partecipazione è fittizia. Vorrei sottolineare che assicurare questo livello non basta "aprire le porte degli uffici e i cassetti delle pratiche": si pone anche, e in primo luogo, un problema di linguaggio. Il "burocratichese" è un linguaggio ricco di qualità, ma è formato per la comunicazione tra gli addetti ai lavori. I piani regolatori parlano un linguaggio costruito per essere compreso dal portatore d’interessi immobiliari, molto meno dagli utenti della città.

Il grado intermedio, il necessario passaggio tra la trasparenza e il concorso alla decisione, è la conoscenza. Questa implica certamente la possibilità di accedere ai dati, ma richiede in più apprendimento e cultura. A proposito del programma di amministrazione della giunta bolognese, a me sembrerebbe molto utile se ci fosse un forte nesso tra le politiche del territorio e dell’ambiente, dove ci si impegna a percorrere sentieri partecipativi, e le politiche culturali, che a prima vista mi sembrano un po’ "separate" e tradizionali.

Per quanto riguarda la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica vorrei limitarmi a rilevare che il principio di sussidiarietà, correttamente inteso (alla Mastricht, più che alla Bossi), potrebbe essere una guida sufficiente per comprendere. Così mi sembra ovvio affermare che a livello di vicinato o di quartiere la partecipazione è facile, mentre a livello di una intera città media o grande è molto difficile (pensiamo, ad esempio, a un PRG).

3. Partecipazione e interessi

Qualcun diceva che anche l’urbanistica concertata è una forma di partecipazione. In effetti occorre intendersi: partecipazione è un termine neutrale, occorre qualificarlo, chiedersi "partecipazione di chi". In termini sostanziali credo che si debbano distinguere tra loro i diversi tipi di interessi in relazione agli usi diversi delle risorse territoriali.

Occorre distinguere e selezionare gli interessi economici da quelli delle cittadine e dei cittadini (abitare, muoversi, comunicare, conoscere). All’interno dei primi occorre distinguere (e selezionare) gli interessi della rendita immobiliare e di quella finanziaria, quelli del profitto e dell’accumulazione nel processo produttivo e nell’innovazione, quelli del salario. Occorre distinuere gli interessi di quanti usano la città per le loro esigenze personali o produttive, e quanti la usano per il proprio arricchimento. Occorre distinguere le differenze tra i diversi gruppi sociali (ce ne parlava Bassetti, quando affermava che lo sforzo è nel ortare a sintesi le diversità).

Credo che una stella polare cui guardare per orientarsi sia in quella definizione di democrazia come "il prevalere dei non possidenti nel corso d’un inesauribile conflitto per l’eguglianza". E che ocorra ricordare che la partecipazione agisce anche attraverso la contestazione, dove gli interessi dei "non possidenti" sono esclusi dal processo di formazione delle decisioni, o non si riconoscono nei suoi esiti.

4. Gli strumenti della partecipazione.

Su questo punto voglio limitarmi a sottolineare che la partecipazione ha bisogno di tempo e ha bisogno di risorse. Senza questi due ingredienti la partecipazione non esiste. Può esistere, al massimo, la comunicazione: o meglio, quella forma banale di comunicazione che o la propaganda.

Ma dire questo significa anche dire che la partecipazione ha bisogno di procedure certe. Occorrerebbe ripartire da quel poco di partecipazione formalizzata che era consentito dalla stessa legge del 1942, le "osservazioni" agli strumenti urbanistici, per tener conto della maggiore dose di democrazia garantita dal sistema attuale rispetto a quello fascista.

Nel quadro degli strumenti, credo che un contributo rilevante potrebbe darl la Agenda 21, se riuscisse a legare i diversi aspetti delle politiche territoriali e ambientali a quel grande palinsesto delle decisioni dsul territorio che è il piano urbanistico e territoriale.

Per concludere.

Il nostro colloquio si è intrecciato attorno a tre poli: un primo polo rappresentato dalla democrazia, le istituzioni, quindi la politica: un secondo, l’urbanistica e i suoi strumenti; il terzo polo, la particapazione, cioò la presenza dei cittadini nel sistema delle decisioni.

Ora la politica (il primo polo) è in crisi: delegittimata non dalla sua inefficacia, ma – in Italia – dallo svelamento del vizio denominato Tangentopoli, ossia alla subordinazione delle regole e delle strategie condivise agli interessi venali di singoli e di gruppi (e, nel mondo, dal contemporaneo venir meno dela speranza di un sistema economico-sociale alternativo).

Anche l’urbanistica è in crisi. Quando la politica si riduce al quotidiano, quando il suo obiettivo è la conquista del consenso dei poteri forti, quando i poteri forti coincidono con la rendita immobiliare e finanziaria tra loro intimamente legate (e quando la cultura si riduce ad accademia) è inevitabile che anche l’urbanistica entri in crisi.

Io vedo la partecipazione anche come uno strumento che può essere utile per tentar di uscire dall’una e dall’altra crisi.

Uno strumento da adoperare con duttilità, pazienza e costanza, ricordando che le sue finalità sono due. Da una parte, raggiungere obiettivi concreti. Dall’altra parte, svolgere una funzione educativa, formativa, di crescita collettiva.

Uno strumento, infine, da adoperare tenendo conto che c’è un divario che deve essere governato perché non diventi una contraddizione: quello tra il "locale", come spazio nel quale la partecipazione può raggiungere maggiore efficacia. Il "generale", come spazio che inevitabilmente condiziona anche il locale, e che quindi non può essere "lasciato agli altri".

Le citazioni di Luciano Canfora sono tratte da: L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Editori Laterza, Roma-Bari 2004. Più ampi stralci sono in Eddyburg qui

Intervento di Edoardo Salzano

Una legge può essere valutata in se, nelle parole del suo testo. È una lettura del tutt legittima, ed è quella con la quale, con grande chiarezza. Marco Cammelli ha aperto il convegno. Forse perché il mio mestiere è fare l’urbanista, sono abituato invece ad analizzare e a valutare le leggi nel contesto – storico, culturale, sociale, politico – nel quale sono formate e agiscono. Garzilli ha svelato stamattina una porzione del contesto. Al contesto si riferirà l’insieme del mio intervento: un contesto, voglio sottolinearlo, non emiliano-romagnolo, ma italiano, dell’Italia nel suo complesso.

Prima di affrontare il tema del paesaggio vorrei brevemente inquadrare la questione sottolineando alcuni principi cardine che caratterizzano storicamente l’impostazione italiana dell’azione di tutela del patrimonio comune che è costituita dai beni culturali, di cui il paesaggio è parte rilevante.

Il principio dell’inalienabilità. Vorrei ricordare, sia pure per incidens, le origini molto antiche di questo principio, affermato per la prima volta dal soprintendente alle antichità di Roma Raffaello Sanzio, nel 1517 (V. Emiliani, 2004)

Vorrei ricordare come questo principio, più volte ripreso nei secoli successivi, sia stato ribadito nella prima legge organica dello Stato italiano sull’argomento (1909), in cui si proclama l’assoluta inalienabilità dei beni culturali.

Credo che si possa dire che la premessa della “linea italiana” sui beni culturali è insomma la statuizione della sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica.

Un secondo principio cardine mi sembra che sia costituito dalla consapevolezza della rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale.

Questo principio è stato portato a piena dignità d’espressione e di norma da Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti (1922): il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo".

Esso è stato ripreso dall’articolo 9 Cost: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Entrambi questi principi mi sembrano messi in crisi dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Questa valutazione, che condivido, era affermata per esempio con grande forza nell’intervento di stamattina di Andrea Emiliani.

Contraddetto è, di fatto, anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio; un principio che non a caso è stato posto – come ho appena ricordato - tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale. Su questo aspetto tornerò fra breve. Voglio però domandarmi prima: perché questo capovolgimento?

La premessa è, a mio parere, nell’introduzione tra gli idola tribus di questi decenni di alcune nuove priorità: privato è meglio di pubblico, mercato è meglio di Stato, individuale è meglio di collettivo. Idola che non hanno prevalso solo nelle tribus di destra. Su questi nuovi idola è intervenuto con molta efficacia Trimarchi, stamattina, quando ha osservato che la tesi corrente è che lo Stato non è capace di tutelare il nostro patrimonio, e quindi si aspetta il privato risolutore come nei film western si aspetta il Settimo cavalleggeri.

In questo quadro, mi sembra che abbia avuto un ruolo rilevante, e che costituisce un rivelatore efficace, il largissimo impiego del termine valorizzazione.

È un termine che non c’è nell’articolo 9 della Costituzione (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). È un termine che compare nell’articolo 117 novellato il quale, come tutti sappiamo, colloca la “ tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” , tra le materie di esclusiva competenza statale, e la “ valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, tra le materie di competenza concorrente.

È un termine a proposito del quale ho molto apprezzato le cose che ci ha detto stamattina Vanelli, dello sforzo di suerare la dicotomia tra valorizzazione e tutela riconducendo ciascuno dei due termini all’altro, come ho apprezzato l’angolazione economica intelligente sotto cui ci ha presentato il termine Trimarchi. Vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, che si riferisce alle categorie economiche che mi sono consuete.

Mi avevano insegnato che ci sono due forme del valore: il valor d’uso e quello di scambio. Il primo riferito agli oggetti come beni, il secondo agli oggetti come merci. A quale delle due forme di riferisce la valorizzazione della quale si parla oggi? Se si tratta del valor d’uso, allora mi sembra che coincida senza residui con tutela. Se invece si riferisce al valore di scambio, allora coincide con una visione economicistica, commercialistica, mercantilistica.

È certamente quest’ultima l’interpretazione che rinvia il contesto culturale e politico: È questa che è coerente con la logica della separazione, e con il trend culturale, iniziato con la proposta Craxi-De Michelis dei giacimenti culturali

La separazione significa: tutela l’oggetto come bene, valorizzazione l’oggetto come merce. Ma affidare la tutela allo stato, la valorizzazione sostanzialmente alla regione, significa allora introdurre una dialettica rischiosa. Impone comunque di porre su un piano di co-decisione (di condominio del potere) stato e regione. Una ragione forte a favore di un ruolo forte dei potere specialistici dello stato: ragione che, come vedremo, è negata e capovolta dal nuovo Codice.

Un ulteriore principio cardine dell’impostazione italiana dei beni culturale mi sembra sia costituito dal legame tra il bene culturale e il contesto. Questo principio è implicito nelle prime affermazioni dell’l’inalienabilità come divieto di estrarre dal contesto (ordinanze che si ritrovano già nella seconda metà del XVI secolo). Esso trova del resto la sua radice in quella straordinaria densità dei beni culturali nel contesto territoriale italianoi, come ci ricordava or ora Bruno Toscano: nel fatto che il nostro territorio è intriso di beni culturali, che non sono da esso distinguibili.

È da questo nucleo, mi sembra, che si sviluppa l’attenzione al paesaggio: ricordiamo il Ministro Benedetto Croce, ricordiamo Giulio Carlo Argan (il paesaggio come palinsesto nel quale possiamo leggere secoli di storia)

Il principio della rilevanza cuturale del paesaggio e dell’esigenza della sua tutela da parte dello Stato ha una prima statuizione compiuta nell’introduzione dei piani paesistici nella legge Bottai (1939), coeva della legge urbanistica del 1942. Ma è la legge Galasso (1985) il traguardo più significativo:

- si riprende l’intuizione crociana del paesaggio come espressione dell’identità nazionale,

- si individuano, prescrittivamente i lineamenti del paesaggio nazionale, la sua grande orditura e si vincolano (con vincolo solo procedimentale) i suoi elementi caratterizzanti,

- si amplia e si precisa lo strumento della pianificazione territoriale e urbanistica come strumento principe per la tutela del paesaggio (del contesto), passando da una visione settoriale del paesaggio a una visione tendenzialmente integrata con la pianificazione ordinaria: una anticipazione delle novità della convenzio ne europea del paesaggio, che Poli ci ricordava or ora;

- si definisce un sistema equilibrato competenze (e i doveri) dei poteri centrali e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.

Il nuovo Codice mantiene l’insieme del sistema Galasso, apportando utili integrazioni per quanto riguarda:

- il contenuto della pianificazione, secondo una linea che a me sembra convincente;

- la precettività delle determinazioni del piano paesaggistico;

- l’attività della ricognizione, del riconoscimento, dell’individuazione come fondamento della tutela, coe ci illustrava efficacemente Vanelli stamattina..

Il nuovo Codice rompe però drasticamente l’equilibrio tra potere centrale e potere regionale, eliminando il potere d’annullamento degli interventi contrastanti con le finalità della tutela e sostituendolo con l’espressione di un parere non vincolante delle sovrintendenze. In questo senso le critiche al Codice (ad esempio quelle che abbiamo sentito nell’intervento di Lo savio) mi sembrano motivate e giuste, e sottolineano anche in questo capitolo la linea generale di spoliazione dei poteri della nazione in quanto tale, che pervade tutta l’impostazione di questa legge, e di questa legislatura.

Credo che sia utile, e in questa sede necessario, passare dalla critica alla proposta.

Occorre domandarsi insomma che cosa fare, nel campo della tutela del paesaggio, per riprendere un cammino in avanti, che non sia di semplice resistenza ma che indichi prospettive positive: sia come preparazione di nuove regole (a livello nazionale e a livello regionale e subregionale) sia come azioni concrete.

1. A me sembra che sia in primo luogo necessario ribadire il principio di un interesse nazionale nella tutela del paesaggio: È un principio, del resto,dettato dalla Costituzione. È stato annebbiato negli ultimi anni dal cedimento alla demagogia della devoluscion, che si è manifestata già negli ultimi governi di centro sinistra.

Ribadire il principio dell’interesse nazionale del paesaggio non significa negare l’impianto regionalista della nostra Repubblica (prima o seconda che sia), ma significa richiamare l’idea dello Stato come “intero e armonioso complesso delle istituzioni” (V. Emiliani, 2004), e la concezione del paesaggio come elemento fondante dell’identità del tutto nazionale e delle sue singole parti. (Montale, “Il tutto è più importante delle sue parti”)

2. Ritengo che sia da apprezzare e da difendere, nel nuovo Codice, l’aver mantenuto la coerenza dell’impianto della legge Galasso, e in particolare il passaggio dal vincolo (indubbiamente valido come forma transitoria di protezione) alla pianificazione (come metodo e strumento per una considerazione complessiva delle esigenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente e di sintesi con le altre esigenze).

Non concordo perciò con la critica al Codice in merito alla vincolatività perenne dei vincoli ope legis, peraltro meramente procedimentali.

3. Ritengo che sia da ribadire ulteriormente la priorità delle determinazioni relative alla tutela (le invarianti strutturali) rispetto alle esigenze di trasformazione. È una priorità che ha un suo rilevante precedente nella pianificazione paesistica della Regione Emilia-Romagna (1986), e che è stata incorporata nella migliore legislazione regionale (Toscana 1995, Liguria 1997, Emilia-Romagna 2000)

4. Ritengo che il principio dell’interesse nazionale non debba necessariamente manifestarsi nella forma dell’ annullamento (che interviene solo a posteriori, Meandri 2004), e neppure in quello della autorizzazione, ma debba esprimersi sia, nell’immediato, con la vincolatività del parere preventivo, sia e soprattutto con la sempre più larga applicazione di pratiche di co-pianificazione: con la partecipazione paritaria alle scelte della pianificazione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici degli enti che esprimono gli interessi della tutela ai diversi livelli, a partire da quello nazionale.

Un positivo precedente mi sembra del resto costituito dalla norma dell’articolo 57 del DLg n. 112 del 31 marzo 1998[1], che dà alla pianificazione provinciale il valore di pianificazione di tutela di competenza statale “sempreche’ la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”

Vorrei aggiungere due considerazioni che non mi sembrano marginali, benché possano sembrare (e forse siano) delle assolute ovvietà.

La prima. Sono ormai trascorsi vent’anni dall’entrata in vigore della Legge Galasso. Mi sembrerebbe assolutamente indispensabile fare finalmente un’analisi seria del modo in cui essa è stata applicata: sia nelle concrete esperienze di pianificazione e nei loro effetti, sia dei comportamenti amministrativi, sia infine nelle ricadute sulla legislazione regionale.

Risulterebbero molte cose interessanti, alcune delle quali si possono già intuire:

- le enormi differenze tra regione e regione, che porrebbero in evidenza l’assoluta assenza di coordinamenti nazionali o di autocoordinamenti interregionali:

- le notevoli diversità di criteri adottati nelle diverse situazioni, a volte – ma non sempre - motivate da differenze sostanziali delle culture e delle realtà,

- l’inefficacia del sistema sanzionatorio, e quindi la scarsa garanzia fornita dalla potestà di annullamento

- la variegata traduzione (e spesso lo sviluppo) del “sistema Galasso” nelle legislazioni regionali.

La seconda. Se si condividono i punti che ho prima esposto, e in particolare l’esigenza di esprimere l’interesse nazionale nella forma della partecipazione preventiva delle strutture statali alle decisioni della pianificazione, si deve necessariamente convenire sul fatto che l’interesse nazionale non potrà essere tutelato finché l’apparato tecnico-scientifico dello stato sarà nelle tragiche condizioni di scarsità di risorse nelle quali versa, e verso le quali sempre più le sospingono il governo Berlusconi e il Ministro Urbani.

Se nelle preture e nei tribunali mancano cancellieri, attrezzature informatiche, e perfino codici, carta da fotocopie e carta igienica, non credo che le carenze di personale specializzato, di strumenti di lavoro e di materiali da consumo siano minori nelle sovrintendenze. Alle quali, per di più, l’autogoverno proprio del Terzo potere è sostituito da una burocrazia ministeriale la cui prevalenza mi sembra molto accentuata nell’ultima fase.

I sovrintendenti – lo scriveva Losavio nel suo intervento – sono relegati dal nuovo Codice “a un ruolo subalterno di mera consulenza”. Ed è facile immaginare la conseguenza di quella differenza tra il 2° e il 3à comma dell’articolo 115, che ci raccontava stamattina Cammelli: chiediamo all’ente pubblico di essere attrezzato, efficace ed efficiente, dotato degli strumenti e delle competenze adeguate, non lo mettiamo nelle condizioni richieste dal 2° comma, e allora siamo legittimati a dare i beni culturali nelle mani dei privati, cui il 3° comma non chiede nulla di simile. Il gioco è fatto.

[1]“La regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale di cui all'articolo 15 della legge 8 giugno 1990, n. 142, assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreche' la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”.

Un quadro nazionale contraddittorio

Il nuovo PR di Eboli si colloca in una situazione nazionale fortemente contraddittoria. In essa colpiscono in primo luogo gli elementi negativi, alcuni dei quali sono già stati evocati in questo dibattito. Voglio riassumerli in quattro punti.

1. La grande incertezza sull’idea stessa di potere pubblico, sul suo ruolo, la sua forza, la sua necessità: L’interesse comune sembra spingere sempre di più verso la disponibilità del potere pubblico a diventare mero strumento al servizio degli interessi privati. Il documento sull’urbanistica milanese, di cui De Lucia ha parlato, è un caso limite, non certo l’unico.

2. La continua contrapposizione di strumenti speciali, sostanzialmente derogatori, provocati e condizionati dall’emergenza e dall’occasionalità, prodotti e gestiti all’ombra della discrezionalità, agli strumenti della pianificazione, necessariamente, statutariamente governati dalla trasparenza e dalla tensione verso la coerenza.

3. L’utilizzazione dell’accresciuta attenzione dei cittadini per l’ambiente più come stimolo alle esercitazioni retoriche che come presa in carico dell’esigenza di avviare processi di lungo periodo capaci di stabilire nuovi equilibri tra storia e natura, tra uomo e ambiente. Dalla tensione verso il la ristrutturazione ecologica della produzione siamo passati alle ecodomeniche.

4. Quasi come sintesi ed emblema degli elementi negativi del quadro, le mai sopite tensioni verso la promozione dell’abusivismo (Gaia Pallottino ce lo ha appena ricordato) attraverso la riproposizione continua dei condoni, nonché la scarsa attenzione verso gli episodi di deciso contrasto all’abusivismo, che hanno visto Eboli in prima linea.

Un quadro scoraggiante. Ma per fortuna, accanto a questi elementi ve ne sono altri di segno opposti. Deboli, non ancora egemoni, forse addirittura minoritari, che proprio per ciò meritano di essere conosciuti, promossi, valorizzati nei loro elementi positivi più che criticati per gli aspetti insoddisfacenti e per gli errori che inevitabilmente contengono. Mi riferisco a due serie di elementi:

- ad alcune tendenze e iniziative nuove a livello nazionale (e in particolare alla nuova legge urbanistica)

- all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo.

Le legge urbanistica nazionale

Dopo un lungo lavoro dell’VIII Commissione parlamentare della Camera dei deputati, e un lavoro intelligente della sua Presidenza, è stato definito un testo unificato che affronterà nei prossimi mesi le discussioni e decisioni finali. La valutazione complessiva che ne do è positiva: è una proposta che assume, con equilibrio e intelligenza, gli elementi positivi e innovativi emersi dal dibattito e dall’esperienza degli ultimi tre lustri. Mi limito a sottolineare alcuni aspetti essenziali.

Mi limiterò ad annotarne gli aspetti a mio parere più interessanti.

In primo luogo, l’assunzione piena dell’articolazione degli atti di pianificazione in due componenti, quella strutturale e strategica e quella programmatica e operativa, come nuova forma della pianificazione. Una forma che si è cominciato a sperimentare nel PRG del centro storico di Venezia negli anni Ottanta, che è stata proposta da Polis nel convegno sui 50 anni della legge urbanistica tenuto a Venezia nel 1992, che è stata assunta dall’INU nel congresso di Bologna nel 19895, che è stata sperimentata in più d’un PRG e che è sostanzialmente contenuta nelle nuove leggi urbanistiche della Toscana, della Liguria, del Lazio. È un’innovazione decisiva, a mio parere, pere rendere più chiaro e più snello il processo di pianificazione, per semplificarne le procedure, per avviarci verso una “pianificazione continua” delle trasformazioni del territorio, per decentrare le responsabilità di rilevanza locale senza rinunciare al controllo di quelle di carattere più generale.

In secondo luogo, la definizione di rapporti responsabili tra i diversi livelli di governo coinvolti nel processo di pianificazione. Benché non si dia una definizione sufficientemente rigorosa del principio di sussidiarietà, esso è concretamente applicato in modo convincente: non come trasferimento d’ogni potere “verso il basso”, ma come individuazione del livello giusto (cioè efficace ed efficiente) per ogni decisione. La responsabilità degli enti sottordinati viene intesa (come deve essere) in due sensi: essi assumono la competenza a decidere, ma al tempo stesso vengono previste norme suppletive e di salvaguardia nel caso che essi non adempiano in modo adeguato.

In terzo luogo, il modo corretto con il quale si assume e si risolve il tema della “perequazione”: non come riconoscimento generalizzato si un diritto a edificare trasferibile sul territorio, non come “spalmatura” dell’edificabiità, e neppure come alternativa generalizzata all’espropriazione delle aree necessarie per la formazione di spazi pubblici, ma come tecnica di ripartizione di oneri e benefici all’interno delle aree trasformabili, decise come tali dagli strumenti urbanistici. Una generalizzazione, insomma, della procedura già introdotta con i “comparti” dalla legge 1150/1942, estesa alle zone d’espansione dalla legge 765/1967. (Ma devo annotare che rimane aperto un problema di fondo: quello della realizzazione della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”, e della sperequazione tra i proprietari compresi nelle aree urbanizzabili o riurbanizzabili, e gli altri).

Infine, la soluzione equilibrata che si dà alla questione del coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati nel processo di pianificazione. È una questione decisiva: ne ho parlato come uno degli elementi negativi della situazione nella quale viviamo. La proposta di legge affronta il tema affermando sempre, nelle procedure, il principio della priorità del generale sul particolare, del “piano” sul “progetto”. Questa scelta è resa ancora più esplicita e forte da una proposta che al lettore disattento può sfuggire.

Si prescrive infatti la formazione di un Testo unico nazionale il quale, tra l’altro, si disponga “l’abrogazione esplicita di tutte le norme non conformi ai principi” della nuova legge” (articolo 33). E poiché tra tali principi campeggia quello secondo cui “la tutela, l’uso, la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono sono disciplinati esclusivamente dai piani” previsti dalla legge stessa (articolo 8), si comprende facilmente come il legislatore s’impegni a fare piazza pulita della selva di strumenti derogatori accumulati negli ultimi vent’anni.

Il “principio di pianificazione”

La valutazione complessivamente positiva, molto positiva, della legge mi induce a sorvolare sui suoi limiti, su alcune formulazioni poco chiare o ambigue. Esse potranno essere precisate e messe a punto nell’ultima fase del lavoro parlamentare – analogamente a quanto, del resto, ci si propone di fare per il PRG di Eboli in fase di osservazioni. C’è un punto, peraltro, sul quale si deve a mio parere porre grande attenzione: esso riguarda il carattere della pianificazione a livello regionale, che nella formulazione attuale della legge è piuttosto evanescente.

C’è un principio, mai esplicitamente formulato ma sotteso all’insieme delle norme proposte, che considero fondamentale. È quello che definirei il “principio di pianificazione”. Esso può essere così espresso. ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione: atti cioè nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - precisamente riferite al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte.

Assumere questo principio significa aver deciso che la pianificazione è il metodo generale che gli enti pubblici elettivi di primo grado (in Italia: comuni, regioni, province, stato) adottano quando effettuano scelte suscettibili di incidere sull’assetto fisico e funzionale del territorio. Se un ente (poniamo, la Regione), decide che non assume alcuna scelta di rilevanza territoriale, che delega alle province o lascia allo stato qualunque opera o intervento o programma che incida sul territorio, allora evidentemente la pianificazione di livello regionale non è necessaria. Se così non è, allora non si comprende perché le scelte di competenza della regione non debbano essere formulate, garantite nella loro coerenza e rese esplicite con trasparenza, in modi analoghi a quelli da adottarsi da parte delle province e dei comuni.

Mi sembra che il “principio di pianificazione” dovrebbe essere affermato in modo esplicito, e tradotto più compiutamente nella strumentazione a tutti i livelli.

Il nuovo piano comunale di Eboli

Dicevo che il secondo elemento positivo della situazione attuale è individuabile nell’all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo. Il caso di Eboli e del suo nuovo PRG mi sembra un caso esemplare di questa tendenza positiva. E devo dire che mi riconosco così pienamente nelle scelte compiute, di merito e di metodo, che ho quasi una certa ritrosia a parlarne.Ma vorrei mettere in evidenza quattro aspetti e limitarmi ad essi.

1. Il sistema degli obiettivi proposto. Sono espressi nella relazione in una frase molto bella, sintetica ed esauriente, efficace. Precisamente, là dove si afferma che il disegno del piano è “comandato dall’obiettivo di rigenerare ciò che è deteriorato, riqualificare ciò che è saturo, trasformare ciò che è incompiuto, connotare ciò che è indefinito”.

2. L’impegno a tutelare quella gigantesca risorsa – per le generazioni presenti e per quelle future – costituito dalla zona agricola. Mi è sembrato leggere una volontà tenace, cocciuta, di difendere quel patrimonio, di contrastare ogni tentativo di lasciar invadere la campagna dalla “discarica urbana”, città diffusa o villettopoli che la si voglia denominare. In quella difesa della produttività agricola vedo l’emblema di un generale impegno alla difesa delle risorse: il centro storico, il territorio collinare, la costa, il fiume. Risorse viste non come “monumento”, ma come occasione per uno sviluppo economico durevole.

3. La decisione, non solo proclamata ma portata a compimento, di costituire un Ufficio del piano che è stato il vero Autore del piano. Questo è un impegno essenziale. Senza questo strumento la pianificazione non esiste: è solo chiacchiera, o accademia.

4. La determinazione con la quale si si è accompagnata, sorretta e preparata la redazione del PRG con un’azione energica contro l’abusivismo,. Senza il recupero della legittimità l’interesse generale non può essere un obiettivo credibile, e la stessa società scompare.

Come vedete, queste valutazioni positive sono rivolte più all’Amministrazione che ai progettisti. Ma secondo me la validità di un piano, a qualsiasi livello, sta proprio in questo: nella capacità e volontà dell’Amministrazione di farne il suo strumento per il governo del territorio. Il piano non è un fine: è lo strumento di questa volontà.

La definizione che preferisco di “piano urbanistico” è proprio questa: “una decisione politica tecnicamente assistita”. Mi sembra che, nel caso di Eboli, l’assistenza tecnica sia stata ottima, e l’azione politica della scelta continua e sistematica degli obiettivi giusti e delle soluzioni giuste sia stata eccezionale.

Per iniziare con un’espressione sintetica, vorrei affermare subito che Giovanni Astengo aveva una visione politica del ruolo dell’urbanistica nella società italiana. Questa affermazione deve essere chiarita.

Devo cioè precisare che cosa intendo per visione politica, e in che modo questa visione politica si sia espressa nel transito di Giovanni Astengo, e in particolare in relazione a quello che è l’argomento specifico della nostra discussione, “La rivista urbanistica sotto la direzione di Giovanni Astengo - La comunicazione delle idee degli urbanisti e del dibattito dell’INU”.

Potrò poi enunciare qualche idea su quello che, per Giulio Tamburini (coordinatore di questo insieme di riflessioni su Astengo) dovrebbe essere il vero obiettivo della nostra riflessione: che cosa si può trarre oggi, in positivo e in negativo, dall’insegnamento di Giovanni Astengo.

Urbanistica, società, politica

Astengo era indubbiamente convinto che l’urbanistica fosse una esigenza della società. Era convinto che una società adeguatamente organizzata, che voglia garantire anche solo una adeguata funzionalità, non possa fare a meno della pratica di cui l’urbanistica era portatrice: la pratica della pianificazione del territorio.

Ma la politica doveva porsi anche un obiettivo più alto della mera funzionalità: doveva realizzare una società solidale. Anche questo compito non poteva essere assolto senza il contributo creativo e scientifico dell’urbanistica.

Urbanistica e politica, quindi, come due componenti strettamente legate del percorso della società. Ma qual è il ruolo reciproco? Qual è, in questo rapporto inevitabile e necessario, il ruolo dell’urbanistica? Mi sembra che Astengo resti coerente con una posizioni teorica, a partire dalla quale compie uno sforzo in due direzioni pratiche.

La posizione teorica può essere sintetizzata così: l’urbanistica deve svolgere un ruolo di guida della politica:

Chi può e deve creare il territorio non può essere che la classe dei savants, in base a proprie motivazioni autonome e disinteressate, insindacabili: corpo di pubblica utilità, come i pompieri e la croce rossa (Fabbri 1975, p.59)

Ecco allora il tema dell’”orgoglio del tecnico”:

[…] il tecnico è depositario di un sapere e di un compito, quello di trasmettere le sue convinzioni ai politici investiti del potere di decisione. Astengo non dubita che il suo “sapere” sia frutto di una sintesi e che non debba perciò essere posto in dubbio da nessun altro “attore”; non si stupisce, si compiace anzi della solidarietà che altri tecnici illustri gli esprimono. Esisteva ancora, parrebbe, un orgoglio corporativo basato su una concezione “alta” della professione: difficile a leggersi oggi, nella pratica della lottizzazione eretta a sistema (G.Piccinato 1991, p. 287)

L’”orgoglio del tecnico” è riferito a un ruolo possibile, non a una funzione effettuale: si riferisce a un “dover essere”. Bisogna allora lavorare in due direzioni: verso gli urbanisti, e verso chi governa.

Una classe di savants

Da un lato, occorre costruire una “classe di savantsconsapevoli del proprio ruolo e padroni degli strumenti disciplinari necessari per svolgerlo. Mi sembra che il ruolo principale di “Urbanistica” sia proprio in questa direzione. Ed è tutta l’attività di Astengo che opera in questa direzione. È già negli anni della ricostruzione postbellica che da lui

l’esigenza di giungere alla formazione di un linguaggio omogeneo e ad un’uniformità di metodi e di procedure per la pianificazione territoriale era stata sottolineata con forza […] (C. Mazzoleni 1991, p. 46)

La pubblicazione dei piani, cui Astengo dedica tanta parte del suo impegno e che costituisce della sua rivista un esempio mai più raggiunto, non è documentazione: è proposta di modelli, di archetipi, di norma.

Così si spiega il fatto che, se la sua rivista “rimane certo una delle fonti più importanti per ricostruire la storia dell’urbanistica italiana ed europea” del suo periodo,

difficilmente potremmo compiutamente ricostruire sulla sua sola base la storia dello stesso periodo, riconoscerne lo svolgimento, i principali periodi e i caratteri salienti (B. Secchi 1991, p. 149)

Il luogo e l’impegno nel quale prosegue e in qualche modo vuole coronarsi, il tentativo di Astengo di costituire un corpo di savants, gradualmente sostituendo il lavoro di direzione e gestione della rivista, è la faticosa costituzione del Corso di laurea in urbanistica (F. Indovina 1991, p.217 e segg.).

La “carta” di fondazione del corso di laurea pone come prima ragione della progetto la constatazione della

Necessità davvero inderogabile di specializzazione. I tecnici che oggi si occupano di urbanistica escono dalle facoltà di architettura e ingegneria le quali […] offrono una preparazione in tal campo che non si può che definire dilettantistica (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)

E d’altra parte (ecco la necessità sociale del progetto di un nuovo corso di laurea)

L’assenza di una specializzazione basata su una chiarificazione disciplinare contribuisce a perpetuare, e ormai giustifica in parte (mio corsivo), la non utilizzazione dello strumento della pianificazione da parte degli enti pubblici [e] risulta ormai insopportabile per le pubbliche amministrazioni: al loro interno la presenza del tecnico urbanista diviene necessaria anche per dimensioni urbane medio-basse (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)

E si può tranquillamente affermare che la stessa attività professionale di redattore di piani e documenti di pianificazione che Astengo ha svolto era finalizzata a sperimentare modelli (tecnici e procedurali) idonei a esser proposti in quel dinamico manuale che la sua rivista ha costituito (C. Mazzoleni 1991, pp.35 e segg.). Un tentativo continuo di “codificare” le esperienze selezionate come valide, non solo al fine di costruire paradigmi comuni tra gli urbanisti

per renderli esponenti di una influente comunità scientifica, studiosi e professionisti accomunati da uno stesso modo di guardare, descrivere e problematizzare il territorio e la società (P. Di Biagi 1992, p.422)

ma anche (e forse soprattutto) per costruire una corporazione di sapienti capace di avere un peso politico: capace di esprimere socialmente il ruolo politico dell’urbanistica.

La moralità dell’urbanista

Come aveva una concezione alta della politica, Astengo aveva anche una concezione alta dell’urbanistica e del suo portatore, l’urbanista. Il suo impegno non va solo nella direzione di rendere solido lo statuto disciplinare: Astengo non era un accademico. Il suo impegno volto a consolidare, a rendere certo il mestiere dell’urbanista e convincente il suo risultato si accompagna con forti richiami alla moralità e alla responsabilità.

Un esempio. Nel 1956 il governo amplia gli elenchi dei comuni obbligati a formare i PRG: saranno alcune centinaia le città che riceveranno l’imprinting della pianificazione. La posta è grossa, ricorda Astengo (“Urbanistica” 20, 1957):

Tre-quattrocento piani significano l'avvenire delle nostre città; se ben studiati ed utilizzati a fondo essi possono rappresentare il trapasso da situazioni di disordine e di amministrazione caso per caso a a situazioni di pianificazione per programmi organici, possono consentire di moralizzare il mercato edilizio o di nazionalizzare e quindi risanare i bilanci comunali. Se male interpretati, od usati in modo superficiale e del tutto esteriore, essi possono decadere al rango di un artificioso regolamento edilizio.

Le attese sono grandi. Ma l’esito “non dipende solo dalle Amministrazioni”,

anche dall’attività degli urbanisti chiamati a redigere i piani e soprattutto di quelli investiti di diretta e completa responsabilità. […] Ad essi aspetta infatti -rendersi conto fin dagli inizi dei più minuti particolari delle varie manifestazioni della vita del Comune; dipanare l'aggrovigliata, matassa dei problemi, per ritrovare il filo conduttore di un futuro più razionale sviluppo della comunità; illuminare amministratori e funzionari, guidandoli nei primi passi di questa esperienza; stimolare le collaborazioni locali, chiarendo ai tecnici ed ai privati le finalità e le procedure della pianificazione; infondere al piano un contenuto economico e sociale che sostanzi gli interventi edilizi; agire da soli anche senza adatti strumenti legali per la salvaguardia del piano in fieri; dare, in una parola, inizio alla pianificazione urbana, già fin dai primi atti del suo concepimento.

Non si tratta di una responsabilità burocratica: è una responsabilità morale:

Questo compito ben duro supera, è chiaro, i limiti di un consueto mandato professionale […] I piani, anche i più giovani ormai lo sanno, non possono farsi a distanza e a tavolino: essi nascono faticosamente sul posto. occorre preparare il terreno, seminare e coltivare giorno per giorno l'arbusto, se si vuole che la pianificazione urbana metta ben saldo le radici e con l'approvazione del piano essa si trovi ad essere adulta e rigogliosa. Quest'opera, che ben poco ha da vedere col piano disegnato, non ha, compensi, è chiaro. Solo lavorando pazientemente ed umilmente, consci dei propri modesti limiti, ma fermamente decisi a penetrare fino in fondo la realtà sociologica urbana e ad imprimere alle situazioni attuali impulsi vivificatori, ciascuno di noi avrà contribuito, in misura proporzionale al proprio impegno, a costruire il futuro per le più importanti città italiane.

L’indignazione

Nel 1966 Astengo fu chiamato da Giacomo Mancini, ministro per i Lavori pubblici, a fare parte della Commissione d’indagine su Agrigento. Non ne fu solo un membro: insieme al presidente Michele Martuscelli ne fu l’anima. La relazione al Parlamento, in gran parte pubblicata su “Urbanistica”, (n. 48, 1966) costituisce un documento essenziale per comprendere il suo ruolo nell’urbanistica italiana (e nella storia degli urbanisti), e cogliere un aspetto centrale del suo messaggio.

Fu un momento di straordinaria tensione nella sua vita. Astengo affermò che

nella mia vita di studioso e di pubblico amministratore […] l’indagine di Agrigento rappresenta la più forte emozione e la più straordinaria tensione nmorale che abbia finora provato e che difficilmente penso possa per me essere, in un altro caso, raggiunta (in: P. Di Biagi 1992, p. 411)

Merita di essere ricordato e meditato ancor oggi, l’editoriale con il quale si apre in numero di “Urbanistica” dedicato agli

Improvvisi ed eccezionali accadimenti hanno scosso il paese tra luglio e novembre: la frana di Agrigento, l'allagamento di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nell'alto e basso Veneto.

Un numero con la copertina tutta nera: l’unico nella storia della rivista. Alla radice di ciascuno di quegli avvenimenti, scrive Astengo,

sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatosi. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d'improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici.

In entrambi i casi, alla radice è l'imprevidenza umana. E se, nell'imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia una ben piú ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica.

Non è infatti pensabile l'istituzione ed il funzionamento di un sistema di costante controllo, capace di far scattare uno stato di allarme, senza la presenza di un quadro di riferimento generale, che, stabilite le regole interne di equilibrio fra i vari fattori, definisca le finalità delle singole azioni, d'intervento e d'uso, e fissi le soglie dello stato di pericolo. Senza piani territoriali ed urbanistici, seriamente studiati e coscienziosa- mente resi operanti, è dunque perfettamente inutile pretendere un efficace sistema di controlli per l'ultima ora: se in Olanda scatta l'allarme nel polder minacciato è perché l'intero paese è vigilato da una pianificazione territoriale attiva ed attenta, con strutture, responsabilizza e tradizioni.

Quel memorabile fascicolo di “Urbanistica”, e l’intera vicenda della partecipazione di Astengo al lavoro della Commissione ministeriale per Agrigento, mi sembrano significativi almeno per due aspetti.

In primo luogo, per il modo in cui Astengo riesce a saldare in un’unica operazione l’accuratezza dell’analisi scientifica sull’evento, la finalizzazione civile e politica del lavoro, la tempestività della restituzione e diffusione dei risultati, la lezione morale e culturale rivolta all’insieme dell’opinione pubblica.

In secondo luogo, la carica di indignazione che riesce ad esprimere e a comunicare, e attraverso la quale trasmette, con il veicolo dell’emozione, il suo messaggio, la sua “verità”. Una carica di indignazione che difficilmente si riesce ad accostare, nella memoria, alla figura dimessa e grigia di quello che fu chiamato, con un certo benevolo compatimento, “il ragioniere dell’urbanistica”. Una carica d’indignazione che esprime compiutamente la ragione morale del ruolo dell’urbanistica come esigenza della società.

L’azione sul governo e nel governo

Una duplice azione di consolidamento nei confronti degli urbanisti, verso l’interno: un’azione per fondare uno statuto della disciplina, una ben ordinata cassetta degli attrezzi; e un’azione per dotare il corpo dei savants di un’anima, e quindi di una responsabilità e di una moralità. Ma dall’altro lato occorre cominciare da subito un’azione diretta su chi ha la responsabilità di governare: su chi ha il potere. Occorre tenacemente far comprendere, spiegare, illustrare e documentare a chi esercita il potere. Occorre conquistare consenso. In questo senso ha ragione chi afferma che quella di Astengo

non è una ricerca di verità epistemiche e di fondamenti, quanto piuttosto quella di una verità consensuale. Di argomenti che possano essere condivisi e divenire comportamento degli urbanisti in primo luogo, delle amministrazioni e dei differenti soggetti sociali infine (B. Secchi 1990, p.41)

Se e finché la politica non è stata “educata” dagli urbanisti a comprendere ciò che deve fare per governare al meglio le trasformazioni del territorio, occorre farlo in sua vece. Occorre, al limite, esercitare un ruolo di supplenza.

L’azione diretta sulla politica è naturalmente diversa a seconda delle diverse fasi dell’evolversi dei rapporti di forza tra le diverse componenti del quadro politico: in particolare, quelle più legate a un processo di modernizzazione ed “europeizzazione” della società italiana, più vicine ad Astengo e ai suoi amici, e quelle nelle quali si esprimeva il versante più arcaico del compromesso storico tra borghesia nazionale ancien régime.

Così, è evidente che nella fase che va dall’immediato dopoguerra all’iniziale manifestarsi della crisi dell’equilibrio politico centrista e della prospettiva di governi di centro-sinistra l’impegno sembra rivolto prevalentemente a denunciare i danni che derivano dall’assenza dell’urbanistica e della programmazione, dallo sviluppo delle città senza pianificazione, dalle inefficienze e dai ritardi culturali nell’organizzazione dei quartieri.

Particolarmente cocente è l’indignazione che sorge nel comparare il modo nel quale il governo del territorio avviene in Italia e quello nel quale si procede negli altri paesi europei, dove la pianificazione è stata lo strumento della ricostruzione ed è divenuta negli anni prassi indiscutibile.

Una fase diversa si apre successivamente. Mentre si infittiscono le discussioni (e le dislocazioni di forze sociali, interessi economici, rappresentanze politiche) che porteranno al centro-sinistra, “Urbanistica” diventa via via più propositiva ed affronta i temi che sono già, o che più facilmente meritano di essere portati al centro dell’attenzione politica. Dal regime dei suoli alla politica della casa, al governo delle trasformazioni territoriali, alla partecipazione dei privati alle spese di urbanizzazione, la rivista di Astengo è il repertorio delle soluzioni possibili e il manifesto delle critiche alle soluzioni sbagliate.

Ma alle speranze e alle proposte della fase iniziale del centro-sinistra subentrano presto la delusione e la protesta, a mano a mano che la carica riformatrice della nuova alleanza di governo mostra segni di logoramento – e a mano a mano che gli esponenti politici a lui più vicini, i socialisti della sinistra di Riccardo Lombardi, perdono peso e potere, o si trasferiscono su altre sponde.

Una nuova speranza nasce quando vengono istituite le regioni a statuto ordinario. Astengo riprende l’esperienza di amministratore pubblico (come Detti a Firenze e Campos Venuti a Bologna all’inizio degli anni Sessanta, era stato assessore comunale a Torino) e diventa assessore all’urbanistica nella regione Piemonte. In una stagione in cui “le politiche territoriali delle regioni” non offrono molti spunti incoraggianti, in cui (nonostante le attese degli urbanisti) “non è riconoscibile una consapevole politica di piano”, dal

quadro generale si distingue il Piemonte, che ha vissuto un quinquennio di grazia nella persistente volontà di vincere la quasi impossibile scommessa per una politica di piano (M. Romano 1981, p.3)

In termini generali, non mi sembra che – una volta conclusa l’esperienza regionale e spenta l’illusione della carica rinnovatrice – sia stato fatto un bilancio serio dell’esperienza delle regioni. Né da parte degli urbanisti, per il vero, né da quella dei politici. Né allora, né quando – concluso il terzo mandato elettorale – era apparsa evidente la generale riduzione delle regioni a organismi prevalentemente dedicati alla gestione burocratica dell’esistente e alla funzione di cinghia di trasmissione delle politiche centrali; e neppure quanto, all’inizio del decennio scorso, le vampate separatiste, autonomiste e poi federaliste avrebbero imposto, in un paese serio, una seria riflessione sull’esperienza del regionalismo.

Una contraddizione

Qui però si tocca, probabilmente, un limite dell’impostazione di Astengo ben registrata dall’archivio che “Urbanistica” costituisce. La rivista patisce una singolare contraddizione.

Da un lato, negli anni in cui Astengo la gestisce, la rivista è l’urbanistica italiana: la rappresenta, la riassume, la esprime. In Italia, in quegli anni, non c’è urbanistica fuori di “Urbanistica”: non per volontà egemonica o per particolari capacità di sopraffazione delle voci diverse, ma per l’assenza di posizioni alternative capaci di dotarsi di analoghi strumenti d’espressione; o, se si vuole, per la pienezza di rappresentatività di Astengo.

Ma dall’altro lato, e proprio per la piena consapevolezza della dimensione politica delle questioni cui disciplinarmente è legata, la rivista manca di continuità nello sviluppo del dibattito, dell’elaborazione, nell’accumulazione e nella digestione dei prodotti dell’evoluzione disciplinare. Per meglio dire, anzi, la sua continuità è nel seguire gli eventi, nello scegliere volta per volta, fase per fase, la questione più rilevante ai fini dell’affermazione sociale del messaggio dell’urbanistica, della politica della pianificazione urbana e territoriale.

Se mi è consentito un riferimento personale, la ragione di fondo per la quale, nel 1971, nacque “Urbanistica informazioni” fu forse proprio questa: la consapevolezza, da parte del rinnovato gruppo dirigente dell’INU (ossia di quello che allora ancora era l’espressione degli urbanisti italiani), del logoramento del ruolo di “Urbanistica” come strumento di raccordo con gli eventi e i soggetti della politica, come attrezzo idoneo a svolgere un ruolo dinamico, e perciò stesso mutevole, di polemica e di proposta nei confronti della “faccia politica” della società.

Una valutazione

In molte sedi si sono tentate valutazioni del ruolo di Astengo. A me personalmente non convincono le letture dell’azione di Astengo che tendono ad attribuire all’insufficienza dell’elaborazione il mancato raggiungimento degli obiettivi proposti (ad esempio: Secchi 1984, Berlanda 1991, Becchi 1998). Sebbene in queste critiche ci siano elementi di verità sui quali occorerebbe riflettere con attenzione.

La mia opinione è che il tentativo di Astengo (e degli altri che ne condivisero l’impegno) era in sostanza quello di imprimere al governo del territorio in Italia un sistema di regole (metodologiche, procedurali e tecniche) analogo a quelli che aveva consentito agli altri paesi europei di conoscere uno sviluppo sociale ed economico accompagnato e sorretto da un’armatura urbana e territoriale bella ed efficiente e da una valorizzazione delle risorse territoriali.

E credo che, alla fine degli anni Cinquanta, sia stata giusta la scelta di individuare nella questione della rendita il nodo centrale del garbuglio che rendeva così difficili i tentativi di esercitare un governo moderno alle violentissime trasformazioni del sistema territoriale.

Ma sono convinto che ha probabilmente anche ragione chi si domanda perché gli urbanisti

non si sono battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era, la n. 1150 del 1942? e perché all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova? (A. Becchi 1998, p.52).

Del resto, agli urbanisti e ad Astengo può essere giustamente rimproverato, a proposito della questione della rendita, il fatto di “non vedere altri aspetti” della questione,

ad esempio, di capire i connotati della strategia di mobilitazione individualistica in atto, di capire che non ci si trova di fronte a governi che perseguono “in modo empirico e senza alcuna prospettiva di lungo termine, una politica di composizione dei contrasti, equilibrismi e rinvii, accompagnata da piccolo favori a determinate categorie o clientele” [l’A. cita un testo di L. Bortolotti], ma, all’opposto, ad un programma politico certamente teso a privilegiare nel suo complesso i ceti medi, ma delineato con grande chiarezza (B. Secchi 1984, p. 70)

Questi argomenti, peraltro, sono stati affrontati dagli urbanisti nella fase (su cui si dovrebbe lavorare di più) successiva al clamoroso fallimento del Congresso di Napoli del 1968, che vide articolarsi il mondo degli urbanisti italiani in una pluralità di gruppi e di posizioni, alcune delle quali specificamente impegnate nell’analisi del “programma politico” dominante.

Un altro limite che può esser rimproverato ad “Urbanistica”, e in generale alla cultura urbanistica italiana, mi sembra quello di non aver scavato al fondo delle ragioni storiche che avevano prodotto, in Italia, il manifestarsi di un peso politico e sociale della rendita molto più forte di quanto non fosse nei paesi nei quali la rivoluzione borghese aveva vinto sull’ancien régime in modo non compromissorio.

Un limite, e due considerazioni

Può esser rimproverato agli urbanisti, insomma, di non aver compiuto con sufficiente continuità e rigore analisi politiche corrette. Questa osservazione sollecita però due ordini di considerazioni.

In primo luogo, è un’osservazione che chiama in causa, prima ancora che un ritardo (e una insufficienza) della cultura degli urbanisti, un ritardo della cultura politica. I ritardi, insomma, non sono stati soltanto né tanto quelli della cultura urbanistica, quanto soprattutto quelli della cultura politica. Ed è indubbio che questo ritardo (e questa insufficienza) tende ai nostri giorni ad accrescere con straordinaria velocità, a mano a mano che la politica riduce la progettualità a tutela degli interessi degli attori più forti, e la missione alla conservazione del potere.

In secondo luogo, è un’osservazione che richiederebbe da parte degli urbanisti (ed effettivamente richiede) un impegno più severo e attento nella direzione della politica (della sua analisi, della comprensione dei suoi fondamenti e delle sue regole, e perfino nella partecipazione ai suoi eventi): il che mi sembra largamente il contrario di ciò che sta avvenendo in una vasta porzione del mondo degli urbanisti.

È vero insomma che i limiti progredenti della cultura politica privano l’urbanista di una “spalla” essenziale per la sua riflessione, ma a me sembra altrettanto vero che ciò non può costituire un alibi il ripiegamento su posizioni esclusivamente tecnicistiche, per isolare la “progettazione” dalla “politica”.

Quale urbanistica

Questi appunti, certo disordinati, mi sono stati sollecitati dalla rilettura delle pagine di Astengo sulla sua rivista e di alcuni commenti alla sua opera. Domandarsi quale sia il contributo che oggi Giovanni Astengo può dare alla vicenda dell’urbanistica italiana induce a porsi un ulteriore interrogativo: qual’era – al di là delle definizioni canoniche forse troppe volte ripetute – l’idea di urbanistica che Astengo praticava? E quali componenti di questa idea sono ancora oggi utili?

Una prima componente l’ho già enunciata: l’urbanistica è una faccia della politica. Non dico “una parte”, come dice L. Benevolo, perché questa espressione può alludere a un ruolo parziale, di “ritaglio”, o, al contrario, troppo invadente dell’urbanistica. Dire che è una faccia della politica significa dire che senza un rapporto con la politica l’urbanistica è monca, e che viceversa è insufficiente a svolgere la propria missione una politica che ignori le ragioni, i metodi, le attenzioni dell’urbanistica.

Una seconda componente, che in qualche modo argomenta e sorregge la prima, è nella convinzione che l’urbanistica è servizio tecnico di interessi collettivi. È in questa natura dell’urbanistica, a mio parere,la ragione della necessità del rapporto con la politica: anch’essa - nella tradizione giacobina e borghese cui Astengo partecipa - al servizio di interessi collettivi.

Una terza componente, figlia delle due che ho ora enunciato, è che l’urbanistica, nella tradizione e nella realtà dell’Europa, è sostanzialmente compito dell’amministrazione pubblica. Gli urbanisti, allora, sono primariamente commis d’Ètat, civil servants, funzionari pubblici, e la loro missione comprende la partecipazione alla ricerca della struttura amministrativa più efficiente ai fini del governo del territorio.

Una quarta componente (o per meglio dire, una direzione di ricerca alla quale sollecitano gli assunti precedenti) è l’individuazione, o la costruzione, del ruolo dell’urbanistica, nel duplice senso della scoperta della sua utilità e della sua autonomia dalla politica.

In questa direzione moltissimo cammino resta da percorrere. A me sembra che due linee di lavoro possano essere fruttuose.

Custodi delle risorse territoriali

Da un lato, l’azione volta alla individuazione degli elementi dell’assetto delle città e dei territori che non sono negoziabili: che non sono assoggettabili al deperimento derivante da un loro uso indiscriminato perché costituiscono parte del patrimonio dell’umanità.

Si tratta di una problematica legata a una contraddizione sempre più lacerante e a una tradizione che rischia di essere assunta in modo rituale e riduttivo.

Mi riferisco alla contraddizione (che costituisce un limite serio della democrazia) tra i mandato elettorali temporalmente limitati caratteristici della forma attuale della democrazia, e gli impegni che bisogna assumere (e le penalizzazioni che occorre subire) per garantire i diritti delle generazioni future.

E mi riferisco alla tradizione della migliore urbanistica italiana, diligentemente e puntigliosamente illustrata nelle pagine di “Urbanistica”, che ha visto esemplari ed efficaci azioni di difesa e valorizzazione e promozione (con i piani e al di là dei piani) delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali. I piani di Piccinato, di Detti, di Astengo illustrati da “Urbanistica” non sono solo capitoli di un manuale tecnico, ma manifesti, proclami ed esempi di un’azione di tutela delle risorse territoriali che ha contribuito allo sviluppo di una consapevolezza sociale dei valori impliciti in quelle risorse (sebbene il ragionamento in essi implicito non sia sviluppato).

Forse, l’utilità dell’urbanistica per la politica e, al tempo stesso, uno dei fondamenti della sua autonomia possono essere individuati proprio nel suo ruolo di regia dei saperi utili a individuare e segnalare le risorse e le occasioni per lo sviluppo della civiltà presenti nel territorio.

E forse nello svolgimento di questo suo ruolo l’urbanistica può anche trovare un suo collegamento diretto con la società, autonomamente rispetto a quello comunque ricercato attraverso la politica. Superando in tal modo anche il limite, presente nella vita dell’INU, e nelle stesse pagine di “Urbanistica”, fino alla fine degli anni Sessanta, e anche negli anni più recenti,di un collegamento esclusivo con i patrons della politica e“i grossi apparati della burocrazia ministeriale” (C. Mazzoleni 1991).

La misura della razionalità

C’è chi sostiene che il carattere analitico, minuzioso, in ultima analisi positivistico di Astengo, e il carattere che ha voluto imprimere alle pratiche urbanistiche in Italia derivino prevalentemente dalla volontà di “una migliore argomentazione, giustificazione e forse specificazione delle scelte” (P.C. Palermo 1987). È probabile che sia così. Credo però che lo sforzo di Astengo di garantire una razionalità a priori alle scelte sul territorio mediante un fondamento razionalistico della pianificazione possa essere proseguito su più piani di lavoro, e che possa fornire un ulteriore contributo alla definizione di un ruolo (e un’utilità sociale fondata sull’autonomia disciplinare) per l’urbanistica.

Si tratta di impiegare gli strumenti logici e, soprattutto, la “sensibilità territoriale” elaborati e affinati nelle pratiche dell’urbanistica per misurare la razionalità delle scelte sul territorio: per valutarne costi e benefici, vantaggi e svantaggi per le diverse categorie di soggetti interessati (presenti e futuri), per simularne le conseguenze vicine e remote, per disegnare scenari analoghi a quelli utilizzati nelle tecniche della Vision of cities.

Si tratta, insomma, di suggerire alla politica non solo i quadri normativi tipici della pianificazione classica (essenziali soprattutto laddove l’appartenenza dei diritti alla trasformazione urbanistica non è del pubblico), ma anche le modalità per scegliere secondo ragione.

In fondo, si tratterebbe di svolgere un ruolo analogo a quello che, secondo Ugo Foscolo, svolge quel tale Machiavelli il quale

Gli allor ne sfronda ed alle genti mostra

Di che lagrime grondi e di che sangue.

Il ruolo di chi illustra al Principe - alla politica nel suo intreccio con la società - , le conseguenze delle scelte che essa si accinge a compiere, e in tal modo limpidamente richiama la politica alle sue responsabilità.

Perché questo ruolo sia utile (e anzi, semplicemente possibile) è naturalmente necessario che ci sia una politica degna di questo nome. Ma questo è un altro discorso.

Edoardo Salzano

13 giugno 2000

Sintesi

Giustamente l'INU pone al centro della sue riflessione due questioni entrambe nodali: il sistema della pianificazione urbanistica e territoriale, il regime degli immobili. E altrettanto giustamente l'INU affronta la prima delle due questioni ponendo l'accento su argomenti (quali il rapporto tra pianificazione e tempo, le competenze dei vari livelli di governo e di pianificazione, i contenuti che la pianificazione deve avere in relazione alle nuove situazioni e alle nuove esigenze) per i quali soluzioni innovative sono, a un tempo, necessarie e mature. Sulla prima questione è peraltro possibile compiere passi avanti molto più decisi di quelli che l'INU propone, come il dibattito culturale e recenti esperienze di pianificazione dimostrano. Sulla seconda questione le proposte dell'INU costituiscono un preoccupante arretramento rispetto a un'elaborazione culturale la cui vicenda (a partire dagli anni 50) è parte costitutiva della storia dell'INU.

Il sistema della pianificazione

Per restituire credibilità alla pianificazione occorre affrontare e risolvere tre problemi: come far sì che la pianificazione, senza perdere la propria coerenza, riesca ad adattarsi alle trasformazioni della realtà in tempi “politici” e non “storici”; come rispondere efficacemente, con la pianificazione, alla fondamentale esigenza della tutela delle qualità ambientali e della riduzione dei rischi; come ottenere snellezza e chiarezza dei procedimenti, in una situazione in cui almeno tre livelli di governo sono coinvolti nel processo di pianificazione.

Tali problemi possono essere enunciati sinteticamente come quelli dei rapporti della pianificazione con il tempo, con l'ambiente e con i poteri pubblici. È su questi che mi propongo ora di soffermarmi, prima di dedicare, in conclusione, qualche brevissima annotazione alla questione del regime degli immobili (che tocca il cuore di un quarto rapporto: quello tra la pianificazione e i poteri privati).

Pianificazione e tempo

In alcuni strumenti urbanistici alla cui elaborazione ho partecipato dall'inizio degli anni 80[1] abbiamo sperimentato la possibilità, l'opportunità e l'utilità di una trasformazione del tradizionale strumento di pianificazione (il PRG), che è stata successivamente messa a punto in alcuni elaborati prelegislativi presentati in varie sedi. La proposta è basata sull'articolazione degli elaborati. grafici e normativi del piano comunale (ma analogo criterio viene proposto per gli atti di pianificazione degli altri livelli) in due serie di componenti.

La prima componente, che abbiamo definito strutturale (ma che presenta sostanziali differenze rispetto allo “structure plan”), rappresenta e disciplina le decisioni relative alla tutela ambientale e della riduzione dei rischi, e quindi definisce, per ciascuna unità di spazio, le condizioni che l'esigenza suddetta pone alle trasformazioni territoriali, e inoltre individua (rappresentandole e disciplinandole) le scelte relative a opere e interventi di carattere strategico, e cioè riferite al lungo periodo e governabili solo in una prospettiva lunga. Essa ha validità a tempo indeterminato, viene periodicamente verificata (e aggiornata solo se ciò si rivela necessario), e comporta un iter procedimentale più garantistico dell'altra componente.

La seconda componente, che abbiamo definito programmatica (ma che ha un contenuto molto più ampio del Programma poliennale d'attuazione, avvicinandosi piuttosto al “Pian d'occupation du sol”, e che è a sua volta matrice, per le aree di pesante trasformazione urbanistica, di specifici piani urbanistici attuativi), definisce le destinazioni d'uso attivabili, nonché le trasformazioni fisiche operabili (le une e le altre, ovviamente, nell'ambito e nel rispetto delle condizioni definite dalla componente strutturale e in coerenza con la sua stralegia). La componente programmatica ha validità per un quadriennio, cioè per un periodo coincidente con il mandato amministrativo; alla fine di tale periodo essa decade, e deve essere sostituita da un nuovo analogo atto. L'iter procedimentale della componente programmatica si esaurisce nell'ambito dell'ente territoriale che l'ha adottata (comune, provincia o città metropolitana, regione).

In tal modo, mentre da un lato vi sarebbe una forte garanzia di permanenza, e di modificabilità molto controllata, sulle scelte relative alle tutele e alle strategie, le concrete operazioni di trasformazione funzionale e fisica sarebbe interamente demandate alla responsabilità dell'ente territoriale, consentendo a quest'ultimo di seguire con tempestività le trasformazioni e l'evoluzione della domanda sociale.

Il documento dell’INU sembra diretto verso i medesimi obiettivi, i quali peraltro meriterebbero d'essere esplicitati con maggiore chiarezza e, soprattutto, più coerentemente tradotti nel sistema di pianificazione proposto.

Pianificazione e ambiente

E solo attorno alla metà degli anni 80 che l'esigenza di attribuire una “specifica considerazione ai. valori paesaggistici e ambientali” nella redazione degli strumenti di pianificazione ha cominciato ad affermarsi. Si conviene ormai largamente che, come si affermò in modo esplicito fin dai documenti preparatori del Piano paesistico dell'Emilia-Romagna, “la tutela dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio costituisce la precondizione per le trasformazioni”.

Più generalmente, molti ritengono che la pianificazione debba assumere il requisito della sostenibilità come proprio obiettivo centrale. E quando si parla di sostenibilità ci si riferisce alla definizione di “sviluppo sostenibile” adottata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, la cosiddetta Commissione Brundtland. Dove per “sviluppo sostenibile - è opportuno ricordarlo - “si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”[2].

Queste posizioni di principio devono però tradursi in specifiche prescrizioni normative che inverino tale posizione nel procedimento tecnico di formazione degli atti di pianificazione.

La nuova configurazione degli atti di pianificazione indicata nel precedente paragrafo, e in particolare i contenuti della componente strutturale, mi sembrano tali da consentire di raggiungere l'obiettivo “ambientalista”. Della componente strutturale fanno infatti parte sostanziale tutti gli elementi di individuazione e di prescrizione che definiscono, per ciascuna porzione del territorio e per ciascuna unità di spazio, le condizioni che le esigenze della tutela pongono alle trasformazioni.

Sarà certo necessario (ma non in sede di legge nazionale, e neppure di legge regionale, sebbene in sede di regolamentazione tecnica di livello substatuale) suggerire o prescrivere le concrete modalità tecniche, gli specifici parametri, le puntuali analisi che dovranno essere adottati nel definire la componente strutturale degli atti di pianificazione. Esiste ormai una messe sufficientemente ampia di esperienze di pianificazione, in Italia, oltre che all'estero, che consentirebbero di mettere a punto rapidamente una prima bozza di regolamentazione tecnica.

Pianificazione e poteri pubblici

La legge 142 del 1990 ha definitivamente stabilito che i livelli di pianificazione (oltre alla questione del “livello” nazionale, la quale meriterebbe un ragionamento a parte) sono tre: la regione, la provincia (e, dove è istituita, l'area metropolitana), il comune. Giustamente il documento dell'INU recepisce questa indicazione, la quale del resto corona un lunghissimo dibattito culturale iniziato con il Codice dell'INU del 1959 e poi proseguito attraverso le elaborazioni e le discussioni sull'istituto regionale e sull'ente intermedio. Il problema ancora aperto è quello di definire contenuto, competenze e procedimenti dei tre livelli di pianificazione e di governo, sulla base del presupposto (che il documento dell'INU `palesemente non condivide) che a ogni livello di governo corrisponde un livello di pianificazione, e che ogni ente pubblico territoriale elettivo di primo grado, titolare di competenze in merito a scelte che incidono sul territorio, esprima le sue scelte mediante un atto di pianificazione.. Il criterio che mi sembra ragionevole assumere per distinguere le competenze territoriali dei tre livelli di governo è quello per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le funzioni relative ad aspetti che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste.

Questo criterio coincide con quello, consolidato nella cultura e nella prassi della Unione europea, della “sussidiarietà”, per cui debbono competere ad ogni livello, e a ogni soggetto, istituzionale, tutte le funzioni che a quel livello, e da parte di quel soggetto, ragionevolmente si possa ritenere siano esplicabili con efficienza ed efficacia tali da rispondere accettabilmente agli interessi dei cittadini amministrati, essendo (soltanto) le funzioni “residue” via via deferite ad altri soggetti e/o livelli, istituzionali, con particolare riferimento a quelli “sovraordinati”.

Nella pratica della pianificazione, l'esercizio delle competenze proprie di ciascun livello di governo (e di piano) dovrebbe esprimersi in forme differenziate in ragione sia della natura e delle caratteristiche degli oggetti e aspetti territoriali considerati, sia della congruità delle “forme espressive” (localizzazioni precise, ambiti di localizzazione, soglie, ecc.) con le specifiche competenze pertinenti a quel livello. Così, gli strumenti di pianificazione dei livelli di governo sovraordinati e di tipo “generale” dovrebbero definire precise localizzazioni o esatti tracciati per alcuni elementi (per es., un porto o una grande infrastruttura lineare), ambiti, o direttrici, di localizzazione, da osservare nell'attività pianificatoria di livello sottordinato o di tipo attuativo per altri elementi (per es., la localizzazione di un aeroporto a livello nazionale, di una sede universitaria a livello regionale, di un istituto scolastico superiore a livello provinciale), quantità o soglie quantitative per altri elementi ancora, e in particolare per quelli influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommatoria degli effetti che ne risultano.

Per quanto riguarda le procedure, ogni livello di governo dovrebbe potersi esprimere sugli atti di pianificazione di competenza di ciascun altro livello, ma la decisione ultima spetta al livello di governo che ha competenza per quel determinato elemento o aspetto della struttura territoriale. Conseguentemente, ad ogni livello di governo dovrebbe essere riconosciuto un mero potere di controllo della conformità delle scelte di competenza dei livelli sottordinati alle decisioni proprie e degli altri livelli sovraordinati.

Gli enti territoriali elettivi di livello sottordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianifica­zione di livello sovraordinato esprimendo osservazioni, cui dovrebbe essere sempre obbligatorio controdedurre motivatamente. Parimenti, gli enti di livello sovraordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sottordinato mediante pareri e osservazioni, ai quali dovrebbe essere ugualmente obbligatorio controdedurre motivatamente, ma che dovrebbero essere vincolanti solamente ove concernenti la tutela di interessi la cui competenza sia riconosciuta ai predetti enti di livello sovraordinato.

E ove gli enti di livello sovraordinato abbiano provveduto ad esprimere tali interessi mediante gli strumenti di pianificazione di propria competenza, la vigenza degli strumenti di pianificazione di livello sottordinato dovrebbe essere soggetta soltanto al controllo della loro conformità alle de terminazioni dei primi. Non dovrebbe infine essere previsto alcun controllo di merito, da parte degli enti di livello sovraordinato, sugli atti di pianificazione di tipo “attuativo”, che vengano dichiarati, e siano, meramente esecutivi delle prescrizioni di strumenti di tipo “generale” già vigenti.

Il regime degli immobili: pianificazione e poteri privati

Gli obiettivi che 1' INU, e le forze progressiste e riformatrici della cultura e della politica, si sono tradizionalmente posti sono stati due: impedire che flussi di risorse affluissero alla rendita fondiaria ed edilizia (e tendenzialmente eliminare la quota di rendita fondiaria trasferita nel prezzo delle abitazioni), e rendere i proprietari di suoli “indifferenti alle destinazioni dei piani”[3] (3). Quest'ultimo obiettivo è particolarmente rilevante per chi - come gli urbanisti -è culturalmente e tecnicamente impegnato nella pianificazione. Finché quella indifferenza non sarà raggiunta, finche sarà la matita degli urbanisti a spostare da un'area a un'altra (e da un portafoglio all'altro) ingenti masse di reddito, le ragioni culturali e tecniche saranno sempre perdenti: le scelte saranno legittimamente compiute non dai “tecnici”, ma dai politici i quali, in quanto eletti dai cittadini, sono gli unici pienamente legittimati a decidere (si spera, nell'interesse collettivo) su scelte delle quali l'aspetto economico è senza dubbio predominante su quello tecnico.

Mi sembra questa la ragione di fondo per cui, fin dagli anni 50 (ma forse sarebbe utile riandare perfino al dibattito che precedette la legge del 1942), gli urbanisti si sono “impicciati” ditemi così precipuamente economici, sociali e politici come quello del regime degli immobili. Ed è questa anche la ragione di fondo per cui ritengo che la proposta della cosiddetta “perequazione”, avanzata nel documento dell'INU, sia un gravissimo cedimento.

La proposta oggi sostenuta dall'INU attribuisce infatti un valore di rendita edilizia a tutte le aree comprese all'interno delle aree urbanizzabili o ri-urbanizzabili, operando “perequazioni” tra i proprietari compresi all”interno di queste ultime (perdi più con differenze di indici che non si comprende quale portata “sperequativa” possano avere). Nessuna perequazione sembra peraltro prevista tra i proprietari esterni alle aree urbanizzabili e quelli interni. Talché, mentre rimangono del tutto aperti i vizi di legittimità costituzionale (alcuni proprietari sono beneficiati dalla decisione pubblica, altri no), è sempre la matita dell'urbanista che traccia (che dovrebbe tracciare) il confine tra chi è beneficiato e chi no.

Molto più ragionevole ed efficace rimane la proposta, derivata dall'ipotesi formulata nel 1968 dall'allora Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli, nutrita delle riflessioni di Guido Cervati, Vincenzo Cabianca.

[1]Variante al Prg per la città storica di Venezia, 1980-1985, 1987-1990; Prg del Comune di Carpi, 1990-1995.

[2] Per le ricadute urbanistiche della "sostenibilità" rinvio agli atti del Convegno tenuto a Venezia nel 1991: La città sostenibile, a cura di E. Salzano, Edizioni delle autonomia, Roma 1992.

[3] Per adoperare I'espressìone formulata da Aldo Moro nel 1964.

IL MESTIERE DELL’URBANISTA

L’urbanista

Diverse sono le interpretazioni sulla nascita di questa nuova figura professionale, l’urbanista. Questa figura professionale ancora oggettivamente acerba e soggettivamente incerta. Una figura caratterizzata più dal suo mestiere che dal suo sapere (la “disciplina”), più da ciò che la società gli chiede che da una propria carismatica “missione”. Una figura più propensa a individuare problemi e a proporre percorsi per risolverli che a propinare certezze, più a favorire la ricerca di visioni condivise che a imporre la propria.

C’è chi, come Leonardo Benevolo, lega il mestiere dell’urbanista alla crisi del sistema economico-sociale fondato sulla produzione industriale, alla conseguente necessità di sanare i guasti prodotti nell’ambiente della vita dell’uomo, all’emergere dell’aspirazione (da parte di élite visionarie o di gruppi organizzati di uomini) a una condizione urbana caratterizzata da salubrità, socialità, benessere condiviso.

C’è chi, come Hans Bernoulli, dedica il mestiere dell’urbanista al tentativo di recuperare la grande rottura storica avvenuta quando il trionfo della borghesia, sciogliendo i variopinti vincoli feudali che legavano la società e ponendo l’interesse individuale come motore dello sviluppo, infranse anche il sistema delle regole comuni basate sulla proprietà indivisa del suolo urbano, capace di rendere la città bella e funzionale.

E c’è chi, assumendo come metafora della nascita dell’urbanistica il piano di New York del 1811, individua il mestiere dell’urbanista come il primo tentativo di superamento dell’incapacità del mercato a risolvere i problemi derivanti dalla contraddizione tra il carattere intrinsecamente sociale, comune, collettivo della città e la logica invincibilmente individualistica che del mercato è padrona.

Dalla parte del collettivo

Una cosa è certa. Se guardiamo alla storia, ci rendiamo conto che l’urbanistica moderna, e quindi l’urbanista quale oggi riusciamo a immaginarlo, nascono per risolvere problemi che derivano da una circostanza che ha segnato il nostro tempo. Dalla contraddizione tra il carattere collettivo, sociale, comune che hanno necessariamente alcune costruzioni del processo storico (e in particolare la città) e il carattere individualistico proprio dell’ideologia che è alla base del sistema capitalistico.

Esiste una letteratura sconfinata su questa contraddizione. E possiamo affermare che il modo mediante il quale si è cercato e si cerca di superarla caratterizza le diverse scuole, le diverse tonalità, i diversi stili dell’urbanistica, mentre mi sembra indubbio che la posizione a partire dalla quale l’urbanista si pone, il versante sul quale si schiera, sono dalla parte del collettivo, del comune, del sociale.

L’urbanistica è regolativa

La privatizzazione del suolo urbano è la prima forma della contraddizione tra sistema economico-sociale e città, ed è il primo ostacolo alla riduzione dei suoi effetti. Chi governa in nome degli interessi collettivo non è libero nelle sue operazioni: deve fare i conti con la proprietà privata del suolo urbano.

Una parte consistente dell’urbanistica (e una parte consistente del lavoro dell’urbanista) è perciò volta a regolare la proprietà privata: non può ignorarla, non può ignorare che il suolo urbano è parcellizzato, suddiviso, frammentato, frantumato: una città che voglia avere una identità, e quindi voglia esprimere un’immagine unitaria di se stessa, non può essere liberamente disegnata, progettata, pianificata sul terreno tenendo conto solo delle sue caratteristiche fisiche: deve fare i conti con la proprietà individuale e i suoi confini. Perciò, deve imporre ai proprietari (ai “particuliers”, dicono i francesi) la sua regola. L’urbanistica non può non essere regolativa.

E la prima fase del mestiere dell’urbanista è stata proprio quella di regolare a priori (mediante lo strumento del “piano regolatore”) i malfunzionamenti che sarebbero nati se le forme della crescita delle città fosse stata solo quella dettata dai vincoli dell’assetto dominicale e dalle leggi del sistema economico.

I beni culturali

Se la prima contraddizione tra l’habitat dell’uomo e il sistema economico-sociale è quella che ho enunciato, altre sono nate con la sua crescita. Voglio sottolinearne due principali.

La prima sta nel fatto che il sistema capitalistico compie una doppia operazione sul terreno dei valori: da un lato riconosce quale unico valore socialmente rilevante quello economico, ma dall’altro lato, e contemporaneamente, riduce il valore economico al valore di scambio, dimenticando completamente l’altra componente del valore, il valor d’uso. In altri termini, le cose hanno valore, meritano di essere considerate, promosse, tutelate, se sono riducibili a oggetti (servizi) che possano essere comprati e venduti: on hanno valore in se. In una parola, i beni sono ridotti a merci.

Questo comporta il fatto che se un castello o un casale o un bel paesaggio sono d’intralcio a una operazione che dà reddito al suo promotore, il castello o il paesaggio possono essere distrutti.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i valori del sistema capitalistico-borghese non avevano ancora occupato tutti gli spazi. Esisteva, sia pure a livello di élites (ma le èlites allora governavano), la consapevolezza che determinati valori (e determinate qualità territorialmente localizzate) meritassero di sopravvivere di per se, indipendentemente dal loro valore economico: che dovessero essere sottratte alle leggi del mercato mediante la tutela. Esistevano insomma, oltre alle esigenze dell’economia e quelle della razionalità nell’organizzazione della città, anche le esigenze della cultura e della storia.

La teoria economica non osò, o non seppe, compiere il passaggio di allargare il senso del valore economico inventando un riconoscimento economico anche per il valor d’uso, riportando nell’economia gli oggetti in quanto beni, e non solo in quanto merci. Si promosse invece la formazione di un settore protetto, in cui vigevano leggi diverse da quelle dell’economia.

E nacque, di conseguenza, un versante del mestiere dell’urbanista, il quale fu indotto a occuparsi del territorio non solo come sede nella quale far sorgere e sviluppare ordinatamente la città, ma anche come luogo nel quale esistevano oggetti (e configurazioni) che esprimevano valori che dovevano essere individuati, riconosciuti, protetti rispetto ad altre utilizzazioni.

E’ il filone di lavoro che si aprì con le leggi di tutela del 1939, e proseguì nelle esperienze della migliore urbanistica italiana: i piani di Astengo per Assisi, di Detti per Firenze, di Campos Venuti per Bologna, di Piccinato per Siena – per non ricordare che i caposcuola.

L’ambiente

La seconda contraddizione nuova che si manifesta nel corso dello sviluppo del sistema capitalistico è quella che nasce come “questione ambientale”. Anche questa esprime un vizio profondo del sistema. Nella sostanza, quello di aver ridotto l’intero ciclo economico alla produzione via via crescente di beni materiali (merci), secondo ritmi necessariamente tali da minacciare la sopravvivenza delle stesse basi materiali sulle quali poggia l’esistenze dell’umanità sul pianeta Terra.

Questa contraddizione richiederebbe, per essere superata, una visione d’insieme della società (dell’intera società umana), richiederebbe una visione a lungo termine, richiederebbe una serie di politiche che passano tutte attraverso la fase della massima parsimonia nell’impiego delle risorse non riproducibili.

Gran parte di queste risorse riguardano il territorio, nel senso che ne sono parti costituenti, o nel senso che il loro consumo dipende dall’uso che del territorio e delle sue parti si fa. Ecco quindi che un nuovo, ulteriore interesse collettivo – la saggia gestione delle risorse naturali – entra nel campo di lavoro dell’urbanista.

URBANISTICA E POLITICA

Riepilogo

Proviamo a riassumere e a fare un passo avanti.

Il mestiere dell’urbanista nasce in relazione alla necessità di tutelare, nell’organizzazione della città, alcuni interessi comuni di cui la logica del mercato era incapace di tener conto. Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si spostarono nel tempo dalla città ad ambiti più vasti: dalla città al territorio. Agli interessi comuni della funzionalità e della bellezza della città altri se ne sono aggiunti nel tempo: anche la tutela dei valori e interessi dei beni storici e culturali, anche l’impiego razionale e parsimonioso delle risorse naturali e dell’ambiente, si rivelarono via via come beni e interessi non tutelabili dalle leggi dell’economia, che quindi richiedevano un intervento regolatore “esterno”.

Di questo intervento regolatore si fece carico – sul piano sostanziale della decisione – l’autorità politica: cioè, nel sistema democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti direttamente dalla popolazione. In Italia, il sistema Stato, Regione, Provincia, Comune.

Poiché si trattava di regolare una realtà complessa, che riguardava una realtà georeferenziata, si inventò un insieme di strumenti che avevano la loro base in un progetto di territorio, cioé un piano. Poiché, più tardi, si vide che la dinamica delle trasformazioni non era sufficientemente governata da un documento statico, si trasferì l’accento dal piano alla pianificazione, cioè a un’attività continua di governo delle trasformazioni territoriale.

Nacque, e via via si sviluppò, la figura professionale adibita alla formulazione tecnica degli strumenti per il governo, delle trasformazioni territoriali: l’urbanista, depositario dei saperi e mestieri tecnici necessari per supportare le decisioni dell’autorità politica: per redigere gli atti necessari a dar corpo a “una voltà politica tecnicamente assistita”, come dice Indovina.

L’urbanista e il politico

L’urbanista e il politico (l’elu, l’eletto, dicono i francesi) sono due figure sociali che vivono in stretta simbiosi.

L’una, l’urbanista, esprime i saperi e i mestieri connessi alla materia che la pianificazione deve trattare. Poiché questi saperi e mestieri sono un ventaglio molto ampio, il terreno di lavoro è essenzialmente interdisciplinare. Dalla pluralità dei saperi l’urbanista deve trarre ciò che serve a sorreggere le decisioni, che spettano al politico. Egli è perciò in qualche modo la cerniera tra i vari saperi “tecnici” e la sfera della politica, del governo. Non ha però autonomia rispetto alle decisioni, poiché queste, in un regime democratico, spettano a chi rappresenta la collettività, al politico (all’eletto).

Il suo mestiere è legato (l’ho detto e ripetuto) alla ricerca della soddisfazione di interessi comuni, collettivi. Ma gli interessi della collettività sono rappresentati dall’altra figura: il politico. E’ lui, nel sistema democratico, il soggetto che esprime gli interessi “generali”. E’ a lui che è attribuito il compito (la responsabilità) di tradurre questi interessi in atti di governo che modifichino, dirigano, conducano le trasformazioni della società.

La politica oggi

E’ proprio nel rapporto tra queste due figure il problema di fronte al quale ci troviamo, in questi anni. Per chiarire il mio punto di vista dovrò riferirmi alla mia personale esperienza.

Il grosso della mia attività di urbanista si è svolto in una fase della nostra storia in cui il politico era l’espressione di un partito: di una formazione (tra il sociale e l’istituzionale) la cui coesione, e l’appartenenza dei cui membri, era assicurata dalla comune convinzione della validità di un progetto di società.

Lo scontro politico era la competizione tra progetti di società alternativi, ciascuno riferito agli interessi di determinate classi sociali. A seconda del potere conquistato dai portatori dell’uno o dell’altro progetto di società, il compromesso che via via si raggiungeva nella concreta attività di governo era più vicino all’uno o all’altro.

Ciò che voglio sottolineare è che in quella fase l’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un obiettivo di ampio respiro, un progetto di società. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani.

E poichè per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica di arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima conquistare le coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.

La politica è cambiata

La politica è radicalmente cambiata. Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare il consenso con una doppia operazione:da una parte, calibrando la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impigando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza di strati vasti di popolazione.

Dall’interesse generale alla cattura di tutti gli interessi più immediati e spiccioli. Dalla faticosa costruzione del futuro alle piccole trasformazioni nell’immediato. Dalla formazione alla manipolazione. Dalla visione prospettica alla miopia. Questa è la sintesi della caduta della politica.

E ciò è tanto più grave se teniamo conto dell’attuale quadro delle vicende del nostro pianeta. E’ infatti sempre più profonda e più ampia la convinzione che il modello di sviluppo otto-novecentesco, basato sulla crescita indefinita della produzione di merci sotto la spinta dell’interesse individuale dei proprietari dei mezzi di produzione, non solo è incapace di risolvere i grandi problemi del mondo (il deperimento delle risorse, l’estendersi della povertà e delle ingiustizia, la scomparsa delle diversità culturali e di quelle naturali) ma tende ad aggravarli sempre di più: basta scorrere i titoli di testa dei giornali negli ultimi anni per rendersi conto di come il disagio diventi catastrofe.

Se vogliamo che la nostra civiltà abbia un futuro e non deperisca (come è accaduto a moltissime altre) occorrerebbero classi dirigenti che non si riducano ad amministrare il giorno per giorno, a logorarsi nella piccola conquista di sempre più miseri poteri, ma classi dirigenti capaci di progettare una società e un’economia del tutto nuovi, e di avviarne faticosamente e tenacemente la costruzione.

LA LEGGE LUPI

Cambia di mano il bastone di comando

Come sapete, la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura una nuova legge “per il governo del territorio”, che dovrebbe sostituire tutta la legislazione urbanistica nazionale vigente. Con essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contrastare: quelli della proprietà immobiliare.

Il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto). Ma su questo punto ritornerò fra poco.

Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge.

Cancellato il piano “regolatore”

La norma chiave è l’articolo 5, comma 4:

“Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”.

Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, la maestra di Forlì, il contadino di Tricarico, il musicista di Sorrento, il salumaio di Norcia, la studentessa di Bologna? Oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.

Del resto, il rinvio all’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.

Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miope per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio. Nel sistema “innovativo” e “moderno”, largamente condiviso dai parlamentari di centro sinistra presenti nel lavoro di Commissione, le scelte sono concordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7).

Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo legislativo, che sarebbe giusto definire “pasticcio di legge”. Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili? Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane? Dell’articolo 5 si è già detto: esso è il centro dell’edificio.

L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Cancella il ruolo delle province. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendolo al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale. Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali.

Cancellati gli standard nazionali

L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”. Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).

Frustrati gli uffici pubblici

L’articolo 8 (già ne abbiamo commentato uno svelamento) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari. Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!). Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”!

Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.

Altri gioielli della legge Lupi

Qualche ulteriore gioiello va esibito. Così l’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura).

E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere "l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari).

E infine l’articolo 13, ultimo comma: “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”. Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico: il “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso”: fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica.

Lupi non è solitario

Ciò che a me preoccupa di più non è che la maggioranza di destra (della destra italiana) abbia lavorato per una legge siffatta. Mi preoccupa che questa legge abbia ricevuto la sostanziale adesione di una parte consistente del centrosinistra (l’on. Mantini, della Margherita, l’ha definita una legge bipartisan), che sia stata apertamente appoggiata dagli organi nazionali dell’INU, e che sia stata discussa e approvata nel totale silenzio dell’opinione pubblica (con l’eccezione di qualche articolo sul manifesto e su Liberazione).

Questo è il segno più cupo dei tempi in cui viviamo: davvero un tempo di lupi, in cui ogni conquistato traguardo di solidarietà, di prevalenze dell’interesse di tutti su quello di pochi, di preoccupazione per il futuro, sembra seppellito in un passato di cui ci si è dimenticati, e di cui quasi ci si vergogna.

E L’ECONOMIA?

La questione della rendita

La questione della rendita immobiliare è sempre stata strettamente legata all’urbanistica e ai suoi problemi. La proprietà privata del suolo urbano ha determinato un conflitto di fondo tra diverse categorie di soggetti. Da una parte, la proprietà immobiliare (immobili = aree + edifici), interessata alla massima redditività dei propri immobili, e quindi tenacemente orientata ad ottenere edificabilità, destinazioni d’uso pregiate, quantità edilizie più elevate possibile. Dall’altra parte, le categorie di soggetti interessati a un prezzo moderato degli alloggi e degli altri edifici, a una città ordinata e funzionante, alla presenza di spazi pubblici e così via.

Tra gli interessi teoricamente antagonisti rispetto alla proprietà immobiliare, oltre a quelli delle “famiglie” (cioè dei cittadini il cui reddito è costituito prevalentemente dalla remunerazione del lavoro) ci sono anche quelli delle “aziende”, cioè delle attività economiche, i cui gestori sarebbero anch’essi interessati al buon funzionamento della città, quindi al contenimento del potere della proprietà immobiliare.

Il conflitto teorico nella città è il riflesso di un conflitto più ampio, che ha a che fare con la distribuzione delle risorse e dei loro frutti nelle tre grandi categorie: la rendita, ossia la mercede del puro privilegio proprietario; il profitto, la remunerazione dell’attività volta ad associare i “fattori della produzione” e a trasformare i beni in merci, motore, attraverso l’accumulazione, dell’allargamento indefinito del processo produttivo; il salario, compenso per l’erogazione delle forza lavoro dei produttori.

Nella vicenda storica della formazione degli Stati (e dei mercati) moderni i rapporti tra le grandi classi sociali corrispondenti a quelle tre componenti del reddito sono stati determinanti per più di un aspetto: in particolare, hanno inciso sulla formazione della città e sull’urbanizzazione del territorio. Nei paesi più avanzati la borghesia (la classe sociale legata all’impresa e al profitto) è stata egemone, ha sconfitto l’ancien régime (interprete e beneficiario principale della rendita), e ha giocato il suo sviluppo sulla dialettica del conflitto con la classe operaia (la classe sociale legata al salario). In Italia non è stato così. Sviluppiamo un momento questo tema.

La particolarità italiana

Tra il XVIII e il XIX secolo si sono scontrate, nelle diverse regioni d’Europa, tre grandi forze: l’ancien régime, espresso dagli ordinamenti feudali delle monarchie; la borghesia capitalistica, ormai lanciata alla conquista del mondo; il proletariato, emergente come nuovissima forza sociale dalle viscere stesse della produzione capitalistica. A queste tre figure sociali corrispondevano le tre classiche forme di reddito: della rendita, del profitto, del salario

In quasi nessuno dei paesi europei la nuova classe egemone, la borghesia capitalistica, giunse al potere senza combattimenti aspri, spesso tinti di sangue. L’ancien régime fu sconfitto e, quando ne riemersero i fantasmi, erano già trasformati in vesti borghesi: lo sfruttamento della proprietà attraverso la speculazione aveva prodotto risorse che più fruttuosamente venivano destinate in un’industria orientata a impadronirsi dei mercati mondiali. In Italia no.

In Italia la borghesia giunse al potere mediante un “compromesso storico” con l’ancien régime. Questo era rappresentato, nelle regioni del Nord e nella Toscana, da una borghesia che aveva sovente nell’investimento nella terra le sue radici (e aveva quindi prodotto un’agricoltura resa feconda e, insieme, sapiente modellatrice del paesaggio, mediante cospicui investimenti delle rendite). Ma in altre regioni l’alleanza fu stipulata con un’aristocrazia che si limitava a trasformare in consumi sfarzosi e futili il frutto della fatica del mondo contadino nelle terre, rese aride dalla mancanza degli investimenti necessari.

Fin dalla nascita dello Stato italiano il peso delle rendite (all’inizio, rendita fondiaria agraria) fu quindi considerevole nell’economia italiana. E poiché, a un momento dato, le risorse sono quello che sono, l’ampiezza della quota percepita dalla rendita riduceva l’entità di quelle destinata al profitto (e quindi all’allargamento della produzione) e al salario (e quindi alla capacità di consumo, e all’allargamento del mercato). Lo sviluppo dell’urbanizzazione e, più tardi, la finanziarizzazione dell’economia capitalistica fecero sorgere, accanto alla rendita agraria, quella urbana (fondiaria ed edilizia, in una parola “immobiliare”) e quella finanziaria. L’intreccio tra le due, segnalato dagli osservatori più attenti da alcuni decenni almeno, è diventato in queste settimane l’elemento più preoccupante della situazione italiana: sul terreno dell’economia come su quello della democrazia. Entrambe le rendite hanno una cosa in comune: consentire l’accrescimento delle ricchezze personali di alcuni sulla base del privilegio proprietario, sottrarre ricchezza al circuito produttivo.

Gli “immobiliaristi” e il rischio del declino

La questione è riemersa nelle ultime settimane. Gli osservatori più attenti hanno ricordato il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Francesco Giavazzi ha posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (Corriere della sera, 16 luglio 2005) e Galapagos ha osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (il manifesto, 6 agosto 2005).

E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice.

Fragilità culturale e fragilità strutturale

Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico, solo una riduzione della politica a lotta per il potere indifferente al progetto di società in nome del quale esercitarlo, solo l’incapacità di esprimere una prospettiva, una strategia, un orizzonte al quale indirizzare le forze sociali? Certo, queste sono componenti reali della situazione italiana.

Ma in questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale: appunto, il prevalere delle rendite nel nostro sistema, questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei e che, come abbiamo visto, affonda le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia. Svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale: doti delle quali l’attuale personale politico sembra del tutto sprovvisto.

Ridare prospettiva all’economia

Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è dunque un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale.

Non so su quali strumenti si può contare per ridurre il peso della rendita finanziaria. Conosco abbastanza bene, invece, gli strumenti cui si può ricorrere per ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), per distrarre risorse da quegli impieghi improduttivi, per travasarne parte consistenti verso utilità pubblica. L’utilità di farlo mi è stata insegnata dal pensiero dell’economia classica e di quella liberale (da David Ricardo a Karl Marx, da Claudio Napoleoni a Luigi Einaudi) gli strumenti per farlo mi sono stati indicati dalla cultura politica espressa da personaggi come Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan, amministratori e presidenti del consiglio nel primo decennio del secolo scorso, e da quella urbanistica, da maestri come Hans Bernoulli e Luigi Piccinato, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti.

Di questi strumenti la pianificazione territoriale e urbanistica è il principale, proprio perchè esprime il primato del potere pubblico nel decidere le utilizzazioni e trasformazioni del territorio: cioè quei meccanismi mediante i quali la rendita immobiliare si forma e si trasforma. E anche perchè costituisce la cornice nella quale inserire le altre decisive politiche urbane: quelle della casa, dei servizi collettivi, della mobilità, della gestione dell’energia e dei rifiuti.

CHE FARE

Il nostro mestiere, il mestiere dell’urbanista, e il ruolo sociale che esso si attribuisce, la sensibilità ai problemi territoriali propri di quel mestiere, sono oggi di grande rilievo per comprendere l’ampiezza della posta in gioco e le strade che occorre percorrere per vincere la scommessa: scommessa nella quale la posta è rappresentata dalla capacità di sopravvivenza della nostra civiltà.

Sul terreno della tutela del nostro patrimonio culturale e paesaggistico come su quello del risparmio delle risorse essenziali (la terra, l’acqua, l’aria, l’energia) il ruolo della pianificazione territoriale e urbana è decisivo, per chiunque comprenda che una visione olistica dei problemi e delle politiche è essenziale. E sul terreno delle risorse disponibili e della loro allocazione ottimale per la sopravvivenza del sistema economico la contestazione del potere decisionale della rendita immobiliare è un contributo rilevante per scoraggiare l’afflusso di risorse al settore improduttivo dell’economia.

Mi sembra che il primo passaggio da compiere per ottenere qualche risultato concreto sia quello di far sì che l’assetto legislativo (determinante per l’impiego degli strumenti specifici della pianificazione) non venga peggiorato. Per aprire qualche varco l’’uscita da una società di lupi occorre quindi in primo luogo sconfiggere la legge Lupi. Ho spiegato perchè l’approvazione di quella legge costituirebbe la sconfitta più grave per chi combatte contro il ruolo storicamente e attualmente centrale della rendita immobiliare, e la sconfessione più grave per gli uomini che, da ogni sponda culturale e politica, hanno tentato di contrastarla. Lo è perchè scardina il principio del primato del potere pubblico nelle decisioni sul territorio e sul suolo urbano, perchè introduce i “privati” (in Italia, la proprietà immobiliare) tra i decisori della pianificazione, perchè costruisce la cornice legale entro la quale esercitare il primato della rendita sul profitto e sul salario, della speculazione sull’impresa e sul lavoro.

Ma al di là e oltre questo, occorre lavorare nel concreto in tutte quelle situazioni nelle quali il potere pubblico democratico intende avvalersi pienamente dei suoi strumenti per servire l’interesse collettivo. Sapendo che spesso lavoreremo controcorrente, e che anche dove la “corrente politica” è favorevole alle direttrici della nostra azione troveremo ostacoli, sordità, insufficienze, scarsità di risorse e di strumenti contro i quali dovremo batterci ogni giorno.

Dovremmo ricorrere con ampiezza all’”ottimismo della volontà”. E per calibrarlo sul “pessimismo della ragione senza cadere nella disperazione potrà esserci utile rileggere quanto scriveva Italo Calvino alla fine di quel suo vero e proprio manuale di urbanistica che è Le città invisibili:

“L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Il nostro compito può essere anche questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".

Venise est née avec l’eau, elle a eu grâce à l’eau l’alimentation de son peuple, sa défense, le développement économique, la puissance politique.

Sans les eaux (les eaux de la Lagune elle-même, l’eau des fleuves qu’y portent la terre et les eaux douces, l’eau des océans qui lui apportent les rythmes des marées et les eaux salées) on ne saurait imaginer Venise.

Les eaux déterminent la forme même de ses espaces et le dessin de ses architectures.

Mais Venise et sa Lagune n’auraient pas été possibles, elles n’eurent pas duré mille ans sans l’emploi d’une extraordinaire sagesse scientifique et politique, technique et administrative: car aucune lagune au monde n’est restée intacte après mille ans de vie, car aucun centre historique n’a gardé ses formes et sa vitalité comme la ville historique de Venise.

Depuis mille ans, Venise est une ville durable.

Aujourd’hui la durabilité de Venise - telle que nos ancêtres nous l’ont transmise - est en grave péril.

La cause générale est un renversement de la politique d’aménagement : l’abandon de la maintenance continuelle et systématique de l’environnement lagunaire, qui en à garanti la survivance jusqu’à aujourd’hui, et sa substitution par une politique lourde, de grands ouvrages indifférents au site et a ses règles.

Pour comprendre les risques qu’on court, il faut auparavant comprendre ce qu’est une lagune telle que celle de Venise.

Les fleuves portent à la mer les eaux et la terre qu’ils ont arrachée. La terre se dépose sur le front des bouches. Des longues barres se forment, et finalement émergent. Un bassin se forme donc entre la ligne du ressac et la ligne de la terre : un bassin que quelques bouches (pertuis) lient à la mer. Avec les rythmes lunaires, les marées mêlent l’eau de la mer et les eaux des fleuves.

Une nouvelle eau est née, ni douce ni salée: saumâtre. Dans cette eau, une flore et une faune se forment, extraordinairement différentes, dans leur association, les unes des autres.

Mais la lagune n’est pas un système qui puisse atteindre, selon les lois de la nature, un état de paroxysme: un état stable. C’est, selon les lois de la nature, un système dynamique. Il peut évoluer en deux directions, et toutes les lagunes se sont transformées dans l’une ou l’autre direction.

Les flux des fleuves portent la terre, les courants de la mer rongent les littoraux. Si les fleuves l’emportent, la terre se dépose, le bassin devient un marais, le marais se transforme en terrain solide. Si l’apport des fleuves s’affaiblit, la mer l’emporte, la lagune devient une baie.

La République Sérénissime avait décidé, à partir de début du deuxième millénaire, de maintenir la Lagune telle qu’elle était. Cela exigea la mise à point d’une instrumentation technique et administrative tout à fait unique, fondée sur le contrôle systématique et l’intervention quotidienne, sur un système de surveillance et de garanties juridiques très rigide, et surtout sur trois principes, qui furent plus tard résumés en trois mots : expérimentation, progressivité, réversibilité.

Pour utiliser les lois de la nature et en corriger les effets, il fallait expérimenter d’abord la transformation qu’on voulait apporter, il fallait ensuite la conduire avec une progressivité permettant d’en évaluer les conséquences, il fallait enfin qu’on puisse à chaque moment revenir sur ses pas et rétablir la situation antérieure.

Une approche tout a fait moderne, qu’il à été indispensable d’inventer et d’adopter car on avait affaire à un écosystème extraordinairement délicat et vif, qu’on ne pouvait pas laisser à son évolution naturelle, et qu’on ne voulait pas arracher au lois naturelles qui l’avaient crée et qui – si elles étaient savamment guidées – pouvaient aider l’homme a conserver dynamiquement l’équilibre.

Laguna nel XX secolo

Les choses changèrent à partir du XIXème siècle. D’un coté, localement, à cause de la chute de la République Sérénissime, qui eu lieu à la fin du XVIIIème siècle, quand elle fut écrasée entre les empires de France et d’Autriche. De l’autre coté, globalement, à cause des nouvelles techniques et des nouvelles conceptions qui s’affirmèrent dans le domaine de l’aménagement et de l’équipement, et de l’emploi des patrimoine communs.

En effet, les civilisations précédentes (et en particulier la Vénitienne) considéraient l’environnement comme une ressource qui devait être protégée pour pouvoir être utilisée durablement. Au contraire, la civilisation basée sur la production industrielle massive considère le sol comme une grande extension neutre, sur laquelle les techniques peuvent provoquer sans aucune conséquence toutes les transformations voulues. Un sol, d’autre part, soustrait aux règles sévères et durables de la soumission à l’intérêt commun, car il était devenu une marchandise disponible pour tout avantage économique de particuliers plus malins et plus agressifs.

La privatisation des terrains, l’introduction de techniques modernes hard pour la réalisation des infrastructures, la formation d’équipement industriels provoquèrent des transformation soustraites au trois principes d’expérimentation,de progressivité, de réversibilité, qui avaient guidé le gouvernement vénitien.

En conséquence, le bassin de la Lagune s’est rétréci, à cause des remblaiements. Les canaux sont devenus plus profonds, à cause des navires toujours plus grands, et ça a augmenté l’afflux de l’eau marine. La terre s’est abaissée, à cause des puits ouverts pour les exigences de l’industrie. À côté de ça, le niveau de l’eau de la mer est devenu plus haut, à cause des changements du climat et de la réduction des glaciers qui en résultait.

En 1966, à cause d’une marée exceptionnellement haute et d’un apport également extraordinaire d’eau par les fleuves, la ville fut inondée à des niveaux jamais atteint auparavant.

Le gouvernement italien pris la question en charge. Une loi nationale de 1973 définit les grandes lignes et les outils nécessaires à la restauration physique et sociale du bassin lagunaire et des habitats. Pour les problèmes spécifiquement hydrauliques, un appel d’offre international fut lancé. Des commissions furent constituées. En 1980, un consortium d’entreprises privées (le consortium Venezia Nuova) fut constitué. En 1984 le Ministre des Travaux publics lui confia la mission d’étudier, de projeter et de réaliser les ouvrages nécessaires à la sauvegarde de la Lagune.

La même année, le Parlement, poussé par le Conseil Municipal de Venise (le plus important de la dizaine de communes qui sont baignées par les eaux de la Lagune), avait précisé, par une nouvelle loi, les orientations directrices fondamentales des interventions pour la sauvegarde de la Lagune, en reprenant les trois grands principes de la République Sérénissime: expérimentation, agir avec progressivité, et surtout appliquer des solutions qui soient réversibles.

Ça aurait signifié donc avant tout réduire la taille (et surtout la profondeur) des canaux qui apportent à la Lagune l’eau de la mer, régulariser les fleuves qui coulent dans le territoire bordant la Lagune, transformer les zones de pêche fermées en bassins ouverts au passage de l’eau, rouvrir les parties de Lagune remblayée en prévision de l’expansion de l’industrie, abandonner l’extraction de l’eau souterraine (ce qui, pour alimenter la zone industrielle, avait provoqué l’abaissement du terrain). Enfin, faire tous les travaux de réhabilitation du réseau des canaux que l’abandon plus que centenaire de l’entretien systématique rendait nécessaire.

On avança dans la direction opposée. Si l’extraction de l’eau souterraine a été interrompue, on est en train de forer le sous-sol de la Haute Adriatique pour en extraire du pétrole. Mais le risque le plus important vient d’un projet qui est en cours d’exécution.

En deux mots, il est un revival de l’idéologie qui avait dominé le XIXème et XXème siècle: la nature n’est pas une entité avec laquelle il faut cohabiter sur la planète, mais un ennemi a battre.

Le nom de ce projet est MOSE : Modulo Sperimentale Elettromeccanico C’est-à-dire Module Expérimental Électromécanique.

MoSE, simulazioni

l est constitué de 79 grands caissons d’acier, la surface qui s’oppose à l’eau mesurant 20x20 mètres. Ils sont plein d’eau lorsqu’ils sont au repos sur le fond. Ils sont remplis d’air comprimé lorsqu’ils doivent se soulever face à la marée entrante et l’arrêter. Une imposante œuvre sous-marine en béton armé porte les caissons ; à l’intérieur se trouvent les mécanismes de commande très complexes et les faisceaux de tuyaux amenant l’air comprimé et les autres éléments nécessaires pour le fonctionnement du système. Une île artificielle, créée à côté d’un des pertuis de la Lagune, d’une superficie de 135.000 m2, accueille les autres appareillages nécessaires.

L’entrée en fonction du système est prévu lorsque les prévisions laisseront envisager que la marée dépassera les 110 cm sur le niveau moyen de marée. En 2003 il y à eu plusieurs dizaines de marées hautes : aucune a dépasse cette mesure.

C’est un énorme projet. La totalité des matériaux prélevés dans la Lagune ou enlevé des ouvrages existants est de 5 millions de mètres cubes. Douze mille pieux de ciment, chacun de 10 à 20 mètres de long, 6.000 éléments d’acier de 10 à 28 mètres de long, 157 caissons de béton armé, 560.000 m2 de pavés de pierre. Enfin, un coût de construction qu’on estime proche de 7-8 millions de Euro : mais personne n’a encore estimé les coûts de gestion et de maintenance, qui sera certainement très élevé.

On formule trois critiques principales contre le projet MoSE.

• de ne pas être efficace et, à la limite, d’être dangereux ;

• d’être trop coûteux, et en fait d’absorber tant de ressources qu’il n’en resterait aucune pour les œuvres certainement nécessaires (celle que le Parlement avait demandés) ;

• de ravager l’environnement, et de finalement détruire cette Lagune qu’il aurait pour mission de sauvegarder.

Mais au-delà de ces excellentes critiques, je veux souligner un aspect à mon avis très grave du point de vue de l’exercice du pouvoir et de la démocratie. Le projet est illégal à plusieurs points de vue: il n’a jamais eu d’évaluation d’impact environnemental positive (le dossier à été au contraire profondément critique sur tout le points essentiels); il est réalisé par le biais d’une concession qui est contraire aux principes de la concurrence. À ce propos, il suffit de savoir qu’un groupement unique a été chargé de faire les études préliminaires, concevoir le projet, et de réaliser les travaux.

Le fait que ce groupement soit composé en grande majorité d’entreprises de bâtiment, donc intéressées à ce type de travaux, aide à comprendre pourquoi on a refusé de prendre en considération des solutions beaucoup plus sures, moins chères, plus proches des trois principes d’expérimentation,de progressivité, de réversibilité, que les sages gouvernants de la République Sérénissime, et à nos jours le Parlement national, avaient posé comme critères directeurs de toute solution.

Je suis vivement préoccupé par le silence de l’opinion publique nationale et internationale. Rara avis, vien de sortir un numero de la revue Cahiers Science&Vie, entièrement dediée à Venise, qui rend compte aussi des critiques.

Le fait est que le monopole de l’information appartient au richissime consortium Venezia Nuova, qui à reçu des fleuves d’argent de l’État et en a employé une grande partie pour sa propagande.

La lobby que s’est formé autour du Consortium est très puissant, s’opposant seulement aux faibles associations pour la protection du patrimoine et de la nature (tels Italia Nostra et WWF), et une partie des force politiques locales.

Et la question est très complexe, et pas facile à comprendre : dans l’opinion courante, une lagune est tout à fait équivalente a un fleuve ou à un lac, alors qu’il s’agit en fait d’un eco-système tout à fait différent. Mais on ne prête pas grande attention au différences dans un monde qui court vers l’homogénéisation.

Je serai heureux de faire parvenir de plus amples informations à quiconque m’enverra son adresse de courrier électronique :
eddysal@tin.it

Dans ce site vouz trouvez plusiers textes et informations sur Venise et sa Lagune dans le dossier dedié a Venezia e la Laguna. Sur le thèmes traité dans le texte je vous conseil mon écrit La Laguna di Venezia e gli interventi proposti, aussi en englais.

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