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Livelli di pianificazione e livelli di governo: Le tendenze che devono affermarsi per la costruzione di un processo unitario di pianificazione. Intervento svolto al convegno nazionale "Luoghi e logos - Il territorio fra sistemi di decisione e tecnologie della conoscenza", OIKOS - Provincia di Bologna,Bologna, 27-28 nov. 1984; intervento ciclostilato nel 3° volume dei materiali preparatori

Sommario: 1. L'obiettivo, un sistema unitario di pianificazione; 2. I requisiti della pianificazione; 3. Due corollari; 4. Le tendenze che devono affermarsi; 5. Unitarietà delle analisi; 6.Chiarimento delle competenze; 7. Politica di piano e politica di bilancio; 8. Il problema dell'efficacia; 9. Investire risorse culturali, politiche, economiche; 10. Per finire, la riforma del regime immobiliare

Premessa

Poche questioni - nel campo almeno del governo del territorio - appaiono oggi così confuse, e del resto così poco discusse, come quella del rapporto tra i diversi livelli di pianificazione. Ciò dipende, a mio parere, da numerose circostanze che in qualche modo de terminano, o condizionano, il clima in cui la nostra riflessione si svolge. Ed è anche per questo che è opportuno soffermarvisi brevemente.

La prima circostanza sta indubbiamente nel fatto che è il principio stesso, la categoria, della pianificazione che è oggi in fase di parziale eclisse. Gli anni '50 furono in qualche modo contrassegnati dal paziente sforzo di un piccolo gruppo di urbanisti, compresi e appoggiati da qualche amministrazione, di gettare le basi della pianificazione nel nostro Paese. Gli anni '60 furono l'epoca della proposizione di piattaforme complessive di riforma urbanistica, della centralità di questo tema nel dibattito politico e culturale nazionale e della conquista di importanti - seppure parziali - traguardi legislativi e amministrativi. Gli anni '70 saranno probabilmente ricordati come quelli nei quali nuovi nodi vennero al pettine, nuove forze scesero in campo, e nuove e più avanzate conquiste - ricche di potenzialità e di limiti - vennero dialetticamente raggiunte. Ed facile affermare che gli anni '80 - quasi una interruzione in un ciclo evolutivo pressoché ininterrotto - saranno invece ricordati così come noi oggi li viviamo: come anni, cioè, nei quale quelli che dovrebbero essere i protagonisti della pianificazione, a tutti i livelli, appaiono sfiduciati, frustati, impotenti, sotto posti all'attacco pressoché quotidiano di chi alla pianificazione non crede, o la pianificazione ri fiuta.

La seconda circostanza, che è in qualche modo il corollario e la conseguenza della prima, sta nel fatto che proprio in questi anni, proprio cioè quando le potenzialità manifestatesi nel periodo trascorso avrebbero dovuto essere sviluppate e i limiti legislativi e amministrativi superati, proprio cioè quando il processo di riforma avrebbe dovuto dispiegarsi e finalmente affrontare i nodi di fondo, l'involuzione e la regressione hanno costretto quanti, e non sono pochi, credono alla pianificazione e all'urbanistica, a concentrarsi nella difesa di alcuni capi saldi essenziali del fare urbanistica quando invece sarebbe stato necessario andare avanti e innovare. Abbiamo avuto così il riesplodere delle questioni degli indennizzi e dei vincoli, quando si doveva affermare un nuovo regime degli immobili; la tragedia dell'abusivismo edi lizio e urbanistico, quando si doveva puntare alla generalizzazione della capacità di governo del territorio; la liquidazione del mercato degli affitti e dell'intervento pubblico nell'edilizia abitativa, quando il problema del controllo e della gestione del patrimonio edilizio esistente assumeva il carattere di problema e obiettivo centrale; infine, la costante e sistematica azio ne di svuotamento della pianificazione locale attraverso la generalizzazione dell'istituto della deroga, quando si doveva rilanciare la pianificazione e il governo del territorio uscendo finalmente dai limiti dei confini municipali.

Ma al di là di queste circostanze, in qualche modo provocate da tendenze e azioni e accadimenti esterni alla cultura urbanistica, mi sembra che ve ne sia una terza sulla quale è opportuno richiamare l'attenzione. Mi sembra, insomma, che uno dei fatti caratterizzanti la situazione attuale sia che non esiste più un metodo, un indirizzo, un criterio unitario per la pianificazione: non esiste nei piani di livello comunale (in quelli dunque in cui c'è la più larga messe di esperienze e conoscenze e attività), e non c'è dunque da stupirsi se non esiste, come rilevava Giorgio Trebbi nella sua relazione al Seminario di Trento del maggio scorso, per quelli degli altri livelli e, di conseguenza, per gli intrecci e le connessioni dei livelli di pianificazione

L'obiettivo: un sistema unitario di pianificazione

La tesi che vorrei proporre è in sostanza la seguente. Nella pianificazione tradizionale il punto di partenza è stato costituito dai piani di livello comunale: i piani regolatori generali comunali, formati e redatti nei modi che ben conosciamo, e quindi caratterizzati dalla definizione rigida delle destinazioni d'uso per zone, dalla centralità del ruolo del Comune ma dalla complessità di un iter procedurale fortemente garantistico per tutti i poteri coinvolti, dall'attuazione affidata alle decisioni degli operatori-proprietari e dal meccanismo del rinvio sistematico ai piani attuativi.

I piani di livello superiore vengono generalmente pensati e costruiti nell'ipotesi che essi siano anelli di una catena di atti pianificatori che ha al suo termine il P.R.G.; oppure sono un unico P.R.G. a maglie più larghe (o a colori più tenui); oppure sono nella forma di prescrizioni di tipo normativo, più o meno territorializzate, che diventano operative nella loro traduzione comunale nei P.R.G; oppure sono un unico P.R.G. esteso a un territorio ampio; oppure ancora si limitano alla forma di documenti, poco operativi, di strategia e d'indirizzo generale o settoriale.

La pianificazione a tutti i livelli ha insomma, ancor oggi, nel P.R.G. comunale il suo essenziale riferimento e criterio. Ma oggi, è proprio il P.R.G. comunale che è sottoposto a una sostanziale e profonda discussione e verifica. Oggi è il P.R.G. che è sottoposto a una critica: per la sua rigidità, per il suo meccanismo d'attuazione; per la complessità del suo meccanismo di formazione; per la separatezza (anche dopo la legge Bucalossi) del momento del piano da quelli del programma e della gestione. Oggi, è in corso una vasta ricerca e sperimentazione in quel grande "laboratorio diffuso" costituito dalle amministrazioni comunali, nella quale si cerca per diverse vie, con diversi approcci, seguendo diversi per corsi, di costruire un modo nuovo e più adeguato di pianificare: anzi, di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali.

In questa situazione, a mio parere, sarebbe sbagliato riflettere e lavorare sui livelli di pianificazione pensando solamente di aggiungere piani di livello superiore (comprensoriali, provinciali, regionali, interregionali, di bacino o d'area montana ecc.) a un quadro di pianificazione a livello comunale gi definito e immutabile. E ancor più sbagliato sarebbe costruire i piani di livello superiore semplicemente come estensione dei criteri e indirizzi e tecniche dei piani comunali: significherebbe unicamente estendere i limiti gi riconosciuti dei piani regolatori comunali. Anzi, accentuarli, trasmettendoli all' intera catena degli atti pianificatori.

Il vero problema, e il vero obiettivo, è allora secondo me quello di ritrovare una unitarietà di metodi, criteri, indirizzi, per tutto il processo di pianificazione. E' quello - per esprimermi in modo molto sintetico - di trovare un unico piano, una unica "forma piano", da formare utilizzando i diversi livelli di governo.

I requisiti del piano

Lo sforzo che vi propongo, che propongo a noi tutti, è quello di uscire per un momento dai confini amministrativi e dalle competenze dei livelli di governo. E di uscire anche dalle forme canonizzate degli strumenti di pianificazione. Di riflettere invece, in primo luogo, a quali devono essere i requisiti che un piano deve possedere, quale che sia l'estensione di territorio che deve governare o l'ente che ha la responsabilità di governo.

Il piano deve essere basato su una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti (dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante). E per ciascuna delle componenti della risorsa territorio la lettura deve consentire di individuare quali sono i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quale e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione. E quali costi le diverse trasformazioni comportano.

Il piano deve essere basato su una lettura altrettanto attenta della domanda sociale, cioè delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per ospitare funzioni nuove, o per ospitare altrove funzioni oggi non insediate correttamente, o per rendere i siti in cui gi sono insediate funzioni più idonei e adeguati alle funzioni ospitate. E quali sono le risorse disponibili, in relazione alle varie funzioni, impiegabili per operare le trasformazioni necessarie.

Il piano deve definire quali sono - all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione della risorsa territorio - le operazioni che concretamente è possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.

Il piano, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica certamente costante, le risorse sono certamente disponibili.

Il piano, quindi, deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè quale in modo più certo esplica la propria efficacia.

Il piano, di conseguenza, deve essere contemporaneamente aggiornabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva.

Il piano deve contenere al proprio interno gli strumenti della propria attuazione: i vincoli sulle risorse (e quindi sui bilanci) degli enti pubblici in vario modo coinvolti nella sua attuazione; gli incentivi e i disincentivi (finanziari, creditizi, fiscali, normativi, tecnici) ca paci di indirizzare verso determinate trasformazioni anziché verso altre l'impiego delle risorse e l'attività degli operatori privati, gli strumenti tecnici necessari per la sua gestione.

Il piano deve rendere il più breve possibile il tempo che separa il momento in cui si sceglie e si decide e quello nel quale la scelta diventa efficace. Il processo decisionale, il per corso burocratico devono essere perciò resi completamente diversi da quelli attuali, concludersi in pochi mesi.

Il piano però, e contemporaneamente, deve essere formato e gestito in modo del tutto trasparente (offrendo in tal modo le garanzie oggi fornite solo formalmente dal complesso iter procedimentale), e deve esserlo da un ente che possieda i requisiti della autorevolezza, della rappresentatività e dall'efficacia

Due corollari

Se fossimo d'accordo con la necessità di questi requisiti, credo che dovremmo poi con venire su due corollari che ne discendono.

Il primo: un piano siffatto è certamente molto diverso dai piani che conosciamo. Ma affermare che questi requisiti sono necessari, significa allora anche affermare che ciò di cui disponiamo oggi (nella cultura, nella legislazione, nella prassi ed esperienza) è solo un in sieme di barlumi, di germi, di parziali anticipazioni del piano come deve essere. Significa perciò affermare che necessario fare uno sforzo consistente per innovare il modo di pianificare: anzi, il modo stesso di concepire il piano.

Il secondo corollario: quei requisiti devono caratterizzare ogni piano, non un piano di un determinato livello. Anzi, devono caratterizzare il processo di pianificazione ad ogni li vello, se conveniamo che più d'uno è il livello di governo coinvolto nel processo di pianificazione, nell'azione di governo del territorio.

Ma se questo è vero, allora forse è possibile riconoscere una validità e un senso alla tesi che ho dianzi accennato. Che, cioè, il problema di fondo non è oggi quello di consolidare le esperienze compiute negli ultimi 30 anni per ragionare con quali contenuti o procedute debba essere formato il piano provinciale o comprensoriale, il piano regionale, il quadro delle coerenze nazionali, e con quali definizioni o aggiustamenti di competenze questi differenti livelli di pianificazione debbano correlarsi tra loro e con il piano regolatore comunale. Ma che il problema da porre al centro della riflessione è quello di comprendere come deve svolgersi un'attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che in vesta con una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.

Le tendenze che devono affermarsi

Con una formulazione che può apparire paradossale, ma che non lo è, voglio affermare che il problema non è di fare un piano, ma di fare il piano, investendo l'insieme del territorio nazionale, nel corso di un unico processo di pianificazione/gestione, il quale veda il coinvolgimento e la collaborazione procedimentale degli enti di governo competenti ai diversi livelli.

E se questo è il problema di fondo di fronte al quale ci troviamo, è allora con molta umiltà che dobbiamo porci nei confronti della pianificazione e dei suoi problemi, in questi anni. Con la consapevolezza che non abbiamo certezze se non su pochi punti cardinali; che dobbiamo avere perciò la tenacia e la spregiudicatezza che sono necessarie in una fase che è, che deve essere, pienamente di sperimentazione e di ricerca.

Ma è anche con molta fermezza che dobbiamo porci per tentar di fare maturare i pro cessi di pianificazione verso l'unitarietà che riteniamo necessarie. Con uno sforzo che non deve esercitarsi solo sul terreno della riflessione e della ricerca, ma anche sul terreno dell'azione politica, amministrativa, professionale. E allora, in questa direzione, possiamo forse individuare gi alcune tendenze che devono affermarsi - nella definizione dei contenuti, delle competenze, delle procedure dei piani ai differenti livelli - perché quel processo di costruzione della unità del piano possa svilupparsi fin d'ora. Nella consapevolezza che tendere verso l'unitarietà del processo di pianificazione è cosa che certo esige un impegno e uno sforzo nella direzione della "ingegneria istituzionale", della "pianistica", della costruzione di un nuovo modello di pianificazione e di connessione tra i livelli di piano e tra quelli di governo, ma esige anche - una volta individuata la direzione lungo la quale muoversi - l'impiego di determinazione, volontà e lucidità nell'individuare le forme di coordinamento, di unitarietà parziale, perseguibili fin dall'immediato.

Unitarietà delle analisi

Mi sembra che una prima tendenza che deve manifestarsi, un primo passo che bisogna compiere, è quello di ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono, o promuovono, come base per la redazione dei piani. Le analisi che vengono effettuate dalle regioni, dalle province, dai comuni - sia sulla struttura fisica che su quella economico- sociale del territorio - non possono essere condotte più secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili, non integrabili. Quelle che vengono impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere sistematicamente integrate (oltre che verificate) da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori: le une e le altre devono essere maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenza.

E' una rete di conoscenza che ha la sua base - il suo primo elemento - nel sistema cartografico, che è l'elemento primordiale e fondamentale di ogni processo di pianificazione. E se pensiamo al costo che un sistema cartografico comporta, non possiamo non considerare un gravissimo e ingiustificato danno il fatto che ciascun ente (ciascuna Regione, ciascuna Provincia, ciascun Comune) costruisce la propria cartografia separatamente l'uno dall'altro. E' certamente benemerita l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali (forse l'unica struttura di coordinamento delle Regioni che funziona), ma è un'attività monca se e finché le Regioni si disinteressano della cartografia alle scale maggiori, se e finché anche le province e i comuni non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.

E la rete di conoscenze, in tutte le sue componenti di livello, nella sua componente a maglie larghe e in quelle a maglie via via più fitte, deve ovviamente essere aggiornata, con periodicità e sistematicità. Ebbene, è forse utopistico proporre che le date, le cadenze dell'aggiornamento siano le stesse per Regione, Provincia, Comune? Che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette e globali a quelle campionarie) sia unitario non solo nella sua concezione, nei suoi indirizzi e criteri, ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione?

Certo, perché il sistema informativo territoriale raggiunga una sua unitarietà necessario che un simile obiettivo venga perseguito da tutte le amministrazioni che hanno competenza primaria nel governo del territorio. Non possono essere le Regioni a imporlo a Province e Comuni, come oggi avviene là dove qualcosa si tenta di fare - e necessariamente in modo inefficace.

Il ruolo delle Regioni è certamente decisivo, ma deve essere chiaro che le analisi sono la base del piano: una buona analisi contiene già in sé quasi l'orditura del piano. Non è quindi ininfluente il modo in cui l'analisi viene compiuta. E non può quindi il Comune delegare ad altri - sia pure espressivi di un "livello superiore" - il modo in cui fare l'ele mento decisivo del piano.

Chiarimento delle competenze

Una seconda tendenza che deve affermarsi secondo me molto più ampiamente di quanto oggi avvenga è quella di chiarire in modo più univoco e più rigoroso quali sono gli elementi territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende, da un lato, la possibilità di definire in modo convincente il contenuto dei piani ai differenti livelli, e dall'altro il potere che ciascuno dei livelli di governo esercitare quindi le procedure. E' un chiarimento essenziale, quindi, se vediamo il problema dei diversi livelli di piano e di governo non come un problema di regolazione diplomatica di sovranità diverse (non separate da confini, come quelli tradizionali, ma racchiuse l'una dentro l'altra) ma in vece come concorso di diversi livelli di governo del territorio nella formazione e gestioni d'un unico piano.

Io continuo a restar convinto che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o comprensoriale, comunale) la determinazione prima (prioritaria) e ultima (decisionale) circa quegli elementi della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello.

Così mi sembra indubbio, tanto per fare un esempio, che esiste una competenza di livello nazionale (anche se oggi nessuno sembra in grado di esercitarla) per quanto riguarda la grande rete delle infrastrutture che compongono il sistema nazionale, così come per quanto riguarda le norme, e i conseguenti indirizzi di uso del territorio, che concernono i diritti del cittadino italiano: e tra queste norme e indirizzi io porrei, con incisività, quelle che concernono la salvaguardia e la fruizione dei beni ambientali e culturali, che dovrebbero costituire materia non irrilevante della riforma costituzionale.

Ma la competenza di ciascun livello dovrebbe esprimersi con scelte che invadano il minimo possibile l'autonomia di scelta del livelli territorialmente inferiori. Ed è possibile costruire una casistica dei diversi "margini di definizione" possibili. Esistono elementi per i quali è indispensabile individuare, nel piano di livello superiore, un'area definita (ad es., la posizione di un traforo o di un valico, o la delimitazione di un porto); altri per i quali è sufficiente un ambito di localizzazione o una direttrice (ad es., per la localizzazione di un aeroporto nel piano nazionale di una università in un piano regionale, di un istituto scolastico superiore in un piano provinciale, della giacitura di una strada in qualsiasi piano); altri, infine, che implicano solo la definizione di una quantità o di una soglia quantitativa, perché riguardano elementi della struttura territoriale influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommaria delle decisioni che ne risultano (ad es., le quantità di strutture produttive, o di popolazione, o di posti barca da attribuire come soglia inferiore e/o superiore a ogni ambito comunale e intercomunale nel piano regionale).

Mi sembra indubbio che per quanto si tenti di contenere al massimo le competenze territoriali dei livelli superiori, esse comunque incideranno sempre sensibilmente sulle scelte dei livelli territorialmente più limitati. E' inutile richiamare alla mente gli effetti devastanti che la politica delle ferrovie o quella della autostrade ha provocato sull'assetto di intere regioni, province e comuni. Si apre allora il grande problema delle procedure. Mi sembra che la tendenza che deve affermarsi che vi sia un pieno concorso degli enti di livello inferiore nelle scelte dei livelli superiori e, invece, un mero controllo da parte degli enti di livello superiore sulle scelte di competenza dei livelli inferiori.

Questa posizione ne comporta un'altra, che è bene rendere esplicita. A mio parere anche nella fase attuale - anche prima, cioè, che il sistema di pianificazione si sia evoluto fino a raggiungere quel carattere pienamente unitario che ho affermato necessario nella prima parte di questa relazione - è necessario che ciascuno dei livelli di governo che ha competenza sull' assetto del territorio definisca le proprie scelte mediante un piano. Cioè, mediante una serie di elaborati, riferiti a una base cartografica (cioè a una simulazione analogica del territorio), che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. Credo che i cosiddetti piani o programmi di settore abbiano un senso, non siano distorcenti, non siano alla fine devastanti nei loro effetti, solo se costituiscono attuazione. o specificazione, di un piano - di un quadro di coerenze - unitario e complesso.

E nell'adozione e presentazione del piano che l'ente competente per livello esplica la sua podestà propositiva. E' nella discussione del piano e nella formulazione di proposte alternative o correttive (ma sempre ponendosi all'interno dell'obiettivo della coerenza) che gli enti di livello territoriale inferiore esplicano la loro potestà di concorso. E' nella sintesi delle proposte alternative e correttive presentate, e nell'approvazione del piano, che l'ente competente per livello esplica infine la sua potestà decisionale.

Ed è solo la conformità e coerenza del piano di livello inferiore agli indirizzi, alle scelte e alle prescrizioni del piano di livello superiore la condizione sulla quale deve essere verificato in sede di controllo. Vorrei affermare - e non per provocazione - che una Regione che non ha formato il proprio piano urbanistico o territoriale non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale, e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare e corregge un piano comunale.

Politica di piano e politica di bilancio

La potestà decisionale degli enti di governo del territorio non dovrebbe però esplicarsi solo nella formazione del piano (del quadro delle coerenze territoriali). Dovrebbe manifestarsi anche, ed essenzialmente, su un altro e decisivo terreno: quello dell'attuazione del piano. Su questo terreno mi sembra debba affermarsi una tendenza che mi sembra ben lungi dal manifestarsi: la subordinazione, o se volete il raccordo obbligatorio, dalla politica di piano.

Quest'affermazione merita di essere precisata. Io sono convinto che in ogni amministrazione che abbia competenza sul territorio la capacità di governo si esplica attraverso due ordini di coerenze: quella sulle scelte economiche (appunto il bilancio), e quella sulle scelte territoriali (appunto il piano). Finché queste due dimensioni, questi due momenti, si muoveranno indipendentemente l'uno dall'altro, nelle trasformazioni territoriali la legge prevalente sarà sempre quella determinata dallo spontaneismo, individuale o aziendale, dal di sordine, dall'abuso; e nella situazione economica delle amministrazioni pubbliche (ma più generalmente della collettività) gli sprechi e le diseconomie dissiperanno risorse consistenti. Qualunque tentativo o tensione verso una austerità, verso un impiego accorto delle risorse, pretende una grande attenzione agli effetti territoriali provocati o indotti dalle decisioni d'investimento.

E, viceversa, le scelte territoriali devono tener conto delle decisioni di bilancio. Non mi riferisco, ovviamente, solo alle spese d'investimento, ma anche alle spese correnti: che senso ha decidere di pianificare e programmare il vincolo e poi l'acquisizione di aree per verde e scuole, se contemporaneamente non si impegna il bilancio per la formazione del personale che dovrà gestirle?

La salda connessione della politica di bilancio alla politica di piano deve evidentemente manifestarsi all'interno di ciascuno dei livelli di piano e di governo, per così dire "in orizzontale". Ma essa è essenziale anche, e forse soprattutto, per le connessioni tra i diversi li velli. Se in un piano di livello comunale di decide, in accordo con le decisioni di pianificazione regionale, di localizzare e attuare una determinata infrastruttura, e in relazione a questa scelta si prevedono determinate trasformazione nell'area coinvolta o connessa, oppure se in quel piano si prevede un intervento di adeguamento della capacità residenziale sulla base di un determinato programma di attribuzioni di finanziamenti operato dalla Regione, oc corre che poi il bilancio regionale sia vincolato ad eseguire effettivamente quegli investimenti previsti o programmati. E' insomma necessario che operi una connessione tra bilancio e piano anche in "verticale", anche tra i diversi livelli.

Il problema dell'efficacia

Una ulteriore tendenza e tensione che deve manifestarsi è quella che riguarda l'efficacia degli enti di governo che hanno competenza nella pianificazione territoriale e urbana.

Raggiungere questa efficacia è obiettivo irrinunciabile. E raggiungerla in modo omogeneo (in tutti i livelli di governo, in tutte le porzioni di territorio) è condizione essenziale perché la pianificazione non sia un eterogeneo insieme di atti pianificatori (dove più o dove meno credibili, dove maturi e dove del tutto assenti), ma un sistematico processo che investe l'insieme del territorio nazionale.

Affrontare questo tema, proporre questa tendenza, tentar di soddisfare questa condizione apre cero problemi complessi. Basta pensare a quello del modo di formazione, reclutamento, qualificazione, retribuzione del personale impiegato nelle attività di governo del territorio, e al gigantesco salto qualitativo che necessario compiere - in primo luogo nella consapevolezza culturale del quadro sindacale e politico. Basta pensare al problema del modo ancora arcaico e "politico" nel quale sono ripartite e frammentate le competenze nella amministrazioni pubbliche - dal Comune su su fino agli organi centrali dello Stato.

Ritengo che questo problema, il problema (e l'obiettivo) dell' efficacia del processo di pianificazione sia così rilevante che esso debba essere assunto quasi come una variabile indi pendente rispetto ad altri problemi riguardanti la forma dei piani e i livelli di pianificazione; ciò soprattutto in un situazione, come quella italiana, nella quale le realtà territoriali sono così diversificate (penso alla distanza che separa le regioni dove esiste una consolidata cultura del piano e quelle nelle quali questa è assente, penso al grandissimo numero di comuni con una popolazione di poche migliaia, o addirittura centinaia di abitanti).

In questo senso, mi sembra del tutto ragionevole che in determinate aree non vi sia un piano comunale, ma questo sia sostituito da un piano di livello intercomunale o comprensoriale o provinciale, il quale abbia la stessa efficacia del P.R.G. pur promanando (certo con le opportune interrelazioni tra i "classi ci" livelli di governo) da un livello di governo diverso: come del resto già avviene in alcun regioni.

In sostanza, se si concepisce la pianificazione come un insieme continuo che organizza il territorio nazionale come una unica e coerente rete, dove a maglie più larghe dove a maglie più fitte, il prezzo che si pagherebbe per l'inefficacia che si avrebbe in quelle aree dove la consistenza delle realtà comunali non consente di avere una sufficiente dotazione di "servizi del piano", di raggiungere e superare la soglia al di sotto delle quale la pianificazione è impossibile.

Investire risorse culturali, politiche, economiche

Perché i piani di differente livello non costituiscano una congerie di atti di scarsa o nulla efficacia complessiva, ma comincino a configurarsi come elementi di un unico, e coerente, e continuo, processo di pianificazione del territorio nazionale, è quindi necessario che, accanto e a sostegno della riflessione scientifica, si introducano - e via via si generalizzino - alcune decisive e sostanziali innovazioni rispetto al modo attuale di pianificare: innovazioni che concernono (questi sono i temi che mi sembrano più rilevanti) il coordinamento delle analisi, la definizione delle competenze per elementi della struttura territoriale, la conseguente trasformazione nel modo di formulare le procedure, la rigida connessione - a tutti i livelli - della politica di bilancio a quella di piano, l'efficacia degli enti di governo territoriali.

Credo però che si debba sottolineare come l'introduzione generalizzata di tali innovazioni comporti un consistente investimento di risorse.

In primo luogo, di risorse culturali. E' giunto il tempo di investire capacità intellettuali. Non nella coltivazione di chiusi e separati orticelli specialistici, magari contrassegnati ciascuno dal titolo di una delle diecimila materie accademiche nelle quali si frammenta il potere universitario. Non nella contrapposizione di scuole l'una all'altra impermeabile e ciascuna esaltata nella contemplazione della porzioncella di verità che possiede. Ma nella ricerca dialettica dei modi i cui deve, e può, unitaria mente configurarsi una nuova cultura del territorio.

Una volta, venti o trent'anni fa, la cultura del territorio era l'appannaggio e l'insegui mento e la predicazione di pochi maestri; oggi, può essere solo il paziente risultato di un lavoro di discussione e ;di confronto e di circolazione di idee e di verità parziali che nascono da mille laboratori, da mille esperienze, da mille realtà - disciplinari, ideali, territoriali - disseminate in tutto il paese. E' giunto il momento, io credo, di tessere le fila di questo lavoro - certo faticoso, certo impervio - di ricomposizione dei frammenti di una possibile nuova cultura del territorio.

In secondo luogo, un investimento di risorse politiche. Il futuro, in una società complessa, in un'epoca caratterizzata dai limiti delle risorse naturali, può essere diverso dalla catastrofe unicamente se la primordiale risorsa - il territorio - è amministrata con lungimiranza e con l'attenzione, vorrei dire con l'avarizia, che è necessaria quando si amministra un bene di grande scarsità. Amministrare il territorio vuol dire pianificare. Preparare il futuro per la società di oggi vuol dire gestire il potere democratico, fare politica. La risorsa politica che sembra oggi più necessario investire è la capacità di lungimiranza, di prospettiva.

Lo spegnersi delle tensioni ideologiche ha condotto, negli ultimi anni, al trionfo degli opportunismi, dei corporativismi, degli accomodamenti di breve e mediocre respiro: in una parola, al trionfo della miopia politica. Uno scatto è necessario per far sì che la politica, pur laicizzandosi, ritrovi il respiro dei grandi momenti della nostra storia, il ruolo di costruzione - attraverso il presente - del futuro.

In terzo luogo, infine, è necessario un investimento di risorse economiche. Un assetto territoriale preordinato è fonte di risparmio di risorse. Ma raggiungerlo significa investire, spendere. Innanzitutto, dotare di personale e di attrezza ture gli uffici e gli enti cui spetta di governare il territorio, metterli nelle condizioni di adoperare i sistemi, le macchine, il personale che sono indispensabili per pianificare, program mare, gestire le trasformazioni territoriali. Inoltre, spendere per investire nel territorio. Questo è stato infatti la sede di interventi così devastanti che ha bisogno di consistenti risorse semplicemente per essere risarcito; perché si possa tamponare e far lentamente cicatrizzare le ferite che gli sono state inferte per la carenza di pianificazione e programmazione, per la conseguente proliferazione dell'abusivismo e delle illegittimità sostanziali, per l'abbandono delittuoso nel quale è stata lasciata la difesa del suolo.

Per finire, la questione del regime immobiliare

L'impiego delle necessarie risorse culturali, politiche, economiche non è un'esigenza e una predicazione astratta. Ha una prima occasione sulla quale cimentarsi. E' un'occasione basilare e fondamentale, perché da essa dipende - in ultima istanza - l'efficacia di ogni possibile modo di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Mi riferisco, com'è ovvio, alla questione del regime immobiliare. L'aver lasciato per decenni irrisolta questa questione è colpa grave per quanti potevano agire e non hanno agito, come per quanti dovevano sollecitare e protestare e non l'hanno fatto, o l'hanno fatto troppo debolmente e sporadicamente. Finché quella questione non sarà risolta, finche permarrà l'incertezza sul modo in cui potestà pubblica e diritti patrimoniali privati trovano le regole dei loro reciproci comportamenti, finché insomma espropriazioni, indennità, vincoli, convenzioni saranno lasciate alla discrezionalità degli amministratori e all'oscillazione della giurisprudenza, l'attività di pianificazione e programmazione resterà qualcosa più vicino alla sfera dell'accademia che a quella del concreto intervento sul territorio.

Venezia, novembre 1984

Edoardo Salzano, urbanista contro

CAGLIARI. Edoardo ‘Eddy’ Salzano è professore ordinario di urbanistica nel dipartimento di pianificazione dell’università Iuav di Venezia, dove è stato presidente di corso di laurea e preside della facoltà di Pianificazione del territorio.

Consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale e urbanistica in tutta Italia, ha scritto saggi importanti e pubblicazioni specializzate.

E’ nato a Napoli, ha vissuto a lungo a Roma e dal 1975 abita a Venezia.

Salzano è stato amministratore pubblico sia nel Lazio sia in Veneto. Autore di un aggiornatissimo sito (www.eddyburg.it) diventato rapidamente un riferimento per chiunque si occupi di urbanistica e ambiente, è oggi impegnato in una battaglia pubblicistica aspra contro la realizzazione di opere faraoniche come il Mose a Venezia e il ponte sullo stretto di Messina, che giudica inutili e dannose.

Non ha paura di schierarsi: sulla porta della sua casa nel quartiere storico di Dorsoduro, vicino a piazza San Marco, campeggiano due bandiere con la scritta ‘No Mose’.

A settantacinque anni, Salzano è considerato una delle massime autorità nel suo campo ed è sulla base dei suoi titoli che Renato Soru l’ha chiamato a coordinare il comitato scientifico incaricato di elaborare la filosofia del nuovo piano paesaggistico regionale, approvato di recente dalla giunta sarda di centrosinistra.

Sulla scia delle polemiche nate attorno alla scelta del governo Soru di mettere all’asta il compendio storico minerario del Sulcis gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune delle critiche lanciate in questi giorni dagli oppositori del piano. Ecco che cosa ci ha risposto.

VENEZIA. - Professor Salzano, la Regione ha messo all’asta il compendio minerario del Sulcis, vuole farne un paradiso delle vacanze con campi da golf. Il bando scade domani. Condivide la scelta?

«Quando un ente pubblico decide di alienare i suoi beni io sono sempre contrario. Una cosa sono le regole delle trasformazioni fisiche, un’altra sono le funzioni che si stabiliscono attraverso i piani, un’altra ancora è il regime proprietario. Come regola generale io sono anti-tremontiano, la proprietà è una garanzia in ogni caso. Ho apprezzato l’iniziativa di Renato Soru di avviare la conservatoria delle coste ma in questo caso sono contrario. Bisogna però vedere che cosa si fa col ricavato della vendita...».

- La base d’asta è 44 milioni per 647 ettari di terre pregiatissime. Chi compra fa un affare...

«Sì, in termini generali io sarei per una concessione onerosa. Dà garanzie maggiori al pubblico».

- Lei ha coordinato l’elaborazione del piano paesaggistico della Sardegna, cui hanno lavorato intellettuali di diversa provenienza e inclinazione. A leggerne la filosofia sembra che l’orientamento sull’uso degli spazi storici fosse diverso. Nel testo sono numerosi i richiami alla salvaguardia dell’identità dei luoghi e alla conservazione filologica dei manufatti. Ma nel bando è prevista anche la demolizione.

«L’orientamento era di escludere le seconde case, per ora sulla fascia costiera. Qui le garanzie le abbiamo messe e sono chiare».

- Però nel piano si parla in termini aspramente critici di corsa alla privatizzazione. Gli oppositori dicono che la scelta di vendere il Sulcis minerario va in controtendenza rispetto allo spirito dello strumento di pianificazione.

«Nel nostro lavoro siamo partiti con un fantasma davanti agli occhi, quello dei villaggi turistici, queste oscenità... Un gruppo milanese o belga va in Sardegna, compra la terra dell’allevatore e ci costruisce uno di quegli obbrobri che conosciamo. Invece la trasformazione di certi edifici pubblici, che io comunque tenderei a evitare, non mi scandalizza. Se l’ipotesi è realizzare alberghi e gli alberghi sono necessari, se li fanno i privati e la Regione ha bisogno di vendere per raccogliere quattrini utili a comprare aree a rischio sulla costa e finanziare la conservatoria...».

- Sta dicendo che il fine giustifica i mezzi?

«No, ripeto: il pubblico è meglio che conservi il proprio patrimonio immobiliare».

- In questo caso anche un patrimonio affettivo, forse per questo la protesta sta montando...

«Va ricordato che il piano è solo un atto amministrativo, non può imporre un atteggiamento ascetico».

- La relazione scientifica allegata al piano sembra qualcosa di più che un semplice atto amministrativo.

«Certo, ci hanno lavorato anche scrittori... Mi spiego meglio: io sono nettamente contrario alla privatizzazione generalizzata. Ma se dietro alla dismissione c’è un ragionamento, una finalizzazione, allora se ne può discutere, purchè le finalizzazioni ci siano e siano conformi al piano. Lo slogan di partenza è stato ‘non vogliamo cancellare il turismo, vogliamo modificarlo’ per godere in modo controllato di questo patrimonio di bellezza incentivando le attività ricettive».

- Ma lei è convinto che il turismo possa essere davvero una risorsa economica per la Sardegna del futuro?

«Solo se la Sardegna riesce a conservare la qualità dei suoi siti».

- Nel piano la parola valorizzazione, riferita ai luoghi, viene definita parola fantasma, rottame di parola.

«I grandi economisti del passato, da Adamo Smith a Carlo Marx, distinguevano due valori: il valore d’uso e il valore di scambio. Il valore usato per le sue caratteristiche proprie e quello che ha in quanto merce. L’aria non è un valore di scambio, come l’acqua pulita. Allora: quando noi parliamo di valorizzare un bene possiamo parlarne nel senso di rendere quel bene una merce e far sì che il proprietario ne ottenga un lucro. Oppure che mettiamo in evidenza, conserviamo e accresciamo il valore d’uso, l’eccezionalità, la rarità, la qualità propria di quel bene. In genere il termine valorizzazione viene usato nel primo senso, a me quello giusto sembra il secondo».

- Qual è la linea di confine tra uso e abuso del bene ambientale?

«Capire quali sono le trasformazioni ammissibili per quel determinato bene, nel senso che ne conservano e ne mettono in evidenza il valore, e quelle che invece ne diminuiscono la qualità».

- E’ accettabile che a individuare questa linea di confine siano i politici?

«Questa è la democrazia, baby (sorride) ... non ci si può far niente. Per pianificare la Sardegna sono state scelte persone che fra di loro non avevano alcun rapporto, io non conoscevo Soru e lui non conosceva me...».

- Un’anomalia felice?

«Diciamo pure che dopo lunghi tira e molla siamo rimasti tutti soddisfatti di questo piano paesaggistico».

- Malgrado molti amministratori locali dicano che il piano è generico, che è troppo complesso?

«E’ un piano che richiede una collaborazione da parte di chi deve approfondire le cose. Da questo punto di vista è difficile, perchè chiede a Province e Comuni un impegno nell’approfondimento dell’analisi, chiede di definire meglio i confini che noi abbiamo individuato, di farsi carico di una serie di cose di cui l’urbanistica tradizionale non si faceva carico perchè era rivolta alla ricostruzione, mentre qui il piano è finalizzato alla tutela del paesaggio».

- C’è però chi lo legge come un piano di divieti.

«Non c’è dubbio, lo è per l’urbanistica edificatoria. Ci sono due modi di pianificare: il primo è dire ‘sul territorio si può fare tutto’ in base alle convenienze dei privati o della comunità locale. L’altra impostazione è legata alla legge Galasso, che risale al 1985 e dice: il territorio è quello che è, verifichiamo in primo luogo che cosa si può trasformare e secondo quali regole. Quando abbiamo individuato le aree in cui le trasformazioni possono anche essere pesanti, allora decidiamo che cosa si può fare in queste aree. Ma partiamo dal territorio, non dal cemento. La domanda è: questa impostazione a quali classi economiche, ceti sociali, interessi economici serve e quali contrasta?».

- Risposta scontata...

«Purtroppo gli oppositori più accaniti di questa impostazione sono i più dotati di mezzi di comunicazione, questo è il problema...».

- E’ un piano ambientalista?

«E’ un piano che piace agli ambientalisti, che consente di realizzare qualità nuove in coerenza con quelle attuali».

- Non toccare il territorio intatto, un passaggio del piano che colpisce per l’idea di rigore che contiene.

«E’ un pallino di Soru. Ci ha detto: per favore, quello che non è stato toccato si lascia stare, sul resto discutiamo. Io sono d’accordo. Stiamo per presentare a un gruppo di parlamentari dell’Ulivo un disegno di legge in cui diciamo che l’obbiettivo è fare come altri paesi del mondo: il territorio non edificato e urbanizzato viene trasformato solo se si dimostra che le cose che si vogliono fare là non si potevano fare altrove».

- In Sardegna sono proprio i Comuni che hanno il territorio intatto a protestare per i divieti.

«Non capiscono che sono i più fortunati. Ma una carenza nel piano c’è: quando noi diciamo che le costruzioni vanno realizzate nelle aree adiacenti i centri urbani non diciamo che poi bisognerà farsi carico di un sistema di trasporti fra questi centri e la costa. E’ un problema di organizzazione della mobilità, che non significa fare strade ma sistemi di trasporto leggeri. Bisogna lavorarci sopra, ma questo è un compito che spetta alla successiva pianificazione».

- Che cosa direbbe al sindaco di un piccolo paese costiero della Sardegna che protesta: io non ho altro modo per dare lavoro ai miei compaesani, ci sarebbe il turismo ma la Regione...

«Gli direi che vicino al paese può costruire... vediamo quante case vuote ci sono in quel paese. C’è da fare un enorme lavoro di recupero del patrimonio edilizio esistente. Fra l’altro chi costruisce un villaggio turistico ex novo compra i materiali all’esterno e li assembla in Sardegna, finestre, stipiti... e dunque il moltiplicatore economico è bassissimo. Chi invece ristruttura e riorganizza impiega manodopera locale, materiale, artigianato locale... lo dice Soru e ha ragione».

- C’è qualche carenza importante?

«Le norme sono ancora un po’ confuse. Sarebbero stati necessari altri sei mesi di lavoro per realizzare una cosa più semplice dal punto di vista dell’utilizzatore delle norme. Sono d’accordo sul fatto che ci siano diverse categorie di beni da tutelare, che la Regione individua. E norme riferite agli ambiti di paesaggio che rinviano alla pianificazione successiva. Con un ulteriore sforzo si poteva fare qualcosa di più semplice, ma trovo miracoloso come sia stato raccolto il materiale informativo, un grande risultato che oggi viene citato con favore da molti autorevoli urbanisti. Roberto Gambino del Politecnico, membro di molti organismi internazionali, non è soddisfatto di alcune cose ma comparativamente giudica il piano il migliore in Italia. E lui ne ha fatti molti».

- A cosa è ancorata la critica di Gambino?

«Alla distinzione dei livelli di qualità dei siti e io sono d’accordo con lui. Non ha senso dire: questo bene vale più di quest’altro e un po’ meno di quest’altro ancora. Bisogna individuare le caratteristiche proprie di quel bene e poi tutelare quelle. Ma questa distinzione compare nel codice Urbani, anche se per fortuna nell’ultima edizione si è un po’ stemperata».

- Qual è il bene più importante da tutelare nell’isola?

«La consapevolezza che i sardi hanno della qualità del proprio territorio».

- Che cos’è il paesaggio, professore?

«Secondo il modello europeo, secondo me pericoloso, è quello che viene percepito dalla gente. Ma io chiedo: quale gente? Quale? Se noi pensiamo a com’è la gente oggi, il termine gente lo abolirei, ci rendiamo conto che molte situzioni prima di poterti affidare all’intuito e alla comune opinione della gente devi fare un’opera di educazione che è stata interrotta. Allora meglio rivendicare la responsabilità dei poteri centrali, garantita dalla legge».

- E’ cresciuta la sensibilità ambientale negli ultimi anni?

«Solo in porzioni minoritarie della popolazione. L’Italia è ancora il paese in cui la gente spazza l’immondizia fuori sulla strada perchè poi sulla strada ci pensano gli altri».

- Allora questo è un piano impopolare?

«Dipende da come funziona la Sardegna... i sardi che conosco hanno un grande orgoglio del proprio territorio, anche se poi non si traduce sempre in atti reali».

- L’eolico, professore. Giusto frenarne la diffusione?

«C’è stato purtroppo un gap fra le parole d’ordine dell’ambientalismo e l’attuazione pratica. L’ambientalismo ha detto giustamente: energie rinnovabili. Una è l’eolico. Dopo di che è mancato il passaggio del potere pubblico: studiare e verificare quali sono le fonti di energia rinnovabili, quali i vantaggi di ciascuna di queste e sulla base di questo fare un piano energetico nazionale. Quindi i progetti, gli standard per realizzare questo o l’altro, infine largo alle imprese. Qui l’iniziativa è partita dalle imprese, che portano enormi materiali assolutamente invasivi. Provocano enormi devastazioni nel paesaggio e sono impianti che non vanno bene in un terreno accidentato come quello sardo. Dove invece si potrebbe sviluppare il fotovoltaico».

- Nel piano manca una disciplina della luce, dell’uso dell’illuminazione pubblica.

«E’ un problema che non ho mai visto trattato in uno strumento di pianificazione, certo poteva essere un’occasione visto che negli ultimi tempi se ne parla molto in Italia e in Europa. Ma guardi... non è mai stato fatto un piano paesaggistico così imponente in tempi così ridotti. Si è fatto il possibile».

- Qual è il prossimo passo?

«Dovremo lavorare sulla legge Floris, che partiva da un decreto sugli standard, sulle quantità minime di spazi pubblici. Sulle zone interne penso che sarà elaborato un piano a parte. Certo le pressioni e gli interessi sono minori, quindi non c’è urgenza. Forse però prima di trattare i problemi dell’interno sarebbe utile definire la legge urbanistica regionale e fare una pianificazione non solo paesaggistica. La legge Galasso dava due possibilità: fare diversi piani paesaggistici oppure piani ordinari con particolare considerazione ai valori paesistici e ambientali, i piani territoriali di coordinamento. Ecco, forse varrebbe la pena di fare un piano territoriale regionale».

C’è una cosa che bisogna sempre ricordare quando si parla di urbanistica. L’urbanistica moderna – l’urbanistica della società capitalistico-borghese, della società ad economia capitalistica e a regime politico-sociale democratico rappresentativo – è nata per compiere uno specifico servizio, per svolgere una specifica missione: il servizio e la missione di risolvere una serie di problemi di organizzazione della città e del territorio che le forze del mercato, le leggi della spontaneità e dell’iniziativa privata, di per sé non erano capaci di risolvere.

Non a caso il primo piano regolatore moderno che le storie dell’urbanistica ricordano è il piano di New York del 1811: proprio perché quel piano resprime in modo limpido (nella sua genesi, più che nella sua forma) questa ragione dell’urbanistica: anzi, della pianificazione urbanistica. Di un’urbanistica cioè che non vuole essere solo descrizione, racconto, analisi, ma vuole diventare azione: azione di regolazione della città e del territorio perché le cittadine e i cittadini possano vivere meglio, perché le aziende possano produrre meglio e vendere più facilmente.

Se ricordiamo questo (e credo che dobbiamo ricordarlo sempre quando parliamo di urbanistica) allora ci vengono alla mente due domande: perché l’urbanistica è sempre stata considerata, in Italia, una “materia” di sinistra? E perché oggi in Italia anche la sinistra sembra aver abbandonato l’urbanistica? Non è difficile – come a molti di voi è subito venuto in mente – rispondere alla seconda domanda: in molte cose la sinistra, parte larga della sinistra, ha abbandonato le proprie tradizionali parole d’ordine, i propri tradizionali principi. Ma a me interessa di è più, e comunque preliminarmente, rispondere alla prima domanda: perché in Italia l’urbanistica è sempre stata di sinistra?

Per comprenderlo bisogna ricordare il rapporto che c’è tra tre componenti del sistema sociale. Il tempo mi obbliga a essere schematico e approssimativo. Semplificando al massimo dirò che queste tre componenti sono la cittadinanza, l’impresa, la proprietà immobiliare. Continuando a essere schematico, possiamo far corrispondere queste tre figure sociali alle tre forme classiche di percezione del reddito: il salario, il profitto, la rendita.

Queste tre figure hanno visioni e interessi molto diversi a proposito di ciò che vogliono dalla città.

Il cittadino vuole abitare meglio, muoversi meglio, avere un livello il più alto possibile di vivibilità.

L’impresa vuole il massimo possibile di funzionalità: che le merci (ivi compresa la forza lavoro) arrivino il più velocemente possibile alla fabbrica o alla loro destinazione, che il prezzo delle merci che comprano (compresa la forza lavoro) siano i più bassi possibili (e quindi che le famiglie degli operai spendano poco per abitare, mangiare, vestirsi) e così via. Il terzo soggetto, la proprietà immobiliare, vuole invece che la sua proprietà ottenga il massimo possibile di valore (valore di scambio).

E’ evidente che - in questo schema logico – gli interessi di quello che abbiamo definito cittadino e quella che abbiamo definito azienda sono confluenti, mentre sono in contrasto con quelli del terzo soggetto, il proprietario immobiliare.

Ora il fatto è che in Italia l’alleanza che ha battuto l’ancienregime, l’alleanza che ha sconfitto le monarchie e il papato e ha fondato in Italia uno Stato unitario, non è stata l’alleanza tra borghesia e proletariato, ma è stata quella tra la borghesia capitalistica e le forze sociali che rappresentavano la proprietà fondiaria. Quindi, vedendo le cose dall’alto dei nostri giorni, possiamo dire che l’Unità d’Italia è stata fatta a spese della vivibilità e della funzionalità della città, e a spese delle cittadine e dei cittadini.

Così, quando in Italia la sinistra ha fatto proprie, sul terreno politico, le parole d’ordine, i tempi, le proposte, le pratiche della buona urbanistica (penso all’e “regioni rosse” negli anni Sessanta e Settanta, penso alle battaglie urbanistiche di Aldo Natoli nei primi anni Sessanta, all’intervento alla Camera di Mario Alicata dopo Agrigento nel 1966 – e giù giù fino all’intervento di Achille Occhetto contro il pasticcio della Fiat-Fondiaria a Firenze nel 1989) - quando la sinistra ha praticato la buona urbanistica non ha fatto altro che “raccogliere le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango”.

Per comprendere il carattere e la qualità culturale e politica delle scelte urbanistiche il ruolo che viene assegnato alla proprietà immobiliare è una cartina di tornasole: è un indicatore efficacissimo della qualità della proposta. E allora dobbiamo dire che cui a Verona, che nel Veneto, che nell’Italia di oggi andiamo malissimo. Vorrei dirvi due parole sull’Italia di oggi.

Alla Camera, nel chiuso della Commissione parlamentare, sta procedendo (stancamente, ma tenacemente) la discussione del disegno di legge in materia di “governo del territorio”. Questa discussione vede la sostanziale convergenza delle proposte della “Casa delle libertà” e di quelle della parte maggioritaria del centro-sinistra: sostanzialmente, del disegno di legge dell’on. Lupi, di Forza Italia, e di quello dell’on. Mantini, della Margherita.

A me non preoccupa tanto la convergenza in sé, quanto il contenuto della convergenza. E il contenuto sta proprio nel sostanziale accordo sul nuovo ruolo da attribuire alla proprietà immobiliare nelle decisioni sul territorio.

La scelta più significativa è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati”.

Chi sono i “soggetti interessati”? Siamo in Italia, e sappiamo benissimo che i “soggetti interessati” nella pianificazione non sono i cittadini, non sono le associazioni ambientaliste, non sono i sindacati, ma sono i proprietari immobiliari. Sono loro che partecipano in prima persona alle scelte: dai tempi del “terzo sacco si Roma”, con le giunte democristiane fustigate dalla stampa liberale e democratica negli anni Cinquanta e Sessanta, ai mille episodi di Tangentopoli, a tutte le pratiche attivate negli ultimi dieci anni con i “progetti integrati”, i “programmi complessi”, e programmi complessi intergrati e innovativi” e così via. Fino a ieri la loro partecipazione era sottobanco, era un “peccato” che si cercava di nascondere, oggi sono riconosciuti come i motori della pianificazione urbanistica.

Nella concreta situazione italiana, le proposte quelle quali si sta trovando un consenso in Parlamento è questo: ciò l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.

Naturalmente oggi gli interessi immobiliari non sono più rappresentati dagli eredi dei grandi feudatari (come era, ad esempio, ai tempi del sacco di Roma denunciato dal Mondo e dall’Espresso negli anni 50 e 60) ma le banche, le industrie decotte, i grandi gruppi finanziari che arricchiscono più con le operazioni finanziarie e immobiliari che con le attività imprenditive. Possiamo dire che i nuovi interessi immobiliari sono in larga misura il prodotto del disfacimento del nostro sistema industriale.

Qui nel Veneto non si è avuto bisogno di una legge nazionale. L’articolo 6 della nuova legge urbanistica della Regione Veneto invita infatti le amministrazioni ad “assumere nella pianificazione proposte di progetti e iniziative di rilevante interesse pubblico”, e questo accordo “costituisce parte integrante dello strumento di pianificazione cui accede”.

Intendiamoci. Negare l’impostazione del rapporto pubblico/privato sotteso all’impostazione della Casa delle libertà non significa affatto negare la “contrattazione” (quella esplicita, non quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). Essa fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.

Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno di avere l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e magari contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?

E’ un sistema, quello della pianificazione, che funziona bene? Certo che no. Da molti decenni si propongono le modifiche necessarie. Ma i risultati sono stati raggiunti solo in parte molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire la destra sul suo terreno: senza tener conto del fatto che per la destra italiana l’obiettivo non è lo sviluppo dell’impresa, della produzione industriale di merci e di servizi, ma è la valorizzazione immobiliare, la rendita, l’accrescimento dei patrimoni che danno ricchezza solo a chi ne è proprietario, ma impoveriscono la collettività a la nazione.

Gli interventi che ascolteremo ci diranno in che modo qui a Verona si stia camminando su questa strada, se vi sono anticorpi che consentano di andare in direzioni diverse o che iniziative occorre prendere per ottenere che ci si incammini per strade diverse . più moderne, più europee, più vicine alle esigenze delle cittadine e dei cittadini di oggi e di domani.

Non sarebbe male che si costituisse un osservatorio che informi e documenti su come si sta trasformando la città, su come i diversi interessi (quelli delle cittadine e dei cittadini, quelli delle imprese, quelli della proprietà immobiliare) siano serviti dagli strumenti urbanistici che si stanno predisponendo. Come fanno da alcuni anni a Bologna, per esempio, gli urbanisti e i cittadini riuniti nella Compagnia dei Celestini.

E non sarebbe male che questi osservatori – o questi punti di osservazione – si mettessero in rete tra loro. So per esempio che a Padova si sta discutendo su alcune scelte di apportare varianti al PRG, o addirittura di autorizzare pesanti interventi in deroga, che consentono 50mila mc di edificabilità distruggendo uno dei residui “cunei verdi” del sistema stellare immaginato da Luigi Piccinato. E certo eventi analoghi stanno avvenendo anche nelle altre città.

Non sarebbe male, infine, che le forze politiche mettessero di nuovo al centro delle loro proposte e dei loro programmi la questione del governo del territorio: non per rincorrere su questo terreno quegli stessi interessi parassitari premiati dalla destra, ma per combatterli in nome di una città più giusta e più amica. Il giornale di RC, Liberazione, ha da tempo una lettera di alcuni assessori di Rifondazione comunista che propongono di aprire un dibattito vasto su questo tema. Io spero che Piero Sansonetti troverà presto un po’ di spazio per avviare questo dibattito. Sarebbe ora che la sinistra ricominciasse a scoprire che le questioni delle quali discutiamo oggi non sono questioni specialistiche, ma sono questioni rilevanti per tutti.

Perché, quando, come fu prodotto il fotopiano? A queste domande voglio sinteticamente rispondere per far sì che il lettore, navigando all’interno di questo meraviglioso prodotto della scienza e della tecnica moderne (lo strumento, il CD-rom) e della scienza e della tecnica storiche (l’oggetto, Venezia), sappia un po’ del suo spessore.

Nel 1980, a Venezia, era stata rieletta la maggioranza di sinistra e ricostituita la giunta. Esaurito il tentativo di correggere e attuare i piani particolareggiati del 1974, mi posi l’obiettivo (ero di nuovo assessore all’urbanistica) di avviare una pianificazione del tutto rinnovata. Per farlo, strumento indispensabile era una cartografia di qualità adeguata. Per la città storica, la qualità del sito e il livello di dettaglio che volevamo dare al nuovo PRG erano tali da richiedere un prodotto d’eccezionale contenuto cognitivo. Da qui nacque la decisione di avere, tra gli strumenti, un fotopiano a colori in una scala di precisione topografica: quella del rapporto 1:500 ci parve adeguata.

Edgarda Feletti, allora dirigente dell’ufficio centro storico dell’assessorato all’urbanistica e protagonista della costruzione e della gestione del fotopiano, gettò le basi del progetto. Insieme scegliemmo gli esperti che avrebbero dovuto aiutarci come collaudatori (Rosa Bonetta dell’iuav e Corrado Mazzon del sifet), e per la messa a punto e l’attuazione del progetto (l’impareggiabile Mario Fondelli, che ci guidò passaggio dalla concezione tradizionale a quella digitale del sistema cartografico, di cui il fotopiano costituiva il primo tassello).

Le gare (per il fotopiano, per le riprese aeree per la cartografia, per la restituzione cartografica) furono bandite nel 1981. La commissione giudicatrice scelse la Compagnia Generale Ripresearee del comandante Licinio Ferretti. Mai scelta si rivelò più oculata. Ferretti fece un lavoro splendido, e seppe rischiare. Prima ancora che il contratto con il Comune fosse stipulato e che fossero rilasciate le autorizzazioni, la CGR non seppe rinunciare ad approfittare di una giornata eccezionalmente limpida (il 25 maggio 1982) e volò: eseguì le riprese (78 strisciate, 1129 fotogrammi) in un solo giorno per il centro storico, in tre giorni successivi per il resto del territorio della Laguna e della Terraferma.

Un anno quasi impiegammo nel tentativo di rimuovere le richieste dell’amministrazione militare di cancellazione degli “obiettivi strategici”. Ci aiutò Andrea Manzella, allora Capo di gabinetto del ministro della Difesa Spadolini. Ma raggiungemmo il successo solo quando, ottenuto un appuntamento con il comandante dell’IGM, gli portammo a Firenze i primi campioni del fotopiano. Il generale Zanetti comprese che non si poteva mutilare un’opera così eccezionale (per l’oggetto, e per la tecnica impiegata) mascherando con improbabili aiuole l’Arsenale o l’Ospedale civile: come era stato fatto, pochi anni prima, per il fotopiano alla scala 1:5.000 della Regione.

Secondo il contratto la CGR doveva consegnarci tre copie fotografiche delle 186 tavole a colori relative alla città storica: una per lavorarci, una per il pubblico, la terza da archiviare. Appena vedemmo il prodotto comprendemmo subito che non era possibile tenerlo per noi: chiunque, a Venezia e nel mondo, avrebbe voluto vederlo, goderne, utilizzarlo. Facemmo una gara ulteriore. Scrivemmo a 22 editori italiani chiedendo chi fosse interessato alla commercializzazione del prodotto. Ponemmo una sola condizione: il primo dei prodotti ricavati dal fotopiano doveva essere la sua riproduzione originale e integrale, in piena fedeltà del formato, dei colori, dei segni; la precisione doveva restare quella di una carta topografica alla stessa scala.

Solo la Marsilio Edizioni si dimostrò interessata, e chiese di vedere le tavole. Emanuela Bassetti, amministratore delegato, s’innamorò del prodotto. Lavorò intensamente per trovare sponsor che condividessero le ingenti spese d’impianto, e per risolvere i mille problemi tecnici che si ponevano. Nacque così l’edizione Venezia forma urbis, presentata all’opinione pubblica nel 1985, e poi i fortunati “sottoprodotti”. L’ Atlantedi Venezia (poi tradotto in edizioni inglesi e francesi, dalla Princeton Press e da Flammarion), e il diffusissimo poster miniaturizzato alla scala di 1:3.623.

Con questo CD-Rom il fotopiano acquista un’altra dimensione ancora. Si può navigarci dentro, percorrerlo in tutte le direzioni, scegliendo quale, dei mille luoghi di Venezia, ammirare da 1.000 metri d’altezza. Una sensazione altrettanto intensa quanto quella che dovettero avere i tecnici della flotta del comandante Ferretti quando, quel 25 maggio 1982, sorvolarono la città più bella del mondo per assicurarne a tutti la veduta dall’alto.

LE BASI DELLA PIANIFICAZIONE

Pianificazione urbanistica e pianificazione economica

Le parole sono le etichette delle idee. Sono essenziali per pensare e per comunicare. Ma le parole sono anche delle trappole, soprattutto in una società nella quale il numero delle parole che si adoperano diminuisce sempre di più e ciascuna di quelle che rimangono è costretta ad assumere significati molteplici. Così la parola pianificazione.

Parlerò di “pianificazione della città e del territorio”. E vorrei subito distinguere questa pianificazione dalla pianificazione tout court. Anzi, dalla “pianificazione economica”.

La grande differenza tra pianificazione territoriale e urbanistica e pianificazione economica sta nel diverso rapporto con il mercato. In questo diverso rapporto sta anche la ragione per cui la pianificazione della città e del territorio è nata almeno un secolo prima della pianificazione economica.

Quest’ultima è nata (in una riflessione che è partita da Walras e da Pareto e nella pratica delle economie socialiste) con l’intenzione di sostituire il mercato con dei meccanismi di determinazione teorica dei prezzi: è stata pensata e tentata come una sostituzione del mercato nell’obbiettivo di riuscire a determinare la ragione di scambio tra merci diverse indipendentemente dall’esistenza di una pluralità di operatori autonomi.

La pianificazione urbanistica è nata invece come pratica di governo adoperata per risolvere contraddizioni, malfunzionamenti, difficoltà in relazione ad aspetti che il mercato, cioè la spontaneità concorrenziale delle azioni dei singoli operatori, non riusciva ad affrontare in modo efficace, e che anzi contribuiva ad aggravare.

Pianificazione urbanistica e pianificazione territoriale

L’esigenza di pianificare la città è sempre esistita, da quando l’insediamento dell’uomo ha acquistato caratteristiche di complessità. Ma ha acquistato un ruolo del tutto particolare quando, abbattuto l’ancien régime e l’ordinamento gerarchizzato della società, hanno prevalso la concorrenza, il mercato, l’individualismo. Non parleremo perciò della pianificazione di Ippodamo da Mileto o degli agrimensori romani, ma di quella che nasce quando si afferma il sistema economico sociale capitalistico-borghese e come suo prodotto.

Anche questa pianificazione nasce per mettere ordine nelle città e per regolare, secondo un disegno unitario, la loro espansione e trasformazione. Essa nasce per affrontare problemi che la somma delle decisioni individuali non poteva risolvere. Nasce – per così dire – per costituire un contrappeso all’invadenza dell’individualismo e correggerne taluni effetti. Fin dall’inizio del suo percorso, essa è finalizzata al raggiungimento di obiettivi d’interesse generale: naturalmente, d’interesse generale dei gruppi sociali, delle “classi”, che governavano la città o ne influenzavano il governo.

Questa finalizzazione, del resto, è coerente con la natura più profonda della città. Questa infatti non è un mero aggregato di case. La città è sorta, nella storia della civiltà, come luogo strutturato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze cui i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano rispondere da soli: per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali. La città è la casa della società.

Dalla città al territorio

La pianificazione nasce quindi, all’inizio del XIX secolo, come pianificazione urbanistica. Ma ci si accorge abbastanza presto che i fenomeni che caratterizzano la vita urbana, e quindi il disordine che consegue dal sovrapporsi di decisioni diverse e contraddittorie, richiedono un intervento regolatore e programmatore che si estenda all’insieme del territorio. Così come ci si accorge, a partire dai primi decenni del XX secolo, che anche il territorio fuori dai confini della città è impiegato per le stesse esigenze, è ordinato alle stesse funzioni, che una volta si svolgevano nella stretta cerchia delle mura urbane. È dalla fine del XIX secolo che la città comincia ad espellere sul territorio le funzioni divenute incompatibili con la vita quotidiana. Il processo si sviluppa e si estende con l’aumentare sia della specializzazione delle diverse parti del territorio sia delle esigenze sociali, e con il miglioramento della capacità del sistema delle comunicazioni.

Nasce insomma la pianificazione territoriale. Essa è sostanzialmente ispirata agli stessi principi e volta a correggere gli stessi errori della pianificazione urbanistica. La mia convinzione è perciò che tra l’una e l’altra, tra la pianificazione urbanistica e quella territoriale, non ci sia nessuna differenza sostanziale; che il sistema di obiettivi sia perfettamente analogo; che quindi gran parte dei ragionamenti che si possono fare riguardano ugualmente l’una e l’altra. Perciò, d’ora in poi, parlerò esclusivamente di pianificazione urbanistica e territoriale . anzi, salva diversa precisazione, parlerò di pianificazione intendendo l’una e l’altra.

Che cos’è la pianificazione

Vediamo una prima definizione di pianificazione: la definizione di un economista, Giorgio Ruffolo, che si è misurato con i problemi del territorio:

“La pianificazione territoriale è lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico” [1].

In questa definizione vedete accentuare il contrasto tra la logica della pianificazione e la logica del mercato. La pianificazione si fa carico di aspetti che il mercato trascura: la logica qualitativa dell’armoniosa disposizione delle cose sul territorio, contro la logica quantitativa della mera accumulazione di cose.

E vedete comparire qualcosa che ha a che fare con l’estetica e con la creatività: la pianificazione è anche progettazione, inventa “nuovi modelli spazio-temporali”, che producono spazio e tempo, e “valore aggiunto estetico”.

Se dalla poesia di un economista vogliamo scendere alla prosa di un urbanista, vi darei quest’altra definizione, la mia.

Per me la pianificazione territoriale ed urbanistica è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni [2].

Ma per approfondire l’argomento e chiarire il significato della pianificazione occorre ragionare su quelli che sono i suoi oggetti: da un lato il territorio, urbano o extraurbano che sia, dall’altro lato la società e i modi nei quali essa si rappresenta e si esprime.

IL TERRITORIO

Una realtà complessa

Il territorio urbano e quello extraurbano sono certamente diversi, dal punto di vista meramente fenomenologico. Nell’una la presenza dell’uomo è più intensa e nell’altro è più rada. Nell’una c’è una dose più alta di artificio (benché la città sia sempre condizionata dalla natura che la ospita), nell’altro prevale la natura (ma quasi sempre plasmata dal lavoro dell’uomo).

Nonostante le differenze tutto il territorio è una realtà complessa.

Lo è dal punto di vista della sua genesi: è il prodotto del succedersi di una serie di stratificazioni storiche, nel corso delle quali l’uomo ha interagito con la natura modificandola, addomesticandola, trasformandola più o meno profondamente, a volte rispettandola, a volte violentandola.

È una realtà complessa dal punto di vista degli usi in atto e di quelli possibili, e dei conflitti che possono nascere tra usi alternativi e tra usi antagonisti. Un campo può essere usato, alternativamente, per coltivare, o per realizzare un parco, o per costruire cento alloggi o dieci fabbriche.Una zona industriale accanto a un ospedale o un aeroporto accanto a un quartiere residenziale è certamente una utilizzazione antagonista, che reca danno alle altre.

Ed è una realtà complessa dal punto di vista delle letture che ne sono possibili, dei punti di vista sotto i quali può essere utilizzato, e quindi degli obiettivi cui la stessa analisi e individuazione dei problemi è finalizzata. Considerano il territorio e operano su di esso, secondo diversi punti di vista, il sociologo e il geografo, l’economista e il geologo, il naturalista e l’archeologo, lo storico e l’ingegnere dei trasporti e così via.

Una realtà sistemica

Di tutte questi elementi che abbiamo enumerato (vicende, usi, letture, oggetti) il territorio non è un semplice magazzino:non è un luogo in cui questi elementi sono e casualmente ammonticchiati. Questi elementi hanno ordine tra loro, sono connessi tra loro in modo che una modifica in un punto, un’azione su una di essi, modifica tutti gli altri.

Aprire un supermercato in una parte periferica della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc. Al tempo stesso,per il fatto che quella parte del territorio viene visitato da molti clienti stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti.

Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico. L’apertura di un parcheggio interrato in una parte della città: in genere a questo evento corrisponde l’afflusso di automobili maggiore della capacità del parcheggio, e allora si crea in quella zona un aumento del traffico anziché una sua diminuzione.

Realizzare una serie di capannoni industriali e di abitazioni in un’area che per le sue caratteristiche geologiche è permeabile rispetto alla falda idrica provoca un progressivo inquinamento della sottostante riserva d’acqua e quindi un aumento del rischio di malattie oppure la necessità di cancellare una risorsa essenziale per la vita delle popolazioni insediata a valle.

Il territorio, insomma, è un sistema, nel quale le opere di trasformazione dell’uomo e il loro impatto sulle preesistenti caratteristiche, sia naturali che artificiali, genera nuovi equilibri e provoca nuovi eventi, anche in parti distanti e apparentemente non connesse con il luogo della trasformazione.

Il territorio è un bene comune

Ho detto che la città è finalizzata e organizzata costitutivamente agli interessi comuni: che essa è la casa della società. Si può dire lo stesso del territorio. Il suo assetto attuale è determinato da una serie di eventi che sono maturati in un arco lunghissimo di tempo. La collocazione delle attuali città è originato spesso dall’incrocio di due itinerari percorsi da mercanti moltissimi secoli fa. La trasformazione di primitivi villaggi in città e il consolidamento e l’accrescimento di queste è avvenuto per effetto di una somma di iniziative, moltissime delle quali operate dalla collettività,le altre dalle singole famiglie e imprese nell’ambito di decisioni e investimenti pubblici, pagati dalla collettività. L’organizzazione del territorio, il suo assetto fisico e funzionale, sono largamente determinati dagli elementi di urbanizzazione (le città e i paesi, le vie di comunicazione, gli impianti extraurbani, la stessa organizzazione degli elementi naturali utilizzati per la ricreazione, lo sport, la visita, lo studio).

Nessuno realizzerebbe una fabbrica se non ci fosse un sistema di strade e di ferrovie che consente alle merci di entrare e di uscire dalla fabbrica, agli operai di arrivarci, se non esistessero reti di comunicazioni per collegare quella fabbrica a tutti i mercati, se non esistessero scuole nelle quali il personale si forma e così via. Nessuno costruirebbe una casa se non ci fossero strade, scuole, parchi, ferrovie, tram e autobus e così via.

Questa e altre considerazioni spingono a dire che non solo la città, ma anche il territorio sono un bene comune, di cui si può fruire individualmente ma che nel suo insieme è un bene creato dall’apporto di tutti (quindi della società), in un lungo percorso storico. Sono beni comuni e pubblici molte sue parti (le strade e le piazze, le scuole e gli ospedali, gli aeroporti e le ferrovie, i parchi e le riserve idriche e così via), ed è un bene comune nel suo insieme.

Gli interessi che agiscono sul territorio

Città e territorio costituiscono il luogo nel quale interagiscono, e spesso sono in conflitto tra loro, interessi diversi. Vorrei accennarne a uno fondamentale, che è certamente noto, ma di cui si tiene scarsamente conto quando si ragiona su città e territorio, sui loro problemi e sul che fare per risolverli.

Se un’area da agricola diventa urbana il suo valore aumenta moltissimo. Ancora di più aumenta se è vicina a una stazione della metropolitana, o a un parco pubblico, oppure se è in una zona ben servita da buoni servizi pubblici. Ancora di più aumenta se su quell’area si possono realizzare sedi di attività pregiate, oppure un numero maggiore di volumi o di superfici utili.

Insomma,per effetto di decisioni e investimenti pubblici il valore economico di un’area può aumentare di moltissimo. Il prezzo di quell’area, ivi compreso il sovrapprezzo derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, viene incassato dal proprietario, senza che esso abbia compiuto nessun lavoro e nessun investimento. Ma esso ricade su chi ha bisogno di quell’area per costruire una fabbrica o un edificio di abitazioni, il quale a sua volta si rivale su chi compra le merci prodotte da quella fabbrica o prende in affitto un alloggio in quell’edificio.

È la questione della rendita immobiliare, sulla quale tornerò più avanti.

LA SOCIETA'

Città e società: un legame inestricabile

Parlare di territorio come luogo del conflitto d’interessi diversi e contrapposti, ci conduce subito a parlare della società. Infatti il conflitti nascono dal fatto che il territorio è la sede della vita, delle attività, della storia e delle storie, delle passioni e delle emozioni della società.

Dico della società e non dell’ uomo per la stessa ragione per la quale ho detto prima che il territorio è, nel suo insieme, un bene comune. Non viviamo più in una realtà della quale Robinson Crusoe e la sua isola possano costituire un modello. Viviamo invece in una realtà in cui l’intero territorio à diventato città, è diventato l’ambiente della vita dell’uomo associato in comunità più o meno vaste: comunità scalari, dal villaggio e dal quartiere fino all’intero pianeta.

È la società, quindi, l’altro grande soggetto della pianificazione. Anzi, potremmo dire che la pianificazione è la cerniera tra territorio e società. Dimenticare, nella riflessione o nell’azione sulla città e sul territorio, questa duplice natura dell’oggetto della pianificazione è errore grave, che conduce a gravi distorsioni.

La pianificazione non può essere indifferente alla società, nè possono esserlo quelli che ne sono gli “esperti” e – dal punto di vista tecnico – gli artefici, cioè gli urbanisti, i planners.

Del resto, le difficoltà nelle quali si svolge oggi, in Italia, l’attività di pianificazione della città e del territorio deriva, in misura larghissima, proprio dalle caratteristiche che ha assunto negli ultimi decenni la società italiana: la sua cultura, la sua politica e le sue istituzioni, la sua economia. È a questi aspetti che voglio adesso riferirmi.

La cultura

Richard Sennet sostiene che si è dissolto l’indispensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo moderno, e che questo si sia completamente appiattito sull’intimismo. Il disagio contemporaneo ha la sua causa nell’impoverirsi della vita pubblica [3]. In effetti l’individualismo caratterizza sempre di più i pensieri, le emozioni, i comportamenti dell’uomo di oggi, la sua cultura.

La condivisione di obiettivi comuni, la ricerca comune della soluzione dei problemi di tutti non sono più di moda. La solidarietà si riduce a pratiche vicine all’elemosina. I nuovi “valori” sono tutti riconducibili all’affermazione individuale. Lo stesso concetto di sussidiarietà, inventato per distinguere le competenze dei diversi livelli di governo pubblico, è stato tradotto nella pratica “tutto il possibile potere al privato”.

Parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio. Il ”mercato”, istituzione inventata dalla storia dello sviluppo economico per determinare il prezzo delle merci, è diventato perno di una ideologia che appiattisce ogni qualità, ogni differenza, ogni dimensione.

La politica

Su questa cultura si è adagiata la politica. Celebrando la fine delle ideologie, non ci si è accorti d’aver accettato quella determinata ideologia per la quale privato è sempre meglio che pubblico, individuale meglio che comune, spontaneità meglio che governo.

Ma appiattirsi sull’individuale, sul privato, sullo spontaneo significa anche privilegiare l’immediato sul remoto, il vicino sul lontano, la breve scadenza sul lungo termine, il presente sul futuro, il dato sul possibile. Significa perciò rinunciare alla capacitò di formulare un progetto: un progetto di società e un progetto di città.

Non sempre la politica è stata così. Pochi decenni sono trascorsi da quando lo scontro politico era la competizione tra progetti di società alternativi, ciascuno riferito agli interessi di determinate classi sociali, ciascuna delle quali però aspirava a soddisfare l’interesse generale. A seconda del potere conquistato dai portatori dell’uno o dell’altro progetto di società, il compromesso che via via si raggiungeva nella concreta attività di governo era più vicino all’uno o all’altro.

L’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un obiettivo di ampio respiro. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani.

E poiché per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica di arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima formare le coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.

Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare il consenso, con una doppia operazione:da una parte, calibrando la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impiegando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza di strati vasti di popolazione [4].

La democrazia rappresentativa

La politica si esercita attraverso i partiti: organizzazioni che esprimono parti della società. Per tradurre la volontà di queste parti in un’attività di governo la civiltà occidentale ha elaborato principi e strumenti che si chiamano “democrazia rappresentativa”. Questa è costituita da un insieme di istituzioni, che nascono dalla volontà popolare stimolata e organizzata dai partiti. Le istituzioni rappresentano la società ed esercitano le attività necessarie a concretare gli interessi comuni – così come questi sono espressi dalla maggioranza degli elettori.

Le istituzioni della democrazia sono particolarmente rilevanti per la pianificazione. È ad esse che è attribuito,nei sistemi politico-istituzionali europei, la potestà di assumere le scelte della pianificazione. Se è il tecnico, l’esperto, l’urbanista che prepara i materiali e delinea le opzioni possibili e i costi e i benefici per ciascuna di esse, è all’eletto che spetta la decisione.

Il nesso tra la pianificazione e le istituzioni democratiche (e la politica) è davvero strettissimo. E allora dobbiamo ricordare che la democrazia che conosciamo non è l’unica esistita, né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi difendiamola, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione: della sua crisi.

Ricordiamo soprattutto che la sua è stata determinata da alcune cause precise, che Luciano Canfora sintetizza così:

“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo” [5].

Solo se siamo consapevoli dei limiti ed errori della democrazia – e delle cause della sua crisi – potremo raggiungere contemporaneamente due obiettivi: tentar di migliorarla nell’applicazione, non interrompere la ricerca di un sistema migliore.

L’economia

La città, nel suo sorgere e nel suo affermarsi, è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.

Nella fase attuale della nostra vita sociale si sono manifestate due novità che hanno provocato effetti molto pesanti sul territorio: sulle sue trasformazioni e sulla capacità di governarle mediante la pianificazione.

In primo luogo, l’economia e divenuta la dimensione dominante nell’intero sistema di principi e valori (e di pratiche sociali) del nostro tempo. Il valore d’uso (quello cioè derivante dall’utilità del bene per la vita dell’uomo) è stato interamente soppiantato dal valore di scambio (quello derivante dalla possibilità di scambiare la merce contro denaro).

Lo sviluppo cui l’intera società è chiamata a tendere non ha più alcuna connessione con il miglioramento delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più per non morire.

In secondo luogo, ha assunto un peso dominante quella componente parassitaria del reddito – la rendita immobiliare – la cui appropriazione privata ha causato, e continua a causare, la maggioranza dei conflitti che insorgono nelle decisioni delle trasformazioni urbane. Dove la città chiederebbe parchi e scuole, campi aperti e zone sportive, spazi pubblici e paesaggi, la possibilità dei proprietari di lucrare ingentissime somme ottenendo l’edificabilità costituisce una pressione fortissima sui decisori, i quali nella maggior parte dei casi soccombono alle aspettative della proprietà immobiliare.

Il peso massiccio che ha assunto la rendita immobiliare affonda certamente le sue radici nel modo nel quale è avvenuta l’unificazione dell’Italia e nell’incompiutezza della rivoluzione capitalistico-borghese a Sud delle Alpi. Ma è stato fortemente accentuato negli ultimi decenni per le stesse ragioni per le quali la politica si è rassegnata a seguire gli eventi anziché indirizzarli, ad accodarsi alla spontaneità degli animal spirits dell’economia italiana anziché concorrere a trasformarla.

LA PIANIFICAZIONE OGGI

Riepilogo

Nel nostro rapido excursus abbiamo visto come la pianificazione della città e del territorio si è formata quando l’affermazione del sistema capitalistico-borghese ha comportato il nascere di problemi che il mercato, sommo regolatore dell’economia, non riusciva a risolvere ma anzi aggravava. Abbiamo visto come sia possibile ricondurre a un unico ragionamento la pianificazione della città e quella del territorio, e come questa (la pianificazione urbanistica e territoriale) sia diversa, e diversamente finalizzata, rispetto alla pianificazione economica. Abbiamo visto come la pianificazione di cui ci siamo occupati costituisca la cerniera tra il territorio (la sua struttura, i suoi usi, le sue condizioni e trasformazioni) e la società (la politica che ne esprime i diversi interessi, le istituzioni mediante le quali essa diventa governo, l’economia che ne determina i meccanismi). Abbiamo accennato al rapporto, nella pianificazione, tra due attori-chiave: l’urbanista e il politico, il tecnico della pianificazione e il responsabile delle sue scelte.

È da questo punto che vorrei riprendere il filo, per proporre alcune riflessioni sulla pianificazione oggi.

L'URBANISTA E IL POLITICO

Due mestieri, due ruoli, diversamente carichi di responsabilità.

Il politico (o forse più precisamente la politica, nella dialettica tra le sue diverse componenti) deve essere capace di interpretare la società nei diversi interessi delle fomazioni sociali (delle classi) nelle quali si articola. Deve saper comprendere in quali direzioni conducano le tendenze in atto, quale sia il loro esito, se vadano incoraggiate o contrastate o comunque indirizzate. Deve saper formulare, in relazione a ciò che nella realtà esiste e alle sue potenzialità, un futuro desiderabile: un progetto di società. E in relazione a questo progetto di società deve saper dettare alla pianificazione gli obiettivi da assumere, e in relazione dei quali definire un “progetto di territorio”.

L’urbanistaè capace (deve essere capace) di esprimere la città e il territorio.

Per fare i conti con il carattere complesso del territorio e delle forze che agiscono su di esso, deve saper utilizzare le numerose altre discipline che concorrono alla conoscenza, guidarne e comprenderne gli apporti, finalizzarle agli scopi della sua azione. Nel proporre i diversi “progetti di territorio” compatibili con gli obiettivi sociali proposti, l’urbanista deve saper individuare le condizioni non negoziabili delle trasformazioni territoriali: deve saper riconoscere i patrimoni meritevoli di essere tramandati alle generazioni future; deve saper individuare le risorse utilizzabili, e le regole per una loro lungimirante utilizzazione.

Naturalmente, per il suo stesso ruolo di interprete del territorio, deve esser capace di valutare e far valutare la durata delle trasformazioni, i tempi con i quali il territorio reagisce, le connessioni spaziali e temporali tra i diversi interventi progettati.

I mutamenti degli obiettivi sociali della pianificazione

Gli obiettivi sociali della pianificazione sono mutevoli nel tempo. Nella storia che sta alle nostre spalle possiamo riconoscere alcuni momenti significativi.

All’inizio della sua vicenda la società ha chiesto ai suoi tecnici – oltre che di rendere più efficiente il funzionamento cinematica della macchina urbana – di risolvere due problemi: migliorare le condizioni igieniche, e regolare i valori immobiliari in modo da dare certezza di lucro agli investimenti patrimoniali. Entrambi questi obiettivi erano perseguiti in modi differenziati nelle diverse parti della città, con una vera “zonizzazione sociale”: qui i ricchi e i potenti, là i benestanti, altrove gli operai e l’”esercito di riserva”.

I risultati delle lotte sociali e i margini di ricchezza consentiti dallo sfruttamento (in patria e nelle colonie) condussero al manifestarsi di altri obiettivi. A partire dalle proposte degli utopisti sul finire del XIX secolo fino alle realizzazioni dei governi e dei municipi della socialdemocrazia, diventarono obiettivi della pianificazione i diversi elementi del welfare state: l’edilizia civile a basso costo, le attrezzature sociali e sportive, quelle assistenziali e scolastiche, i collegamenti efficienti casa-lavoro.

In questo quadro in Italia, riprendendo nel secondo dopoguerra alcuni dei germi gettati nel primi decenni del secolo XX e sviluppandone altri, si giunse a porre al centro della pianificazione urbana le grandi questioni del diritto alla casa come servizio sociale e delle adeguate dotazioni di aree da destinare a spazi e attrezzature pubbliche, gli standard urbanistici.

Negli anni a noi più vicini si è manifestato, come nuovo obiettivo sociale, quello della tutela del territorio nelle sue caratteristiche fisiche e culturali e nei suoi equilibri ecologici. Ciò ha dato luogo a un accentuato interesse sia al funzionamento della città sia, e soprattutto, alle condizioni dei territori extraurbani. Non è facile però verificare la risposta che a questi nuovi aspetti ha dato la pianificazione, sia per il carattere spesso settoriale della “domanda di ambiente” sia per il contemporaneo appannarsi dell’idea stessa di pianificazione. Ma è su questo punto che devo soffermarmi ora, e concludere questo intervento.

Un punto di svolta

Se c’interroghiamo su come si ponga oggi, nel concreto, la questione della pianificazione nel nostro paese, se ci domandiamo quale sia lo stato di salute della pianificazione quale l’abbiamo conosciuta, ci rendiamo conto che siamo giunti a un punto di svolta.

Secondo alcuni la pianificazione, intesa come governo pubblico, trasparente e democratico, delle trasformazioni territoriali in grado di assicurare a priori una coerenza all’assetto derivante dal succedersi di tali trasformazioni, questa pianificazione è morta. Essa è diventata inutile, deve essere abbandonata e sostituita da meccanismi che consentano a chi vuole operare trasformazioni di intervenire qui ed ora, sulla base dei suoi interessi e delle sue disponibilità immediate [6].

Secondo altri la pianificazione deve essere modificata più o meno sostanzialmente nei suoi procedimenti tecnici, nelle sue modalità e attrezzature operative, e nel modo in cui il decisore investe in essa. Si tratta di modificare, aggiornare, rendere più efficaci ed efficienti i suoi meccanismi, le procedure, le modalità tecniche, e bisogna che i decisori facciano più affidamento su di essa e sui suoi “esperti”

Io sono convinto che nel ragionare sulla pianificazione si debba preliminarmente convenire su due affermazioni, che in qualche modo costituiscono la conclusione del mio discorso.

1.La pianificazione è oggi più che mai necessaria. Più il mondo diventa complesso, più vasti sono gli orizzonti che si aprono all’attività degli uomini, più ricche diventano le interrelazioni tra esigenze, strutture, possibilità, luoghi, più è necessario svolgere uno sforzo ordinatore. La pianificazione è nata per vincere il caos in città di poche decine di migliaia di abitanti: oggi è diventata urbana una realtà composta da miliardi di persone.

2.La posta in gioco oggi è a chi spetti il potere di pianificare. Ciò tra cui bisogna scegliere è se la pianificazione è lo strumento di una democrazia rinnovata e partecipata, con le sue rinnovate istituzioni, capaci di esprimere e rappresentare davvero gli interessi comuni della società, oppure se la pianificazione è lo strumento do quei poteri forti – nazionali, transnazionali e globali – che in modo sempre più evidente e penetrante esercitano l’egemonia sulle dinamiche globali. Sto parlando evidentemente del neoliberismo, delle corporations, di un mondo sempre più appiattito su un’economia dominata dalla rendita finanziaria (e immobiliare)

Io credo che prendere atto della prima affermazione (necessità attuale della pianificazione) e scegliere decisamente il carattere pubblicistico della pianificazione, sia preliminare a qualsivoglia successivo ragionamento sui caratteri, metodi, strumenti della pianificazione, sul modo in cui i diversi saperi e mestieri debbano concorrere a foggiarla e utilizzarla.

Si potrà allora anche discutere se sia possibile assumere, quale orizzonte per la società e quadro di riferimento per gli obiettivi sociali della pianificazione, quello di una cultura, un’economia, una politica quali quelle che ho descritto: quelle di un “neoliberismo”nel quale l’uomo privato abbia soppiantato l’uomo pubblico. Oppure se – come io sono convinto – sia necessario condurre in primo luogo una azione per superare il sistema di valori e di pratiche sociali che attualmente sembra prevalere: a partire dalla difesa e dalla promozione di tutto quello di pubblico, di sociale, di comune è stato conquistato nella storia.

Se insomma sia inevitabile accettare l’attuale società così come si è configurata nei suoi “valori” (crescita, individualismo, cieca fiducia nel mercato e nelle tecnologie), nelle sue pulsioni e nella sua dinamica - così come ieri hanno sostenuto alcuni autorevoli oratori [7] – magari addolcendone alcune asprezze e volgarità e tagliandone qualche punta di durezza, oppure se – come molti di noi ritengono – non sia possibile, oltre che necessario, attrezzarsi per contribuire alla costruzioni di una società radicalmente diversa.

[1]G. Ruffolo, Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.

[2] L’argomento è approfondito in E. Salzano, Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Editori Laterza, Roma-Bari 1998-2007

[3] R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Paravia Bruno Mondatori editore, Milano 2006

[4] “La politica non è più lo strumento attraverso il quale si dirige un paese in base ad un'idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole ed accentuandole”. F. Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004

[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un´ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2004

[6] Si vedano in particolare la discussione con Luigi Mazza sul documento programmatico per Milano, quella con Stefano Moroni a proposito del suo libro La città del liberalismo attivo e la vicenda della legge Lupi.

[7] Mi riferisco alle conferenze svolte da Bernardo Secchi e da Massimo Cacciari.

Urbandata è nata da successive integrazioni. L’avvio è stato l’unificazione degli archivi di due grandi produttori europei: il Centre de Documentation sur l’Urbanisme (cdu), organismo della Direction Générale de l’Urbanisme, de l’Habitat et de la Construction del Ministère de l’Èquipement, des Transport et du Logement, e il London Research Center (lrc), centro di ricerche e consulenza al servizio di una trentina di comunità locali e del governo del Regno Unito. Successivamente, grazie ai contatti intrattenuti dal Coordinamento nazionale delle biblioteche di architettura, dal Sistema bibliotecario e documentale dello iuav e dall’Oikos di Bologna, anche l’Italia è entrata nella collaborazione, costituendo ad hoc l’associazione Archinet. Contemporaneamente aderiva la Spagna, tramite il Centro de Informaciòn y Documentaciòn Cientifica (cidc) del Consejo Superior de Investigaciones Cientificas (il csic è l’equivalente spagnolo del Consiglio nazionale della ricerca).

Nel 1997 ha aderito all’iniziativa anche una rilevante struttura di ricerca della Germania, il Deutsches Institut für Urbanistik (difu), il cui ruolo è fornire documentazione e svolgere ricerche per le comunità locali della Repubblica democratica tedesca. Nel 1999 è entrato tra i partrner di Urbandata il Vati ( Magyar regionális Fejlesztési és Urbanisztikai Közhasznú Társaság / Hungarian Public Nonprofit Company for Regional Development and Town Planning), prestigiosa struttura di pianificazione regionale e locale magiara. Con la costituzione, nel 2001, della Greater London Authority e lo scioglimento in essa del London Research Center, partner inglese è divenuto la Gla . Contemporaneamente in Francia è stata costituita l’associazione Urbamet, che comprende il due precedenti soci francesi e quindi li ha sostituiti.

Dal 1998 Urbandata è costituita come associazione di diritto francese. Oggi i suoi membri sono: Urbamet (Francia), il difu (Germania), la Gla (Gran Bretagna), l’associazione per l'informazione di settore appositamente costituita Archinet (Italia), e il Cindoc-Csic (Spagna), Vati (Ungheria): qui accanto i collegamenti ai siti dei partner I presidenti dell’associazione sono stati: Catherine Bersani, Anne Page, Claude Allet, Edoardo Salzano; dal dicembre 2000 è presidente Carmen Vidal.

Urbandata produce un CD-rom, Urbadisc, che contiene le banche di dati prodotte dalle diverse agenzie nazionali. Oggi esso contiene i seguenti archivi: Acompline and Urbaline (Regno Unito), con circa 150.000 documenti; Docet, Bibliodata, Art-Press, e Archivio Progetti A Masieri (Italia): 55.000 documenti circa; ORLIS (Germania): 200.000 documenti circa ; Urbamet (Francia): 207.000 documenti circa; Urbaterr (Spagna): 87.000 documenti circa. È aperta la ricerca per il passaggio dal formato CD-rom al formato web, deciso dall’Assemblea generale dei soci di Budapest (2001) e ribadita a Londra (2002). Sulla ricerca sono impegnati particolarmente i partner italiano e francese.

Membri di Urbandata, associati ad altri operatori, hanno svolto una ricerca con finanziamento dalla Commissione europea (MLIS2000) per predisporre un prototipo di lessico multimediale e multilingue nel campo della pianificazione e della costruzione. Il prototipo Muleta è stato realizzato e ne è in corso l’implementazione.

Il mondo non è più giusto

Il mondo non è oggi più giusto di quanto fosse quando, 50 anni fa, ho cominciato ad occuparmi di politica. E non è aumentata rispetto ad allora la speranza di cambiarlo.

La distanza tra chi possiede la ricchezza e i mezzi di produzione e chi ne è escluso è aumentata, e così è aumentata (nell’insieme del mondo, in ciascun paese, nelle nostre città) la povertà: sia quella reale sia quella percepita.

L’equilibrio tra la dimensione pubblica e quella privata di ogni uomo si è rotto, e l’individualismo sta tendenzialmente cancellando ogni diverso principio, a partire dalla solidarietà.

Il trionfo della globalizzazione sta cancellando ogni realtà culturale diversa da quella della cultura dominante.

La crescente consapevolezza dei limiti dello sviluppo non ha significativamente cambiato il rapporto tra utilizzazione delle risorse naturali e loro disponibilità: anzi, questa sta vistosamente decrescendo.

La riduzione dei beni, anche i più essenziali alla vita, a merci aumenta ogni giorno, e riduce la disponibilità di beni comuni.

Nelle stesse parti del mondo favorite dallo sviluppo economico in atto è cresciuta la precarietà del lavoro e con essa l’insicurezza del futuro, ed è minacciata la stessa coesione sociale.

Scomparsa la ricerca di alternative

Ciò è certamente dovuto alla fase attuale del proteiforme sistema capitalistico-borghese. Ma, a differenza che nelle fasi precedenti, è venuta meno (nel mondo, in Europa, in Italia) la presenza di forze antagoniste caratterizzate dalla ricerca di soluzioni alternative.

Il crollo dell’Unione sovietica e del blocco dei paesi socialisti; il disfacimento del tentativo dei paesi del Terzo mondo, iniziato nel 1955 col Patto di Bandung, di costruire un’alternativa all’ideologia e alla prassi dei due blocchi antagonisti; la pesante erosione delle conquiste del Welfare state nei paesi del “capitalismo avanzato”; la crescente subordinazione delle politiche verso il Sud del mondo alla logica dell’espansione del mercato capitalistico: tutto ciò è implicito nella compiaciuta constatazione del “crollo delle ideologie”.

I nuovi dogmi universali

Ciò ha comportato – sul piano culturale, sociale e politico –il costituirsi di un’ideologia, largamente condivisa e tendenzialmente egemone, caratterizzata da un numero rilevante di opinioni tramutate in verità indiscutibili, in veri e propri dogmi. Enunciamone alcuni:

- il primato del “mercato” come misuratore dell’efficienza delle soluzioni non solo nel campo della produzione di merci ma in ogni settore della vita sociale e culturale;

- la validità indiscussa e generale (indipendentemente da ogni contesto economico, sociale e culturale) di una democrazia rappresentativa in cui la delega tende a cancellare ogni partecipazione, e comunque depurata da ogni possibilità di conflitto;

- la fiducia illimitata nella tecnologia e nelle sue “innovazioni” come risolutrice di ogni conflitto tra espansione produttiva e ambiente naturale;

- l’assunzione di parametri meramente quantitativi, e riducibili alla moneta, quali misura del valore d’ogni realtà umana e sociale;

- di conseguenza la crescita del prodotto interno lordo come obiettivo dominante e misuratore dello sviluppo.

Le opzioni politiche del passato

Ancora mezzo secolo fa le opzioni politiche, in Europa e nel nostro paese, erano riassumibili in tre:

- quella moderata, che assumeva il sistema capitalistico-borghese come l’unico orizzonte possibile;

- quella socialdemocratica, che assumeva quel sistema come suscettibile di correzioni e “riforme” che lo rendevano accettabile;

- quelle social-comunista, che si proponeva di sostituire quel sistema economico-sociale con uno radicalmente diverso.

In Italia queste tre opzioni assumevano caratterizzazioni peculiari, dovute sia alla presenza nel blocco moderato di componenti ideologiche anticapitalistiche, sia al carattere gradualistico della transizione “oltre il capitalismo” proposta dal blocco social-comunista.

Il comune riconoscimento di principi incarnati nella resistenza al fascismo e ratificati nella carta costituzionale consentiva di introdurre significative trasformazioni, in particolare per quanto riguarda il ruolo del lavoro nel processo economico e nel contesto sociale, e la crescente introduzione di elementi di Welfare. Ciò nel quadro di una democrazia concepita e vissuta come delega nutrita dalla partecipazione comportata dal carattere stesso dei “partiti di massa”.

In definitiva, in una realtà radicata nel sistema economico-sociale capitalistico, esisteva un’ampia, e a volte maggioritaria, tensione verso la costruzione di un orizzonte alternativo.

Il nuovo quadro politico

Oggi il quadro è radicalmente mutato. Esso è caratterizzato, da un lato, dal formarsi di una destra che non si riconosce più nel sistema di principi della Resistenza e della Costituzione e che, soprattutto, ha estremizzato i principi di subordinazione della legge all’interesse individuale, di riduzione dello stato a mero erogatore di servizi all’interesse privato più forte, di riduzione del lavoro a mero strumento per l’accrescimento dei redditi dei proprietari dei mezzi di produzione, e ha promosso la sostituzione dell’incremento dei patrimoni finanziari e immobiliari all’investimento produttivo (della rendita al profitto).

Ma dall’altro lato la crisi del social-comunismo e quella del blocco moderato a direzione democristiana hanno dato vita a una formazione politica che, dissolta nel Partito democratico la componente originata dal Partito comunista italiano, non si definisce più di sinistra. Essa ha assunto integralmente la concezione “interclassista” tipica del moderatismo democratico-cristiano, fino a proclamare la scomparsa della “lotta di classe”, come se questa fosse un’azione politica e non invece in primo luogo un dato strutturale del sistema economico-sociale capitalistico.

Lo sbocco impresso da Veltroni al processo iniziato con le esperienze di maggioranze di “centrosinistra” segna un mutamento radicale del quadro politico. La forza che dichiara di opporsi alla destra e di esserne l’unica alternativa, ha tagliato ogni ponte alla sua sinistra, nella prospettiva della scomparsa di quest’ultima e del graduale assorbimento dei suoi componenti (e soprattutto dei suoi elettori).

Le esternazioni dei suoi esponenti più significativi, a cominciare dal suo leader, lasciano comprendere facilmente come i “valori” in cui essi si riconoscono sono gli stessi che alimentano l’ideologia della formazione elettoralmente antagonista. Sono esattamente quei “dogmi universali” di cui ho prima elencato i più significativi.

Rischi per la democrazia

Le prossime elezioni sembrano giocarsi tutte tra due soli contendenti in campo: il Pdl e il PD. Nonostante gli sforzi di tenere aperto il confronto a tutte le componenti in campo, il risultato elettorale rischia di essere quello del dominio dell’uno o dell’altro dei due contendenti maggiori. Oppure, nel caso di un pareggio, dell’intesa tra loro.

Questa prospettiva è estremamente rischiosa, in primo luogo per la democrazia. Il perverso meccanismo elettorale, creato dalla destra ma tollerato dalle altre forze in campo, provocherà qualcosa che si avvicina molto a quella che Alexander Hamilton definì, due secoli fa, “la tirannia della maggioranza”.

La pervasività con la quale sono diventati opinioni correnti quei “dogmi universali” che nutrono l’ideologia delle due formazioni dominanti; l’incapacità delle formazioni alternative di trovare un’unità sufficiente; la magistrale rapidità e determinazione con la quale Veltroni ha liquidato ogni rapporto politico, ideale e culturale con la sinistra: tutto ciò rende il risultato elettorale estremamente rischioso.

La prospettiva è riassumibile nello slogan: due partiti, una ideologia, un dominio.

La chiusura del futuro

La piattaforma comune ai due partiti, il PdL e il PD, e il substrato della loro comune ideologia, è l’assunzione del sistema economico-sociale dato (quello capitalistico nella fase della globalizzazione neoliberista) come l’unica realtà possibile. Il loro dominio (sia che fossero congiunti sia che rimanessero disgiunti) rappresenterebbe perciò anche la scomparsa d’ogni significativo sforzo di costruire un futuro diverso:

- nelle coscienze dei cittadini, dimostrando la fallacità, o almeno la discutibilità, di quei “dogmi universali”, e la validità di principi diversi e, dove necessario, alternativi;

- nella garanzia di futuro rappresentata dalla difesa dei risultati dei progressi compiuti quando erano egemonici i principi nati dalla Resistenza e definiti dalla Costituzione, in particolare per quanto riguarda la dignità del lavoro, i diritti del welfare, la tutela dei beni comuni;

- nella possibilità di sperimentare, propagandare, affermare nella realtà modi alternativi di regolare il rapporto tra uomo e ambiente, tra sviluppo delle persone e della società e meccanismi economici, tra dimensione privata e dimensione pubblica.

Una scelta di sinistra

Per chi condivide queste considerazioni la scelta elettorale è obbligata. Esiste una sola lista nella quale si esprime una posizione critica nei confronti del sistema economico-sociale in atto e dei suoi “dogmi universali”, e che si riferisca a principi adeguati e condivisibili. È una formazione che è oggi un insieme di posizioni e storie che non hanno ancora trovato una sintesi tra le diverse esigenze che esprimono: in particolare, quella che assume come principio fondamentale la difesa del ruolo sociale del lavoro, e quella che concentra la sua attenzione sulla difesa dell’ambiente. Si tratta comunque, in ogni caso, di esigenze che esprimono una critica di fondo del vigente assetto, e che hanno trovato primi momenti di sintesi nelle varie esperienze “rosso-verdi”.

Sia pure con le approssimazioni dei programmi elettorali troppo sintetici, in quello della Sinistra l’Arcobaleno appaiono impegni rilevanti su punti molto concreti (sui quali invece il programma di Veltroni appare largamente allineato con quello della destra). Mi riferisco in particolare alla difesa del ruolo e dei diritti del lavoro e del welfare, al diritto alla casa e a quello al trasporto collettivo, al rifiuto delle Grandi Opere coerenti con il veltroniano “ambientalismo del fare”.

Una sinistra da costruire

Vedo il voto per La Sinistra l’Arcobaleno come il primo passo verso un impegno politico volto a contribuire alla costruzione di una formazione politica interamente nuova. Di essa anzi si può cominciare a costruire la piattaforma - culturale, prima ancora che politica - approfondendo il confronto sui diversi aspetti del generale problema: come pensare, sperimentare, costruire il superamento del vigente sistema economico-sociale, su quali principi, con quali forze sociali, e salvaguardando in primo luogo le conquiste delle fasi più alte delle stagioni delle riforme del sistema economico-sociale.

Una piattaforma da aiutare a costruire a partire dalle questioni proprie dei mestieri e degli interessi di ciascuno di noi.

Un grande campo di lavoro mi sembra che si apra proprio sui temi della città e della sua vivibilità, del territorio e del paesaggio, della tutela e dello sviluppo dei beni comuni: campo nel quale, se il PdL è apparso come il partito degli speculatori e il PD come quello dell’ambiguità, la Sinistra ha dimostrato un’attenzione del tutto insufficiente.

Una sinistra aperta

Il confronto non deve restare chiuso nell’ambito dell’attuale formazione Sinistra l’Arcobaleno. Deve essere aperto nei confronti delle realtà sociali che non si riconoscono in nessuna delle formazioni politiche presenti, ma che esprimono la tensione verso nuove strade per un impegno politico capace di costruire una società profondamente diversa da quella attuale.

E deve essere aperto nei confronti delle stesse posizioni oggi confluite nel PD. Questo si presenta oggi come un contenitore elettorale, in cui l’apparato mediatico e gli slogan di facile consumo nascondono una grande varietà di posizioni, certamente non tutte riconducibili all’ideologia dominante e ai suoi dogmi. Il modo in cui il contenitore è stato costruito e bloccato ha impedito ogni dibattito con le posizioni di sinistra, ed è certamente sentito come una mortificante limitazione per persone e gruppi spinti ad aderire al PD unicamente dal timore di non esprimere, votando a sinistra, un “voto utile” alla sconfitta di Berlusconi.

Così come non può non manifestarsi disagio per la posizione del tutto anomala che il PD ha assunto nel quadro europeo, dove molte socialdemocrazie hanno mantenuto fermo il loro riferimento sociale alle forze del lavoro dipendente e aperta la ricerca per la costruzione di un’alternativa al sistema economico sociale dato.

Dopo le elezioni, se la Sinistra l’Arcobaleno avrà raggiunto un sufficiente consenso sarà possibile costruire, su questa base, il lavoro necessario per sconfiggere compiutamente non solo Berlusconi, ma il più esteso berlusconismo.

Edoardo Salzano

Venezia, 24 marzo 2008

Sugli argomenti toccati da questo scritto si vedano i cocntributi raccolti nella cartella per altre valutazioni e analisi sul quadro politico italiano, quelli nella cartella " Capitalismo oggi" sulle questioni più di fondo: che si sbaglierenne a trascurare o sottovalutare.

Premessa

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati.

Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali. Sembrano avere un particolare interesse nella ricerca di una messa a punto del ruolo della Provincia. Questo istituto è stato infatti caricato, a partire dal 1990, di competenze e compiti del tutto nuovi e, in larga misura, estranei alla sua tradizione e alle ragioni stesse della sua fondazione: ricordiamo che la provincia nasce dalla prefettura napoleonica, organo di esercizio locale dei poteri centrali dello Stato, i cui confini erano tracciati in ragione del percorso che poteva compiere in un giorno la carrozza del contribuente del fisco per raggiungere l’ufficio delle finanze, o di quello che potevano compiere i gendarmi per sedare la sommossa nel luogo più lontano dalla caserma.

La Provincia, in definitiva, non riesce oggi a individuare con facilità un proprio spazio tra i “due vasi di ferro” costituiti dalla Regione (e dello Stato, con cui la Regione tende a identificarsi) e dal Comune, luogo antico e di consolidata residenza dei poteri elettivi e dell’identificazione della cittadina e del cittadino. Forse – si spera - la funzione di coordinamento dei numerosissimi attori che intervengono nelle trasformazioni del territorio (da quelli istituzionali a quelli parapubblici, a quelli portatori d’interessi diffusi e a quelli espressione d’interessi privati) può conferire nuovo smalto e rinnovata ragion d’essere all’anello intermedio della catena dei poteri locali: può essere la nuova ragione della Provincia

È ragionevole questa ipotesi? E la stessa attenzione alla governance, non nasconde forse rischi dai quali occorre guardarsi, e non è forse portatrice di illusioni? La pratica della pianificazione del territorio e il dibattito culturale che ha dato luogo alla riforma del 1990 possono fornire qualche argomento sul quale è utile riflettere e discutere.

Un dibattito lungo tre decenni

La decisione di attribuire alla Provincia compiti di pianificazione del territorio è la conclusione di un dibattito molto ampio. La discussione sulla pianificazione d’area vasta si è sviluppata infatti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta: di essa ha fatto parte integrante la ricerca della “dimensione conforme” e degli “ambiti ottimali”.

Sono state proposte e sperimentate diverse strade. Finalmente, nel 1990 si è approdati a una soluzione unanimemente accettata. Con la legge 142 del 1990 (poi integrata e ridefinita nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) si sono individuati i tre livelli di pianificazione validi in Italia (comunale, provinciale e regionale), attribuendo al livello provinciale la denominazione di “piano territoriale di coordinamento”. Una denominazione ricavata dalla legge 1150/1942, che aveva essa stessa alle spalle più di un decennio di irrisolti dibattiti sulla intercomunalità e sulla sovracomunalità.

Ricordiamo il dettato del DL 267 del 2000:

La provincia, inoltre, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali [1].

Una definizione, come si vede, dal linguaggio arcaico, e dal contenuto molto sommario. Ma si tratta – non dimentichiamolo – di una indicazione che dovrebbe essere di mero principio, poiché la competenza legislativa in materia urbanistica fu trasferita alle Regioni, nel 1948, dall’articolo 117 della Costituzione della Repubblica, ed è entrata in esercizio a partire dal 1970.

Le tre funzioni della pianificazione territoriale

La realtà si è mossa, al di là della legge. E le legislazioni regionali hanno arricchito il quadro normativo e messo a punto metodi e pratiche nuovi. È possibile definire con maggior precisione (e magari con una varietà di declinazioni) la pianificazione provinciale in Italia.

A ben vedere, l’esegesi legislativa, l’esame comparato delle legislazioni regionali, l’analisi delle pratiche professionali e amministrative e l’esplorazione della letteratura consentono di indicare tre funzioni essenziali cui la pianificazione territoriale provinciale (e in generale la pianificazione territoriale, a tutti i livelli) deve adempiere.

Una prima funzione può essere definita strategica. Si tratta di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società. È una funzione che richiama i concetti di “futuro”, di “comunicazione”, di “consenso”.

Una seconda funzione può essere definita diautocoordinamento. Si tratta di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno (trasparenza) possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia. In che modo, però, definire le scelte proprie della Provincia? Può soccorrere un’applicazione corretta del principio di sussidiarietà: ma su questo tornerò più avanti.

Una terza funzione può essere definita diindirizzo. Il livello di pianificazione più direttamente operativo (che è anche quello più tradizionale e sperimentato) è quello comunale, i cui piani sono soggetti all’approvazione degli enti sovraordinati[2]. L’esigenza di razionalità nei rapporti istituzionali, così come è stata intesa nell’urbanistica classica e come è definita nella maggioranza delle più recenti leggi bregionali, pretenderebbe invece che la coerenza tra le scelte dei diversi enti, e la loro riconduzione a finalità d’interesse generale, non avvenisse più con i tradizionali sistemi di controllo a posteriori sulle decisioni degli enti sottordinati, ma indirizzandoa priori, mediante opportune norme, la loro attività sul territorio.

Le competenze territoriali della Provincia

Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Ma questo principio viene tirato da una parte e dall’altra, a seconda degli interessi di chi lo invoca. Conviene perciò rifarsi a una definizione ufficiale: a quel vero e proprio statuto dell’unione europea che è il Trattato istitutivo della comunità europea, stipulato a Roma nel 1957. Secondo l’articolo 3b, aggiunto al Trattato con l’accordo di Maastricht (1992)[3].

nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.

Il principio di sussidiarietà è stato coniato, su sollecitazione di Jacques Delors, per difendere le prerogative dei governi nazionali nei confronti della comunità europea: parte, per così dire, “dal basso”, e attribuisce agli organismi sovranazionali solo ciò che al livello nazionale non può essere efficacemente governato.

Ma esso è suscettibile anche della lettura inversa: il principio di sussidiarietà afferma anche che, là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E che la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti. É su questa base che è possibile distinguere in modo sufficientemente rigoroso e certo le competenze territoriali della Provincia da quelle della Regione e del Comune.

I contenuti della pianificazione provinciale

Applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree:

A) La tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla capacità di sopportazione del territorio (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva. É evidente che questo compito spetta in modo prevalente alla Provincia, a causa della scala, generalmente infraregionale e sovracomunale, alla quale le risorse suddette si collocano.

B) La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale. Il limite superiore, rispetto all’insieme di elementi collocabili in questa categoria, dovrebbe essere costituito da ciò che viene definito dalla pianificazione di livello regionale.

Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale (a differenza delle precedenti), richiedono ugualmente una visione di livello sovracomunale per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale (per esempio, il dimensionamento della residenza e delle attività), oppure che le normative comunali contraddicano le scelte relative alle grandi opzioni d’uso del territorio (per esempio, in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e delle risorse ambientali).

Mi sembra che tutti i contenuti della pianificazione provinciale pongano con forza la questione del rapporto della provincia con tutti gli altri soggetti che hanno competenze o esercitano poteri o producono azioni nelle trasformazione del territorio.

La pratica della concertazione

Distinguere le competenze tra i diversi livelli istituzionali è essenziale perché conduce a comprendere a quale degli enti appartenga la responsabilità delle scelte, e della decisione finale. Ma deve sollecitare anche a praticare efficacemente e correttamente lla pratica della concertazione (una delle pratiche adoperate e adoperabili per regolare i rapporti tra portatori d’interessi pubblici) là dove non viene praticata, o viene applicata in modo insufficiente o distorto.

La concertazione ha una delle sue ragioni essenziali nella necessità di abbreviare i tempi delle decisioni in tutte le (numerosissime) questioni nelle quali diversi enti rappresentativi di interessi pubblici e collettivi sono coinvolti. Si tratta di abbandonare la prassi di trasferire le “pratiche” da un ufficio all’altro, con relativa lettera di trasmissione debitamente firmata e protocollata in uscita e in entrata, di collocarle in ordine nella relativa pila di pratiche sulla scrivania del dirigente del competente ufficio, da questo trasmetterla al funzionario istruttore, da questo poi restituirla per la firma al dirigente, trasmessa all’ufficio mittente, per poi collocare questo segmento del procedimento in serie con tutti gli altri necessari segmenti. Si tratta si abbandonare di questo procedimento iperburocratico.

Si tratta di stabilire invece che, quando ne ricorre la necessità, oppure periodicamente, funzionari delegati dei diversi uffici competenti per una questione si riuniscono, discutono, decidono, verbalizzano la decisione assunta, stabilendo la data di un successivo incontro in quei soli casi in cui uno o più degli uffici coinvolti ha bisogno di approfondire la conoscenza della questione[4].

Naturalmente, nell’ambito di questo procedimento (che sembra nuovo solo perché l’antica prassi ministeriale delle “conferenze di amministrazioni” e delle “conferenze di servizi” è stata abbandonata o corrotta negli ultimi decenni) occorre distinguere con cura i portatori dei diversi interessi, e il sistema delle garanzie cui i procedimenti oggi (sia pure in forme spesso distorte dal barocchismo normativo e dallo smarrimento della ragione originaria dei diversi passaggi procedimentali) sono espressione. Ma a questo, nella materia della pianificazione, dovrebbe provvedere un’avveduta e aggiornata legislazione regionale.

L’esigenza del consenso

Analogamente a un piano comunale o a un quadro di riferimento regionale, il piano provinciale è, in ultima analisi, un progetto di trasformazione del territorio. E quando dico “trasformazione” non penso solo a opere nuove e nuovi insediamenti: penso anche a interventi, e regole, e politiche che invertano il processo di degrado in atto in molte parti del territorio, e che perciò costituiscano il contenuto di un progetto di “conservazione”. Come dice Pierluigi Cervellati, anche la conservazione è una trasformazione, anche la conservazione richiede un progetto.

Ora è evidente che, per rendere efficace un progetto di trasformazione del territorio occorre ottenere il consenso, oltre che dei soggetti pubblici direttamente coinvolti, anche dei soggetti privati che devono concorrere all’attuazione delle scelte. Molti sono i modi per ottenerlo, molte sono le pratiche messe in atto per conseguire il risultato.

Le pratiche però, a mio parere, si valutano (e si costruiscono) in relazione al loro contesto. Altro è operare in paesi dove l’autorità dell’amministrazione pubblica è forte, e dove gli interessi privati che si vogliono coinvolgere sono quelli degli imprenditori e degli usagers (come nelle esperienze francesi), altro è adoperare quelle medesime pratiche dove l’autorità pubblica è debole, e gli interessi che si vogliono coinvolgere (o che si riesce a coinvolgere) sono in primo luogo quelli della proprietà immobiliare, e degli altri “attori” volti alla percezione di rendite vecchie e nuove.

Ma forse vale la pena – a questo punto – di spendere qualche parola sulla governance: un termine che sempre più spesso, come dicevo, tende a sostituire quello di government.

La governance: come nasce, come è

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni[5].

[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale [6]

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Devo dire che questa interpretazione mi è tornata in mente quando qualche giorno fa, in uno dei convegni che abbiamo organizzato a Venezia nella Settimana della facoltà di Pianificazione del territorio, ho ascoltato con grande interesse l’eroico sforzo posto in essere dall’Ufficio del piano della Provincia di Milano, per costruire un decente piano di coordinamento provinciale, in una situazione legislativa del tutto particolare: in una situazione nella quale la Provincia è privata di poteri nel campo della pianificazione, poiché il Piano territoriale provinciale è sottoposto al preventivo parere dell’Assemblea dei comuni prima ancora dell’adozione e poi, una volta adottato, prima dell’approvazione[7].

Ciò significa, nella sostanza, che non esiste alcuna autonomia della provincia nel definire le proprie scelte territoriali. Il progetto elaborato in sede tecnica non esprime infatti alcuna autorità politica prima dell’adozione[8]. È chiaro che in una situazione siffatta, dove tutto il potere è dei comuni (e della Regione) non resta altro da fare ai tecnici che cercar di costruire il consenso dei comuni: anzi, di cercare di costruire il piano provinciale con una procedura bottom-up.

Ma alle volte la reazione a un sistema perverso induce a trovare soluzioni che, con gli opportuni adattamenti, possono essere applicati a situazioni non perverse facendole anzi diventare virtuose. È su questo che vorrei adesso riflettere.

La governance: che cosa può essere

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti meno difensivi di quello britannico, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti [9]

altri come

le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica [10].

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali [11].

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Distinguere gli interessi

Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione è, a mio parere, quella tra enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto.

Allo stresso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali . La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Qualche esempio della raggiungibilità di risultati positivi, nella riduzione dei tempi e quindi nel miglioramento del rapporto tra amministratori e amministrati. Nella Regione Lazio, fino a pochi anni fa, il tempo medio di approvazione di un PRG comunale era di 7 anni, e non credo che sia molto migliorato. In Emilia-Romagna invece, grazie a un diverso rapporto tra Regione, Province e Comune, il tempo massimo di approvazione di un piano comunale era un anno fa di sei mesi, ed è stato ulteriormente ridotto. In Toscana i tempi di approvazione sono stati rivoluzionati dalla procedura delle conferenze di pianificazione dalla prassi delle conferenze dei servizi nelle quali di decide.

Il tavolo pubblico-privato

Un tavolo diverso, a mio parere, è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali:

per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore

e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricerso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere.

Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: l’attore che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni.

Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Perché altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del “retino”) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Le esperienze di governance che conosco sono poche. È con una certa imprudenza che mi permetto perciò di avanzare un’ipotesi, sulla quale mi interesserebbe avere conferme – o smentite.

L’ipotesi è che la governance, nel campo del governo del territorio, funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario - nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto da noi, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole.

E sono certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio sia quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

[1] Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 20, comma 2.

[2] Poiché siamo in Campania colgo l’occasione per sottolineare che, in Campania, i piani comunali non sono approvati da un unico ente (generalmente le Regioni hanno delegato le province), ma: i piani dei comuni capoluoghi di provincia sono approvati dalla Regione, quelli compresi nelle Comunità montane (104 comuni su 158) da queste, e solo il residuo (53 su 158) dalla Provincia.

[3] L’articolo è stato ratificato e ridenominato come articolo 5 con l’accordo di Amsterdam (1997).

[4] Come, seppure in termini assai diversificati, fanno la legge 5/1995 della Regione Toscana, la legge 28/1995 e la legge 31/1997 della Regione Umbria, la legge 23/1999 della Regione Basilicata, la legge 38/1999 della Regione Lazio, la legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna.

[5] Holec Nathalie, Brunet-Jolivald Genevieve, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.

[6] Idem, p.

[7] Legge Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, “Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia”.

[8] L’adozione è infatti quella fase procedimentale nella quale l’organo politico collegiale assume la paternità del piano: questo prima di allora è un mero atto tecnico, in quanto tale privo di qualunque autorità se non quella morale.

[9] Bagnasco Arnaldo e Le Gales Patrick, cit in Holec, Brunet, op. cit., p.

[10] Marcou Gérard, Rangeon Francois e Thiebault Jean-Louis, cit. ibidem, p.

[11] Ibidem

La Provincia di Bologna ha aperto la costruzione del Piano territoriale di coordinamento provinciale (secondo la legge regionale 20/2000) con un ampio dibattito di verifica del precedente strumento di pianificazione (il Piano territoriale infraregionale). Il dibattito è stato preceduto da una analisi sulla situazione del territorio e da una verifica, su questa base, degli effetti del Pti. Esso si è articolato in più giornate, ad una delle quali (10 ottobre 2001) ho partecipato con l’intervento che riporto di seguito.

Anch’io vorrei sottolineare in primo luogo – come hanno fatto quanti mi hanno preceduto – la grande qualità e completezza delle basi analitiche del lavoro. Sul piano della conoscenza, il territorio e la sua dinamica sono sotto il pieno controllo della Provincia. È stata costruite, e funziona, una macchina capace di analizzare, monitorare, verificare le trasformazioni fisiche e sociali del territorio con una perfezione che credo sia assolutamente unica in Italia.

Ciò che vorrei aggiungere a questa considerazione è che la Provincia di Bologna non si è dotata solo – per così esprimermi – di un robusto “capitale fisso sociale”: nel costruire e gestire questo si è saputa anche dotare di un qualificato “capitale mobile umano”. La provincia è ricca di una dotazione organizzativa motivata e autorevole, di una struttura tecnica e amministrativa che è una risorsa di altissimo livello.

Mi ha colpito il modo in cui questa struttura è stata capace di misurare – grazie anche al patrimonio conoscitivo formato e sapientemente gestito – l’efficacia del’azione di governo del territorio: la distanza tra i propositi, le volontà dichiarate, le strategie costruite, e le concrete modificazioni indotte nella realtà. Ha saputo costruire un bilancio critico e autocritico che è l’indispensabile piattaforma su cui andare avanti.

Ho letto con molto interesse, e ho molto apprezzato, i documenti di “ Elementi per un bilancio critico del PIT ” e “ I nodi critici che emergono dal quadro conoscitivo ”, così come i rapporti di analisi di cui sono la sintesi e la conseguenza. In termini molto sintetici, mi sembra di poter riassumere i documenti in due proposizioni. Sul versante non dirattamente controllato dalle azioni del PIT le strategie positive proposte (e accettate) sono state in larga misura disattese. Ma anche sul versante più direttamente controllato si devono registrare punti di criticità non marginali.

Vorrei ricordare alcuni di questi punti di criticità.

Il sistema delle acque , questa rilevantissima risorsa per ogni possibile sviluppo. “lo squilibrio fra emungimenti e apporti rappresenta una delle più evidenti criticità ambientali del territorio bolognese. […] Le riduzioni previste non consentono ancora di prevedere il raggiungimento di una condizione di equilibrio e men che meno un recupero di livelli dell a falda più prossimi a quelli storici; restano inoltre fuori controllo i pozzi privati, per i quali le pregiate acque sotterranee continuano ad essere una risorsa gratuita e ‘illimitata’. [… ] In sostanza l’ espansione urbana ha continuato ad interessare in modo esteso le aree maggiormente permeabili e l’attuazione delle previsioni consolidate nei PRG comporterà nel prossimo futuro, a meno di ripensamenti da parte dei Comuni, la sottrazione al funzionamento naturale di altre centinaia di ettari di terrazzi e di conoidi..[…] Rispetto all’intera estensione delle aree ad alta o elevata vulnerabilità, ormai risulta urbanizzato o destinato dai PRG vigenti ad essere urbanizzato il 43% del conoide del Reno-Lavino e il 52% del conoide del Savena-Idice” (Nodi critici ecc., p.2)

Il sistema idraulico , essenziale per l’integrità fisica del territorio e degli abitanti, grave soprattutto nella situazione della pianura: “Qui ai fattori meteorologici (anch’essi peraltro influenzati dall’azione dell’uomo) si sommano cause esclusivamente antropiche quali: la progressiva urbanizzazione ed impermeabilizzazione del territorio che, diminuendo i tempi di corrivazione, concentra i deflussi in un minor lasso di tempo aumentando i colmi di piena; la subsidenza, causata da un eccessivo emungimento d’acque di falda, ben superiore alle capacità di ricarica della falda stessa, manifestandosi con maggiore intensità nell’alta pianura rispetto alla bassa, produce di fatto una diminuzione della pendenza motrice delle aste fluviali e dei canali di bonifica. Si sono così prodotte col passare degli anni condizioni di rischio idraulico sempre maggiori (Nodi critici ecc., p.3).

Il paesaggio rurale e la biodiversità : le “dinamiche evolutive hanno effetti particolarmente dirompenti sul territorio rurale della pianura alta e media e della collina, ove erano e sono ancora in parte leggibili le strutture paesaggistiche più profondamente sedimentate nella storia: impianti di appoderamento settecentesco, ricchezza di corti rurali tradizionali, ricchezza di segni storici minori e minuti e di elementi di arredo vegetale (alberi non produttivi isolati, filari, siepi, ecc.). La perdita di questi elementi di complessità paesaggistica si traduce anche nella distruzione di habitat specifici e ancora di più nella frammentazione ed isolamento degli habitat che residuano, ossia in perdita di diversità a livello di ecosistemi” (Nodi critici ecc., p. 9)..

Il sistema insediativo . I documenti ricordano le ragioni per le quali la strategia delineata proponeva una politica di “diffusione concentrata” o di “ decentramento sui centri”, ma sottolineano poi (e misurano) come questa strategia sia lungi dall’essersi realizzata: “La strategia di decentramento delineata dal PTI è stata comunque indebolita e disattesa al punto da dover essere necessariamente riconsiderata. […] Di fatto lo ‘sprawl’ è continuato, anche nelle sue forme più ‘ costose’ per il territorio e più generatrici di mobilità sostenuto da una domanda insediativa diffusa ovunque ma anche da un’ offerta insediativa diffus a in oltre 200 centri abitati anche di piccolissima dimensione e privi di servizi di base” (Elementi per un bilancio critico del PTI, p. 19).

E, sempre a proposito del sistema insediativo, nelle conclusioni, dopo aver ricordato il modello reticolare/policentrico che si assunse, con ampio consenso, nelle strategie territoriali, si afferma: “Nel dibattito politico-culturale di allora il modello assunto fu ampiamente condiviso, in particolare dai Comuni; né allora né in seguito sono state espresse critiche di fondo, forse anche perché, con qualche ambiguità, ciascuno si sentì legittimato ad interpretarlo a proprio vantaggio: in un modello a rete ciascuno può considerarsi un nodo. Le tendenze nell’evoluzione degli insediamenti persistono invece su due direzioni diverse, opposte e complementari: dispersione di residenti da un lato e densificazione del cuore dall’altro, entrambe sostenute da spinte e condizioni molto forti” (Elementi ecc., p. 20).

L’impressione complessiva suscitata dalla rigorosa e argomentata analisi è che si siano raggiunti gli obiettivi che comportavano, per i soggetti più ; direttamente interessati, elementi di crescita, mentre sono stati largamente disattesi gli obiettivi per i quali era richiesto contenimento . Sono aumentati gli interventi e le dimensioni nei luoghi scelti come polarità del nuovo assetto, ma sono cresciute in ugual misura le aree dove si voleva frenare la diffusione. Tutto ciò suscita una riflessione su un punto che a me sembra nodale.

Il Piano territoriale infraregionale aveva assunto pienamente – soprattutto negli ultimni anni – il metodo della concertazione e l’ obiettivo del consenso . È lecito domandarsi allora se affidarsi alle pratiche concertative conduca davvero a risultati efficaci, e se non sia invece necessario conferire alla pianificazione territoriale una valenza più regolativa . Dagli stessi documenti di analisi e bilancio emergono del resto indicazioni abbastanza precise in tal senso.

In questa direzione muovono, ad esempio, le constatazioni circa il fatto che gli emungimenti privati non sono stati contenuti (Nodi critici ecc., p. 2), o che nelle aree ad elevata vulnerabilità occorrerebbe escludere “ ogni ulteriore previsione urbanistica e ogni utilizzazione che vada a danneggiare o limitare le funzioni idrauliche”, ed in più rivedere “le previsioni urbanistiche vigenti di cui non sia ancora avviata l’ attuazione” (ibidem). Alla necessità di una pianificazione più cogente si allude anche quando si pone il problema di “di come riaffermare e consolidare il contenuto degli Accordi sul piano politico, e di come renderli più pregnanti ed efficaci sul piano tecnico-operativo” ; (Nodi critici ecc., p. 11), o quando si afferma che “Il tema da affrontare è la ricerca di un vincolo di coerenza fra le politiche insediative e le politiche relative alla distribuzione dei servizi di base (con particolare riferimento a quelli pubblici e quindi soggetti a specifica programmazione), nel senso che laddove non è possibile offrire un ‘ bouquet’ di servizi di base, per ragioni di efficienza o d i mercato, dovrebbe essere considerata implausibile e inopportuna l’ urbanizzazione di nuove aree, ferme restando naturalmente le politiche a favore dei recupero” (p.12).

Queste considerazioni sull’inefficacia, in questo contesto, di politiche territoriali troppo largaìmente affidate alla concertazione, spingono a una riflessione di portata più ampia: al nodo dei rapporti tra politiche territoriali e politica tout court . Vorrei ricordare, e ricordarvi, tre casi, tre contesti di politiche territoriali concertate che ho conosciuto.

L’esperienza della riconversione del bacino della Ruhr dalla produzione minerario.ndustriale alla qualità ambientale e culturale. Mi meravigliò molto, quando esaminai il piano dell’Emscher park, scoprire come quel piano (che delineava l’assetto urbanistico e ambientale di nomerosi comuni), e mi raccontavano che quel piano veniva rigorosamente attuato pur non avendo alcuna base giuridikca e alcun valore regolativo e cogente. Il fatto è che lì era stata assunta, dalla foza egemonica (nella fattispecie lo SPD, il partito socialdemocratico di Willy Brand) la

scelta strategica, lungimirante e proiettata nel lungo periodo, di modificare alla radice un tipo di sviluppo che si considerava (e che era) obsoleto. Da questa visione strategica si erano fatte discendere le coerenti politiche – in primo luogo quelle territoriali, urbanistiche e d’ investimento – e a queste era stato indirizzato tutto l’apparato amministrativo. Il motore era una volontà politica lungimirante e determinata, capace di coerenza nel tempo.

L’esperienza della governance in Francia, per esempio nei projets urbains di Lione. Lì il coinvolgimento concertato dei privati è funzionale a una strategia d’ineresse pubblico a causa di due condizioni. La prima: esiste un potere pubblico forte, autorevole, che non teme di venire a patti con i terzi perché è comunque egemone. La seconda: il privato non è la proprietà immobiliare, ma il singolo abitante, o proprietario/abitante, e l’impresa. È il potere pubblico, insomma, che guida la danza, nell’assenza di antagonisti privati i cui interessi territoriali siano conflittuali con l’interesse generale.

L’esperienza (mi avvicino a noi nello spazio, ma mi allontano nel tempo e nel clima politico e culturale) della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna, agli inizi degli anno Sessanta. Un organismo del tutto volontario, al quale aderivano praticamente tutti gli enti locali della regione quando la Regione non era ancora stata istituita. Un organismo che “faceva” la politica urbanistica dei comuni emiliani e romagnoli:erano le circolari di quell’organismo – e non decreti ministeriali – che inducevano i comuni a praticare il calibrato dimensionamento dei piani e l’applicazione degli standard urbanistici con anni di anticipo rispetto alla legge ponte del 1967. Anche lì, anche allora, era una lungimirante volontà politica, ed un’egemonia culturale e politica, che “concertavano” ; le cento politiche urbanistiche dei comuni.

Ecco allora la disperante domanda centrale. Esiste, oggi, una dimensione politica che sappia esprimere interessi generali, indicare una strategia lungimirante e ottenere il consenso su una credibile capacità di durare e di rispettare gli impegni? Senza questo elemento, le politiche concertative sono (ove le si guardi dal punto di vista degli obiettivi generali, condivisi a parole) una mera illusione. Né – occorre aggiungere - le politiche regolative sono molto più forti, sebbene siano almeno più oneste e trasparenti.

Ho posto un problema al quale non è facile dare una risposta. Io, almeno, non ne sono capace. Questo però apre un ulteriore e inquietante interrogativo: che fare, come fare il mestiere di urbanista, di planner , di ufficio pubblico adibito alla pianificazione? Dobbiamo ridurci a sacerdoti d’una religione i cui dei sono morti? O avere la presunzione di indossare la divisa delle sentinelle del futuro, o si assumere il ruolo dei portatori professionali di interessi generali che gli altri non tutelano?

Forse la risposta (non l’unica, ma un possibile punto di partenza) sta proprio in quel patrimonio di conoscenze accumulato, nella capacità di aggiornarlo e implementarlo, di tradurlo in puntuali verifiche di ciò che viene proposto e di ciò che è possibile. Si può utilizzare quel patrimonio di conoscenze e di saperi ispirandosi a ciò che di Machiavelli diceva Ugo Foscolo, quando parlava del Segretario fiorentino come di colui che “temprando lo scettro ai regnatori / gli allor ne sfronda ed alle genti mostra / di che lagrime grondi e di che sangue”. Si può socializzare quel patrimonio, farlo diventare uno strumento di critica delle proposte sbagliate e di dimostrazione delle prospettive positive possibili, per far crescere su questa base la coscienza di una sistema di interessi, e di speranze, comuni.

Per rendere “competitivo” il nostro povero paese hanno deciso di anticipare alcuni dei più perversi istituti della proposta di legge Lupi accompagnandoli con una fortissima dose di centralismo statale. L’articolo 9 del disegno di legge che accompagna il decreto per la competitività introduce infatti procedure che raggiungono due risultati: scardinare le procedure garantiste ed autonomiste della pianificazione urbanistica, aumentare il peso della grande proprietà immobiliare. Ma ecco in sintesi la legge (allegato il testo dell’articolo 9 presentato in Commissione, e le note ministeriali d’accompagnamento).

Il Governo (e per esso, oggi, il ministro Lunardi), “per promuovere lo sviluppo economico”, individua (con qualche segno di pennarello su una carta geografica, o magari un semplice elenco) “gli ambiti urbani e territoriali di area vasta, strategici e di preminente interesse nazionale, ove attuare un programma di interventi in grado di accrescerne le potenzialità competitive a livello nazionale ed internazionale, con particolare riferimento al sistema europeo delle città”. D’intesa con le regioni interessate. E se le regioni non ci stanno? Il Governo si propone di adottare “procedure sostitutive”. In queste aree i comuni, anche sulla base delle proposte di privati, formulano i programmi d’intervento. Se sono in contrasto con i piani urbanistici, si può derogare con l’accordo di programma. Per attuare gli interventi i comuni, o i soggetti da loro delegati, possono disporre il “trasferimento di diritti edificatori” e possono attribuire “ incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana”. Se mi regali un parco o l’area per una scuola, in cambio di permetto di edificare il doppio o il triplo di quanto sarebbe giusto e necessario.

Ad alcune “aree strategiche” vengono affidati compiti specifici. Così, nell’area Messina-Reggio Calabria il compito affidato ai comuni (o a chi per loro) è quello di prevedere tutto quello che serve per realizzare ilk Ponte sullo Stretto.

L’esigenza dello “sviluppo”, magari “sostenibile”, fornisce la pelle d’agnello sotto la quale camuffare il solito lupo della vecchia, familiare, speculazione immobiliare. Ho rivisto da poco Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi. Le forme sono certamente molto cambiate, la sostanza è la stessa. In più, una dose di centralismo.

Caro Presidente,

un lettore di Eddyburg mi ha inviato l’articolo di Pierluigi Properzi, che ti allego. Sono veramente indignato. Mi dicono che il Properzi è stato anche vicepresidente dell’INU, e che è ancora membro del gruppo dirigente.

Come sai è da tempo che non condivido la linea dell’INU. Devo dire che le ragioni di fondo erano già presenti quando mi dimisi da direttore di Urbanistica informazioni, e sono state confermate in tutta la gestione successiva alla sconfitta della mia posizione al congresso di Milano. Speravo che con la tua presidenza le cose sarebbero cambiate, ma così non è stato. Anzi, le nostre recenti polemiche dimostrano che le differenze si sono consolidate.

Ciò non mi avrebbe sollecitato a un passo per me così doloroso come quello che sto per compiere, perché la differenza delle posizioni è il sale della crescita culturale, dei singoli e delle comunità. Ma che un membro del gruppo dirigente dell’INU si permetta di insultare una persona come De Lucia è veramente qualcosa che non riesco a sopportare. Significa, tra l’altro, che l’INU ha perso la memoria della propria storia, quindi della propria natura.

La consapevolezza di ciò – come la presenza nell’INU di tante persone cui sono legato da vincoli di stima e di amicizia - mi rende molto amaro, caro Paolo, quanto sto per fare. Ti chiedo infatti di comunicare al Consiglio direttivo, perché ne prenda atto, le mie dimissioni da appartenente all’INU e alle strutture delle quali l’Istituto mi ha designato membro.

1.Paesaggio, territorio, società

Il paesaggio rappresenta ed esprime il rapporto, diverso nelle diverse fasi della storia, che lega la società al territorio. Un rapporto che non va in una direzione soltanto. La società, collaborando con la natura (o violentandola) costruisce il paesaggio, come ha magistralmente dimostrato Emilio Sereni1. Ma il paesaggio, condizionando la vita dell’uomo, contribuisce a sua volta a modificare la società, come ha raccontato brillantemente Piero Bevilacqua2.

Ragionare sul paesaggio in Italia, domandarci in che modo in questi anni appena trascorsi e nei prossimi si trasforma e si trasformerà il paesaggio della Bella Italia ci porterà quindi ad affrontare i due aspetti della questione: il paesaggio e il territorio. Cominciamo da quest’ultimo.

2. Il territorio

Il territorio non è uno spazio neutrale e indifferente, come lo possiamo immaginare vedendo una piatta carta geografica. Il territorio è una realtà complessa, è un sistema nel quale tutte le parti sono in reciproca relazione, e un’azione su una esercita modificazioni su tutte le altre. Del territorio il paesaggio è la forma, il volto: come un viso esprime l’anima di un uomo, così il paesaggio riflette il carattere, la struttura, la storia – e infine la bellezza o la bruttezza – del territorio.

Il carattere del territorio italiano è espresso da due elementi essenziali, che lo rendono del tutto particolare. È un territorio accidentato e fragilissimo. È un territorio ricchissimo di testimonianze storiche. Ed è proprio l’intreccio tra questi due caratteri che ne fa la singolarità, la bellezza, la ricchezza.

L’uno e l’altro carattere, ciascuno per se stesso, meriterebbe (dobbiamo dire:”avrebbe meritato”) un massimo di cura e attenzione. Per evitarne il degrado fisico, reso facile dalla sua fragilità. Per evitarne il degrado estetico e culturale, la cancellazione della storia di cui è intriso e della bellezza che ne sintetizza le qualità.

Eppure, sappiamo tutti che questo territorio, questo paesaggio, questo insieme di bellezze e ricchezze e qualità, è soggetto a un deperimento che sembra irreversibile. Ne hanno distrutto (ne abbiamo distrutto) una grandissima parte. Si sono accaniti sulle sue parti più belle: le coste, le valli, i boschi. Si sono accaniti nelle pianure più fertili, nei terreni resi fecondi da milioni di anni di depositi vulcanici o alluvionali.

E si sono accaniti su margini delle città, creando una nuova caratteristica del paesaggio italiano d’oggi: mi riferisco alla perdita del confine tra la città e la campagna, tra il costruito e il libero, tra l’urbano e il rurale. In qualunque altro paese dell’Europa civile questo confine permane netto: basta sorvolare il territorio in aereo o col computer per rendersene conto.

3. La società

Veniamo all’altro protagonista della storia del paesaggio, e all’altro responsabile del suo presente e del suo futuro: la società. È facile affermare che la nostra società è radicalmente mutata dai secoli che hanno conformato i nostri paesaggi più belli. Meno facile è comprendere il senso del cambiamento, la sua radice, le sue conseguenze sul territorio. Meno ancora è l’afferrare i cambiamenti che sono in corso nei decenni più vicini a noi: vi siamo ancora dentro.

La radice del cambiamento sta in quel grandissimo evento che fu la rivoluzione borghese – che si svolse tra il XVIII e il XIX secolo – e la conseguente affermazione del sistema economico capitalistico. Quell’evento provocò grandissimi benefici al genere umano (soprattutto nelle regioni del mondo dove mise più profonde radici) ma anche grandissimi disastri.

La nostra cultura impiego molto tempo per rendersi conto che uno dei disastri più grandi fu quello che è derivato dal cambiamento del rapporto tra uomo e natura. Questo cambiamento toccò due punti fondamentali: l’uso del territorio e la sua appartenenza.

Per secoli l’uomo ha utilizzato la natura rispettandola, adeguandosi ai suoi ritmi, alle sue regole, alle sue forme. L’ha trasformata e foggiata, ha costruito – come ha scritto Emilio Sereni – una “seconda natura”, conformata dal lavoro dell’uomo. Ma non l’ha violentata, non l’ha negata, non l’ha cancellata. I nostri più bei paesaggi, quando non sono quelli direttamente prodotti dalla natura, sono quelli prodotti dalla collaborazione (verrebbe da dire “paritetica”) tra l’uomo e la natura. Il senso della misura, dell’equilibrio, della riproducibilità delle risorse naturali sono stati per secoli i connotati del lavoro dell’uomo. La Repubblica Serenissima di Venezia, nel XV secolo, ordinò che tutte le trasformazioni della natura lagunare dovesse essere ispirate ai tre criteri della gradualità, sperimentalità, reversibilità: era la codificazione di una norma non scritta che già vigeva da secoli.

E per secoli il territorio è stato considerato un bene comune. Gli “usi civici”, le “università agrarie”, le “regole” che definiscono gli usi comunitari di vaste zone dell’Italia sono una permanenza ancora viva di questa realtà.

Tutto questo è cambiato. Proprio quando l’aumento della popolazione avrebbe richiesto una maggiore parsimonia nell’uso della natura questa da coprotagonista è diventata schiava. Anzi, la natura è diventata materia prima d’ogni trasformazione richiesta dall’esigenza del continui e inarrestabile allargamento del processo di produzione: del processo di trasformazione dei beni in merci, delle qualità in quantità. La società è diventata, da partecipe alla costruzione del territorio e del paesaggio, divoratrice dell’uno e dell’altro. Uno dei passaggi decisivi di questo processo è stato l’appropriazione privata del territorio, la frantumazione dei beni comuni in una miriade di proprietà private.

4. La fase aristocratica della tutela

La necessità di proteggere il paesaggio cominciò ad acquistare rilevanza istituzionale, in Italia, nei primissimi decenni del secolo corso. Mi sembra di poter dire che in una prima fase, che ha caratterizzato l’intera prima metà del XX secolo, ha prevalsu una visione aristocratica del paesaggio in tre sensi. (1) La consapevolezza del “valore” del paesaggio era percepita esclusivamente dalle aristocrazie culturali e politiche, dai “ceti alti” della cultura e del reddito. (2) Il “valore” del paesaggio era individuato solo nella sua qualità estetica, e i luoghi da tutelare erano i “bei paesaggi”. (3) Anche in conseguenza di ciò, la tutela era affidata allo Stato.

Una intuizione che andava al di là di questa concezione può dirsi quella espressa da un ministro della Pubblica Istruzione che si chiamava Benedetto Croce. Questi introdusse per la prima volta il nesso tra paesaggio e identità di un territorio.

Il filosofo napoletano, quale ministro per la Pubblica istruzione nell’ultimo ministero Giolitti, scrive nel 1920:

“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo”3.

È interessante rilevare che è dall’ambito di una visione estetica (la quale oggi ci appare limitata) del paesaggio che nasce, in Italia, l’esigenza della tutela e la sua interpretazione in funzione dell’identità nazionale. E la responsabilità di questa tutela non può che appartenere allo Stato, espressione della collettività nazionale. È su questa stessa linea che si collocano le leggi Bottai del 1939, sia pure cogliendo alcuni elementi di novità per quanto riguarda soprattutto la strumentazione.

5. La fase democratica della tutela

Il quadro cambia radicalmente con la costituzione della Repubblica. Nella Carta costituzionale della Repubblica italiana (1948) la tutela del paesaggio entra tra i massimi principi del nostro ordinamento. Il testo attualmente vigente (speriamo che resista ancora alle spallate demolitorie!) dell’articolo 9 della Costituzione è il seguente: «la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

La Repubblica, non lo Stato: la Repubblica è costituita da stato,regioni,province e comuni. È a questo insieme di istituzioni che è affidata la tutela:non a una soltanto di esse, sebbene la Costituzione lasci aperta la possibilità di attribuire ruoli e preminenze diverse alle diverse istituzioni – e sappiamo che successivamente si sono configurate responsabilità in capo soprattutto, ma non esclusivamente, a Stato e regioni.

Ho voluto sottolineare questo aspetto perché questa attribuzione molteplice della tutela del paesaggio significa anche che, quando una delle istituzioni non adempie correttamente alla sua responsabilità, altre possono esercitarla in sua vece. Si può sostenere insomma una sorta di diritto (o dovere) di supplenza: se lo Stato non tutela adeguatamente, la regione o la provincia o il comune hanno il diritto/dovere di intervenire. E viceversa, se la Regione opera male e non tutela, il dovere dello Stato è di intervenire anche laddove la competenza formale sia stata attribuita alla regione.

L’equilibrio delle istituzioni è un elemento fondamentale di una democrazia ben operante. Credo che parteggiare per l’una di esse contro l’altra, per il centralismo statale oppure per il localismo comunale, sia un errore, e un limite al raggiungimento di risultati positivi. Utilizzando il detto di Deng Tsiao Ping, direi che bisogna scegliere volta per volta il gatto che afferra meglio il topo.

Nella concretezza delle situazioni territoriali, per molti anni, il compito della tutela è stato svolto più dai livelli locali della Repubblica che da quelli centrali. Negli anni 60 e 70 del secolo scorso spesso sono stati comuni virtuosi, con una pianificazione urbanistica avveduta e lungimirante, ad esercitare una tutela efficace sui loro territori. Soprattutto là dove la loro azione era accompagnata, e spesso preceduta, da una politica dei partiti (soprattutto ma non esclusivamente dai partiti della sinistra) che vedeva nella tutela delle qualità del territorio un elemento della sua proposta politica. Mi riferisco ad aree come la Toscana, l’Emilia-Romagna, l’Umbria, il Trentino e il Sud Tirolo, ma anche il Piemonte, parti della Lombardia e del Veneto. Se in molte parti di questa regioni noi vediamo ancora paesaggi sopravvissuti all’onda cementizia lo dobbiamo anche a valorosi sindaci e ad avveduti dirigenti politici di quegli anni.

Ma in quegli stessi anni abbiamo anche registrato episodi in cui sono stati gli organi centrali a correggere scelte comunali perverse e distruttive. Ricordo ancora la riscrittura di un PRG di Napoli devastante, nel 1972, compiuta dal Consiglio superiore dei LLPP (artefici principali Antonio Iannello e Michele Martuscelli). E ricordo l’intervento del ministro allo stesso dicastero, Giacomo Mancini, che salvò l’integrità dell’area dell’Appia Antica con una correzione autoritativa del PRG di Roma.

Bisogna dire che in quegli anni non c’era solo una Costituzione che costituiva un punto di riferimento certo, ma anche una cultura politica e un senso dello Stato che consentivano di guardare lontano: anche agli interessi del futuro.

Mi sembra di poter dire in sostanza che con la Costituzione si era entrati, dalla fase aristocratica della tutela, alla fase democratica, di cui forse il Codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce l’ultimo momento. Purtroppo devo aggiungere che, a mio parere, siamo entrati in una fase ulteriore, che definirei la fase post-democratica. Una fase dalla quale solo il consolidarsi, propagarsi ed estendersi di iniziative come la Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio potrà consentirci di contribuire all’uscita. Ma vediamo in che cosa la presente fase si caratterizza.

6. La fase post-democratica

Della fase attuale vorrei mettere in evidenza tre caratteristiche, che riguardano i cambiamenti intervenuti nella politica, nella società, nella cultura dominante, e che sono le cause vicine o lontane di tutti i disastri che dobbiamo registrare e patire, sia nella vita del territorio che in quella della città – e quindi, nella vita delle generazioni presenti e di quelle future: il rapporto tra il tempo del territorio e il tempo della politica; il rapporto tra la dimensione pubblica e quella privata nell’uomo; il rapporto tra l’economia, la politica e il territorio.

Sul primo punto. Si è determinata una frattura crescente tra i tempi lunghi del territorio, della sua formazione e delle sue trasformazioni, e i tempi brevi della politica. Il territorio vivi tempi lunghi, a volte lunghissimi. Milioni di anni sono stati necessari per foggiare la forma dei nostri territori: per far emergere le montagne, corrugarsi le valli, formarsi con i sedimenti vulcanici e con quelli alluvionali e fertili pianure. Millenni di lavoro e la cultura di generazioni sono stati necessari per formare i paesaggi che oggi ammiriamo, e che fanno della nostra terra un mosaico di bellezze. Lustri e a volte decenni sono necessari perché gli effetti indotti dalle trasformazioni programmate, per esempio, da un piano regolatore, si traducano in concrete modificazioni del modo in cui città e territorio sono organizzati e vissuti dai cittadini.

Una saggia politica del territorio avrebbe bisogno di una politica lungimirante, capace di costruire una strategia, un progetto di società e un conseguente progetto di città, e di realizzarlo con pazienza e con costanza. Oggi, invece, la politica si è interamente appiattita sul breve periodo: è diventata miope. Non ha la pazienza di seminare e di attendere il raccolto: vuole raccogliere subito, portare via quello che già c’è. Il fatto è che, anche nella politica, ciascuno (ciascuna persona, ciascun gruppo, ciascun partito) guarda al suo interesse immediato. Vale solo ciò che è spendibile prima delle prossime elezioni. È evidente che una visione simile è distruttiva per il territorio.

Sul secondo punto. Nel corso della sua lunghissima vicenda l’uomo ha imparato che non tutte le esigenze della sua vita possono essere soddisfatte individualisticamente. Così, nel corso della lunghissima elaborazione dei bisogno e del suo progressivo soddisfacimento, l’uomo ha arricchito la sua stessa natura. L’uomo ha così acquisito una duplice componente della sua natura: in ciascuno di nui c’è la componente individuale, personale, privata, e la componente comunitaria, sociale, pubblica. Questa due componenti, l’uomo privato e l’uomo pubblico,hanno storicamente raggiunto un equilibrio. Nell’ultima fase, la fase che attraversiamo, l’uomo privato ha cacciato l’uomo pubblico: la persona umana si è individualizzata: siamo entrati nella fase, per adoperare le parole del sociologo Richard Sennett, del “declino dell’uomo pubblico”4.

L’individualismo è diventato trionfante: è la pulsione dominante. Si è persa la consapevolezza che più la società diventa complessa più cresce la necessità di risposte comuni a problemi comuni. La città e il territorio, i problemi che pongono, la necessità di governare in modo ragionevole e lungimirante le loro trasformazioni esigono invece una forte presenza dell’uomo pubblico che c’è in ciascuno di noi: un forte senso della responsabilità collettiva, una forte disponibilità ad azioni collettive.

Il terzo punto. In una società bene ordinata l’economia è certamente una dimensione importante. Ma ogni fase dell’economia ha avuto un suo motore, un suo obiettivo dominante. L’economia nel cui ambito viviamo da alcuni secoli, l’economia capitalista, ha come suo motore la ricerca del massimo profitto da parte di ciascuno dei possessori dei mezzi di produzione. Questo obiettivo è raggiungibile mediante la massima produzione di merci. Ora non è detto che questo obiettivo corrisponda al massimo del benessere sociale. Perciò la politica si è sempre posta il problema di guidare l’economia, o almeno si è posta, nei confronti dell’economia, come un altro potere. La storia della democrazia può essere letta proprio in questo modo: come quella diell’affermazione di un potere che, esprimendo gli interessi della maggioranza dei cittadini, potesse contrastare, o almeno condizionare e condividere, gli interessi dei padroni dell’economia.

È ormai chiaro a tutti che la politica si è completamente appiattita sul potere economico. Si è costituita una ideologia, un modo corrente di pensare, per il quale l’economia data, questa economia, è considerata inevitabile: al punto che la politica non riesce più a pensare alla sperimentazione di alternative percorribili. E poiché per questa economia non esistono beni (cioè cose cha abbiano valore per sé) ma solo merci (cioè oggetti scambiabili con denaro) ecco che si tende a trasformare in merci anche beni preziosi come il paesaggio, la storia, la bellezza del nostro territorio, le sue risorse irriproducibili: in una parola, il suo patrimonio.

7. Occorre ripartire: da dove?

Queste sono le tendenze in atto. E credo che, se ci sforziamo un poco, riusciamo a leggerle in ciascuno degli episodi di dissipazione del paesaggio a cui assistiamo, e in ciascuna delle cause immediate a cui li facciamo risalire. Sul fatto che, lasciando il mondo in balia di queste tendenza, si tenda verso una catastrofe esiste ormai una vstissima letteratura. Il bellissimo ultimo libro di Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo5, ne costituisce un quadro di grandissima efficacia.

È impossibile, almeno per me, comprendere se il sistema economico sociale capitalistico sarà in grado di auto correggersi (Franco Rodano sosteneva che il capitalismo è come Proteo, il mostro che cambiava continuamente forma e natura per sfuggire alla stretta di Ercole), oppure se sarà necessario e possibile immaginare e costruire un sistema del tutto diverso. Quello che so è che, in qualunque modo il cambiamento si manifesti, sulla direzione di marcia influiranno le sollecitazioni che verranno dalle controtendenze che si manifesteranno nella società.

E devo dire (lo scrivo da tempo sul sito web eddyburg e sul settimanale Carta) che vedo ben poche cose si muovono in controtendenza nelle istituzioni e nell’accademia, non ne vedo nessuna nella politica ne vedo invece molte nella società.

In tutt’Italia si manifestano ormai tensioni e interessi che si esprimono in quasi tutte le regioni d’Italia e spesso si concretano nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.

In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze).

Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale pubblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati. Del resto, gli studiosi che analizzano gli effetti del neoliberalismo negli ambiti urbani prevedono già lo svilupparsi di nuovi conflitti, generati dall’aggravarsi del problema della casa, dalle carenze o dai maggiori costi dell’acceso a servizi ormai indispensabili alle famiglie, dal crescere del disagio derivante dall’organizzazione dei trasporti.

I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.

È un lavoro nel quale spetta anche agli esperti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. E insieme alla corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliorano o peggiorano, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.

1 Emilio Sereni. Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1961.

2 Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1969

3 B. Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920.

4 Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006

5 Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma Bari 2008

Possono piacere o non piacere (a me non piacciono, e dirò perchè) ma una cosa è certa: Questi nuovi mega centri commerciali sono strutture che influenzano poderosamente il funzionamento del territorio, a una scala molto vasta. Inducono flussi di traffico, trasformano l’ambiente, provocano trasformazioni nelle zone circostanti. Sono quindi strutture che, sulla base di una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, vanno localizzate sulla base di un piano di livello almeno provinciale. E sono strutture nuove, le quali quindi devono essere regolate da una legge: una legge regionale che definisca dimensioni, condizioni, procedure. In quella zona non esista un piano che preveda questa megastruttura, e non esiste una legge regionale che stabilisca i requisiti e le attenzioni.

A me sembra del tutto intollerabile che le regioni, cui è attribuita la potestà di governare il territorio, che dal 1972 hanno la competenza e la responsabilità della legislazione urbanistica, siano inerti di fronte a questi episodi.

Nel merito, questi centri commerciali territoriali mi sembrano esprimere una tendenza molto preoccupante.

Guastano la città: le svuotano del commercio, che contribuisce poderosamente a renderle vive e vitali: il commercio che è stato all’origine della loro creazione. Allontanare il commercio dalla residenza, dai servizi, dalla vita quotidiana significa castrare le città, renderle un dormitorio, trasformarle a poco a poco in luoghi spenti.

Guastano il territorio: concentrare in un punto grandi quantità di negozi significa generare una dinamica di flussi completamente nuova, significa alterare profondamente il funzionamento di vasti territori. Seppure si scegliesse di farli è del tutto insensato localizzare strutture che hanno questo peso, questa capacità gigantesca di attrarre flussi di traffico, senza un piano generale dell’assetto del territorio: un piano esteso almeno all’intera provincia, che ne verifichi la funzionalità nei confronti di tutto il territorio.

Guastano la nostra vita, il nostro ambiente: i grandi centri commerciali implicano che sempre meno si adoperino i piedi per le necessità quotidiane e sempre più l’automobile. Implicano che sempre più si inquini, sempre più si sprechi l’energia, sempre più si accumulino nell’atmosfera i veleni che ci uccidono.

Informazioni molto più ampie su Borgarello e dintorni le potete trovare nel servizio di Fabrizio Bottini: Centro commerciali apocalittici. Centri commerciali integrati

Se non riuscite ad ascoltare la trasmissione al link sopra provate a cercarla nel comodo archivio di Radio anch’io

Un indicatore ormai classico della salute dei fiumi è la quantità dei pesci che risalgono la corrente. Franco La Cecla, un bravo antropologo che ha insegnato da noi a Venezia, mi indusse a comprendere che la salute di una città è rivelata dalla quantità dei bambini che stanno per strada.

Naturalmente (e prevengo subito un’obiezione possibile) quando pensiamo a una città in buona salute non pensiamo a una città le cui strade sono popolate dai bambini e dai ragazzi che Roberto Saviane descrive nel bellissimo e scandaloso Gomorra: a una città schiava dei clan camorristici che utilizzano i bambini per strada come servi delle aziende malavitose. Pensiamo a una città normale, dove vige la “legge comune”, dove le cittadine e i cittadini sono rispettosi degli altri e dei diritti di ciascuno, dove magari ciascuno ilo sabato lava l’automobile davanti casa per andare il pomeriggio all’outletfactory o allo shopping center, dove la domenica invita gli amici a mangiare arrosto al barbecue nel giardinetto, e gli altri giorni fa la fila per raggiungere l’ufficio o accompagnare il bambino a scuola.

In questa città, nella città dove abitiamo, bambini per strada ce ne sono pochi. Prevalentemente sono accompagnati. Spesso i marciapiedi sono occupati dalle automobili, non dai pedoni né dalle carrozzine. Spesso le piazze sono dei grandi parcheggi, a volte organizzati a volte casuali: raramente sono rimasti luoghi d’incontro, di svago, di apprendimento reciproco, di confronto, di esibizione, di festa.

Penso a Venezia, penso ai suoi campi i quali – quando non sono resi deserti dall’abbandono demografico e dalla monocultura turistica – sono luoghi vivi, ricchi di animazione e di persone di tutte le età e le condizioni. Penso che una volta tutte le città erano ugualmente vissute nei loro spazi pubblici; che una volta ogni paese, anche il più piccolo e periferico, aveva la sua piazza, il suo fuoco della vita sociale.

Perché non è più così? Occorre domandarselo. Occorre chiedersi qual è la radice del problema. Se non si parte dall’individuazione del problema non si trovano soluzioni: si possono solo applicare cerotti, si può solo nascondere il problema, o allontanarlo un poco.

Vogliamo dare ai bambini e ai ragazzi la chiave della progettazione della città. Ma per dargliela non come un giocattolo, ma come uno strumento per agire, allora dobbiamo innanzitutto aiutarli a comprendere che cosa la città è e che cosa potrebbe essere, che cosa è stata, perché è diventata quello che è, e come si può rinnovarla nel suo modo di essere: quindi, in che direzione, verso quale visione di città la sua progettazione deve essere indirizzata.

C‘è chi sostiene (e io sono tra questi) che la città è stata inventata quando l’uomo ha sentito il bisogno di stare insieme perché solo così, solo in comunità, riusciva a soddisfare esigenze nuove che erano nate nel corso dello sviluppo economico e sociale della civiltà umana. Se riflettiamo a fondo sulle vicende della nascita e dello sviluppo della città, ci rendiamo conto che essa è nata come luogo finalizzato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze che i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano risolvere da soli. E’ nata per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali.

Riconosciamo chiaramente questa natura della città se osserviamo ciò che rimane delle città foggiate prima dei tempi moderni: i nostri “centri storici”. Ho citato Venezia, ma in tutte le parti antiche delle città possiamo vedere come i luoghi, gli spazi, gli edifici dedicati alle esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali hanno caratterizzato le città, hanno dato a ciascuna di esse una particolare identità e riconoscibilità, sono state la ragione della sua particolare bellezza.

Osserviamo con uno sguardo attento ai siti, e cercando di immaginare la storia che sta dietro ad essi, i centri storici delle città italiane o francesi, tedesche od olandesi, spagnole o austriache. Lo sguardo sarà colpito da alcuni grandi edifici, adorni e ricchi, più maestosi degli altri, collocati al margine o al centro di piazze, o sistemi di piazze, a loro volta abbellite da fontane e statue e da studiate pavimentazioni. E magari ricorderemo le antiche storie che ci raccontano come in questi luoghi (nella piazza della cattedrale o in quella del palazzo del governo o in quella del mercato) donne e uomini, vecchi e bambini si incontravano nelle ore del lavoro e in quelle dello svago, e come in quegli stessi luoghi i cittadini accorrevano a frotte, in ogni occasione gioiosa e festosa, o ad ogni allarme o pericolo.

Ma non sono soltanto questi “monumenti” a costruire l’immagine della città, a costituire la sua identità Se non ci lasciamo distrarre più del dovuto dalla Grande Opera della Cattedrale o del Palazzo, osserviamo ancor oggi che la loro bellezza non sta solo nei loro volumi, ma dal contesto nel quale sorgono, che ne sottolinea - e quasi ne determina – lo splendore. Osserviamo ancora oggi, attorno a questi edifici e spazi, il regolare allinearsi delle casette “normali”, dove abitano e lavorano i cittadini e le loro famiglie: case uguali nelle strutture (le altezze, le larghezze, la forma del tetto, il modello delle finestre, nelle regioni piovose il portico sulla strada principale). Come nel contrasto armonico tra il coro e la voce solista, l’uniformità regolare della “edilizia minore” sottolinea l’importanza, la centralità, il ruolo dominante dei grandi volumi e dei grandi spazi (la cattedrale, il mercato, il palazzo del governo, il tribunale): i grandi volumi e i grandi spazi nei quali si identifica e si celebra la città.

La città si manifesta insomma come un insieme organico di opere, concepite e prodotte per soddisfare le esigenze non solo delle singole famiglie (la casa) ma della società nel suo insieme. Perciò affermo stesso (e torneremo su questa affermazione) che la città non è un insieme di case, ma è la casa della società.

Questa era la città, nei secoli nei quali l’uomo la inventò e la rese la più bella e la più ricca – la più complessa - delle sue costruzioni. In essa non mancavano le contraddizioni e i contrasti, ma si trattava di momenti di una dialettica nella quale lo “spirito cittadino” finiva per prevalere sulle divisioni. Le condizioni di igiene e di sicurezza non erano certo confrontabili a quelle che la civiltà moderna consente, nei suoi luoghi più alti, di raggiungere: ma, appunto,erano condizioni condivise, di cui tutti ugualmente pativano e che dipendevano dal generale livello di progresso tecnico raggiunto.

Oggi moltissimi vivono il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell’uomo e della donna dei nostri tempi (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Oggi la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, per persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri: a causa del traffico e del rumore, del pericolo, del prezzo delle case, dello stesso disegno degli spazi pubblici. Oggi la nostra salute è minacciata dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, i rumori ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Oggi l'abnorme produzione di rifiuti minaccia di seppellirci.

Voglio sottolineare soprattutto quell'aspetto della crisi della città che è il traffico: è forse il nemico peggiore dei bambini nella città, il maggiore concorrente per l’uso dei loro spazi, il maggior rischio per la loro incolumità.

Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità è l'aspetto più emblematico e paradossale della crisi della città. Questa è stata infatti storicamente (l’ho appena ricordato) il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della “civiltà dell'automobile”, nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

E i luoghi dedicati all’incontro, allo scambio, alla reciproca partecipazione delle informazioni e dei sentimenti di persone appartenenti a età, ceti, condizioni, mestieri diversi – le piazze, i luoghi simbolo della città – sono divenuti le aree destinate al deposito degli ingombranti attrezzi di metallo, le automobili, divenuti più importanti delle persone cui dovrebbero servire.

Perché questo è avvenuto? Esiste una letteratura ampia e contraddittoria sulla crisi della città: una crisi di cui certamente molte sono le ragioni. Ma c’è una ragione che è centrale e nodale per comprendere.

All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati dal processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto in Europa, fin dalla fine del Settecento un poderoso aumento della popolazione e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Nell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.

Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. Fino alla nascita delle megalopoli e del “pianeta degli slum” – che comincia a caratterizzare gran parte dell’odierna umanità urbana - le città sono state luoghi nei quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini erano tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendevano di essere soddisfatte. E’ nata quindi una fortissima domanda di fruizione urbana: di lavoro “libero” (affrancato dalla servitù), di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.

Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.

Un aspetto particolarmente importante della crisi della città è costituito dal cambiamento profondo che v’è stato nella proprietà del suolo urbano. Prima del trionfo del sistema capitalistico borghese il suolo della città era generalmente indiviso: sia che appartenesse a un potente del sistema signorile (re o vescovo o feudatario che fosse), sia che le istituzioni cittadini lo avessero riscattato, esso apparteneva a un unico proprietario. Quando anche la proprietà era attribuita a soggetti diversi, in ogni caso la sua gestione era attribuita a un organo che esprimeva la collettività. In particolare apparteneva al governo della città la decisione sul dove costruire, che cosa, con quali regole.

Su questa base, la città poteva sorgere con la funzionalità e la bellezza che i suoi costruttori desideravano. E le trasformazioni rese necessarie dal mutamento delle esigenze e delle condizioni potevano avvenire senza dover sottostare ai vincoli di una proprietà parcellizzata e dominatrice.

Ad un certo momento della storia tutto ciò scomparve. Si era manifestato un cambiamento radicale delle regole che governavano la società. Una nuova classe si era impadronita del potere togliendolo alla classe dei grandi proprietari fondiari, ai re e alle loro corti: era avvenuta la “rivoluzione borghese”, che sbalzò dai troni e dai castelli i monarchi e il loro seguito di feudatari e insediò al loro posto i rappresentanti della borghesia.

La rivoluzione borghese, là dove si manifestò, portò grandi vantaggi all’umanità: aumentò enormemente la produzione di beni materiali, migliorarono l’alimentazione, la salute, il benessere delle persone e dei popoli direttamente interessati (non altrettanto può dirsi dei popoli invasi dal colonialismo). Me nelle stesse aree del mondo dove aveva trionfato essa distrusse qualcosa che meritava di sopravvivere. Scomparve la proprietà indivisa della terra,scomparve la base strutturale che aveva permesso alla città di essere bella e funzionale. Come ha scritto un acuto studioso e un appassionato propagandista della questione, Hans Bernoulli, “il suolo era divenuto libero. Non era più proprietà né titolo di diritto della nobiltà o del clero: era dei borghesi o dei contadini ai quali era stato ripartito o venduto. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune”[1].

“Allora non si pensava affatto”: non si riflette mai abbastanza al fatto che la storia che conosciamo, la registrazione degli eventi accaduti, non esaurisce tutte le possibilità; allora andò così, ma avrebbe potuto anche andare in un altro modo. Allora, tuttavia, la borghesia, che aveva inventato e promosso la dimensione sociale nella fabbrica (un luogo dove gli individualismi non possono sopravvivere alla catena di montaggio), non riuscì a proiettare quella medesima dimensione nella città. L’abbandonò all’individualismo più sfrenato, alla speculazione più devastante.

Enormi sono state le conseguenze di questa trasformazione nel destino delle città. Il suolo urbano non fu più la base della “casa della società”, il fondamento dell’ordine e della bellezza della città: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo. La liquidazione della proprietà indivisa del suolo generò necessariamente la speculazione. Da quel momento in poi, per la città, tutto fu più difficile.

La lotta per conquistare, nei tempi moderni, migliori condizioni di vita (e soprattutto di vita comune) nelle nostre città ha sempre dovuto scontrarsi con la volontà dei proprietari delle aree di lucrare il massimo possibile dall’utilizzazione edilizia della loro proprietà. Questo scontro è sotteso a tutte le vicende urbanistiche delle nostre città, e anche a una parte consistente di quelle più generalmente politiche.

Un momento particolarmente espressivo fu costituito da quella stagione (parlo degli anni Sessanta del secolo scorso) quando vide la luce una legge che stabiliva gli standard urbanistici: che prescriveva che in tutti i piani regolatori delle città dovesse essere riservata una determinata quota di spazi da destinare alle esigenze collettive dei cittadini: scuola, verde, ricreazione, salute e così via.

Fu una lotta aspra, che acquistò in determinati momenti il carattere di una vertenza di massa. Furono decisivi tre aspetti: il movimento dell’emancipazione femminile, che pretendeva che al nuovo ruolo produttivo delle donne si accompagnassero provvedimenti che riducessero il peso lavoro domestico; gli esempi che provenivano dalla saggia amministrazione di numerose città italiane, soprattutto in Emilia Romagna e in Toscana; i tentativi dei settori più avanzati dell’industria di ridurre il peso della rendita immobiliare e di ottenere, anche per questa via, un miglioramento delle condizioni di vita nelle città, che inevitabilmente si ripercuotevano sulle tensioni rivendicative dei salariati.

Credo che la stagione delle riforme (riforme della struttura del paese) avviata negli anni del primo centro-sinistra sia ancora tutta da studiare. C’è da riflettere sui risultati che allora furono raggiunti, delle ragioni per cui a un certo punto il vento cambiò direzione e le conquiste raggiunte, lungi dal prolungarsi, vennero abbandonate e – spesso – rovesciate nel loro contrario. Certo è che oggi il peso della rendita immobiliare, sempre forte nel nostro paese per ragioni che affondano nella storia della sua unità statuale, è aumentato a dismisura rispetto a quegli anni.

C’è da riflettere, ma soprattutto c’è da domandarsi che cosa si può fare, nel concreto, per trasformare le cose: per rendere oggi la città più vicina alle ragioni della sua creazione: più bella, più amica delle cittadine e dei cittadini e soprattutto dei più deboli. Credo che sia importante partire proprio dai bambini, sia perchè – come dicevo all’inizio – la loro presenza nelle strade, le piazze e i luoghi pubblici è un indicatore della salute della città, sia perché è a loro che è affidato il futuro, e quindi è importante la direzione di marcia che ad essi viene impressa dall’ambiente nel quale vivono.

Sono convinto che per dare ai bambini la chiave della progettazione della città, come promette il titolo di questo intervento, occorre fare in primo luogo uno sforzo di fantasia: ribaltare il modo di vedere, pensare la città e, a partire da questo ribaltamento, riprogettare e ricostruire la città. Non vi preoccupate: non saranno necessarie demolizioni massicce, solo un modo nuovo di fare cose che comunque si fanno, o si devono fare. Proverò a spiegarmi.

Ho detto all’inizio che la città non è un insieme di case. Eppure, nella testa delle persone (e anche nell’immaginazione e nei disegni di molti bambini, e nei progetti di molti urbanisti) la città non è altro che un insieme di case collegate tra loro da una rete di strade. Questo è il “pieno” della città, a cui fa riscontro il “vuoto” costituito dagli spazi liberi, dai residui di campagna in attesa di edificazione, dai corsi d’acqua sopravvissuti come discariche, e dagli spazi più o meno avaramente concessi agli usi collettivi.

Questa è la concezione e la struttura della città che occorre rovesciare, manifestando una diversa intenzione di vivere la città, obiettivi diversi da quelli di avere più case e più automobili, e un progetto di città diverso. Un’operazione non utopistica, come non è utopistico rovesciare un guanto. Un’operazione che è stata tentata in più occasioni. Io stesso, ho partecipato a tentativi interessanti ( a Carpi, a Imola, a Sesto Fiorentino) che brevemente riassumerò precisandone l’intenzione, gli obiettivi e il progetto che ne risulta.

L'intenzione è quella di rovesciare modo tradizionale di considerare la città: di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi della ricreazione e della ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al “consumo comune” (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).

L'obiettivo, di conseguenza, è quello di costruire un "sistema" formato dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali, culturali collegandole fra loro sia attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale protetto più filari di alberi) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.

Nelle città grandi e medie la formazione di un piano regolatore o di un piano particolareggiato sono l’occasione giusta per cominciare la costruzione di un sistema di spazi ispirati a questa intenzione e a questo obiettivo. Ma la rivendicazione di un uso diverso degli spazi comuni può essere un tema ricorrente per dare ai bambini le chiavi della città. Non c’è borgo, non c’è paese nel quale non vi siano germi o possibilità di luoghi per la comunità. Non c’è borgo e non c’è paese nel quale non si possano strappare alle automobili spazi per incontrarsi, per stare insieme, per giocare insieme e imparare insieme gli uni dagli altri, per organizzare meglio la propria vita sociale.

Centrare l’attenzione sull’uso degli spazi pubblici, sulla loro qualità, sicurezza, accessibilità, vitalità e vivibilità non è cosa che sia utile solo ai bambini. E’ un contributo generale a costruire una città migliore e, attraverso essa, una società migliore.

Sono convinto che la città può essere ricondotta a essere l’ambiente favorevole alla vita dell’uomo se gli uomini saranno capaci di restituirle, anche nelle cose, la sua natura originaria di “casa della società”: di luogo (o insieme di luoghi) la cui forma e la cui funzione siano complessivamente al servizio di quelle esigenze che l’uomo, maschio o femmina che sia, non è capace di soddisfare da solo, ma riesce a soddisfare efficacemente, economicamente, durevolmente, solo se insieme agli altri e per tutti.

La città nel suo insieme e le sue parti vitali devono quindi essere visti, sentiti e organizzati come “beni comuni”. Beni quindi, e non merci: prodotti e servizi che valgono di per sé, non in quanto possono essere scambiati con altri o con la moneta. Comuni quindi, e non individuali: elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.

Il primo passaggio operativo che, secondo logica, discende da questa asserzione è che la disponibilità del suolo sul quale la città è costruita appartenga alla collettività, attraverso le istituzioni che la esprimono. Non necessariamente nel senso che divenga pubblica la proprietà del suolo, ma nel senso che la collettività sia padrona delle decisioni su ciascuna delle trasformazioni che concorrono a fare della città uno strumento utile alla società, e dei valori, anche economici, che dalle scelte e dalle opere della collettività derivano.

Il secondo passaggio operativo è che le trasformazioni della città (la sua espansione, il completamento, il restauro, il rinnovo, la ristrutturazione delle sue parti, l’integrazione e il rifacimento dei suoi elementi, l’introduzione delle innovazioni tecnologiche e così via) avvengano nel rispetto del carattere sistemico della città, della sua natura di organismo, di insieme di parti tra loro legate in modo che le modifiche di ciascuna di esse influisce sul funzionamento di ciascuna delle altre.

“Il tutto è più importante delle sue parti”: questa frase rappresenta con efficacia la città, la visione olistica che è necessaria per comprenderla e per governare le sue trasformazioni. Ma essa ci rinvia anche a un altro e più vasto “tutto”.

La città è parte del territorio, delle nostre regioni e continenti e del nostro pianeta. La città è una parte della crosta terrestre. E’ quella parte nella quale più intense sono, a un tempo, l’accumulazione di cultura e la dissipazione di energia. La città è il luogo dove sono massimi la creatività dell’uomo e la sua capacità distruttiva. La città, quindi, è anche il luogo dove al massimo possibile la creatività dell’uomo, e la sua capacità di inventare l’ambiente della propria vita, devono essere impiegate per recuperare un equilibrio con la natura.

La natura è qualcosa che la cultura e il lavoro dell’uomo sono deputati a utilizzare e a trasformare. Ma si tratta di utilizzare e trasformare risorse che sono finite, e che spesso non sono riproducibili. Anche di questo la progettazione della città e del territorio devono farsi carico. Accennare al come farlo richiederebbe un tempo altrettanto lungo di quello di cui ho finora approfittato. Mi limiterà a dire – poiché parliamo di bambini e di ragazzi – che aiutar loro a comprendere che città e ambiente, natura e storia, urbanistica ed ecologia, sono capitoli della stessa vicenda e strumenti della stessa azione è essenziale perché la loro partecipazione alla società e alle sue decisioni sia illuminata, la loro salute materiale e morale migliore, la rivendicazione dei loro diritti consapevole e determinata.

[1] Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Corte del Fontego Editore, Venezia 2006, p. 35-36

La legge Lupi: che cos’è, che cosa fare dopo

Organizzato dalla Seconda Facoltà di architettura del Politecnico di Torino e da Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, il convegno si è svolto alla Sala Zodiaco del Castello del Valentino. Hanno aperto i lavori Roberto Gambino(vicepreside della Facoltà) e Vanda Bonardo (presidente di Legambiente Piemonte). Hanno presentato il libro Flavia Bianchi (responsabile del settore territorio di Legambiente Piemonte) ed Edoardo Salzano con l’intervento che segue. In calce una sintesi del dibattito, nel quale sono intervenuti Roberto Gambino, Raffaele Radicioni e Claudio Malacrino (urbanisti), Maria Teresa Roli (presidente di Italia Nostra), i docenti del Politecnico Giovanni Maria Lupo, Silvia Saccomani, Castanza Roggero.

Parliamo oggi di quella legge, dal titolo “Principi per in materia di governo del territorio”, che la Camera dei deputati ha approvato il 28 giugno 2005. Quella “legge Lupi” che aspetta, nelle stanze di Palazzo Madama, che la fine della legislatura le assegni uno dei due destini possibili: che la getti nell’archivio delle intenzioni rimaste tali, oppure, come ancora è possibile, che qualche furbacchione, con uno svelto colpo di mano la porti all’approvazione.

Che la legge Lupi venga sepolto in quell’archivio nel quale giacciono prodotti molto più nobili non è solo una speranza mia, ma – credo – è l’auspicio di molti di quelli che hanno compreso di che cosa si tratti. Alcuni di questi (Roberto Camagni, Vezio De Lucia, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Luigi Scano, Paolo Urbani, Antonio di Gennaro, Luca De Lucia), preoccupati come me del silenzio che circondava questa legge, si sono impegnati a mettere insieme alcuni scritti di critica che erano apparsi in varie sedi, e che erano quasi tutti raccolti nel sito eddyburg.it. Così, grazie soprattutto a Maria Cristina Gibelli, che ha lanciato la proposta e ha curato il libro, e all’editore Alinea, che lo ha tempestivamente allestito, è nato questo piccolo lavoro che oggi presentiamo.

I contenuti della Legge Lupi

Inizio con l’esaminare alcuni punti della versione della legge Lupi che ha ottenuto il via libera dalla Camera dei deputati. La Legge Lupi in pelle d’agnello, come l’ho ribattezzata su eddyburg.it dopo le modifiche introdotte nell’aula del Parlamento. Se queste infatti hanno in qualche punto addolcito il linguaggio, non hanno minimamente intaccato il carattere generale della legge: una legge che privatizza l’urbanistica. Come ha sottolineato Flavia Bianchi, in essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contenere: quelli della proprietà immobiliare.

Voglio sottolineare che il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contenere e condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto).

Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge.

La norma chiave è l’articolo 5, comma 4:

“Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”.

Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.

Del resto, il rinvio al’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso agli onorevoli Iannuzzi, Realacci, Mantini, Sandri, Vigni, Chianale, Lion, firmatari della coraggiosa proposta di sostituzione di cui sopra, è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.

Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miopi per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio.

Nel sistema “innovativo” e “moderno” le scelte sono concordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7). Se riflettete su ciò che sta avvenendo a Milano sulla base degli “obiettivi strategici” potete farvene un’idea.

Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo un vero “pasticcio di legge”.

Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili?

Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane?

Dell’articolo 5 ho già detto: esso è il centro dell’edificio.

L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Soffoca il ruolo delle province, rendendolo facoltativo. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendo la sostenibilità al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni: in cui il termine “sostenibile” è diventato sinonimo di “sopportabile”. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale (chi vuol capire come, legga gli scritti di di Gennaro e Scano in proposito). Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali: devono limitarsi a recepire le tutele della pianificazione sovraordinata.

L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”.

Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio del nuovo PRG di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).

L’articolo 8 (già ne ho commentato un aspetto) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari.

Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!).

Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”! Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.

Concludo questa rapida analisi con qualche ulteriore perla.

L’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura).

E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere “l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari).

E infine l’articolo 13, ultimo comma:

“Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”.

Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. Per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico si sostituisce, al “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso” (fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica).

Con buona pace di quanti sostengono che l’opposizione, in Parlamento, avrebbe fatto un ottimo lavoro e corretto positivamente il precedente testo cucinato dall’onorevole Lupi (amorevolmente assistito dall’onorevole Mantini), è opportuno precisare che quest’ultimo comma è stato aggiunto nel dibattito in Aula. Non solo: le “opposizioni” si sono astenute!

Una ideologia “bipartisan”?

Non è ancora legge ma – come diceva Flavia Bianchi nel suo intervento - la ideologia della Legge Lupi ha già lavorato nell’urbanistica italiana.

La legge Lupi non nasce come il parto di una volontà appena maggioritaria, che col suo 51% schiaccia un’altra volontà, fortemente ostile e portatrice di un disegno radicalmente diverso. Non è così. La legge Lupi esprime convinzioni, progetti, interessi, timori, esperienze che pervadono un arco ampio di gruppi e soggetti del mondo della politica, della cultura, dell’amministrazione.

Tracce dei “principi” e delle pratiche che la legge Lupi si propone di generalizzare sono evidenti in molti luoghi: in non poche legislazioni regionali; nelle pratiche di comuni, regioni, province sia al Nord che al Sud del paese; nelle pubblicazioni accademiche e in quelle specialistiche; nelle associazioni di categoria.

Indicative del generale clima “lupesco” mi sembrano due circostanze. La prima: che alcune connotazioni di fondo della legge Lupi fossero già presenti nel disegno di legge presentato da un nutrito gruppo di deputati della Margherita, guidati dall’on. Mantini. La seconda: che l’Istituto nazionale di urbanistica abbia svolto un ruolo di sostegno e di supporto alle impostazioni delle proposte Lupi e Mantini in tutto l’iter legislativo.

Pochi si sono scandalizzati, nell’area politico e culturale del centro-sinistra quando l’on. Mantini ha proclamato che la legge licenziata dalla Camera dei deputati è una legge bipartisan. Oppure quando l’on Lupi ha dichiarato che “il clima di collaborazione con cui il testo è nato pone le basi per andare avanti” al Senato.

Del resto, chi ha seguito le consultazioni della Commissione senatoriale ha potuto constatare che, agli incontri con le associazioni più critiche nei confronti della legge, i rappresentanti del maggior partito d’opposizione erano assenti e che perfino il rappresentante di una regione “rossa” come l’Emilia Romagna ha dato alla legge parere favorevole.

L’ideologia della Legge Lupi

Per concludere, vorrei cercare allora di riassumere gli elementi fondamentali dell’ideologia e della strategia espresse dalla legge Lupi. Elementi di fronte ai quali ci troveremo ancora, nei prossimi mesi e anni.

Si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari.

Si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi e spazi di vita comuni per i cittadini. Gli “standard urbanistici” sono sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”.

Si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio, contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria.

Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del paese, avviate con i condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare.

Ciò che si dovrebbe fare invece

Speriamo che domani si possa cominciare a parlare di “ciò che si dovrebbe fare invece”. Devo dire che – come il libretto testimonia – molti di noi hanno da tempo avanzato proposte positive, anche in occasione della critica alle proposte del governo. Nello stesso libretto le troverete, per esempio, nel testo a mia firma che apre il libro e in quello di Alberto Magnaghi e Anna Marson.

Esse si basano tutte su una convinzione e una consapevolezza.

La convinzione che – come scrivono Magnaghi e Marson – il principio basilare da affermare è “la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come bene comune [non alienabile senza il consenso della comunità], essenziale per il benessere delle comunità su di esso insediate”.

La consapevolezza – per adoperare le parole di Roberto Camagni – che ”il territorio come bene collettivo non viene adeguatamente garantito dal puro operare dei rapporti di mercato”, e “richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa”.

Il dibattito

Tutti gli interventi nel dibattito hanno condiviso le critiche alle legge Lupi, argomentato nelle due relazioni introduttive. Così sono stati condivisi gli indirizzi propositivi cui Salzano ha accennato, sebbene occorra (Radicioni) insistere con maggior forza sulla necessità di un controllo pubblico sulla formazione, trasformazione e distribuzione della rebdita, che costituisce il nodo rale della questione.

La maggior parte degli interventi (Bianchi, Radicioni, Gambino, Malacrino, Lupo, Roli) ha sottolineato, anche raccontando numerosi esempi di malgoverno del territorio in Piemonte, come la Legge Lupi si proponga di generalizzare una cultura che si è diffusa nel paese da tempo: a far data (precisa Malacrino) dagli anni Novanta, quando, a partire dalla legge Botta-Ferrarini, si è reintrodotto il rapporto diretto tra Stato e comuni, sono proliferati i “programmi complessi” in deroga alla pianificazione ordinaria, e alcune parole magiche (sussidiarietà, concertazione), spostate dal loro contesto, sono diventate grimaldelli per trasferire il potere alle immobiliari.

Il PRG (osserva Roli) viene considerato da molti sindaci un insieme di regole di cui occorre sbarazzarsi per avere le mani libere, ciò che i “programmi complessi” hanno aiutato a fare. Invece le regole sono indispensabili perchè consentono a tutti di interagire con le decisioni avendo un insieme certo di riferimenti.

Alla corruzione del sistema della pianificazione ha contribuito l’enfasi posta sulle grandi opere (Gambino, Lupo), e la vicenda del PRG di Torino, di cui oggi si possono verificare gli effetti, testimonia esemplarmente che il danno maggiore è venuto prima della proposta legislativa (Lupo).

L’Università non ha svolto un ruolo sufficiente: essa dovrebbe fare più leva sull’interrelazione tra le diverse discipline e sull’attenzione al concreto processo di trasformazione del territorio, che deve partire dalla consapevolezza degli elementi di storicità (Roggero).

La critica alla Legge Lupi (hanno osservato Gambino e Saccomani) non deve indurre ad esprimere una rozzezza parallela a quelle del legislatore, sforzandosi di cogliere sempre la compessità del reale e la parziale verità che in talune formulazioni della legge può nascondersi. Occorre però (questa convinzione è stata ribadita da tutti) che la legge con passi a nessun costo.

Eddyburg

Un’iniziativa cominciata per caso ha raccolto un’adesione inaspettata.

Perchè? Non tanto la qualità del prodotto, il sito eddyburg.it. E neppure tanto per la mancanza di altri prodotti analoghi.

Ciò che ha reso eddyburg.it un sito popolare è la diffusa sensazione di crisi del nostro mestiere.

Il quadro

L’urbanistica è sempre stata un mestiere legato al tentativo di far assumere un ruolo adeguato ai beni, i valori, gli interessi comuni. Oggi l’individualismo ha vinto, prevale e domina in tutti i campi

L’urbanistica è un mestiere che ha sempre avuto un legame essenziale e costitutivo con la politica, intesa come governo della società in nome di interessi generali. Oggi la politica, la politica in questo senso, non c’è più.

L’urbanistica è un mestiere che lavora per il futuro, perchè le trasformazioni del territorio, che l’urbanistica vuole progettare e governare, sono durevoli e richiedono impegni di lungo periodo. Oggi la miopia è diventata la forma unica della visione di chi comanda.

L’urbanistica è un mestiere che ha sempre visto la rendita (in particolare quella urbana) come l’ostacolo più grande alla costruzione di una città e un territorio caratterizzai da equità, funzionalità, bellezza. Oggi la rendita immobiliare è diventata la categoria economica dominante.

Perchè questa scuola

Per sopravvivere in questo quadro l’urbanistica deve porsi nettamente controcorrente: deve essere alternativa rispetto alla tendenza dominante.

Ricordiamo Italo Calvino:

“L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Con la scuola di eddyburg ci proponiamo di raccogliere quelli che vogliono resistere e dare spazio al “non inferno”.

Ci proponiamo di dar loro gli strumenti per lavorare:

- strumenti di conoscenza e d’azione,

- strumenti del nostro mestiere, ma non strumenti neutrali,

- strumenti tecnici, ma finalizzati ad un ideale.

Il tema del corso: il consumo di suolo

Abbiamo scelto quest’anno un tema concreto, un tema d’azione possibile, attorno al quale molti altri si annodano e che esamineremo da molteplici punti di vista: il consumo di suolo

E’ un prodotto vistoso delle ombre del quadro cui ho accennato.

E’ una questione centrale non solo in Italia e non solo in Europa.

E’ un modo di governare il territorio che comporta

- perdita di qualità naturali, storiche, culturali,

- perdita di valori identitari essenziali per le civiltà del mondo,

- perdita di risorse per il futuro dell’umanità

Eppure, il consumo di suolo si può combatterlo, altri lo fanno, vedremo come.

La legge Lupi

Insieme al consumo di suolo, parleremo anche della minaccia più immediata: della legge Lupi.

Una legge che non ci preoccupa tanto di per sè; che questa destra italiana faccia orribili leggi non ci meraviglia più,

e neppure pensiamo che un testo così scollacciato e informe possa venire approvato,

ma ci preoccupa perchè

il sostanziale consenso politico con cui la legge è maturata,

e il silenzio dell’opinione pubblica,

ci fanno temere che quella ignobile legge esprime una tendenza che è maggioritaria.

Alla fine del corso

ragioneremo insieme sul che fare dopo questa prima occasione d’incontro:

- che fare in generale, per l’urbanistica inn Italia,

- che fare per proseguire questa esperienza (se ci avrà soddisfatti),

- che fare per migliorare eddyburg.it

1.

Strano paese l’Italia. Ogni volta che si va all’estero, negli altri paesi d’Europa, ci si meraviglia di come stiano attenti a custodire la natura, a conservare il paesaggio, a aggiungere qualità al territorio. Fenomeni come il consumo di suolo, che da noi investono ogni anno migliaia e migliaia di ettari, vengono combattuti da decenni in Gran Bretagna, in Germania, Iin Francia e nei Paesi bassi. Nel progettare le strade si segue il più possibile l’andamento del terreno e si allontanano i cartelloni pubblicitari da tutte le visuali di un certo interesse. Da noi il territorio è considerato poco più d’una pattumiera.

Eppure, in questa situazione che indigna molti c’è qualcosa che si è salvato, e ancora si salva, meglio che altrove. Dirò qualcosa che farà forse stupire qualche mio collega, ma io credo di non sbagliare se dico che in Italia siamo all’avanguardia per quanto riguarda i nostri centri storici. Non c’è forse la cura minuziosa e quotidiana che in Austria e in Germania si pone alla conservazione dei piccoli centri tradizionali, e in Gran Bretagna e in Francia alla tutela dei monumenti più rilevanti e celebri, ma la sostanza dei nostri centri storici ne fa, ancora oggi, dei meglio conservati e dei più vivibili d’Europa.

Credo che questo dipenda dal fatto che, in Italia, si sono comprese prima che altrove tre verità importanti:

1.che ciò che ha valore e merita di essere conservato della nostra storia non sono soltanto i monumenti, le costruzioni eccezionali e “artistiche”, ma le città storiche nel loro insieme: che esse sono un valore perché testimoniano modi di vivere e di abitare nei quali tra le cose e l’uomo c’è equilibrio, formano nel loro insieme ambienti vivibili che la cultura e la tecnica moderne riescono raramente a eguagliare.

2. che la bellezza e l’utilità dei centri storici non è costituita soltanto dalle pietre che li formano, dai materiali e dalle forme degli edifici e degli spazi aperti che li organizzano, ma anche dalla società che li vive: dagli uomini e le donne, dai bambini e dai vecchi, dai lavoratori nei diversi mestieri, dai residenti stabili e dai viandanti e visitatori che vi arrivano.

3.che i centri storici non vivono separati dal territorio che li circonda, ma devono saper ricostituire con questo (con i nuovi quartieri e con gli altri centri antichi e nuovi, con i nuovi luoghi di produzione e con le vie di comunicazione, con le campagne e i paesaggi aperti) un rapporto efficace: se non si progetta l’insieme del territorio, anche i centri sstorici decadono.

2.

Un momento significativo della comprensione di queste verità è costituita da un documento, approvato nel 1960 in un convegno di studiosi e di amministrazioni comunali particolarmente consapevoli: c’erano Ascoli Piceno ed Erice, Bergamo e Ferrara, Genova e Perugia, Venezia e Gubbio. Mi riferisco alla cosiddetta Carta di Gubbio, nella quale si delineano alcuni essenziali principi, a mio parere ancora oggi in gran parte validi:

Era una fase particolarmente significativa della nostra storia. Nel dopoguerra si era costruito per ogni dove. L’esigenza di una ricostruzione rapida di tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra prevalse, in Italia, su ogni altra esigenza e attenzione. Alla fine degli anni 50 si cominciavano a vedere i danni di un’edificazione senza scrupoli. Si cominciava a sentire come un delitto la devastazione dei vecchi centri e quartieri con edifici moderni. Furono gli anni in cui l’esigenza di una profonda riforma urbanistica diventò un grande tema politico e culturale. Bisognava salvare qualità preziose che minacciavano di scomparire. Ecco perciò l’impegno della cultura e dell’amministrazione più avveduta per correre ai ripari.

Di fronte agli scempi che si perpretavano la Carta di Gubbio pone in primo piano la salvaguardia:

“Si invoca una immediata disposizione di vincolo di salvaguardia, atto ad efficacemente sospendere qualsiasi intervento, anche di modesta entità, in tutti i Centri Storici, dotati o nodi Piano Regolatore, prima che i relativi piani di risanamento conservativo siano stati formulati e resi operanti”

Salvaguardia rigorosa, in attesa di compiuti atti di pianificazioni, basati su un accurato studio dei centri storici, finalizzati alla conservazione di tutti gli elementi e le regole che ne determinano la qualità. Pianificazione coordinata con quella dell’intero territorio comunale: la tutela e il risanamento

“come premessa allo stesso sviluppo della città moderna e quindi la necessità che esse facciano parte dei piani regolatori comunali, come una delle fasi essenziali nella programmazione della loro attuazione”.

Ma non basta il risanamento fisico:

“nei progetti di risanamento una particolare cura deve essere posta nell’iindividuazione della struttura sociale che caratterizza i quartieri e che, tenuto conto delle necessarie operazioni di sfollamento dei vani sovraffollati, sia garantito agli abitanti di ogni compatto il diritto di optare per la rioccupazione delle abitazioni e delle botteghe risanate, dopo un periodo di alloggiamento temporaneo, al quale dovranno provvedere gli Enti per l’edilizia sovvenzionata; in particolare dovranno essere rispettati, per quanto possibile, i contratti di locazione, le licenze commerciali ed artigianali ecc., preesistenti all’operazione di risanamento”.

Possiamo dire che da allora, in Italia, la buona cultura urbanistica e e la buona amministrazione hanno sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Riassumo brevemente le ragioni della qualità del patrimonio costituito dagli insediamenti storici:

1.Sono testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio.

2.Sono il prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne.

3.Sono elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.

3.

I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare

- Edoardo Detti e alla sua difesa del centro storico e delle colline di Firenze.

- La difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti.

- Il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo.

- L’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto del centro storico e delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.

- Il piano del centro storico di Bologna, con il quale Pierluigi Cervellati introdusse per la prima volta nella pianificazione di un centro storico l’attenzione, e soprattutto la pratica, della difesa degli abitanti attraverso l’impiego – in un centro storico accuratamente pianificato con l’impiego dell’analisti tipologica – della programmazione dell’edilizia abitativa pubblica.

È all’inizio degli anni 70, del resto, che anche qui ad Asolo ci fu una coraggiosa battaglia e una coraggiosa scelta, grazie alla quale abbiamo ancora un centro storico intatto e bellissimo, ancora vivo e vitale, nonostante i suoi problemi. Mi riferisco alla scelta di evitare – con il PRG del 1973 - di manomettere con nuove pesanti costruzioni e con l’espansione dalla collina verso la piana il delicato assetto di uno dei più bei centri collinari.

4.

Riprendiamo il nostro ragionamento e veniamo all’oggi. Ogni centro storico ha una duplice caratteristica, una duplice funzione, e pone quindi una duplice serie d'esigenze, le quali sono due facce d'una medesima medaglia.

Da un lato, vi è il ruolo e il valore che deriva ai centri antichi dalla loro storicità: dal fato cioè che in essi si è verificata, nel corso dei secoli, una intensa accumulazione di valori, la quale fa oggi dei centri storici un patrimonio di grandissima rilevanza.

Dall'altro lato, vi è il ruolo che deriva dal fatto che nei centri storici si deve vivere, si deve lavorare, si deve abitare: che perciò essi devono essere comunque porzioni vive, attive, dinamiche degli organismi urbani e territoriali di cui sono parte.

I due aspetti sono strettamente intrecciati, e si sostengono anzi l'uno con l'altro. Infatti, mentre è ormai chiaro che i centri storici non trovano la ragione della loro bellezza solo nelle pietre e negli intonaci da cui sono costituiti, ma anche (e in modo essenziale) nella vita che in essi si svolge, è chiaro che solo nella misura in cui diverranno un patrimonio effettivamente considerato come tale - e perciò attivamente tutelato, messo in valore, concretamente utilizzato dalla collettività nazionale - i centri storici potranno diventare ancora una volta luoghi realmente vitali, sedi di attività non lesive dell'assetto formale che il trascorrer dei secoli e l'accumularsi del lavoro umano ha conferito a essi, ma capaci invece di integrarsi fecondamente con gli antichi valori.

Si apre a questo punto un problema di notevole rilevanza metodologica, al quale mi limiterò ad accennare. Tutelare in modo effettivo i centri storici significa, per quel che s'è detto, trovare un rapporto equilibrato e organico tra “strutture vitali” e “strutture formali”; significa in altri termini individuare, tra i “tipi organizzativi”, le attivita, le specifiche forme della vita produttiva presenti nella nostra epoca, quali siano quelli che possono non solo non risultar dannose all'assetto formale dei centri storici, ma anzi costituirne il contenuto organico e omogeneo, e perciò ravvivarlo e conferirgli nuova forza.

Questo è il tema che è di fronte a noi. Come fare della tutela, della conservazione, del risanamento e restauro, non qualcosa che sia fine a se stesso, ma la premessa e l’occasione per ripristinare una nuova vivibilità e vitalità del centro storico.

5.

A questo punto dobbiamo rilevare che nel nostro paese – a differenza degli altri paesi dell’Europa – se la politica della conservazione sembra abbastanza saldamente presente, manca assolutamente una politica che si faccia carico dei problemi concreti dell’assetto economico e sociale dei nostri territori, in particolare di quelli più delicati e preziosi.

Non mancano le spinte e le sollecitazioni economiche sul territorio e sulle città. Ma sono spinte e sollecitazioni di un’economia malata: un’economia che bada più all’appropriazione dei beni comuni e alla loro trasformazione in merci, che punta più alla rendita parassitaria che al profitto d’impresa, che divora il patrimonio storico anziché investire nel futuro, che riempie disordinatamente il territorio di edificazioni che spesso servono solo a chi le costruisce.

Ma non ci sono risorse per affrontare problemi per i quali in altri paesi di destinano investimenti importanti. Non ci sono risorse per un’edilizia abitativa a prezzi ragionevoli. Non ci sono risorse per aiutare i comuni a dotare le città e i paesi delle attrezzature necessarie per la vita civile. Non ci sono risorse per contribuire a restaurare e riqualificare patrimoni comuni importanti per il presente e il futuro, come appunto l’edilizia storica. Non ci sono leve per incentivare le utilizzazioni virtuose, socialmente e culturalmente utili, degli spazi per l’artigianato di qualità, il piccolo commercio vitale per i centri urbani, un’agricoltura radicata nelle specificità dei territori.

E invece, cresce a dismisura la ricchezza di chi sui beni comuni, sul territorio e sulla città, specula in modo sempre più smaccato. Non so quanti di voi hanno visto domenica scorsa il programma di Report dedicato all’urbanistica romana. Avete sentito grandi imprenditori confessare candidamente che, grazie alle scelte di una pianificazione compiacente con il loro interessi, il valore di aree acquisite pochi anni fa è aumentato di cinque e dieci volte.

In altri paesi dell’Europa, di cui pure facciamo parte, la pianificazione pubblica anticipa e guida le scelte degli investitori immobiliari. E sulle operazioni di trasformazione immobiliare l’incremento della ricchezza privata dovuto alle scelte della collettività ritorna in misura molto larga nelle casse pubbliche, per essere spese negli interventi utili per l’intera comunità. Da noi succede il contrario: con i nostri soldi, con le tasse, paghiamo i guasti, i disagi, le congestioni, i malfunzionamenti che un uso dissennato del territorio provoca alle nostre vite.

6.

Gli approdi della cultura urbanistica più avanzata si sono per lo più tradotti in strumenti e iniziative di salvaguardia, ma queste non sono sufficienti per tutelare con efficacia i centri storici e i loro paesaggi..

La pianificazione urbanistica ha contribuito alla tutela dei centri storici, scongiurando pesanti manomissioni e indirizzando l’attività edilizia verso il restauro e il recupero del patrimonio edilizio esistente. E questo benché i centri storici non siano riconosciuti né tutelati in modo specifico dalle leggi nazionali in materia di tutela del paesaggio e dei beni culturali, e sono disciplinati in modo fortemente disomogeneo dalle leggi urbanistiche regionali.

Ma risultati del tutto insoddisfacenti sono stati raggiunti con riferimento al secondo ruolo dei centri storici, quella di luogo privilegiato per vivere, lavorare e incontrarsi. Ai problemi legati allo spopolamento, alla terziarizzazione, alla degradazione collegata al turismo di massa, alla chiusura di servizi e attività commerciali di base, non sono state fornite risposte compiute, né sotto il profilo legislativo, né all’interno delle elaborazioni tecniche e culturali degli urbanisti.

Così come per la città nel suo complesso, la domanda di pianificazione si è ampliata negli anni, senza trovare adeguate risposte nella strumentazione ordinaria. Come ci si attrezza per facilitare la vita nelle città, e quindi nel centro storico? Quali attività sono da favorire e quali da escludere, in periferia e nel centro? Le politiche per la casa, i trasporti, i servizi ambientali, i servizi sociali, gli spazi pubblici devono trovare una declinazione specifica quando riguardano i centri storici? e fino a che punto sono influenzate dalle decisioni che riguardano le periferie o i territori circostanti?

Per Asolo, ci siamo sforzati – insieme all’amministrazione e ai numerosi cittadini che siamo riusciti a coinvolgere nel nostro lavoro – di fornire alcune risposte, sulle quali ragioneremo nel pomeriggio. E certo che localmente molto si è fatto, soprattutto negli ultimi anni, e molto si può ancora fare. Un grande rulo spetta ai comuni. È certo difficile, significa navigare controcorrente. Ma è ciò che feca a Gubbio, nel 1960, un gruppo di comuni animosi che sapevano guardare lontano.

Siamo convinti che il problema di Asolo sia parte di un problema molto più generale, che non riguarda solo gli asolani ma l’intera comunità nazionale, e di cui la comunità nazionale deve prendere consapevolezza. Bisogna che l’Italia decida se vuole davvero vedere e vivere nel suo patrimonio storico come qualcosa che essa possiede più d’ogni altra nazione, qualcosa che costituisce la ragione del suo prestigio nel mondo, qualcosa che nessuna concorrenza della Cina o della Malaysia può toglierle, perché è unico e serve per tutto il mondo di oggi e di domani. A condizione non solo che questo patrimonio venga amorevolmente conservato, ma che si investa in esso perché possa essere adoperato nel pieno delle sue possibilità, con l’impegno di quelle risorse finanziarie, amministrative, legislative che in altri paesi vengono largamente desinati ai beni comuni, e che da noi vengono invece troppo spesso dilapidati in opere inutili e inutilmente costose.


Intervento di Edoardo Salzano

Una legge può essere valutata in se, nelle parole del suo testo. È una lettura del tutt legittima, ed è quella con la quale, con grande chiarezza. Marco Cammelli ha aperto il convegno. Forse perché il mio mestiere è fare l’urbanista, sono abituato invece ad analizzare e a valutare le leggi nel contesto – storico, culturale, sociale, politico – nel quale sono formate e agiscono. Garzilli ha svelato stamattina una porzione del contesto. Al contesto si riferirà l’insieme del mio intervento: un contesto, voglio sottolinearlo, non emiliano-romagnolo, ma italiano, dell’Italia nel suo complesso.

Prima di affrontare il tema del paesaggio vorrei brevemente inquadrare la questione sottolineando alcuni principi cardine che caratterizzano storicamente l’impostazione italiana dell’azione di tutela del patrimonio comune che è costituita dai beni culturali, di cui il paesaggio è parte rilevante.

Il principio dell’inalienabilità. Vorrei ricordare, sia pure per incidens, le origini molto antiche di questo principio, affermato per la prima volta dal soprintendente alle antichità di Roma Raffaello Sanzio, nel 1517 (V. Emiliani, 2004)

Vorrei ricordare come questo principio, più volte ripreso nei secoli successivi, sia stato ribadito nella prima legge organica dello Stato italiano sull’argomento (1909), in cui si proclama l’assoluta inalienabilità dei beni culturali.

Credo che si possa dire che la premessa della “linea italiana” sui beni culturali è insomma la statuizione della sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica.

Un secondo principio cardine mi sembra che sia costituito dalla consapevolezza della rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale.

Questo principio è stato portato a piena dignità d’espressione e di norma da Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti (1922): il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo".

Esso è stato ripreso dall’articolo 9 Cost: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Entrambi questi principi mi sembrano messi in crisi dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Questa valutazione, che condivido, era affermata per esempio con grande forza nell’intervento di stamattina di Andrea Emiliani.

Contraddetto è, di fatto, anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio; un principio che non a caso è stato posto – come ho appena ricordato - tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale. Su questo aspetto tornerò fra breve. Voglio però domandarmi prima: perché questo capovolgimento?

La premessa è, a mio parere, nell’introduzione tra gli idola tribus di questi decenni di alcune nuove priorità: privato è meglio di pubblico, mercato è meglio di Stato, individuale è meglio di collettivo. Idola che non hanno prevalso solo nelle tribus di destra. Su questi nuovi idola è intervenuto con molta efficacia Trimarchi, stamattina, quando ha osservato che la tesi corrente è che lo Stato non è capace di tutelare il nostro patrimonio, e quindi si aspetta il privato risolutore come nei film western si aspetta il Settimo cavalleggeri.

In questo quadro, mi sembra che abbia avuto un ruolo rilevante, e che costituisce un rivelatore efficace, il largissimo impiego del termine valorizzazione.

È un termine che non c’è nell’articolo 9 della Costituzione (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). È un termine che compare nell’articolo 117 novellato il quale, come tutti sappiamo, colloca la “ tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” , tra le materie di esclusiva competenza statale, e la “ valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, tra le materie di competenza concorrente.

È un termine a proposito del quale ho molto apprezzato le cose che ci ha detto stamattina Vanelli, dello sforzo di suerare la dicotomia tra valorizzazione e tutela riconducendo ciascuno dei due termini all’altro, come ho apprezzato l’angolazione economica intelligente sotto cui ci ha presentato il termine Trimarchi. Vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, che si riferisce alle categorie economiche che mi sono consuete.

Mi avevano insegnato che ci sono due forme del valore: il valor d’uso e quello di scambio. Il primo riferito agli oggetti come beni, il secondo agli oggetti come merci. A quale delle due forme di riferisce la valorizzazione della quale si parla oggi? Se si tratta del valor d’uso, allora mi sembra che coincida senza residui con tutela. Se invece si riferisce al valore di scambio, allora coincide con una visione economicistica, commercialistica, mercantilistica.

È certamente quest’ultima l’interpretazione che rinvia il contesto culturale e politico: È questa che è coerente con la logica della separazione, e con il trend culturale, iniziato con la proposta Craxi-De Michelis dei giacimenti culturali

La separazione significa: tutela l’oggetto come bene, valorizzazione l’oggetto come merce. Ma affidare la tutela allo stato, la valorizzazione sostanzialmente alla regione, significa allora introdurre una dialettica rischiosa. Impone comunque di porre su un piano di co-decisione (di condominio del potere) stato e regione. Una ragione forte a favore di un ruolo forte dei potere specialistici dello stato: ragione che, come vedremo, è negata e capovolta dal nuovo Codice.

Un ulteriore principio cardine dell’impostazione italiana dei beni culturale mi sembra sia costituito dal legame tra il bene culturale e il contesto. Questo principio è implicito nelle prime affermazioni dell’l’inalienabilità come divieto di estrarre dal contesto (ordinanze che si ritrovano già nella seconda metà del XVI secolo). Esso trova del resto la sua radice in quella straordinaria densità dei beni culturali nel contesto territoriale italianoi, come ci ricordava or ora Bruno Toscano: nel fatto che il nostro territorio è intriso di beni culturali, che non sono da esso distinguibili.

È da questo nucleo, mi sembra, che si sviluppa l’attenzione al paesaggio: ricordiamo il Ministro Benedetto Croce, ricordiamo Giulio Carlo Argan (il paesaggio come palinsesto nel quale possiamo leggere secoli di storia)

Il principio della rilevanza cuturale del paesaggio e dell’esigenza della sua tutela da parte dello Stato ha una prima statuizione compiuta nell’introduzione dei piani paesistici nella legge Bottai (1939), coeva della legge urbanistica del 1942. Ma è la legge Galasso (1985) il traguardo più significativo:

- si riprende l’intuizione crociana del paesaggio come espressione dell’identità nazionale,

- si individuano, prescrittivamente i lineamenti del paesaggio nazionale, la sua grande orditura e si vincolano (con vincolo solo procedimentale) i suoi elementi caratterizzanti,

- si amplia e si precisa lo strumento della pianificazione territoriale e urbanistica come strumento principe per la tutela del paesaggio (del contesto), passando da una visione settoriale del paesaggio a una visione tendenzialmente integrata con la pianificazione ordinaria: una anticipazione delle novità della convenzio ne europea del paesaggio, che Poli ci ricordava or ora;

- si definisce un sistema equilibrato competenze (e i doveri) dei poteri centrali e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.

Il nuovo Codice mantiene l’insieme del sistema Galasso, apportando utili integrazioni per quanto riguarda:

- il contenuto della pianificazione, secondo una linea che a me sembra convincente;

- la precettività delle determinazioni del piano paesaggistico;

- l’attività della ricognizione, del riconoscimento, dell’individuazione come fondamento della tutela, coe ci illustrava efficacemente Vanelli stamattina..

Il nuovo Codice rompe però drasticamente l’equilibrio tra potere centrale e potere regionale, eliminando il potere d’annullamento degli interventi contrastanti con le finalità della tutela e sostituendolo con l’espressione di un parere non vincolante delle sovrintendenze. In questo senso le critiche al Codice (ad esempio quelle che abbiamo sentito nell’intervento di Lo savio) mi sembrano motivate e giuste, e sottolineano anche in questo capitolo la linea generale di spoliazione dei poteri della nazione in quanto tale, che pervade tutta l’impostazione di questa legge, e di questa legislatura.

Credo che sia utile, e in questa sede necessario, passare dalla critica alla proposta.

Occorre domandarsi insomma che cosa fare, nel campo della tutela del paesaggio, per riprendere un cammino in avanti, che non sia di semplice resistenza ma che indichi prospettive positive: sia come preparazione di nuove regole (a livello nazionale e a livello regionale e subregionale) sia come azioni concrete.

1. A me sembra che sia in primo luogo necessario ribadire il principio di un interesse nazionale nella tutela del paesaggio: È un principio, del resto,dettato dalla Costituzione. È stato annebbiato negli ultimi anni dal cedimento alla demagogia della devoluscion, che si è manifestata già negli ultimi governi di centro sinistra.

Ribadire il principio dell’interesse nazionale del paesaggio non significa negare l’impianto regionalista della nostra Repubblica (prima o seconda che sia), ma significa richiamare l’idea dello Stato come “intero e armonioso complesso delle istituzioni” (V. Emiliani, 2004), e la concezione del paesaggio come elemento fondante dell’identità del tutto nazionale e delle sue singole parti. (Montale, “Il tutto è più importante delle sue parti”)

2. Ritengo che sia da apprezzare e da difendere, nel nuovo Codice, l’aver mantenuto la coerenza dell’impianto della legge Galasso, e in particolare il passaggio dal vincolo (indubbiamente valido come forma transitoria di protezione) alla pianificazione (come metodo e strumento per una considerazione complessiva delle esigenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente e di sintesi con le altre esigenze).

Non concordo perciò con la critica al Codice in merito alla vincolatività perenne dei vincoli ope legis, peraltro meramente procedimentali.

3. Ritengo che sia da ribadire ulteriormente la priorità delle determinazioni relative alla tutela (le invarianti strutturali) rispetto alle esigenze di trasformazione. È una priorità che ha un suo rilevante precedente nella pianificazione paesistica della Regione Emilia-Romagna (1986), e che è stata incorporata nella migliore legislazione regionale (Toscana 1995, Liguria 1997, Emilia-Romagna 2000)

4. Ritengo che il principio dell’interesse nazionale non debba necessariamente manifestarsi nella forma dell’ annullamento (che interviene solo a posteriori, Meandri 2004), e neppure in quello della autorizzazione, ma debba esprimersi sia, nell’immediato, con la vincolatività del parere preventivo, sia e soprattutto con la sempre più larga applicazione di pratiche di co-pianificazione: con la partecipazione paritaria alle scelte della pianificazione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici degli enti che esprimono gli interessi della tutela ai diversi livelli, a partire da quello nazionale.

Un positivo precedente mi sembra del resto costituito dalla norma dell’articolo 57 del DLg n. 112 del 31 marzo 1998[1], che dà alla pianificazione provinciale il valore di pianificazione di tutela di competenza statale “sempreche’ la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”

Vorrei aggiungere due considerazioni che non mi sembrano marginali, benché possano sembrare (e forse siano) delle assolute ovvietà.

La prima. Sono ormai trascorsi vent’anni dall’entrata in vigore della Legge Galasso. Mi sembrerebbe assolutamente indispensabile fare finalmente un’analisi seria del modo in cui essa è stata applicata: sia nelle concrete esperienze di pianificazione e nei loro effetti, sia dei comportamenti amministrativi, sia infine nelle ricadute sulla legislazione regionale.

Risulterebbero molte cose interessanti, alcune delle quali si possono già intuire:

- le enormi differenze tra regione e regione, che porrebbero in evidenza l’assoluta assenza di coordinamenti nazionali o di autocoordinamenti interregionali:

- le notevoli diversità di criteri adottati nelle diverse situazioni, a volte – ma non sempre - motivate da differenze sostanziali delle culture e delle realtà,

- l’inefficacia del sistema sanzionatorio, e quindi la scarsa garanzia fornita dalla potestà di annullamento

- la variegata traduzione (e spesso lo sviluppo) del “sistema Galasso” nelle legislazioni regionali.

La seconda. Se si condividono i punti che ho prima esposto, e in particolare l’esigenza di esprimere l’interesse nazionale nella forma della partecipazione preventiva delle strutture statali alle decisioni della pianificazione, si deve necessariamente convenire sul fatto che l’interesse nazionale non potrà essere tutelato finché l’apparato tecnico-scientifico dello stato sarà nelle tragiche condizioni di scarsità di risorse nelle quali versa, e verso le quali sempre più le sospingono il governo Berlusconi e il Ministro Urbani.

Se nelle preture e nei tribunali mancano cancellieri, attrezzature informatiche, e perfino codici, carta da fotocopie e carta igienica, non credo che le carenze di personale specializzato, di strumenti di lavoro e di materiali da consumo siano minori nelle sovrintendenze. Alle quali, per di più, l’autogoverno proprio del Terzo potere è sostituito da una burocrazia ministeriale la cui prevalenza mi sembra molto accentuata nell’ultima fase.

I sovrintendenti – lo scriveva Losavio nel suo intervento – sono relegati dal nuovo Codice “a un ruolo subalterno di mera consulenza”. Ed è facile immaginare la conseguenza di quella differenza tra il 2° e il 3à comma dell’articolo 115, che ci raccontava stamattina Cammelli: chiediamo all’ente pubblico di essere attrezzato, efficace ed efficiente, dotato degli strumenti e delle competenze adeguate, non lo mettiamo nelle condizioni richieste dal 2° comma, e allora siamo legittimati a dare i beni culturali nelle mani dei privati, cui il 3° comma non chiede nulla di simile. Il gioco è fatto.

[1]“La regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale di cui all'articolo 15 della legge 8 giugno 1990, n. 142, assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreche' la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”.

Un quadro nazionale contraddittorio

Il nuovo PR di Eboli si colloca in una situazione nazionale fortemente contraddittoria. In essa colpiscono in primo luogo gli elementi negativi, alcuni dei quali sono già stati evocati in questo dibattito. Voglio riassumerli in quattro punti.

1. La grande incertezza sull’idea stessa di potere pubblico, sul suo ruolo, la sua forza, la sua necessità: L’interesse comune sembra spingere sempre di più verso la disponibilità del potere pubblico a diventare mero strumento al servizio degli interessi privati. Il documento sull’urbanistica milanese, di cui De Lucia ha parlato, è un caso limite, non certo l’unico.

2. La continua contrapposizione di strumenti speciali, sostanzialmente derogatori, provocati e condizionati dall’emergenza e dall’occasionalità, prodotti e gestiti all’ombra della discrezionalità, agli strumenti della pianificazione, necessariamente, statutariamente governati dalla trasparenza e dalla tensione verso la coerenza.

3. L’utilizzazione dell’accresciuta attenzione dei cittadini per l’ambiente più come stimolo alle esercitazioni retoriche che come presa in carico dell’esigenza di avviare processi di lungo periodo capaci di stabilire nuovi equilibri tra storia e natura, tra uomo e ambiente. Dalla tensione verso il la ristrutturazione ecologica della produzione siamo passati alle ecodomeniche.

4. Quasi come sintesi ed emblema degli elementi negativi del quadro, le mai sopite tensioni verso la promozione dell’abusivismo (Gaia Pallottino ce lo ha appena ricordato) attraverso la riproposizione continua dei condoni, nonché la scarsa attenzione verso gli episodi di deciso contrasto all’abusivismo, che hanno visto Eboli in prima linea.

Un quadro scoraggiante. Ma per fortuna, accanto a questi elementi ve ne sono altri di segno opposti. Deboli, non ancora egemoni, forse addirittura minoritari, che proprio per ciò meritano di essere conosciuti, promossi, valorizzati nei loro elementi positivi più che criticati per gli aspetti insoddisfacenti e per gli errori che inevitabilmente contengono. Mi riferisco a due serie di elementi:

- ad alcune tendenze e iniziative nuove a livello nazionale (e in particolare alla nuova legge urbanistica)

- all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo.

Le legge urbanistica nazionale

Dopo un lungo lavoro dell’VIII Commissione parlamentare della Camera dei deputati, e un lavoro intelligente della sua Presidenza, è stato definito un testo unificato che affronterà nei prossimi mesi le discussioni e decisioni finali. La valutazione complessiva che ne do è positiva: è una proposta che assume, con equilibrio e intelligenza, gli elementi positivi e innovativi emersi dal dibattito e dall’esperienza degli ultimi tre lustri. Mi limito a sottolineare alcuni aspetti essenziali.

Mi limiterò ad annotarne gli aspetti a mio parere più interessanti.

In primo luogo, l’assunzione piena dell’articolazione degli atti di pianificazione in due componenti, quella strutturale e strategica e quella programmatica e operativa, come nuova forma della pianificazione. Una forma che si è cominciato a sperimentare nel PRG del centro storico di Venezia negli anni Ottanta, che è stata proposta da Polis nel convegno sui 50 anni della legge urbanistica tenuto a Venezia nel 1992, che è stata assunta dall’INU nel congresso di Bologna nel 19895, che è stata sperimentata in più d’un PRG e che è sostanzialmente contenuta nelle nuove leggi urbanistiche della Toscana, della Liguria, del Lazio. È un’innovazione decisiva, a mio parere, pere rendere più chiaro e più snello il processo di pianificazione, per semplificarne le procedure, per avviarci verso una “pianificazione continua” delle trasformazioni del territorio, per decentrare le responsabilità di rilevanza locale senza rinunciare al controllo di quelle di carattere più generale.

In secondo luogo, la definizione di rapporti responsabili tra i diversi livelli di governo coinvolti nel processo di pianificazione. Benché non si dia una definizione sufficientemente rigorosa del principio di sussidiarietà, esso è concretamente applicato in modo convincente: non come trasferimento d’ogni potere “verso il basso”, ma come individuazione del livello giusto (cioè efficace ed efficiente) per ogni decisione. La responsabilità degli enti sottordinati viene intesa (come deve essere) in due sensi: essi assumono la competenza a decidere, ma al tempo stesso vengono previste norme suppletive e di salvaguardia nel caso che essi non adempiano in modo adeguato.

In terzo luogo, il modo corretto con il quale si assume e si risolve il tema della “perequazione”: non come riconoscimento generalizzato si un diritto a edificare trasferibile sul territorio, non come “spalmatura” dell’edificabiità, e neppure come alternativa generalizzata all’espropriazione delle aree necessarie per la formazione di spazi pubblici, ma come tecnica di ripartizione di oneri e benefici all’interno delle aree trasformabili, decise come tali dagli strumenti urbanistici. Una generalizzazione, insomma, della procedura già introdotta con i “comparti” dalla legge 1150/1942, estesa alle zone d’espansione dalla legge 765/1967. (Ma devo annotare che rimane aperto un problema di fondo: quello della realizzazione della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”, e della sperequazione tra i proprietari compresi nelle aree urbanizzabili o riurbanizzabili, e gli altri).

Infine, la soluzione equilibrata che si dà alla questione del coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati nel processo di pianificazione. È una questione decisiva: ne ho parlato come uno degli elementi negativi della situazione nella quale viviamo. La proposta di legge affronta il tema affermando sempre, nelle procedure, il principio della priorità del generale sul particolare, del “piano” sul “progetto”. Questa scelta è resa ancora più esplicita e forte da una proposta che al lettore disattento può sfuggire.

Si prescrive infatti la formazione di un Testo unico nazionale il quale, tra l’altro, si disponga “l’abrogazione esplicita di tutte le norme non conformi ai principi” della nuova legge” (articolo 33). E poiché tra tali principi campeggia quello secondo cui “la tutela, l’uso, la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono sono disciplinati esclusivamente dai piani” previsti dalla legge stessa (articolo 8), si comprende facilmente come il legislatore s’impegni a fare piazza pulita della selva di strumenti derogatori accumulati negli ultimi vent’anni.

Il “principio di pianificazione”

La valutazione complessivamente positiva, molto positiva, della legge mi induce a sorvolare sui suoi limiti, su alcune formulazioni poco chiare o ambigue. Esse potranno essere precisate e messe a punto nell’ultima fase del lavoro parlamentare – analogamente a quanto, del resto, ci si propone di fare per il PRG di Eboli in fase di osservazioni. C’è un punto, peraltro, sul quale si deve a mio parere porre grande attenzione: esso riguarda il carattere della pianificazione a livello regionale, che nella formulazione attuale della legge è piuttosto evanescente.

C’è un principio, mai esplicitamente formulato ma sotteso all’insieme delle norme proposte, che considero fondamentale. È quello che definirei il “principio di pianificazione”. Esso può essere così espresso. ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione: atti cioè nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - precisamente riferite al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte.

Assumere questo principio significa aver deciso che la pianificazione è il metodo generale che gli enti pubblici elettivi di primo grado (in Italia: comuni, regioni, province, stato) adottano quando effettuano scelte suscettibili di incidere sull’assetto fisico e funzionale del territorio. Se un ente (poniamo, la Regione), decide che non assume alcuna scelta di rilevanza territoriale, che delega alle province o lascia allo stato qualunque opera o intervento o programma che incida sul territorio, allora evidentemente la pianificazione di livello regionale non è necessaria. Se così non è, allora non si comprende perché le scelte di competenza della regione non debbano essere formulate, garantite nella loro coerenza e rese esplicite con trasparenza, in modi analoghi a quelli da adottarsi da parte delle province e dei comuni.

Mi sembra che il “principio di pianificazione” dovrebbe essere affermato in modo esplicito, e tradotto più compiutamente nella strumentazione a tutti i livelli.

Il nuovo piano comunale di Eboli

Dicevo che il secondo elemento positivo della situazione attuale è individuabile nell’all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo. Il caso di Eboli e del suo nuovo PRG mi sembra un caso esemplare di questa tendenza positiva. E devo dire che mi riconosco così pienamente nelle scelte compiute, di merito e di metodo, che ho quasi una certa ritrosia a parlarne.Ma vorrei mettere in evidenza quattro aspetti e limitarmi ad essi.

1. Il sistema degli obiettivi proposto. Sono espressi nella relazione in una frase molto bella, sintetica ed esauriente, efficace. Precisamente, là dove si afferma che il disegno del piano è “comandato dall’obiettivo di rigenerare ciò che è deteriorato, riqualificare ciò che è saturo, trasformare ciò che è incompiuto, connotare ciò che è indefinito”.

2. L’impegno a tutelare quella gigantesca risorsa – per le generazioni presenti e per quelle future – costituito dalla zona agricola. Mi è sembrato leggere una volontà tenace, cocciuta, di difendere quel patrimonio, di contrastare ogni tentativo di lasciar invadere la campagna dalla “discarica urbana”, città diffusa o villettopoli che la si voglia denominare. In quella difesa della produttività agricola vedo l’emblema di un generale impegno alla difesa delle risorse: il centro storico, il territorio collinare, la costa, il fiume. Risorse viste non come “monumento”, ma come occasione per uno sviluppo economico durevole.

3. La decisione, non solo proclamata ma portata a compimento, di costituire un Ufficio del piano che è stato il vero Autore del piano. Questo è un impegno essenziale. Senza questo strumento la pianificazione non esiste: è solo chiacchiera, o accademia.

4. La determinazione con la quale si si è accompagnata, sorretta e preparata la redazione del PRG con un’azione energica contro l’abusivismo,. Senza il recupero della legittimità l’interesse generale non può essere un obiettivo credibile, e la stessa società scompare.

Come vedete, queste valutazioni positive sono rivolte più all’Amministrazione che ai progettisti. Ma secondo me la validità di un piano, a qualsiasi livello, sta proprio in questo: nella capacità e volontà dell’Amministrazione di farne il suo strumento per il governo del territorio. Il piano non è un fine: è lo strumento di questa volontà.

La definizione che preferisco di “piano urbanistico” è proprio questa: “una decisione politica tecnicamente assistita”. Mi sembra che, nel caso di Eboli, l’assistenza tecnica sia stata ottima, e l’azione politica della scelta continua e sistematica degli obiettivi giusti e delle soluzioni giuste sia stata eccezionale.

Per iniziare con un’espressione sintetica, vorrei affermare subito che Giovanni Astengo aveva una visione politica del ruolo dell’urbanistica nella società italiana. Questa affermazione deve essere chiarita.

Devo cioè precisare che cosa intendo per visione politica, e in che modo questa visione politica si sia espressa nel transito di Giovanni Astengo, e in particolare in relazione a quello che è l’argomento specifico della nostra discussione, “La rivista urbanistica sotto la direzione di Giovanni Astengo - La comunicazione delle idee degli urbanisti e del dibattito dell’INU”.

Potrò poi enunciare qualche idea su quello che, per Giulio Tamburini (coordinatore di questo insieme di riflessioni su Astengo) dovrebbe essere il vero obiettivo della nostra riflessione: che cosa si può trarre oggi, in positivo e in negativo, dall’insegnamento di Giovanni Astengo.

Urbanistica, società, politica

Astengo era indubbiamente convinto che l’urbanistica fosse una esigenza della società. Era convinto che una società adeguatamente organizzata, che voglia garantire anche solo una adeguata funzionalità, non possa fare a meno della pratica di cui l’urbanistica era portatrice: la pratica della pianificazione del territorio.

Ma la politica doveva porsi anche un obiettivo più alto della mera funzionalità: doveva realizzare una società solidale. Anche questo compito non poteva essere assolto senza il contributo creativo e scientifico dell’urbanistica.

Urbanistica e politica, quindi, come due componenti strettamente legate del percorso della società. Ma qual è il ruolo reciproco? Qual è, in questo rapporto inevitabile e necessario, il ruolo dell’urbanistica? Mi sembra che Astengo resti coerente con una posizioni teorica, a partire dalla quale compie uno sforzo in due direzioni pratiche.

La posizione teorica può essere sintetizzata così: l’urbanistica deve svolgere un ruolo di guida della politica:

Chi può e deve creare il territorio non può essere che la classe dei savants, in base a proprie motivazioni autonome e disinteressate, insindacabili: corpo di pubblica utilità, come i pompieri e la croce rossa (Fabbri 1975, p.59)

Ecco allora il tema dell’”orgoglio del tecnico”:

[…] il tecnico è depositario di un sapere e di un compito, quello di trasmettere le sue convinzioni ai politici investiti del potere di decisione. Astengo non dubita che il suo “sapere” sia frutto di una sintesi e che non debba perciò essere posto in dubbio da nessun altro “attore”; non si stupisce, si compiace anzi della solidarietà che altri tecnici illustri gli esprimono. Esisteva ancora, parrebbe, un orgoglio corporativo basato su una concezione “alta” della professione: difficile a leggersi oggi, nella pratica della lottizzazione eretta a sistema (G.Piccinato 1991, p. 287)

L’”orgoglio del tecnico” è riferito a un ruolo possibile, non a una funzione effettuale: si riferisce a un “dover essere”. Bisogna allora lavorare in due direzioni: verso gli urbanisti, e verso chi governa.

Una classe di savants

Da un lato, occorre costruire una “classe di savantsconsapevoli del proprio ruolo e padroni degli strumenti disciplinari necessari per svolgerlo. Mi sembra che il ruolo principale di “Urbanistica” sia proprio in questa direzione. Ed è tutta l’attività di Astengo che opera in questa direzione. È già negli anni della ricostruzione postbellica che da lui

l’esigenza di giungere alla formazione di un linguaggio omogeneo e ad un’uniformità di metodi e di procedure per la pianificazione territoriale era stata sottolineata con forza […] (C. Mazzoleni 1991, p. 46)

La pubblicazione dei piani, cui Astengo dedica tanta parte del suo impegno e che costituisce della sua rivista un esempio mai più raggiunto, non è documentazione: è proposta di modelli, di archetipi, di norma.

Così si spiega il fatto che, se la sua rivista “rimane certo una delle fonti più importanti per ricostruire la storia dell’urbanistica italiana ed europea” del suo periodo,

difficilmente potremmo compiutamente ricostruire sulla sua sola base la storia dello stesso periodo, riconoscerne lo svolgimento, i principali periodi e i caratteri salienti (B. Secchi 1991, p. 149)

Il luogo e l’impegno nel quale prosegue e in qualche modo vuole coronarsi, il tentativo di Astengo di costituire un corpo di savants, gradualmente sostituendo il lavoro di direzione e gestione della rivista, è la faticosa costituzione del Corso di laurea in urbanistica (F. Indovina 1991, p.217 e segg.).

La “carta” di fondazione del corso di laurea pone come prima ragione della progetto la constatazione della

Necessità davvero inderogabile di specializzazione. I tecnici che oggi si occupano di urbanistica escono dalle facoltà di architettura e ingegneria le quali […] offrono una preparazione in tal campo che non si può che definire dilettantistica (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)

E d’altra parte (ecco la necessità sociale del progetto di un nuovo corso di laurea)

L’assenza di una specializzazione basata su una chiarificazione disciplinare contribuisce a perpetuare, e ormai giustifica in parte (mio corsivo), la non utilizzazione dello strumento della pianificazione da parte degli enti pubblici [e] risulta ormai insopportabile per le pubbliche amministrazioni: al loro interno la presenza del tecnico urbanista diviene necessaria anche per dimensioni urbane medio-basse (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)

E si può tranquillamente affermare che la stessa attività professionale di redattore di piani e documenti di pianificazione che Astengo ha svolto era finalizzata a sperimentare modelli (tecnici e procedurali) idonei a esser proposti in quel dinamico manuale che la sua rivista ha costituito (C. Mazzoleni 1991, pp.35 e segg.). Un tentativo continuo di “codificare” le esperienze selezionate come valide, non solo al fine di costruire paradigmi comuni tra gli urbanisti

per renderli esponenti di una influente comunità scientifica, studiosi e professionisti accomunati da uno stesso modo di guardare, descrivere e problematizzare il territorio e la società (P. Di Biagi 1992, p.422)

ma anche (e forse soprattutto) per costruire una corporazione di sapienti capace di avere un peso politico: capace di esprimere socialmente il ruolo politico dell’urbanistica.

La moralità dell’urbanista

Come aveva una concezione alta della politica, Astengo aveva anche una concezione alta dell’urbanistica e del suo portatore, l’urbanista. Il suo impegno non va solo nella direzione di rendere solido lo statuto disciplinare: Astengo non era un accademico. Il suo impegno volto a consolidare, a rendere certo il mestiere dell’urbanista e convincente il suo risultato si accompagna con forti richiami alla moralità e alla responsabilità.

Un esempio. Nel 1956 il governo amplia gli elenchi dei comuni obbligati a formare i PRG: saranno alcune centinaia le città che riceveranno l’imprinting della pianificazione. La posta è grossa, ricorda Astengo (“Urbanistica” 20, 1957):

Tre-quattrocento piani significano l'avvenire delle nostre città; se ben studiati ed utilizzati a fondo essi possono rappresentare il trapasso da situazioni di disordine e di amministrazione caso per caso a a situazioni di pianificazione per programmi organici, possono consentire di moralizzare il mercato edilizio o di nazionalizzare e quindi risanare i bilanci comunali. Se male interpretati, od usati in modo superficiale e del tutto esteriore, essi possono decadere al rango di un artificioso regolamento edilizio.

Le attese sono grandi. Ma l’esito “non dipende solo dalle Amministrazioni”,

anche dall’attività degli urbanisti chiamati a redigere i piani e soprattutto di quelli investiti di diretta e completa responsabilità. […] Ad essi aspetta infatti -rendersi conto fin dagli inizi dei più minuti particolari delle varie manifestazioni della vita del Comune; dipanare l'aggrovigliata, matassa dei problemi, per ritrovare il filo conduttore di un futuro più razionale sviluppo della comunità; illuminare amministratori e funzionari, guidandoli nei primi passi di questa esperienza; stimolare le collaborazioni locali, chiarendo ai tecnici ed ai privati le finalità e le procedure della pianificazione; infondere al piano un contenuto economico e sociale che sostanzi gli interventi edilizi; agire da soli anche senza adatti strumenti legali per la salvaguardia del piano in fieri; dare, in una parola, inizio alla pianificazione urbana, già fin dai primi atti del suo concepimento.

Non si tratta di una responsabilità burocratica: è una responsabilità morale:

Questo compito ben duro supera, è chiaro, i limiti di un consueto mandato professionale […] I piani, anche i più giovani ormai lo sanno, non possono farsi a distanza e a tavolino: essi nascono faticosamente sul posto. occorre preparare il terreno, seminare e coltivare giorno per giorno l'arbusto, se si vuole che la pianificazione urbana metta ben saldo le radici e con l'approvazione del piano essa si trovi ad essere adulta e rigogliosa. Quest'opera, che ben poco ha da vedere col piano disegnato, non ha, compensi, è chiaro. Solo lavorando pazientemente ed umilmente, consci dei propri modesti limiti, ma fermamente decisi a penetrare fino in fondo la realtà sociologica urbana e ad imprimere alle situazioni attuali impulsi vivificatori, ciascuno di noi avrà contribuito, in misura proporzionale al proprio impegno, a costruire il futuro per le più importanti città italiane.

L’indignazione

Nel 1966 Astengo fu chiamato da Giacomo Mancini, ministro per i Lavori pubblici, a fare parte della Commissione d’indagine su Agrigento. Non ne fu solo un membro: insieme al presidente Michele Martuscelli ne fu l’anima. La relazione al Parlamento, in gran parte pubblicata su “Urbanistica”, (n. 48, 1966) costituisce un documento essenziale per comprendere il suo ruolo nell’urbanistica italiana (e nella storia degli urbanisti), e cogliere un aspetto centrale del suo messaggio.

Fu un momento di straordinaria tensione nella sua vita. Astengo affermò che

nella mia vita di studioso e di pubblico amministratore […] l’indagine di Agrigento rappresenta la più forte emozione e la più straordinaria tensione nmorale che abbia finora provato e che difficilmente penso possa per me essere, in un altro caso, raggiunta (in: P. Di Biagi 1992, p. 411)

Merita di essere ricordato e meditato ancor oggi, l’editoriale con il quale si apre in numero di “Urbanistica” dedicato agli

Improvvisi ed eccezionali accadimenti hanno scosso il paese tra luglio e novembre: la frana di Agrigento, l'allagamento di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nell'alto e basso Veneto.

Un numero con la copertina tutta nera: l’unico nella storia della rivista. Alla radice di ciascuno di quegli avvenimenti, scrive Astengo,

sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatosi. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d'improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici.

In entrambi i casi, alla radice è l'imprevidenza umana. E se, nell'imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia una ben piú ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica.

Non è infatti pensabile l'istituzione ed il funzionamento di un sistema di costante controllo, capace di far scattare uno stato di allarme, senza la presenza di un quadro di riferimento generale, che, stabilite le regole interne di equilibrio fra i vari fattori, definisca le finalità delle singole azioni, d'intervento e d'uso, e fissi le soglie dello stato di pericolo. Senza piani territoriali ed urbanistici, seriamente studiati e coscienziosa- mente resi operanti, è dunque perfettamente inutile pretendere un efficace sistema di controlli per l'ultima ora: se in Olanda scatta l'allarme nel polder minacciato è perché l'intero paese è vigilato da una pianificazione territoriale attiva ed attenta, con strutture, responsabilizza e tradizioni.

Quel memorabile fascicolo di “Urbanistica”, e l’intera vicenda della partecipazione di Astengo al lavoro della Commissione ministeriale per Agrigento, mi sembrano significativi almeno per due aspetti.

In primo luogo, per il modo in cui Astengo riesce a saldare in un’unica operazione l’accuratezza dell’analisi scientifica sull’evento, la finalizzazione civile e politica del lavoro, la tempestività della restituzione e diffusione dei risultati, la lezione morale e culturale rivolta all’insieme dell’opinione pubblica.

In secondo luogo, la carica di indignazione che riesce ad esprimere e a comunicare, e attraverso la quale trasmette, con il veicolo dell’emozione, il suo messaggio, la sua “verità”. Una carica di indignazione che difficilmente si riesce ad accostare, nella memoria, alla figura dimessa e grigia di quello che fu chiamato, con un certo benevolo compatimento, “il ragioniere dell’urbanistica”. Una carica d’indignazione che esprime compiutamente la ragione morale del ruolo dell’urbanistica come esigenza della società.

L’azione sul governo e nel governo

Una duplice azione di consolidamento nei confronti degli urbanisti, verso l’interno: un’azione per fondare uno statuto della disciplina, una ben ordinata cassetta degli attrezzi; e un’azione per dotare il corpo dei savants di un’anima, e quindi di una responsabilità e di una moralità. Ma dall’altro lato occorre cominciare da subito un’azione diretta su chi ha la responsabilità di governare: su chi ha il potere. Occorre tenacemente far comprendere, spiegare, illustrare e documentare a chi esercita il potere. Occorre conquistare consenso. In questo senso ha ragione chi afferma che quella di Astengo

non è una ricerca di verità epistemiche e di fondamenti, quanto piuttosto quella di una verità consensuale. Di argomenti che possano essere condivisi e divenire comportamento degli urbanisti in primo luogo, delle amministrazioni e dei differenti soggetti sociali infine (B. Secchi 1990, p.41)

Se e finché la politica non è stata “educata” dagli urbanisti a comprendere ciò che deve fare per governare al meglio le trasformazioni del territorio, occorre farlo in sua vece. Occorre, al limite, esercitare un ruolo di supplenza.

L’azione diretta sulla politica è naturalmente diversa a seconda delle diverse fasi dell’evolversi dei rapporti di forza tra le diverse componenti del quadro politico: in particolare, quelle più legate a un processo di modernizzazione ed “europeizzazione” della società italiana, più vicine ad Astengo e ai suoi amici, e quelle nelle quali si esprimeva il versante più arcaico del compromesso storico tra borghesia nazionale ancien régime.

Così, è evidente che nella fase che va dall’immediato dopoguerra all’iniziale manifestarsi della crisi dell’equilibrio politico centrista e della prospettiva di governi di centro-sinistra l’impegno sembra rivolto prevalentemente a denunciare i danni che derivano dall’assenza dell’urbanistica e della programmazione, dallo sviluppo delle città senza pianificazione, dalle inefficienze e dai ritardi culturali nell’organizzazione dei quartieri.

Particolarmente cocente è l’indignazione che sorge nel comparare il modo nel quale il governo del territorio avviene in Italia e quello nel quale si procede negli altri paesi europei, dove la pianificazione è stata lo strumento della ricostruzione ed è divenuta negli anni prassi indiscutibile.

Una fase diversa si apre successivamente. Mentre si infittiscono le discussioni (e le dislocazioni di forze sociali, interessi economici, rappresentanze politiche) che porteranno al centro-sinistra, “Urbanistica” diventa via via più propositiva ed affronta i temi che sono già, o che più facilmente meritano di essere portati al centro dell’attenzione politica. Dal regime dei suoli alla politica della casa, al governo delle trasformazioni territoriali, alla partecipazione dei privati alle spese di urbanizzazione, la rivista di Astengo è il repertorio delle soluzioni possibili e il manifesto delle critiche alle soluzioni sbagliate.

Ma alle speranze e alle proposte della fase iniziale del centro-sinistra subentrano presto la delusione e la protesta, a mano a mano che la carica riformatrice della nuova alleanza di governo mostra segni di logoramento – e a mano a mano che gli esponenti politici a lui più vicini, i socialisti della sinistra di Riccardo Lombardi, perdono peso e potere, o si trasferiscono su altre sponde.

Una nuova speranza nasce quando vengono istituite le regioni a statuto ordinario. Astengo riprende l’esperienza di amministratore pubblico (come Detti a Firenze e Campos Venuti a Bologna all’inizio degli anni Sessanta, era stato assessore comunale a Torino) e diventa assessore all’urbanistica nella regione Piemonte. In una stagione in cui “le politiche territoriali delle regioni” non offrono molti spunti incoraggianti, in cui (nonostante le attese degli urbanisti) “non è riconoscibile una consapevole politica di piano”, dal

quadro generale si distingue il Piemonte, che ha vissuto un quinquennio di grazia nella persistente volontà di vincere la quasi impossibile scommessa per una politica di piano (M. Romano 1981, p.3)

In termini generali, non mi sembra che – una volta conclusa l’esperienza regionale e spenta l’illusione della carica rinnovatrice – sia stato fatto un bilancio serio dell’esperienza delle regioni. Né da parte degli urbanisti, per il vero, né da quella dei politici. Né allora, né quando – concluso il terzo mandato elettorale – era apparsa evidente la generale riduzione delle regioni a organismi prevalentemente dedicati alla gestione burocratica dell’esistente e alla funzione di cinghia di trasmissione delle politiche centrali; e neppure quanto, all’inizio del decennio scorso, le vampate separatiste, autonomiste e poi federaliste avrebbero imposto, in un paese serio, una seria riflessione sull’esperienza del regionalismo.

Una contraddizione

Qui però si tocca, probabilmente, un limite dell’impostazione di Astengo ben registrata dall’archivio che “Urbanistica” costituisce. La rivista patisce una singolare contraddizione.

Da un lato, negli anni in cui Astengo la gestisce, la rivista è l’urbanistica italiana: la rappresenta, la riassume, la esprime. In Italia, in quegli anni, non c’è urbanistica fuori di “Urbanistica”: non per volontà egemonica o per particolari capacità di sopraffazione delle voci diverse, ma per l’assenza di posizioni alternative capaci di dotarsi di analoghi strumenti d’espressione; o, se si vuole, per la pienezza di rappresentatività di Astengo.

Ma dall’altro lato, e proprio per la piena consapevolezza della dimensione politica delle questioni cui disciplinarmente è legata, la rivista manca di continuità nello sviluppo del dibattito, dell’elaborazione, nell’accumulazione e nella digestione dei prodotti dell’evoluzione disciplinare. Per meglio dire, anzi, la sua continuità è nel seguire gli eventi, nello scegliere volta per volta, fase per fase, la questione più rilevante ai fini dell’affermazione sociale del messaggio dell’urbanistica, della politica della pianificazione urbana e territoriale.

Se mi è consentito un riferimento personale, la ragione di fondo per la quale, nel 1971, nacque “Urbanistica informazioni” fu forse proprio questa: la consapevolezza, da parte del rinnovato gruppo dirigente dell’INU (ossia di quello che allora ancora era l’espressione degli urbanisti italiani), del logoramento del ruolo di “Urbanistica” come strumento di raccordo con gli eventi e i soggetti della politica, come attrezzo idoneo a svolgere un ruolo dinamico, e perciò stesso mutevole, di polemica e di proposta nei confronti della “faccia politica” della società.

Una valutazione

In molte sedi si sono tentate valutazioni del ruolo di Astengo. A me personalmente non convincono le letture dell’azione di Astengo che tendono ad attribuire all’insufficienza dell’elaborazione il mancato raggiungimento degli obiettivi proposti (ad esempio: Secchi 1984, Berlanda 1991, Becchi 1998). Sebbene in queste critiche ci siano elementi di verità sui quali occorerebbe riflettere con attenzione.

La mia opinione è che il tentativo di Astengo (e degli altri che ne condivisero l’impegno) era in sostanza quello di imprimere al governo del territorio in Italia un sistema di regole (metodologiche, procedurali e tecniche) analogo a quelli che aveva consentito agli altri paesi europei di conoscere uno sviluppo sociale ed economico accompagnato e sorretto da un’armatura urbana e territoriale bella ed efficiente e da una valorizzazione delle risorse territoriali.

E credo che, alla fine degli anni Cinquanta, sia stata giusta la scelta di individuare nella questione della rendita il nodo centrale del garbuglio che rendeva così difficili i tentativi di esercitare un governo moderno alle violentissime trasformazioni del sistema territoriale.

Ma sono convinto che ha probabilmente anche ragione chi si domanda perché gli urbanisti

non si sono battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era, la n. 1150 del 1942? e perché all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova? (A. Becchi 1998, p.52).

Del resto, agli urbanisti e ad Astengo può essere giustamente rimproverato, a proposito della questione della rendita, il fatto di “non vedere altri aspetti” della questione,

ad esempio, di capire i connotati della strategia di mobilitazione individualistica in atto, di capire che non ci si trova di fronte a governi che perseguono “in modo empirico e senza alcuna prospettiva di lungo termine, una politica di composizione dei contrasti, equilibrismi e rinvii, accompagnata da piccolo favori a determinate categorie o clientele” [l’A. cita un testo di L. Bortolotti], ma, all’opposto, ad un programma politico certamente teso a privilegiare nel suo complesso i ceti medi, ma delineato con grande chiarezza (B. Secchi 1984, p. 70)

Questi argomenti, peraltro, sono stati affrontati dagli urbanisti nella fase (su cui si dovrebbe lavorare di più) successiva al clamoroso fallimento del Congresso di Napoli del 1968, che vide articolarsi il mondo degli urbanisti italiani in una pluralità di gruppi e di posizioni, alcune delle quali specificamente impegnate nell’analisi del “programma politico” dominante.

Un altro limite che può esser rimproverato ad “Urbanistica”, e in generale alla cultura urbanistica italiana, mi sembra quello di non aver scavato al fondo delle ragioni storiche che avevano prodotto, in Italia, il manifestarsi di un peso politico e sociale della rendita molto più forte di quanto non fosse nei paesi nei quali la rivoluzione borghese aveva vinto sull’ancien régime in modo non compromissorio.

Un limite, e due considerazioni

Può esser rimproverato agli urbanisti, insomma, di non aver compiuto con sufficiente continuità e rigore analisi politiche corrette. Questa osservazione sollecita però due ordini di considerazioni.

In primo luogo, è un’osservazione che chiama in causa, prima ancora che un ritardo (e una insufficienza) della cultura degli urbanisti, un ritardo della cultura politica. I ritardi, insomma, non sono stati soltanto né tanto quelli della cultura urbanistica, quanto soprattutto quelli della cultura politica. Ed è indubbio che questo ritardo (e questa insufficienza) tende ai nostri giorni ad accrescere con straordinaria velocità, a mano a mano che la politica riduce la progettualità a tutela degli interessi degli attori più forti, e la missione alla conservazione del potere.

In secondo luogo, è un’osservazione che richiederebbe da parte degli urbanisti (ed effettivamente richiede) un impegno più severo e attento nella direzione della politica (della sua analisi, della comprensione dei suoi fondamenti e delle sue regole, e perfino nella partecipazione ai suoi eventi): il che mi sembra largamente il contrario di ciò che sta avvenendo in una vasta porzione del mondo degli urbanisti.

È vero insomma che i limiti progredenti della cultura politica privano l’urbanista di una “spalla” essenziale per la sua riflessione, ma a me sembra altrettanto vero che ciò non può costituire un alibi il ripiegamento su posizioni esclusivamente tecnicistiche, per isolare la “progettazione” dalla “politica”.

Quale urbanistica

Questi appunti, certo disordinati, mi sono stati sollecitati dalla rilettura delle pagine di Astengo sulla sua rivista e di alcuni commenti alla sua opera. Domandarsi quale sia il contributo che oggi Giovanni Astengo può dare alla vicenda dell’urbanistica italiana induce a porsi un ulteriore interrogativo: qual’era – al di là delle definizioni canoniche forse troppe volte ripetute – l’idea di urbanistica che Astengo praticava? E quali componenti di questa idea sono ancora oggi utili?

Una prima componente l’ho già enunciata: l’urbanistica è una faccia della politica. Non dico “una parte”, come dice L. Benevolo, perché questa espressione può alludere a un ruolo parziale, di “ritaglio”, o, al contrario, troppo invadente dell’urbanistica. Dire che è una faccia della politica significa dire che senza un rapporto con la politica l’urbanistica è monca, e che viceversa è insufficiente a svolgere la propria missione una politica che ignori le ragioni, i metodi, le attenzioni dell’urbanistica.

Una seconda componente, che in qualche modo argomenta e sorregge la prima, è nella convinzione che l’urbanistica è servizio tecnico di interessi collettivi. È in questa natura dell’urbanistica, a mio parere,la ragione della necessità del rapporto con la politica: anch’essa - nella tradizione giacobina e borghese cui Astengo partecipa - al servizio di interessi collettivi.

Una terza componente, figlia delle due che ho ora enunciato, è che l’urbanistica, nella tradizione e nella realtà dell’Europa, è sostanzialmente compito dell’amministrazione pubblica. Gli urbanisti, allora, sono primariamente commis d’Ètat, civil servants, funzionari pubblici, e la loro missione comprende la partecipazione alla ricerca della struttura amministrativa più efficiente ai fini del governo del territorio.

Una quarta componente (o per meglio dire, una direzione di ricerca alla quale sollecitano gli assunti precedenti) è l’individuazione, o la costruzione, del ruolo dell’urbanistica, nel duplice senso della scoperta della sua utilità e della sua autonomia dalla politica.

In questa direzione moltissimo cammino resta da percorrere. A me sembra che due linee di lavoro possano essere fruttuose.

Custodi delle risorse territoriali

Da un lato, l’azione volta alla individuazione degli elementi dell’assetto delle città e dei territori che non sono negoziabili: che non sono assoggettabili al deperimento derivante da un loro uso indiscriminato perché costituiscono parte del patrimonio dell’umanità.

Si tratta di una problematica legata a una contraddizione sempre più lacerante e a una tradizione che rischia di essere assunta in modo rituale e riduttivo.

Mi riferisco alla contraddizione (che costituisce un limite serio della democrazia) tra i mandato elettorali temporalmente limitati caratteristici della forma attuale della democrazia, e gli impegni che bisogna assumere (e le penalizzazioni che occorre subire) per garantire i diritti delle generazioni future.

E mi riferisco alla tradizione della migliore urbanistica italiana, diligentemente e puntigliosamente illustrata nelle pagine di “Urbanistica”, che ha visto esemplari ed efficaci azioni di difesa e valorizzazione e promozione (con i piani e al di là dei piani) delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali. I piani di Piccinato, di Detti, di Astengo illustrati da “Urbanistica” non sono solo capitoli di un manuale tecnico, ma manifesti, proclami ed esempi di un’azione di tutela delle risorse territoriali che ha contribuito allo sviluppo di una consapevolezza sociale dei valori impliciti in quelle risorse (sebbene il ragionamento in essi implicito non sia sviluppato).

Forse, l’utilità dell’urbanistica per la politica e, al tempo stesso, uno dei fondamenti della sua autonomia possono essere individuati proprio nel suo ruolo di regia dei saperi utili a individuare e segnalare le risorse e le occasioni per lo sviluppo della civiltà presenti nel territorio.

E forse nello svolgimento di questo suo ruolo l’urbanistica può anche trovare un suo collegamento diretto con la società, autonomamente rispetto a quello comunque ricercato attraverso la politica. Superando in tal modo anche il limite, presente nella vita dell’INU, e nelle stesse pagine di “Urbanistica”, fino alla fine degli anni Sessanta, e anche negli anni più recenti,di un collegamento esclusivo con i patrons della politica e“i grossi apparati della burocrazia ministeriale” (C. Mazzoleni 1991).

La misura della razionalità

C’è chi sostiene che il carattere analitico, minuzioso, in ultima analisi positivistico di Astengo, e il carattere che ha voluto imprimere alle pratiche urbanistiche in Italia derivino prevalentemente dalla volontà di “una migliore argomentazione, giustificazione e forse specificazione delle scelte” (P.C. Palermo 1987). È probabile che sia così. Credo però che lo sforzo di Astengo di garantire una razionalità a priori alle scelte sul territorio mediante un fondamento razionalistico della pianificazione possa essere proseguito su più piani di lavoro, e che possa fornire un ulteriore contributo alla definizione di un ruolo (e un’utilità sociale fondata sull’autonomia disciplinare) per l’urbanistica.

Si tratta di impiegare gli strumenti logici e, soprattutto, la “sensibilità territoriale” elaborati e affinati nelle pratiche dell’urbanistica per misurare la razionalità delle scelte sul territorio: per valutarne costi e benefici, vantaggi e svantaggi per le diverse categorie di soggetti interessati (presenti e futuri), per simularne le conseguenze vicine e remote, per disegnare scenari analoghi a quelli utilizzati nelle tecniche della Vision of cities.

Si tratta, insomma, di suggerire alla politica non solo i quadri normativi tipici della pianificazione classica (essenziali soprattutto laddove l’appartenenza dei diritti alla trasformazione urbanistica non è del pubblico), ma anche le modalità per scegliere secondo ragione.

In fondo, si tratterebbe di svolgere un ruolo analogo a quello che, secondo Ugo Foscolo, svolge quel tale Machiavelli il quale

Gli allor ne sfronda ed alle genti mostra

Di che lagrime grondi e di che sangue.

Il ruolo di chi illustra al Principe - alla politica nel suo intreccio con la società - , le conseguenze delle scelte che essa si accinge a compiere, e in tal modo limpidamente richiama la politica alle sue responsabilità.

Perché questo ruolo sia utile (e anzi, semplicemente possibile) è naturalmente necessario che ci sia una politica degna di questo nome. Ma questo è un altro discorso.

Edoardo Salzano

13 giugno 2000

Democrazia, una parola difficile

Abbiamo lavorato con parole difficili. La prima è forse la più difficile: democrazia.

Non fermiamoci a immagini facili e agiografiche della democrazia. Io oscillo tra due definizioni. La prima è quella di Chirchill: "E’ un sistema di governo pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più". E quella di Luciano Canfora:

La democrazia […] è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, "diritti"

Non rinuncio a nessuna di queste due definizioni: né alla democrazia come male minore, né alla democrazia come tensione verso l’eguaglianza e la crescita di nuovi diritti. E’ quest’ultima però quella che meglio possiamo utilizzare per passare all’altra parola difficile, la partecipazione. Del resto, anche Paba mi sembra che concordasse con questa impostazione, quando diceva che "la democrazia non è una cosa quieta".

Possiamo allora intendere la partecipazione come il lavoro per far entrare nella democrazia (nell’attuale sistema di governo) nuovi diritti: nuovi soggetti sociali, finora esclusi dal processo delle decisioni o marginali rispetto ad esso. Soggetti sociali portatori di nuovi interessi, di nuovi bisogni – e anche, ricordavano Paba e Baruzzi, di nuova ricchezza, di nuovi valori.

Partecipazione, dunque, come alimento e condizione della democrazia. Ma quali spazi consente la democrazia attuale, l’attuale sistema di governo, alla partecipazione intesa in questo senso? Vorrei regalarvi una più lunga citazione di Canfora:

A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).

E ancora:

Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).

Questo è l’orizzonte (nel senso di limite valicabile) nel quale si colloca la nostra azione. E allora non possiamo né dobbiamo farci spaventare dalle difficoltà. Per calibrare l’ottimismo della volontà sul pessimismo della regione ricordiamo Italo Calvino:

L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Il nostro compito può essere proprio questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".

Un'altra parola: Partecipazione

Naturalmente si è ragionato molto anche attorno alla seconda parola del nostro tema: Partecipazione. Vorrei riprendere quattro temi che mi sembrano centrali.

1. La partecipazione nella nostra storia.

Proprio qui a Bologna, in Emilia Romagna, ricordiamo come si comportava la sinistra; ne accennava Tarozzi nel suo intervento. Quando c’erano i partiti, i "partiti di massa (il comunista, il socialista, la democrazia cristiana) allora esistevano dei progetti di società, che i partiti - e le oggi deprecate ideologie - esprimevano. La politica aveva e dava una prospettiva, animava degli ideali: basta leggere quel bellissimo libro di Alcide Cervi e Renato Nicolai, I miei sette figli, per comprendere lo spessore che animava e nutriva la politica, e che dalla politica era animato e nutrito.

Oggi questo non c’è più. Ed è anche da questa decadenza che nascono le difficoltà del rapporto con la politica: del rapporto tra il popolo e la politica. E da questo nascono anche le difficoltà della politica con la terza parola del nostro convegno: la Urbanistica. A questo proposito vorrei che ricordassimo che le poche leggi di riforma (leggi riformatrici, non riformiste) negli strumenti di governo del territorio sono nate in determinate ragioni della nostra storia, per effetto della spinta di grandi organismi di massa e della sensibilità democratica (adopererei proprio questo termine) delle forze politiche.

Mi riferisco all’inserimento dell’obbligo di riservare determinati spazi per i servizi collettivi e il verde nei piani regolatori, statuito con il decreto sugli standard del 1968, che ha indubbiamente tra i suoi motori principali la lunga camopagna popolare ingaggiata dall’Unione donne italiane dall’inizio degli anni Sessanta, con una serie di iniziative attorno a una legge d’iniziativa popolare.

E mi riferisco all’iniziativa delle tra centrali sindacali che ebbe il suo epicentro nello sciopero nazionale generale del 19 novembre 1969 per la casa, i servizi, i trasporti, che condusse alle leggi di riforma dei primi anni Settanta.

Oggi, sei Camere del lavoro hanno dato vita a un’iniziativa che va di nuovo nella medesima direzione. Il sindacato dei lavoratori esce dalla fabbrica, acquisisce consapevolezza del fatto che l’organizzazione della città e del territorio incide pesantemente sulla vita dei lavoratori e suoi costi, e decide di porre il tema al centro delle sue vertenze. E’ un segnale promettente, una speranza.

2. Partecipazione e decisione

Esistono vari modi di partecipare, di influire al processo delle decisioni. Bibo Cecchini ne ha parlato in modo condivisibile, e le stesse esperienze illustrate hanno esemplificato significati e accezioni diverse della partecipazione. Per continuare a ragionare su questo tema, vorrei invitarvi a rifletters su due aspetti: i gradi della partecipazione, la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica.

Il grado più elevato della partecipazione è indubbiamente il concorso ala decisione. A questo proposito, alle istanze partecipative (il vicinato, il quartiere, la città) può essere delegata la decisione, oppure esse potranno esprimersi mediante proposte su cui il decisore sarà o meno tenuto a esprimersi, oppure potrà essere un mero condizionamento della decisione. Il modo maggiore o minore in cui l’istanza partecipativa contribuisce alla decisione varia evidentemente in relazione al carattere del decisore e al peso del "partecipatore".

Il grado minimo, ma essenziale, sembra a me essere la trasparenza del processo delle decisioni. Questo grado dovrebbe essere garantito sempre: in sua assenza la partecipazione è fittizia. Vorrei sottolineare che assicurare questo livello non basta "aprire le porte degli uffici e i cassetti delle pratiche": si pone anche, e in primo luogo, un problema di linguaggio. Il "burocratichese" è un linguaggio ricco di qualità, ma è formato per la comunicazione tra gli addetti ai lavori. I piani regolatori parlano un linguaggio costruito per essere compreso dal portatore d’interessi immobiliari, molto meno dagli utenti della città.

Il grado intermedio, il necessario passaggio tra la trasparenza e il concorso alla decisione, è la conoscenza. Questa implica certamente la possibilità di accedere ai dati, ma richiede in più apprendimento e cultura. A proposito del programma di amministrazione della giunta bolognese, a me sembrerebbe molto utile se ci fosse un forte nesso tra le politiche del territorio e dell’ambiente, dove ci si impegna a percorrere sentieri partecipativi, e le politiche culturali, che a prima vista mi sembrano un po’ "separate" e tradizionali.

Per quanto riguarda la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica vorrei limitarmi a rilevare che il principio di sussidiarietà, correttamente inteso (alla Mastricht, più che alla Bossi), potrebbe essere una guida sufficiente per comprendere. Così mi sembra ovvio affermare che a livello di vicinato o di quartiere la partecipazione è facile, mentre a livello di una intera città media o grande è molto difficile (pensiamo, ad esempio, a un PRG).

3. Partecipazione e interessi

Qualcun diceva che anche l’urbanistica concertata è una forma di partecipazione. In effetti occorre intendersi: partecipazione è un termine neutrale, occorre qualificarlo, chiedersi "partecipazione di chi". In termini sostanziali credo che si debbano distinguere tra loro i diversi tipi di interessi in relazione agli usi diversi delle risorse territoriali.

Occorre distinguere e selezionare gli interessi economici da quelli delle cittadine e dei cittadini (abitare, muoversi, comunicare, conoscere). All’interno dei primi occorre distinguere (e selezionare) gli interessi della rendita immobiliare e di quella finanziaria, quelli del profitto e dell’accumulazione nel processo produttivo e nell’innovazione, quelli del salario. Occorre distinuere gli interessi di quanti usano la città per le loro esigenze personali o produttive, e quanti la usano per il proprio arricchimento. Occorre distinguere le differenze tra i diversi gruppi sociali (ce ne parlava Bassetti, quando affermava che lo sforzo è nel ortare a sintesi le diversità).

Credo che una stella polare cui guardare per orientarsi sia in quella definizione di democrazia come "il prevalere dei non possidenti nel corso d’un inesauribile conflitto per l’eguglianza". E che ocorra ricordare che la partecipazione agisce anche attraverso la contestazione, dove gli interessi dei "non possidenti" sono esclusi dal processo di formazione delle decisioni, o non si riconoscono nei suoi esiti.

4. Gli strumenti della partecipazione.

Su questo punto voglio limitarmi a sottolineare che la partecipazione ha bisogno di tempo e ha bisogno di risorse. Senza questi due ingredienti la partecipazione non esiste. Può esistere, al massimo, la comunicazione: o meglio, quella forma banale di comunicazione che o la propaganda.

Ma dire questo significa anche dire che la partecipazione ha bisogno di procedure certe. Occorrerebbe ripartire da quel poco di partecipazione formalizzata che era consentito dalla stessa legge del 1942, le "osservazioni" agli strumenti urbanistici, per tener conto della maggiore dose di democrazia garantita dal sistema attuale rispetto a quello fascista.

Nel quadro degli strumenti, credo che un contributo rilevante potrebbe darl la Agenda 21, se riuscisse a legare i diversi aspetti delle politiche territoriali e ambientali a quel grande palinsesto delle decisioni dsul territorio che è il piano urbanistico e territoriale.

Per concludere.

Il nostro colloquio si è intrecciato attorno a tre poli: un primo polo rappresentato dalla democrazia, le istituzioni, quindi la politica: un secondo, l’urbanistica e i suoi strumenti; il terzo polo, la particapazione, cioò la presenza dei cittadini nel sistema delle decisioni.

Ora la politica (il primo polo) è in crisi: delegittimata non dalla sua inefficacia, ma – in Italia – dallo svelamento del vizio denominato Tangentopoli, ossia alla subordinazione delle regole e delle strategie condivise agli interessi venali di singoli e di gruppi (e, nel mondo, dal contemporaneo venir meno dela speranza di un sistema economico-sociale alternativo).

Anche l’urbanistica è in crisi. Quando la politica si riduce al quotidiano, quando il suo obiettivo è la conquista del consenso dei poteri forti, quando i poteri forti coincidono con la rendita immobiliare e finanziaria tra loro intimamente legate (e quando la cultura si riduce ad accademia) è inevitabile che anche l’urbanistica entri in crisi.

Io vedo la partecipazione anche come uno strumento che può essere utile per tentar di uscire dall’una e dall’altra crisi.

Uno strumento da adoperare con duttilità, pazienza e costanza, ricordando che le sue finalità sono due. Da una parte, raggiungere obiettivi concreti. Dall’altra parte, svolgere una funzione educativa, formativa, di crescita collettiva.

Uno strumento, infine, da adoperare tenendo conto che c’è un divario che deve essere governato perché non diventi una contraddizione: quello tra il "locale", come spazio nel quale la partecipazione può raggiungere maggiore efficacia. Il "generale", come spazio che inevitabilmente condiziona anche il locale, e che quindi non può essere "lasciato agli altri".

Le citazioni di Luciano Canfora sono tratte da: L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Editori Laterza, Roma-Bari 2004. Più ampi stralci sono in Eddyburg qui

Per affrontare le questioni poste in questa sessione – e più in generale in questa conferenza - occorre definire l’oggetto attorno al quale ragioniamo: il paesaggio. A me interessa allora ricordare che il paesaggio è il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura. Nel paesaggio, nella forma del territorio così come ci appare, natura e storia si integrano variamente nelle varie parti del pianeta. Essi formano così tipi diversi di paesaggio (naturale, agrario, urbano), ciascuno dei quali è caratterizzato da genesi, caratteri, significati, utilità, problemi diversi. È proprio la loro genesi, caratterizzata dalla sintesi tra evento e sito, che definisce quindi l’identità dei luoghi: elemento costitutivo della stessa identità delle comunità, nazionali e locali, che quei luoghi abitano. Prodotto della storia, e identità dei luoghi e delle comunità: questi sono gli attributi del paesaggio che soprattutto mi interessano.

Sottolineare, come mi sembra giusto fare, il ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi del suo valore) significa porre l’accento sul ruolo dell’uomo. Occorre allora riconoscere che l’intervento dell’uomo sulla natura ha avuto ed ha segni diversi. A volte (in certe epoche, in certe società, in certi luoghi) un ruolo positivo: ha costruito paesaggi (urbani, agrari, naturali anche) ai quali riconosciamo oggi valore d’insegnamento e valore estetico: con la semplice manutenzione, oppure con la formazione di nuovi paesaggi agrari, oppure con la creazione di opere integrate nel paesaggio preesistente, l’uomo ha aggiunto insomma valore alla forma della Terra. Ma altre volte (con l’incuria e l’abbandono, con l’eliminazione dei segni del passato in nome del profitto immediato, con l’artificializzazione dissennata) ha sottratto valore e distrutto il patrimonio culturale e storico costituito dal paesaggio, ha ridotto la ricchezza della civiltà umana.

Una domanda inquietante dobbiamo allora proporci. È in grado la società di oggi, la cultura che essa esprime, di porsi nei confronti della natura e della costruzione del paesaggio nello stesso modo nel quale si sono posti gli uomini il cui prodotto oggi ammiriamo, e nel quale riconosciamo una componente essenziale della nostra identità? I paesaggi urbani e periurbani, la devastazione delle campagne, la distruzione di ambienti naturali, realizzati in Italia nell’ultimo mezzo secolo, non lasciano dubbi in proposito, e invitano alla massima attenzione di fronte alla tentazione di “abbassare la guardia” dell’azione di tutela.

Lo sviluppo sostenibile

A non abbassare la guardia nell’azione di tutela ci invita del resto il titolo stesso di questa sessione: “Paesaggio e sviluppo sostenibile”. Molti criticano oggi il temine “sostenibile”: in effetti, è diventato un aggettivo passepartout, può essere stiracchiato fino a coprire qualunque contenuto, anche il più devastante. Ma non c’è da meravigliarsi: succede sempre così, quando una parola diventa alla moda. Occorre però allora precisare, oltre al termine “paesaggio”, anche “sostenibilità”.

Io mi riferisco all’accezione del termine che ne è stata data nel Rapporto Brundtland, nella Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell’ONU, nel 1983. Per “sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto – si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

A ragionarci bene, è un’interpretazione severa. Non si tratta di trovare un qualche compromesso, tra l’esigenza della conservazione e quella della trasformazione. Non si tratta di scegliere le trasformazioni in qualche modo “compatibili” con la tutela. Si tratta, invece, di rinunciare a quelle trasformazioni che comportino una riduzione delle risorse che riteniamo necessarie, oggi e domani, al genere umano. Oppure (ed è un altro modo di dire la stessa cosa) si tratta di garantire che il bilancio di ogni trasformazione porti a un miglioramento dell’insieme delle risorse disponibili: nel campo che ci interessa, a un miglioramento della qualità del territorio e della vita.

Utilità del paesaggio

Per ricondurre il paesaggio sotto le regole dello “sviluppo sostenibile” occorre allora invertire la tendenza, e imparare di nuovo a governare la natura senza negarla. Ma questo non può essere lasciato alla buona volontà dei singoli, o all’azione di qualche minoranza illuminata. Occorre che la tutela del paesaggio diventi una priorità sociale. Perché ciò avvenga, è necessario rendere evidente a tutti quali sono le ragioni per cui è socialmente necessario tutelare e arricchire la qualità del paesaggio (dei paesaggi). Perché, insomma, il paesaggio serve?

In primo luogo, il paesaggio è memoria. Il paesaggio è un deposito di storia. In esso è rappresentato e testimoniato il nostro passato, il passato della nostra civiltà. Esso è dunque il fondamento della identità delle diverse comunità che abitano il pianeta (dalle nazionali alle locali). Esso serve (a noi, e alle generazioni future) perché è una insostituibile risorsa della civiltà, è la materia vitale che alimenta il futuro. Basterebbe questo a comprendere come una società che voglia esistere debba custodire il paesaggio come una propria risorsa primaria.

Ma il paesaggio è anche risorsa economica. Sempre più, nell’economia moderna, tendono ad accrescere il loro peso (fino a diventare dominanti) i settori legati alla produzione di “beni immateriali”, tra i quali i comparti legati alla ricreazione e al benessere fisico, al turismo, alla conoscenza e al godimento estetico assumono crescente rilievo. In moltissime aree dell’Italia (e dell’Europa) il paesaggio di qualità è luogo e condizione per produzioni enogastronomiche “di nicchia”, caratterizzate dalla qualità e dall’identità, fondamentali sia per lo sviluppo economico e sociale delle aree coinvolte che per la conservazione di valori universali.

A proposito del ruolo economico del paesaggio nei prossimi decenni non va trascurato il peso che può avere per lo sviluppo dell’occupazione in molte regioni italiane un’azione di manutenzione del suolo, di riduzione dei rischi e dei costi del degrado ambientale, di avvio di un’azione di presidio ambientale. Si tratta di ricostituire e manutenere ambienti naturali distrutti dall’incuria dell’uomo (e minacciosi per la sopravvivenza nelle aree a valle del degrado), oppure ambienti caratterizzati da un assiduo rapporto di costruzione del paesaggio agrario.

Alla qualità del paesaggio è legata anche la qualità della vita: La bellezza dei panorami, l’armonia dei luoghi nei quali si svolge la sua vita sono essenziali per il benessere della donna e dell’uomo, del bambino e dell’anziano. Nell’epoca della globalizzazione, la concorrenza tra le regioni e le città assume sempre di più la qualità dell’ambiente (come componente della qualità della vita) come un valore economico da mettere in gioco nel “ marketing urbano”. Ciò pone, una volta ancora, l’esigenza economica di migliorare la qualità del paesaggio anche là dove (come nelle periferie urbane) non si è stati capaci di creare qualità nuove, ma solo di distruggere quelle preesistenti.

Paesaggio e pianificazione

Obiettivo primario che si pone è dunque quello di conferire piena efficacia alla protezione e al godimento dei beni paesaggistici (di quelli esistenti e di quelli da realizzare) da parte delle generazioni presenti e future. Con quali strumenti però?

Non credo nella sufficienza di politiche meramente vincolistiche (sebbene sia convinto, come argomenterò fra poco, che tali politiche siano ancora necessarie). Non credo neppure nella utilità di strumenti che isolino determinate porzioni del territorio e riservino a queste l’azione di tutela. Il paesaggio va governato nel suo complesso, con un’azione cui non sfuggano nè la storicità del paesaggio (e dunque la consapevolezza dell’intreccio tra lavoro e natura che il paesaggio rappresenta ed esprime), né l’esigenza di tutelarlo dinamicamente, governandone quindi l’evoluzione e il rapporto, certo complesso e difficile, con l’azione antropica.

Il paesaggio può essere tutelato con efficacia unicamente se diviene un aspetto, decisivo e vitale, di un’azione di governo del territorio che affronti l’insieme dei problemi e delle esigenze legati al suo uso e alle sue trasformazioni, assicurando in questo quadro la priorità alla tutela e allo sviluppo delle dimensioni qualitative: dunque, del paesaggio. Ecco perché ritengo che la pianificazione territoriale e urbanistica, come insieme di metodi e strumenti volti ad assicurare coerenza alle trasformazioni del territorio garantendo trasparenza e partecipazione al processo delle decisioni, sia l’ambito entro il quale tale obiettivo può essere raggiunto.

Ed ecco perché, per converso, sono preoccupato delle fortune che sempre più stanno ricevendo quegli strumenti urbanistici “anomali”, che dall’inizio degli anni Ottanta stanno rendendo via via più complicata – e più perversa – la pratica della pianificazione. Mi riferisco ai programmi integrati, ai programmi di recupero urbano, ai programmi di riqualificazione urbana, ai contratti di quartiere, agli accordi di programma quadro, ai contratti di programma, ai patti territoriali, ai contratti d’area, ai programmi straordinari di edilizia residenziale, e infine ai programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio.

Ciò che accomuna la quasi totalità di questi “piani anomali” è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini).

Indirizzi per la pianificazione

Occorre utilizzare lo strumento e il metodo della pianificazione nella sua reale portata. Ma occorre arricchire e adeguare quest’ultima, definendo nuovi indirizzi che le consentano di farsi carico più compiutamente delle esigenze della tutela del paesaggio. A me sembra particolarmente significativo, da questo punto di vista, il modo in cui la legge 431/1985 (la cosiddetta Legge Galasso) ha posto le premesse per innovare il sistema di pianificazione.

La legge è stata attuata solo parzialmente, e spesso la sua attuazione è stata una elusione delle sue finalità. Ma l’esperienza di attuazione di quella legge, là dove un’attuazione positiva vi è stata, induce ad sottolineare, e a proporre alcuni indirizzi particolarmente significativi. Li enuncerò in termini molto sintetici:

La “attenta considerazione delle valenze paesistiche e ambientali”, che la legge 431 chiede alla pianificazione ordinaria perché abbia efficacia, deve diventare una costante nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale.

Più precisamente, la prima fase della pianificazione deve essere costituita dall’assidua ricognizione delle qualità naturali e storiche del territorio, come si tentò di fare nell’esperienza della Regione Emilia Romagna del 1985-86 e come hanno prescritto, in modi più o meno chiari, le nuove leggi urbanistiche della Toscana e della Liguria.

La ricognizione delle qualità del territorio deve condurre precettivamente all’individuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili con le caratteristiche proprie di ogni unità di spazio, come condizionenon negoziabile per ogni decisione sulle trasformazione da promuovere o consentire;

La tutela attiva del paesaggio richiede che nel processo di pianificazione vengano integrati tutti gli strumenti disponibili: le politiche e le azioni di settore, gli incentivi finanziari, la partecipazione a programmi e progetti nazionali e sovranazionali, il ricorso all’imprenditoria privata. Questi strumenti non devono essere adoperati in contrasto alla pianificazione oppure come alternativa ad essa, ma - appunto - come suoi strumenti.

Sottolineare l’utilità della pianificazione (come mi sembra indispensabile) significa riconoscere la parzialità, e quindi l’insufficienza, della protezione passiva costituita dai vincoli di tutela. Ma credo che il clima culturale e morale che stiamo attraversando (gli anni Ottanta non finiscono mai!) impongano al tempo stesso di ribadirne l’utilità.

I vincoli, ancorché non sufficienti, sono utili sotto un duplice profilo. In primo luogo, il vincolo è necessario come difesa temporanea, in attesa che la pianificazione consenta di articolare le politiche, sia attive che passive, di tutela. In secondo luogo perché (come dimostra l’esperienza della legge 431/1985) il vincolo agisce strumentalmente come sollecitazione alla pianificazione, e quindi alla possibilità di una tutela più compiuta e di una fruizione dei beni paesaggistici che ne garantisca la conservazione.

Sussidiarietà e intesa

Un ultimo punto vorrei brevemente toccare. La tutela e valorizzazione del paesaggio esprime una pluralità d’interessi collettivi: da quelli nazionali a quelli locali. Occorre evitare sia il rischio del conflitto paralizzante sia quello della negazione di uno o dell’altro degli interessi coinvolti.

Il principio di sussidiarietà è il criterio utilizzabile per individuare a chi spetta la responsabilità della scelta in relazione agli oggetti e aspetti su cui occorre decidere. Lo è, beninteso, se è assunto nella sua accezione corretta, quella elaborata nella recente cultura europea. Non il principio di sussidiarietà inteso come “tutto il potere alla periferia”, ma come riconoscimento del fatto che per ogni decisione c’è un livello giusto al quale quella decisione può essere presa efficacemente. Ma valga il testo ufficiale (Trattato di Maastricht, art.3B):

Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.

È davvero difficile pensare che il paesaggio, essendo elemento fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, non rientri pienamente nelle responsabilità (e nelle competenze) dello Stato, essendo appunto questione che si pone a una scala nazionale.

Ma se gli organi centrali dello Stato hanno la responsabilità dell’azione di tutela, essi hanno anche quella di promuovere la concorrenza dei poteri nell’azione di tutela. Se la responsabilità primaria in materia di paesaggio spetta allo Stato, anche i livelli di governo regionale e locale sono legittimati (credo d’averlo argomentato a sufficienza) a concorrere con esso nella azione di individuazione, definizione, tutela.

Come può esercitarsi la concorrenza nel campo della pianificazione territoriale e della tutela del paesaggio? Anche qui vi è un principio, e un istituto già introdotto nel nostro ordinamento, che possono aiutare. È il principio secondo il quale gli strumenti di pianificazione, laddove disciplinino beni dello Stato in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possono diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato. Questo principio, del resto, è stato introdotto recentemente nell'ordinamento, seppure limitatamente alla pianificazione provinciale, dall'articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, il quale stabilisce che:

la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale [...] assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.

Come propone l’associazione Polis, un simile testo normativo può essere esteso al di là del suo specifico contesto, e costituire un modello sulla cui base affrontare compiutamente la questione. È un modello, del resto, che è già stato più volte proposto e applicato in concrete esperienze di governo del territorio e può dar luogo a utili semplificazioni e snellimenti delle procedure. Ciò che è nell’interesse di tutti.

Vedi anche: Ragionando sul paesaggio

Il testo della lettera spedita l'11 genna56 2007 alla responsabile DS per il Territorio, Patrizia Colletta. In calce il link all'articolato dei DS, in formato .pdf.

Cara Patrizia, molto sinteticamente alcune osservazioni di carattere generale sul testo che mi hai inviato.

Mi sembra intanto, per esprimere una valutazione complessiva, che non ci siano più elementi di contrasto o contraddizione con il testo a suo tempo presentato dagli “amici di eddyburg”. Rilevo anzi con piacere che formulazioni rilevanti della nostra proposta siano state riprese nel documento DS.

Naturalmente sono possibili numerose critiche, intese come proposte di miglioramento, su singoli e specifici punti; ma su questo ci sarà tempo e modo di intervenire più avanti. Sottolineo invece tre questioni sulle quali mi piacerebbe che una riflessione conducesse ad alcune correzioni di sostanza del vostro testo. Si tratta di due integrazioni secondo me indispensabili, e omogenee al testo, e di una questione un po’ più sostanziale e meno “tecnica”. Nell’ordine.

1. Il consumo di suolo. Così com’è (ultimo comma dell’articolo 3) mi sembra che il contenimento del consumo di suolo sia poco più della manifestazione di un’intenzione. È un po’ poco per chi, come me, pensa l’obiettivo di merito centrale delle politiche territoriali oggi in Italia debba essere l’arresto dello sprawl e dell’ingiustificato consumo di suolo e la tutela delle aree extraurbane. Nel nostro testo c’erano alcune formulazioni più precise. Mi riferisco in particolare all’articolo 7 (Il contenimento dell'uso del suolo e la tutela delle attività agro-silvo-pastorali), al secondo comma dell’articolo 10 (Gli strumenti e gli atti di pianificazione, e in particolare il ruolo della pianificazione provinciale), e all’articolo 19 (Modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio).

Si tratta di formulazioni che a mio parere possono essere integrate (per esempio, chiedendo alla legislazione regionale di precisare le modalità tecniche di valutazione dell’effettiva necessità di nuove urbanizzazioni, ciò che neppure il nostro testo affronta), ma comunque costituiscono un minimo indispensabile se davvero la riduzione del consumo di suolo è anche per l’Italia un obiettivo.

2. Priorità della tutela sulle trasformazioni. Mi sembra trascurata una questione che a me appare rilevantissima: la priorità delle determinazioni relative alla tutela (cioè della definizione delle condizioni che le esigenza della tutela dell’identità culturale e dell’integrità fisica pongono alle trasformazioni) rispetto alle decisioni di trasformazione del territorio. Nel testo degli “amici di eddyburg” questa precisazione era ritenuta assorbita dall’impianto generale del testo, e in particolare dalla tutela generalizzata delle aree interessate dagli articoli 7 e 8, oltre che dalla stretta connessione con la pianificazione paesaggistica e dalla stringente partecipazione degli organi preposti alla tutela di cui all’articolo 11 (Formazione partecipata degli strumenti di pianificazione).

Secondo me non si può non farsi carico di questo obiettivo, soprattutto se si specificano i contenuti degli strumenti di pianificazione ai vari livelli, come nel vostro testo di fa. (A proposito, ha senso imporre a tutte le regioni il modello di tre componenti della pianificazione di cui all’articolo 15, modello che è applicato solo dalla Regione Toscana?).

Non separiamo urbanizzazione e tutela, infrastrutture e paesaggio. In assenza dei due elementi che ho sopra richiamati (che possono peraltro essere facilmente integrati raccogliendo suggerimenti della nostra proposta) il testo rimane limitato a una disciplina dell’edificazione, e si presenta molto arretrato rispetto a tutte le novità introdotte, anche nelle legislazioni regionali, a partire dall’ambientalismo e dall’attenzione al paesaggio, quindi diciamo dagli anni Ottanta in poi.

Mi sembra che non superare la contrapposizione tra urbanistica (disciplina dell’edificazione) e tutela (disciplina del paesaggio, del beni culturali e dell’ambiente) sia un errore culturale e politico. Come quello di perpetuare la separazione tra politica delle infrastrutture e politiche dell’ambiente e del paesaggio, di cui vedo vistose tracce nella vostra formulazione sui “lineamenti fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”.

3. Il principio di sussidiarietà e i rapporti tra le istituzioni. Mi sembra che nel vostro testo si ponga l’accento solo sulla collaborazione e sull’intesa, e non sulla responsabilità che spetta ai diversi livelli istituzionali. Se non si raggiunge l’intesa, chi deve decidere?

So bene che negli anni passati c’è stato in Italia uno scivolamento da un’impostazione alla Delors a un’impostazione alla Bossi, ma mi sembra che stia maturando la consapevolezza che lo slogan “tutto il potere al basso” provoca più problemi di quanti non ne risolva. Richiamare il concetto di responsabilità istituzionali definite in relazione alla “scala delle azioni e dei loro effetti” (uso la terminologia europea) è indispensabile. Intese si, co-pianificazione si, ma che si sappia che, per ogni questione, c’è un livello istituzionale cui spetta la decisione ultima.

Esistono interessi nazionali, interessi regionali, interessi provinciali e locali. È un grave errore stabilire che sono tutti assorbiti dal livello “più vicino all’elettore” (come se l’elettore non votasse per tutti i livelli). La sussidiarietà è un principio che fu inventato per attribuire a ciascun livello le competenze proprie in relazione alla maggiore efficacia dell’azione di governo, non per stabilire che ciascuno ha un diritto di veto oppure che tutto il potere spetta al livello più basso. Nella stessa logica mi sembra sbagliato assumere dalla Convenzione europea la definizione del paesaggio, che io giudico estremistica perché manca un “anche”, laddove dice.che il paesaggio è ciò che percepisce la popolazione: è anche questo, non solo questo.

Buon lavoro

Qui sotto il link al testo dell’articolato

Secondo il diritto italiano i vincoli posti dagli strumenti urbanistici decadono dopo un certo periodo di tempo? Quindi se si vuole tutelare un’area di pregio, che non si sia potuta acquisire, occorre scendere a patti col proprietario e concedergli una quota di edificabilità, lì o altrove? E il proprietario fondiario cui una previsione urbanistica (ad esempio, un piano regolatore approvato) ha attribuito una certa edificabilità, può pretendere dal Comune un indennizzo se questi ritenga di modificare la destinazione d’uso ed eliminare, o ridurre fortemente, l’edificabilità? È quindi necessario, per ragioni di diritto [1], compensare il proprietario la cui area non sia più edificabile come inizialmente previsto?

A queste domande si tende a dare, da qualche anno, una risposta positiva: non da parte dei giuristi, ma da parte di numerosi urbanisti, e dagli amministratori che da essi si lasciano convincere.

Sempre più diffusamente si parla infatti di “perequazione”. Non come pratica introdotta con il comparto (1942) e, più tardi (1967), con la lottizzazione convenzionata, da estendere ad altri casi. Ma come sistema che consente di sfuggire alla decadenza dei vincoli e alla mancata riforma del diritto dominicale. Antesignano, il comune emiliano di Casalecchio al Reno; sponsor, l’Istituto nazionale di urbanistica, a partire dal 1995.

E sempre più diffusamente si propongono complesse pratiche di “compensazione” con trasferimenti di cubature su e giù per le campagne. Esemplare il caso del PRG di Roma, approvato dalla Giunta comunale nel luglio 2002 e da allora soggetto a una serie consistente di critiche soprattutto al sovradimensionamento.

Non sono un giurista (benché per fare l’urbanista qualcosa del diritto bisogna pur conoscerlo). Ho consultato qualche amico che ne sa, e ho letto qualche documento. Proverò a dimostrare che, sulla base del diritto vigente oggi in Italia, “compensazioni” e “perequazioni” possono essere suggerite da opportunità politiche, ma non sono affatto la conseguenza obbligata di norme perverse, che tutelino troppo profondamente gli interessi dei proprietari a dispetto degli interessi generali.

La questione dei vincoli: una distinzione preliminare

La Corte costituzionale ha avuto, negli anni, un orientamento costante e costantemente ribadito [2], che può essere riassunto nei termini seguenti.

È necessario distinguere due tipi di vincoli alla libera disponibilità della proprietà immobiliare. Un primo tipo di vincoli (i giuristi li definiscono “vincoli ricognitivi”) deriva dal fatto che il legislatore abbia stabilito che una determinata “categoria di beni”, per la sua intrinseca natura, merita di essere tutelata in modo particolare, limitando le possibilità di trasformazione dei beni che ricadono in quella categoria. Un secondo tipo di vincoli (i giuristi li chiamano “vincoli funzionali” o “urbanistici”) comprende quelli che la pubblica amministrazione pone su determinati immobili (aree o edifici che siano) in relazione all’utilizzazione che ne vuol fare.

È chiara la ragione della distinzione.

Nel secondo caso è l’amministrazione che decide, in modo sostanzialmente discrezionale, che è lì, su quell’area, che conviene prevedere la costruzione di una scuola o il passaggio di una strada. Sono vincoli posti in relazione alla funzione (d’interesse pubblico) che si vuole assegnare a quell’immobile, e al disegno urbanistico che si vuole realizzare. Sono vincoli che vengono apposti a questa o quell’altra area con una certa “discrezionalità amministrativa”: il disegno urbanistico avrebbe potuto essere diverso, la funzione collocata in un altro sito.

Nel primo caso, invece, il legislatore ha stabilito che tutti i beni appartenenti a quella determinata categoria (per esempio, i boschi, o gli edifici anteriori al 1900, o i terreni terrazzati oppure, più generalmente, i beni d’interesse paesaggistico) devono essere utilizzati senza compromettere le caratteristiche proprie di quella categoria di beni. L’atto amministrativo che impone il vincolo a un determinato bene (quel bosco o quell’edificio antico) non è una decisione autonoma, ma è semplicemente il riconoscimento che quel determinato bene appartiene alla categoria di beni che la legge ha voluto tutelare: è un vincolo “ricognitivo”, perché la sua imposizione a un determinato oggetto deriva dalla ricognizione che l’atto amministrativo (il PRG, o l’elenco, o il decreto) effettua per individuare gli oggetti che, all’interno di un determinato perimetro, appartengono a quella categoria.

La pianificazione può imporre vincoli dell’uno e dell’altro tipo. Ma mentre per quelli “urbanistici” il vincolo non può essere imposto senza un interesse pubblico che lo motivi, e non può essere protratto senza indennizzo al di là di un termine ragionevole, per i vincoli “ricognitivi” non è necessario nessun indennizzo, perché il vincolo è “coessenziale” al bene.

Vincoli ricognitivi: riferimenti alle sentenze costituzionali

Espressa in termini semplici la tesi prevalente (e anzi, sembra, unanimemente condivisa nel diritto), è opportuno adesso riferirsi precisamente al testo di alcune sentenze. Già nel 1966 (sentenza 19 gennaio 1966, n. 6) la Corte costituzionale aveva

"rilevato che la legge non può disporre indennizzi quando i modi e i limiti che essa segna ai diritti reali attengono in maniera obiettiva, rispetto alla generalità dei soggetti, al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando essa regola la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della pubblica amministrazione; nel quale caso la legge imprime, per così dire, un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per caratteristiche intrinseche, salva la possibilità di accertare, con atti amministrativi di destinazione individuale, l'esistenza delle situazioni presupposte rispetto a singoli soggetti e a singoli beni. Solo per le imposizioni che comportano un sacrificio riguardo a beni che non si trovino nella situazione suddetta sorge [...] il problema dell'indennizzabilità."

Pochi anni dopo, in una delle due famose e concorrenti sentenze del maggio 1968 (sentenza 29 maggio 1968, n. 56), la Corte costituzionale si sofferma più ampiamente e organicamente sull’argomento e afferma che

"i beni che formano il patrimonio paesistico della comunità costituiscono essi stessi una categoria a contorni certi, dato il carattere tecnico del giudizio che la pubblica amministrazione è chiamata a emettere per delinearla in concreto, e che è suscettibile di sindacato giurisdizionale."

La Corte rileva che

"i beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro localizzazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge. Costituiscono cioè una categoria che originariamente è di interesse pubblico, e l’amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa. Individua il bene che essenzialmente è soggetto al controllo amministrativo del suo uso in modo che si fissi in esso il contrassegno giuridico espresso dalla sua natura e il bene assuma l'indice che ne rivela all'esterno la qualità; e in modo che sia specificata la maniera di incidenza di tali qualità sull’uso del bene medesimo. L'atto amministrativo svolge [...] una funzione che è correlativa ai caratteri propri dei beni naturalmente paesistici e perciò non è accostabile a un atto espropriativo; non pone in moto, vale a dire, la garanzia di indennizzo apprestata dall'articolo 42, terzo comma, della Costituzione."

E la sentenza prosegue:

"Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le è attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene, così che le sia consentito di confrontare il modo di esercizio di alcune facoltà inerenti a quel godimento con l'esigenza di conservare le qualità che il bene ha connaturali secondo il regime che gli è proprio e di prescrivere adempimenti coordinati e correlativi a tali esigenze. L'amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare[...]. Ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull’area, perché questo diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; né aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com'è nel caso dell'espropriazione considerata nell'articolo 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone."

Questa posizione, molto chiara e ragionevolmente motivata, viene ribadita in numerose sentenze successive[3]. Fino alla più recente, quando la Corte, pronunciandosi più specificamente in merito ai cosiddetti “vincoli urbanistici” (di cui parleremo più avanti) ricapitola la propria giurisprudenza anche a proposito di “vicoli ricognitivi” (sentenza 20 maggio 1999, n.179). In questa sentenza la Corte ribadisce che

"non sono inquadrabili negli schemi dell’espropriazione, dei vincoli indennizzabili e dei termini di durata i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge."

E ricorda che

"più in generale si è ritenuto che la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i limiti imposti - previsti dalla legge direttamente o con il completamento attraverso un particolare procedimento amministrativo - attengano, con carattere di generalità per tutti i consociati e quindi in modo obiettivo [...], a intere categorie di beni, e per ciò interessino la generalità dei soggetti con una sottoposizione indifferenziata di essi - anche per zone territoriali - a un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso. Non si può porre un problema di indennizzo se il vincolo, previsto in base a legge, abbia riguardo ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando la legge stessa regoli la relazione che i beni abbiano rispetto ad altri beni o interessi pubblici preminenti."

Chi pone i vincoli ricognitivi?

Ma i vincoli ricognitivi non sono forse di competenza dello Stato e, dopo la legge 431 del 1995, delle Regioni? Che c’entrano dunque con le politiche urbanistiche locali e con i piani regolatori, se non come una tutela che viene dall’alto e che come tale deve essere rispettata?

In realtà, porre i “vincoli ricognitivi” non spetta solo gli organi centrali dello Stato, com’era mezzo secolo fa, nè solo alle Regioni, cui la costituzione e i decreti succedutisi dal 1970 al 1977 hanno attribuito, trasferito e delegato competenze e poteri in proposito alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Ma, dopo la legge 431 del 1985, quel compito (e quel potere) spetta anche agli altri enti pubblici dotati di competenze in materia di pianificazione territoriale e urbanistica. Molto chiara in proposito è, ad esempio, la Corte costituzionale con la sentenza n. 378 del 2000. In essa si afferma, riferendosi alla pianificazione in Emilia Romagna:

"[…] proprio perché il legislatore regionale, in linea con la previsione della legislazione statale, ha seguito la via alternativa (al piano paesistico) dello strumento di pianificazione urbanistica, sia pure anche con valenza paesistica e ambientale, non esiste un limite territoriale alle sole zone elencate nel quinto comma dell’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977 […]. Anzi gli strumenti di pianificazione urbanistica hanno una efficacia normalmente orientata verso l’assetto dell’intero territorio dell’ente investito dello specifico potere di pianificazione. […] Del resto la tutela paesistico-ambientale svolta attraverso uno strumento di pianificazione urbanistica può comportare la protezione di un territorio ben più vasto delle aree strettamente vincolate, per le necessarie connessioni con le zone contermini e per esigenze di coinvolgimento di una sfera più ampia. Ed infatti questa Corte ha avuto occasione di sottolineare che la protezione preordinata dalla legge n. 431 del 1985, sia pure "minimale", non esclude né preclude "normative regionali di maggiore o pari efficienza" […], soprattutto quando vi siano esigenze di una valutazione complessiva (e più ampia) dei valori sottesi alla disciplina dell’assetto urbanistico."

L’equazione “vincolo ricognitivo uguale vincolo imposto per legge”, che costituisce un’opinione corrente nel mondo perequativo, è quindi priva di fondamento. Lo è certamente per gli aspetti paesaggistici, poiché la stessa legge nazionale 431/1985 prevede la possibilità di redigere “piani urbanistici” che possono riguardare (anzi, di norma riguardano) l’intero territorio. Lo è più in generale per tutte le categorie di vincoli preordinati alla tutela paesistico-ambientale che possono essere apposti, attraverso i piani urbanistici, anche in virtù di leggi regionali più restrittive di quella nazionale. Tale orientamento della Corte prelude ad un’altra fondamentale statuizione: hanno facoltà di individuare sul territorio beni da sottoporre a vincoli ricognitivi non indennizzabili, quindi, le Regioni, le Province e anche i Comuni, nell’ambito della pianificazione ordinaria. La Corte costituzionale lo ribadisce nella stessa sentenza:

"Del resto, la pianificazione urbanistica a livello comunale non ha carattere esaustivo e non riassorbe, con funzione di prevalenza, le altre forme di pianificazione o gli altri vincoli non urbanistici, poiché qualsiasi intervento che modifica il territorio non deve porsi in contrasto con tutti gli altri vincoli su di esso esistenti (paesistici, culturali, di rispetto delle ferrovie e delle autostrade, del demanio marittimo ecc.), ancorché la pianificazione urbanistica comunale non escluda tale tipo di intervento o lo consenta. Il principio è reciproco anche nei rapporti tra vincoli non urbanistici e vincoli derivanti da pianificazione urbanistica comunale. Riguardo alla sfera degli interessi coinvolti e delle esigenze relative al territorio, giova sottolineare che la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell'ambito territoriale in cui si svolge la vita dell'uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria. Detta tutela costituisce compito dell’intero apparato della Repubblica, nelle sue diverse articolazioni ed in primo luogo dello Stato (art. 9 della Costituzione), oltre che delle regioni e degli enti locali."

Sulla facoltà (anzi, il dovere) dei Comuni a sviluppare, approfondire e articolare l’individuazione dei beni territoriali da sottoporre a tutela effettuata dalle Regioni la Corte si era del resto già espressa all’indomani dell’entrata in vigore della legge 431 del 1985, con la sentenza n. 151 del 24 giugno 1986. La Corte aveva affermato in quella sede che la legge 431/1985,

"discostandosi nettamente dalla disciplina delle bellezze naturali contenuta nella legislazione precostituzionale di settore (l. n. 1497 del 1939) introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, implicante, cioè, una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce del valore estetico-culturale, in aderenza all'art. 9 Cost., che assume tale valore come primario. Detta tutela non esclude nè assorbe la configurazione dell'urbanistica quale funzione ordinatrice degli usi e della trasformazioni del suolo nello spazio e nel tempo, devoluta alle Regioni: la nuova normativa provvede, bensì, al raccordo - nell'ambito stesso della nuova tutela e nei suoi rapporti con l'urbanistica - tra competenze statali e competenze regionali, mediante soluzioni ispirate al principio di leale cooperazione, sia istituendo un rapporto di concorrenza, strutturato in modo che le competenze statali sono esercitate (solo) in caso di mancato esercizio di quelle regionali e (solo) in quanto ciò sia necessario per il raggiungimento dei fini essenziali della tutela; sia proiettando quest'ultima (in modo dinamico) sul piano dell'urbanistica, col regolare l'esercizio qualificato, e teleologicamente orientato in senso estetico-culturale, di competenze regionali in materia urbanistica."

Anche la pianificazione comunale, in altri termini, deve farsi carico dell’esigenza di individuare sul territorio i beni che è necessario sottoporre a vincolo ricognitivo (non indennizzabile), “proiettando” così la tutela, “in modo dinamico, sul piano dell’urbanistica”.

I vincoli “urbanistici”:incostituzionale non indennizzarli se sono “espropriativi”

La questione dei vincoli urbanistici fu posta per la prima volta in termini compiuti con la prima delle due sentenze del 1968: la n. 55. In realtà le due sentenze (che ad alcuni frettolosi commentatori apparvero allora in contraddizione tra loro) compongono tra loro un unico ragionamento: legato dalla distinzione tra “vincoli ricognitivi” e “vincoli urbanistici” che ho all’inizio sottolineato, e che è davvero fondativa per qualsiasi valutazione in materia.

La tesi che la Corte costituzionale argomenta nella sentenza 55/1968 può essere sintetizzata come segue. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli di destinazione di zona per uso pubblico sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Però al vincolo di piano non segue necessariamente l’atto concreto dell’espropriazione, e quindi del pagamento di una indennità: il vincolo ha validità a tempo indeterminato, e ugualmente indeterminato è il momento nel quale il comune avrà l’intenzione e la possibilità di realizzare l’opera prevista. Viene così a determinarsi “un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato finale”. Questo, sostiene la Corte, è costituzionalmente illegittimo.

Ma la sentenza suggerisce anche al legislatore il possibile riparo. La sentenza afferma infatti che il legislatore potrebbe anche porre limitazioni pesantissime alla proprietà, a tre condizioni: che la norma sia stabilita in relazione a tutte le proprietà appartenenti a una determinata “categoria di beni”, senza discrezionalità; che questo derivi da una esigenza d’interesse generale; che la limitazione non annulli il valore economico del bene. In caso contrario, la limitazione è legittima, ma va indennizzata.

Com’è noto, il legislatore non seguì la via indicata dalla Corte. Ne eluse l’insegnamento, stabilendo un sistema di proroghe e di “validità a tempo determinato” [4] dei vincoli urbanistici (quelli ricognitivi non furono mai messi in discussione). Molti comuni, non riuscendo ad avviare le procedure di acquisizione delle aree entro i termini, con nuovi provvedimenti urbanistici rinnovarono i vincoli decaduti. A qualche comune andò bene, ad altri no.

È illegittimo reiterare i vincoli urbanistici?A certe condizioni non lo è

Finalmente, nell’inerzia del legislatore, la Corte intervenne con una nuova sentenza, la n. 179 del 1999. In essa la Corte afferma che i vincoli urbanistici

"assumono certamente carattere patologico quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza […]. Ciò ovviamente in assenza di previsione alternativa dell’indennizzo […], e fermo, beninteso, che l’obbligo dell’indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)."

Ma nello stesso tempo la sentenza stabilisce in quali casi la reiterazione del vincolo non sia “patologica”, e quindi non sia criticabile per incostituzionalità. Ribadisce ulteriormente la piena validità (e la non indennizzabilità) dei vincoli ricognitivi, ma afferma che devono considerati “come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente”, e quindi non indennizzabili, anche

"i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili."

Quindi, ad esempio, non sono indennizzabili i vincoli consistenti nelle destinazioni a zona agricola. Non pongono analogamente problemi di indennizzabilità, o altra compensazione,

"i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene."

La Corte precisa anche tecnicamente questo caso, e aggiunge:

"Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento. Si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato."

Ma la Corte aggiunge ancora una ulteriore precisazione. Essa ricorda come la giustizia amministrativa

"a proposito della reiterazione dei vincoli, ha delineato un diritto vivente (che deve essere tenuto presente per risolvere la questione di legittimità costituzionale prospettata), secondo cui la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del termine può ritenersi legittima sul piano amministrativo se corredata da una congrua e specifica motivazione sulla attualità della previsione, con nuova ed adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, e con giustificazione delle scelte urbanistiche di piano, tanto più dettagliata e concreta quante più volte viene ripetuta la reiterazione del vincolo."

In definitiva, in questa stessa sentenza 179/1999, che è stata giudicata come escludente in modo tassativo ogni ipotesi di reiterazione dei vincoli, la Corte indica la piena legittimità costituzionale delle reiterazioni a talune condizioni. E afferma esplicitamente che

"la reiterazione in via amministrativa degli anzidetti vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale (v., per quest’ultimo profilo, sentenze n. 344 del 1995; n. 82 del 1982; n. 1164 del 1988) non sono fenomeni di per se inammissibili dal punto di vista costituzionale. Infatti possono esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con adeguata motivazione) dell’amministrazione preposta alla gestione del territorio o rispettivamente apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà."

Utile riepilogo è costituito dall’ultimo paragrafo dell’articolata sentenza dove la Corte, sintetizzando l’insieme degli approdi delle sue argomentazioni, afferma che

"restano al di fuori dell'ambito dell'indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni - ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici -, i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile."

Può il PRG eliminare senza danni l’edificabilità di un’area?

In altri termini, se il comune, con un piano regolatore aveva destinato una particolare area a zona d’espansione, o comunque aveva attribuito una utilizzazione che comportava l’edificazione, e poi con un successivo documento urbanistico aveva modificato questa destinazione prevedendo utilizzazioni diverse (per esempio, zona agricola), il proprietario ha diritto a una qualche forma di risarcimento o d’indennizzo? Esiste insomma una “diritto all’edificabilità” che, una volta ottenuto dal proprietario, gli appartenga come parte del proprio patrimonio?

La giurisprudenza è costante nell’affermare che l’interesse pubblico, espresso dalle amministrazioni legittimate a compiere gli atti amministrativi, prevale sull’interesse dei privati proprietari. L’unica attenzione che legislazione e giurisprudenza costantemente pongono è che l’atto con il quale si comprimono i legittimi interessi dei proprietari siano adeguatamente motivati, e che la compressione del legittimo interesse sia altrettanto adeguatamente indennizzata.

Motivazione e indennizzo, sono dunque i due elementi cardine che temperano la piena potestà della pubblica amministrazione e garantiscono gli interessi legittimi del proprietario (non sembra che legislazione e giurisprudenza, in Italia, si siano occupati altrettanto del cittadino non proprietario).

Ecco alcune sentenze, dal 1980 al 2001 (sono riprese dalla, Rassegna di giurisprudenza dell’urbanistica di Renzo Poggi; i corsivi sono miei):

Nel 1980 il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, ha stabilito che

"l’amministrazione comunale, se pure non è tenuta a motivare le scelte urbanistiche generali considerate nella loro globalità (se non nei casi in cui tali scelte incidano su lottizzazioni già approvate), deve peraltro motivare l’adozione di una variante al piano regolatore generale che quelle scelte abbia approvato, indicando le ragioni che hanno determinato la totale o parziale inattualità del piano o la convenienza di migliorarlo." [5]

Il TAR Lombardia ha sentenziato, nel 1982, che

"la variante al piano regolatore comunale abbisogna di una particolare motivazione solo quando al posizione del privato, proprietario dell’area, risulti “consolidata” per effetto di precedenti convenzioni lottizzate stipulate con il comune, e non anche quando trattasi di aree sulle quali insiste un semplice manufatto edilizio” [6].

Il Consiglio di Stato, IV Sezione, ha affermato nel 1984 che

"è illegittima la variante al piano regolatore generale in contrasto con un preesistente piano di lottizzazione, che non indichi i motivi di interesse pubblico che giustificano il mutamento della sistemazione urbanistica del territorio" [7] .

Ma veniamo ad anni più vicini. In una sentenza del 2000 il Consiglio di Stato, Sezione V, ha giudicato che

"il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" [8].

Il TAR Lombardia, sez. Brescia, ha stabilito nel 2001 che

"neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il prg non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" [9].

Con la medesima pronuncia il tribunale ha argomentato che

"il comune, pur avendo la più ampia discrezionalità di rivedere le previsioni urbanistiche in sede di disciplina del proprio territorio, tuttavia, anche in assenza di una preesistente lottizzazione convenzionata, ove abbia ingenerato precisi affidamenti sulla edificabilità nel proprietario dell’area, non può adottare una variante che modifichi le previsioni già in vigore, senza addurre una circostanziata motivazione sulle particolari ragioni di pubblico interesse che abbiano reso necessario incidere sulle posizioni giuridiche del privato costituitesi con l’avallo dell’amministrazione e senza una congrua comparazione tra i vari interessi in conflitto" [10].

Nel medesimo anno il Consiglio di Stato, V sezione, ha giudicato che

"sono illegittime le deliberazioni comunali di adozione di variante a piano regolatore generale che modificano la destinazione urbanistica di aree oggetto di convenzione di lottizzazione precedentemente autorizzate, senza recare una congrua e puntuale motivazione in ordine alla preponderanza dell’interesse pubblico sotteso alla nuova destinazione urbanistica sull’interesse precedente e che aveva trovato espressione nell’approvata lottizzazione" [11].

L’esemplificazione della giurisprudenza potrebbe proseguire a lungo. Ciò che mi interessa sottolineare è che, se è legittimo modificare con uno nuovo strumento urbanistico, al limite escludendo l’edificabilità, una lottizzazione convenzionata già stipulata purché se ne motivino adeguatamente le ragioni, a maggior ragione ciò è possibile se si tratta di una semplice previsione di PRG. In tal caso, neppure una specifica motivazione sembra necessaria. E meno che meno è necessario un indennizzo.

In altri termini , non esiste alcun “diritto all’edificabilità” da parte del proprietario, né se questi è stato in precedenza gratificato da una previsione edificatoria poi cancellata, e neppure se, sulla base di quella previsione, aveva ottenuto l’approvazione di un piano di lottizzazione convenzionata e aveva stipulato con il comune i relativi atti.

Davvero è necessario “compensare” e “perequare”perché lo richiede il diritto?

È possibile a questo punto riepilogare per giungere a una conclusione.

Non esiste impedimento giuridico a modificare le previsioni del piano regolatore comunale vigente ove ciò sia necessario, senza che ciò comporti alcun obbligo di indennizzare o compensare in alcun modo il proprietario che abbia avuto una riduzione della utilizzabilità urbanistica della sua area.

Non esiste impedimento giuridico (e anzi esiste una sollecitazione da parte del giudice costituzionale) alla individuazione, da parte dei Comuni, di aree da sottoporre a tutela per motivi connessi ai valori culturali, archeologici, storici, paesaggistici (con specifico riferimento al paesaggio agrario) o a situazioni di fragilità e di rischio, e su cui quindi imporre un vincolo ricognitivo.

Non esiste impedimento giuridico a vincolare per utilizzazioni pubbliche (a sottoporre quindi a vincolo urbanistico) aree già sottoposte a vincolo ricognitivo, ove le ragioni del vincolo lo consentano e compatibilmente con le trasformazioni e le utilizzazioni coerenti con tali ragioni.

Non esiste obbligo a indennizzare i proprietari di aree, destinate a svolgere una funzione di pubblica utilità, per la quale la normativa urbanistica comunale preveda la gestione economica da parte del proprietario delle attrezzature e degli impianti di cui si ipotizza la realizzazione.

Ove sia necessario sottoporre a vincoli urbanistici di tipo espropriativo immobili che non ricadano nei due casi precedenti, e che non siano neppure acquisibili mediante le normali procedure della lottizzazione convenzionata praticata almeno dal 1967, l’indennità espropriativa non deve compensare ipotesi di edificabilità diverse da quelle che le leggi in materia dispongono. A meno che il Comune non sia così sciocco da promettere edificabilità diffuse e “spalmate” su gran parte del territorio comunale.

Edoardo Salzano

Venezia, 10 gennaio 2003

[1] Sottolineo “per ragioni di diritto” perché possono esserci motivi di opportunità politica o sociale che inducono ad agevolare determinati gruppi di proprietari; ma non è di questi aspetti che voglio occuparmi.

[2] A partire dalle sentenze n. 55 e 56 del 1968, fino alla sentenza 378 del 2000. Le rilevantissime sentenze del 1968 le ho commentate a suo tempo: Dopo la sentenza della Corte Costituzionale – La responsabilità a sciogliere i nodi nella questione del suolo urbano, in “Città e Società”, n.6, nov.- dic. 1968. Vedi anche: V.De Lucia, E.Salzano, F.Strobbe, Riforma urbanistica 1973, edizioni delle autonomie, Roma 1973: E Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Laterza editori, Bari-Roma, 20024.

[3] Si vedano le sentenze 15 luglio 1969, n. 136; 26 aprile 1971, n. 79; 20 febbraio 1973, n. 9; 4 luglio 1974, n. 202; 20 dicembre 1976, n. 245; 16 giugno 1988, n. 648; 17 luglio 1989, n. 391; 20 luglio 1990, n. 344; 28 luglio 1995, n. 417.

[4] Legge 19 novembre 1968, n. 1187. In realtà nell’approvare la legge il Parlamento si era impegnato a risolvere più sostanzialmente la questione approfittando della proroga quinquennale che si era concesso.

[5] Cons. Stato, Ad. Plenaria, 21 ottobre 1980 n. 37.

[6] TAR Lombardia, Sez. Milano, 6 maggio 1982 n. 254.

[7] Cons. Stato, Sez IV, 5 dicembre 1984 n. 884

[8] Cons. Stato, sez. IV, 3 luglio 2000 n. 3646.

[9] TAR Lombardia, sez. Brescia, 12 gennaio 2001, n. 2.

[10] Ibidem.

[11] Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1385.

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