loader
menu
© 2025 Eddyburg

A leggere le cronache locali, a valutare le denunce degli ambientalisti, sembrerebbe proprio che la costa della Liguria stia conoscendo una nuova stagione, simile a quella che troviamo leggendo le pagine di Italo Calvino della fine degli anni Cinquanta (penso ovviamente a La speculazione edilizia).

Le forme sono certamente diverse, e anche i personaggi. Là dove una volta prevalevano rozzezza e incultura, approssimazione e meschinità, oggi non mancano raffinatezza di forme e di argomentazioni. Credo che valga la pena di domandarci che cosa è cambiato, da oggi ad allora: che cosa c’è di nuovo, e che cosa invece ci fa esclamare con apprensione – come nei titoli dei film sui mostri – “a volte ritornano”.

La devastazione del territorio non provocò danni solo in Liguria, ma quasi in ogni parte d’Italia. Erano gli anni dell’espansione e della crescita, i primi decenni del secondo dopoguerra. Espansione e crescita nelle quali le scelte di politica economica privilegiavano la crescita di alcuni settori al cui sviluppo venne sacrificata la pianificazione territoriale e urbanistica. Mi riferisco all’edilizia e alle attività immobiliari, e alla motorizzazione privata e alla conseguente realizzazione di strade sempre più numerose e più pesanti. Era facile prevedere che lo sviluppo incontrollato di quei settori avrebbe gravemente compromesso le condizioni delle città e del territorio: ciò che puntualmente avvenne.

Un ceto politico più avveduto di quello attuale, e qualche gruppo imprenditoriale meno miope e meno parassitario di quelli di oggi, compresero che bisognava modificare qualcosa: bisognava tornare alla pianificazione per ridare ordine al caos, e bisognava dare alla pianificazione contenuti nuovi.

Si rilanciò la pianificazione urbanistica, che divenne lo strumento primario del governo del territorio in gran parte d’Italia. Fu sostanzialmente in quegli anni che si posero le basi per il rafforzamento del primato della pianificazione generale (quella affidata ai comuni e agli altre istituzioni rappresentative dell’elettorato) sulle pianificazioni di settore, quale quella delle autorità portuali.

Si istituirono le Regioni, con poteri considerevoli nel campo dell’urbanistica e della programmazione economica. Si avviò faticosamente e contraddittoriamente una riforma del regime degli immobili, che peraltro non giunse a conclusione. E negli anni successivi, mentre per un verso iniziava lo smantellamento in chiave tatcheriana degli strumenti faticosamente conquistati, si arricchì la pianificazione di contenuti nuovi.

Fino ad allora, in Italia la pianificazione aveva riguardato soprattutto le città e la loro espansione, e l’assetto del territorio in quanto contenitore e supporto di strutture e infrastrutture necessarie alle crescenti attività dell’uomo: nei piani territoriali si dovevano decidere le localizzazioni delle aree e degli impianti necessari alla residenza e ai relativi servizi, alle attività produttive e a quelle commerciali, ai servizi di vario ordine e grado, alle connessioni tra di loro via terra e via acqua e alla loro alimentazione di energia, acqua, fluidi. La pianificazione, insomma, si occupava più delle trasformazioni e dell’artificio che della conservazione e della natura.

Negli anni 80 le cose cambiarono. Alle intuizioni e ai tentativi degli urbanisti (voglio ricordare Edoardo Detti, Giovanni Astengo, Luigi Piccinato), alle denunce e alle proposte di alcune benemerite associazioni (grandi furono i meriti di Italia Nostra), si aggiunse la spinta della nuova consapevolezza ambientalista e la constatazione dei gravissimi danni che il saccheggio delle risorse provocava ad alcune componenti fondamentali della ricchezza del paese: dalla sua stessa consistenza geofisicha, all’immenso patrimonio culturale in esso sedimentato. Tra i contenuti nuovi della pianificazione particolare evidenza venne data in quegli anni al paesaggio e all’ambiente.

Per il paesaggio si svilupparono antiche intuizioni (da quella lontana, 1922, del ministro dell’istruzione Benedetto Croce) e strumenti normativi egregi per l’epoca e il contesto politico nel quale erano stati formulati (le leggi di tutela del 1939), e si formularono regole nuove, del resto pretese dalla Costituzione e dalla sua solenne dichiarazione “la Repubblica tutela il paesaggio”. Mi riferisco in particolare alla cosiddetta Legge Galasso del 1985, che introdusse i cardini di una nuova disciplina del territorio.

Si stabilì che le coste e i monti, i corsi d’acqua e i ghiacciai, i boschi e le comunità agrarie costituivano i segni visibili dell’identità del Paese, e come tali andavano tutelati da tutti gli istituti che costituiscono la Repubblica: lo Stato, le regioni, le province, i comuni. Si dispose che la tutela avvenisse mediante la pianificazione del territorio, che poteva essere esercitata, per la responsabilità della regione, mediante piani paesaggistici oppure mediante piani territoriali che avessero tra i loro contenuti essenziali la tutela del paesaggio e dell’ambiente.

Tra le regioni che rispettarono la legge attuandola come sarebbe stato doveroso per tutte vi fu la Liguria. Fece un Piano paesistico egregio sotto il profilo scientifico, forse non abbastanza perentorio dal punto di vista dell’incidenza sulla pianificazione comunale.

Nello stesso periodo della legge per la tutela del paesaggio altre disposizioni disciplinarono, mediante diversi apporti al sistema della pianificazione, altri elementi dell’ambiente e del paesaggio.

La legge per le aree protette estese la portata dei parchi (che comunque rimangono alcune isole nell’insieme del territorio nazionale) e ne disciplinò pianificazione e gestione, con qualche pasticcio nel rapporto tra pianificazione dei parchi e pianificazione territoriale e urbanistica (il “piano del parco” sostituisce ogni altro piano, come se ad esso dovessero far capo anche le decisioni sull’organizzazione dei centri abitati in essi compresi).

La legge per la difesa del suolo stabilì che tutte le misure, i provvedimenti, gli interventi e i vincoli relativi alla protezione delle acque e dalle acque avvenisse previa formazione di piani di bacino, formati sotto la responsabilità di una autorità pubblica inter-istituzionale, e che essi, per quanto riguarda strettamente gli aspetti connessi alla difesa del suolo, prevalessero su qualunque altro piano.

Negli stessi anni si chiarì un altro aspetto importante della pianificazione nelle aree costiere: a livello nazionale e, dove le regioni furono attente, al livello delle legislazioni regionali. Mi riferisco ai rapporti tra pianificazione ordinaria (regionale, provinciale, comunale) e pianificazione dei porti.

Una legge nazionale stabilì che il piano regolatore portuale delimita e disegna “l'ambito e l'assetto complessivo del porto, ivi comprese le aree destinate alla produzione industriale, all'attività cantieristica e alle infrastrutture stradali e ferroviarie”, ma che “le previsioni del piano regolatore portuale non possono contrastare con gli strumenti urbanistici vigenti”. Per di più, “il piano regolatore è adottato previa intesa con il comune o i comuni interessati” ed è approvato dalla Regione.(Legge 28.1.1984, n. 84, art.5).

La Regione Liguria, per conto suo, provvide ulteriormente a legiferare, stabilendo che il piano regolatore del porto è approvato non dalla Giunta, ma dal Consiglio regionale, il quale, addirittura, “apporta modifiche in relazione alle previsioni degli strumenti di pianificazione o di programmazione vigenti od adottati, nonché in relazione alle competenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente, con particolare riferimento alla sostenibilità e al bilancio ambientale delle relative scelte” (Legge Regione Liguria 12 marzo 2003, n. 9, art. 1).

Il carattere preminente della pianificazione urbanistica e territoriale, delle competenze del comune e della ragione, degli interessi della difesa del paesaggioo e dell’ambiente rispetto ai piani, alle competenze e agli interessi meramente economici e aziendali mi sembra perfettamente garantita.

Torniamo al paesaggio. Con la legge Legge Galasso, e con le successive edizioni del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, il ruolo del paesaggio e gli strumenti della sua tutela si affinarono, fino a giungere alle attuali disposizioni. La legislazione nazionale, e le diverse sentenze costituzionali che si sono occupate dell’argomento, hanno consentito di giungere a un approdo significativo di cui è utile ripercorrere i capisaldi, che sintetizzerò in sei punti:

1. la tutela del paesaggio è un prius rispetto alle trasformazioni del territorio; in tal senso, le disposizioni della pianificazione regionale concernenti la tutela del paesaggio sono vincolanti ope legis per la pianificazione successiva, sia di livello regionale che di livello provinciale e comunale;

2. la competenza nell’individuazione dei concreti beni da sottoporre a tutela, e in particolare dei “beni paesaggistici”, spetta alla Regione, nel rispetto delle categorie di beni individuate dalle leggi nazionali;

3. il paesaggio non è costituito unicamente dai “beni paesaggistici” appartenenti alle individuate categorie, ma è un connotato del territorio che ovunque va analizzato, valutato, protetto nelle sue qualità o ricostituito dove queste siano state dissolte;

4. la pianificazione territoriale delle province e quella urbanistica comunale, nel rispetto delle disposizioni della pianificazione paesaggistica, devono svilupparne le indicazioni approfondendo lo studio e la valutazione delle qualità del paesaggio e degli elementi di degrado in atto;

5. la responsabilità dell’azione di tutela è condivisa dall’insieme delle istituzioni che costituiscono la Repubblica, ma rimangono massimamente nell’ambito delle competenze dello Stato e delle regioni (con qualche pasticcio derivante dalle modifiche costituzionali introdotte nel 2001, che hanno artificiosamente separato la tutela della valorizzazione);

6. la formazione di piani paesaggistici regionali conformi alle prescrizioni del Codice e la conseguente redazione di piani urbanistici comunali a loro volta conformi ai piani paesaggistici può ridurre i poteri d’intervento ad hoc degli organi dello Stato per la tutela di beni minacciati di danno, e di conseguenza semplificare le procedure abilitative in tutte le vastissime aree vincolate ope legis.

Mi sembra che si possa dire che, sul terreno degli strumenti legislativi, le cose sono indubbiamente migliorate rispetto al passato. Non sono migliorate, e anzi a mio parere sono tornate al punto di partenza sotto altri profili. “A volte ritornano”.

Voglio soffermarmi molto brevemente su tre aspetti del peggioramento.

In primo luogo, credo che si debba parlare di una tendenza all’abdicazione dello Stato e delle Regioni nei confronti dei Comuni. Si è rotto nei comportamenti l’equilibrio tra le istituzioni previsto dalla Costituzione. L’errore grande è stato secondo me l’interpretazione estremistica che si è data al principio della sussidiarietà.

Nell’accezione della Comunità europea (dove l’espressione fu coniata ai tempi di Jacques Delors) il principio di sussidiarietà significa che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (la Regione nei confronti del Comune, o lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

Nell’accezione italiana – fortemente condizionata dalle posizioni della Lega Nord di Bossi – sussidiarietà significa sostanzialmente “tutto il potere all’istanza più vicina al cittadino, a meno che proprio non sia insensato farlo”.

La formulazione legislativa, che costituisce il riferimento del nuovo testo costituzionale, si avvicina a questa interpretazione estremistica, ma non ci arriva (Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a). Ci arrivano però alcune interpretazioni e applicazioni autorevoli sul piano dei poteri reali, come quella prevalente nella Regione Toscana, dove si è arrivati ad affermare che tutti i livelli istituzionali sono da porsi sullo stesso piano, talché mai la Regione potrebbe impedire a un comune di fare, sul proprio territorio, “una schifezza”, sebbene questa “schifezza” insozzasse un bene di rilevanza regionale, o addirittura nazionale e universale.

Ora tutta la storia del nostro territorio nell’ultimo secolo dimostra che l’istanza più vicina al cittadino è anche quella più sensibile alle sollecitazioni per un uso immediato e privatistico del “bene comune” costituito dal territorio.

Nonostante le malefatte dello Stato e delle Regioni, è certo che i livelli sovraordinato del potere pubblico sono stati quelli meglio capaci di comprendere le ragioni e gli interessi della tutela del patrimonio culturale e paesaggistico. Gli unici, del resto, deputati dal nostro sistema legislativo a tutelare “anche gerarchicamente” (suggerisce la Corte costituzionale a proposito della pianificazione paesaggistica) il bene d’interesse nazionale costituito dal paesaggio.

Il secondo aspetto del peggioramento intercorso negli ultimi anni mi sembra sia costituito dall’accresciuto ruolo del settore immobiliare nell’economia e nella politica. E’ ormai consapevolezza comune che nel nostro paese le grandi aziende industriali hanno investito molto più nella rendita finanziaria e immobiliare, tra loro strettamente intrecciate, che sui terreni propri del capitalismo industriale: la ricerca, l’innovazione di processo e di prodotto, la concorrenza nella produzione di merci.

E registriamo tutti ogni giorno come le attività immobiliari e i loro promotori siano diventati, agli occhi di numerosi politici anche autorevoli, anche di sinistra, interlocutori privilegiati e operatori da difendere anche nel loro ruolo economico e sociale. Sembrano davvero lontani mille miglia gli anni in cui i dirigenti dei partiti di sinistra e gli esponenti del capitalismo avanzato potevano trovare un interesse comune nel combattere le posizioni di rendita – in particolare immobiliare – vedendole giustamente come un freno all’espansione dei profitti e dell’accumulazione da un lato, dei salari e del benessere delle famiglie dall’altro lato.

La cosa singolare, e che apre il cuore alla disperazione, è che la rinnovata fortuna delle forme più degradanti dell’attività economica, dei settori della produzione che l’economia classica ha considerato più intrisi di parassitismo, appaiono in auge proprio mentre nel mondo è aperta una riflessione generale sui limiti generali di un’economia basata sulla crescita indefinita della produzione di merci. Insomma, mentre stiamo ragionando con Jeremy Rifkin e con Serge Latouche, ci si vengono a riproporre come interlocutori privilegiati gli eredi dello speculatore de “Le mani sulla città”

Il terzo, e forse più grave aspetto del peggioramento, quello dal quale in definitiva anche gli altri derivano, è costituito a mio parere dalla crisi della politica. E’ una crisi grave, profonda, che ci coinvolge tutti, come cittadini e come persone. Ciascuno di noi può dire “ho una mia filosofia”, “ho una mia religione”; nessuno può dire altrettanto della dimensione politica. Se la politica non c’è, siamo tutti più poveri e più esposti, più infelici, meno padroni del nostro futuro.

Della crisi della politica ciò che più mi preoccupa è la sua attuale miopia. La politica non sembra più capace di indicare un progetto di società, un progetto di futuro: una prospettiva condivisa per il quale sacrificare qualcosa oggi e ciascuno, per avere qualcosa domani e tutti.

Gli orizzonti temporali richiesti dal territorio, dal paesaggio, dall’ambiente sono orizzonti lunghi; quelli sui quali si è appiattita la politica coincidono con il mandato elettorale. Tra gli uni e gli altri non c’è compatibilità.

Una volta un sindaco era orgoglioso se, nel corso del suo mandato, riusciva a concludere l’iter di un buon piano regolatore. Era capace di far comprendere ai cittadini (lui stesso, o i partiti politici cui si riferiva) che quel disegno della città futura era cosa buona, e sarebbe stato realizzata nei tempi anche lunghi necessari. E sapeva accompagnare questo progetto di futuro con atti amministrativi che andavano nella stessa direzione, che erano anticipazioni del progetto di città. Il progetto prevedeva ampi spazi per i bambini e i giovani, e mentre si discuteva il piano regolatore si apriva un asilo nido e si espropriava una villa.

Oggi, un buon sindaco è quello che, a metà del suo mandato, avvia la realizzazione di un grattacielo, magari più lungo di quello del suo vicino.

Difficile combattere il destino di “seconda rapallizzazione” che sembra abbattersi sulle nostre coste, in questa condizioni. Eppure, l’alternativa è possibile. Lo dimostra una terra non tanto lontana da qui, la Sardegna.

Ho avuto la fortuna di partecipare all’avventura iniziata, e finora condotta vittoriosamente, dalla Giunta guidata da Renato Soru. Ho potuto misurare l’entità del danno incombente, le decine di milioni di metri cubi di lottizzazioni turistiche approvate nei loro piani regolatori dai comuni della costa. Ho potuto ammirare la determinazione con la quale la Giunta ha provveduto ad attuare le leggi per la protezione del paesaggio analizzando il territorio, inventariandone e cartografandone le caratteristiche, catalogando le diverse tipologie di beni paesaggistici e individuando i riconoscibili ambiti di paesaggio. Ho potuto concorrere a definire criteri e regole per la tutela immediata e per la successiva ricognizione alla scala più minuta, per la definizione della azioni necessarie per sostenere e attuare le scelte della pianificazione.

Mi hanno soprattutto colpito il coraggio di andare controcorrente, con una determinazione straordinaria, in nome del futuro e dell’interesse collettivo. Mi ha colpito il rigore con il quale si è stati capaci di dare seguito concreto a motivazioni molto forti. E voglio ricordare le parole con le quali Soru investì del suo compito di consulenza il Comitato scientifico:

“Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale”.

La Sardegna indica una strada possibile. Ma la Sardegna da sola non ce la può fare a percorrerla tutta. Occorre che la possibilità di tutelare il paesaggio, offerta dalla legislazione vigente, sia colta in modo generalizzato, diventi pratica corrente in gran parte del nostro paese. Tenendo ovviamente conto delle diversità, ma assumendo dappertutto come dominanti gli interessi di tutti – ivi compresi i nostri posteri – rispetto a quelli di pochi, e non attribuendo al futuro un ruolo secondario rispetto al presente.

Che fare qui, a Savona, in Liguria?

Mi sembra che sul piano amministrativo si debbano adoperare fino in fondo gli strumenti disponibili, a partire dal Codice. Il piano paesaggistico del 1986 offre una buona base di partenza. Spero che il quadro conoscitivo allora costruito sia stato tenuto a giorno, che le fonti siano disponibili. Sono certo che non sarà difficile né lungo adeguare quel piano ai dettami del Codice del paesaggio, nella sua ultima versione del 2006.

Sono anche certo che i ministeri dei Beni e delle attività culturali e dell’Ambiente, della tutela del territorio e del mare vorranno concorrere a redigere un piano paesaggistico pienamente conforme alla lettera e allo spirito del Codice, così da avere anche gli effetti di alleggerire le procedure di ottenimento delle autorizzazioni.

Lavorare in questa direzione comporta indubbiamente che i due ministeri, che il Codice rende entrambi portatori degli interessi statali in materia di tutela del paesaggio, possano e sappiano attrezzarsi, ripristinando o costruendo ex novo strutture o task forces capaci di collaborare con sistematicità e competenza nel lavoro di pianificazione paesaggistica con le regioni: non solo qui in Liguria, ma anche in Toscana, in Friuli - Venezia Giulia e in tutte le altre regioni italiane che siano disposte ad attuare la legge.

Ma la strada da percorrere è questa. Altrimenti non si comprenderebbe perché, dall’antico Decreto Galasso del 1983 all’ultima versione del Codice del 2004 tante volontà e intelligenze di parlamentari, ministri e sottosegretari, funzionari dei beni culturali, amministratori regionali ed esperti di varie discipline abbiano lavorato, al fine di affinare le armi a disposizione della Pubblica amministrazione per tutelare con efficacia il lascito della natura e della storia costituito dai nostri paesaggi.

So bene che lavorare sul piano amministrativo, se è indispensabile e se costituisce probabilmente il primo passaggio necessario, non è sufficiente. Occorre che qualcosa si muova anche sul piano politico e culturale. Occorre soprattutto che la politica riprenda la capacità di guardare al futuro, e che la cultura l’aiuti in questa direzione. Molti esprimono questo desiderio, e tremano al pensiero che ciò possa non avvenire. Voglio riprendere le parole che ha scritto ieri su l’Unità il mio vecchio amico Diego Novelli, giornalista, parlamentare e sindaco di Torino in anni non meno difficili di questi. Scrive Novelli:

“Come sarebbe bello vedere i nostri ministri, i presidenti di regione, i sindaci delle grandi città accalorarsi per avere più strumenti per la difesa del suolo e per un programma serio per il recupero del grande patrimonio immobiliare fatiscente, abbandonato. Purtroppo non è così. Si continua a «mangiare», ogni giorno, fette di territorio soprattutto lungo le coste del Belpaese, ma anche nelle grandi città dove un certo tipo di processi di deindustrializzazione ha liberato milioni e milioni di metri quadrati di aree. Per le coste cito quella più vicina al mio Piemonte e che meglio conosco. Consiglio un viaggio da ponente a levante della Liguria, da Ventimiglia a La Spezia. Un vero saccheggio. La Regione, il mio amico e antico compagno Claudio Burlando (già ottimo sindaco di Genova) non vede, non sente, non parla. Così dicasi per le aree industriali dismesse. A Torino hanno realizzato la cosiddetta Spina3 (ex ferriere Fiat e altre fabbriche) che di fatto è un nuovo ghetto, di lusso, ma sempre ghetto. La densità consentita è da capogiro. È stata teorizzata e santificata la rendita sui suoli quale incentivo per gli investimenti e quindi per lo sviluppo tutto all'insegna della falsa modernità nuovo simbolo della cialtroneria politica, culturale e sociale”.

Di “falsa modernità” avete esempi e progetti autorevoli, in questo tratto di costa. Io spero che vedrete anche voi prevalere non una modernità basata sul saccheggio della ricchezza comune e sull’esibizione individualista di gesti in calcestruzzo e acciaio, ma una modernità che sappia conservare ciò che gli anni della devastazione ha lasciato intatto, recuperare ciò che è stato degradato, restituire l’antico valore d’uso (e non degradare in merce e trasformare in valore di scambio) ciò che di pregevole la collaborazione tra l’uomo e la natura ha saputo costruire.

Il testo che segue è stato preparato per introdurre un convegno, organizzato a Nairobi il 22 gennaio 2007 dall’associazione ZONE onlus, sul tema “La città come bene comune. Quale futuro per i quartieri informali?”. Nell’ambito del World Social Forum 2007 il convegno in parte si è svolto nella sede del forum in parte è stato organizzato dalla comunita' di Toi market del grande slum di Kibera.

L’iniziativa è stata promossa per presentare un progetto di rigenerazione di una struttura collettiva informale, Toi Market, a Kibera, gestito dalle comunità locali con l’apporto di Zone onlus e Pamoja Trust, una ong locale che dal 2000 è attiva per fermare gli sfratti e dare supporto tecnico e legale alle comunità degli slum. (vai al postscriptum)



1. LA CITTÀ COME BENE COMUNE: CHE COS’È

In Europa cresce il movimento che rivendica la città come bene comune. Che cosa significa questa espressione? Interroghiamoci sulle tre parole che la compongono

Città

Nell’esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città à la casa di una comunità.

Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.

Bene

La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.

Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.

Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.

Comune

Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.

Nell’esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia storia.

Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze è perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sennto le nostre diversità come una ricchezza di tutti.

2. IL RUOLO DEGLI SPAZI COMUNI NELL’ESPERIENZA EUROPEA

Gli spazi comuni nella formazione della città europea

Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti.gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.

Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.

Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della pazza più grande, della piazza (o de sistema di piazze) cittadine.

Le piazze e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.

Gli spazi comuni nella città europea di oggi

Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità.

Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee; nel XIX secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.

Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato molto preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.

Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).

Movimenti per rivendicare gli spazi pubblici

Negli ultimi anni in molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo , le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.

In tutte le città d’Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d’America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo.

Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzate spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all’uso comune), sulle comodità e sugli arredi.

I campi di Venezia

La progettazione architettonica e urbanistica sono certamente necessarie per realizzare dei buoni spazi pubblici, piacevoli e utili. Sono necessarie, ma non bastano. La città e i suoi spazi non sono fatti solo di pietre e altri materiali inanimati: sono fatti soprattutto dalle relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi.

Ho la fortuna di abitare in una città in cui gli spazi pubblici si sono conservati intatti come erano secoli fa. Si sono conservati nelle loro forme, le loro architetture, e si sono conservati nel rapporto che lega spazi e persone. Sto parlando di Venezia e dei suoi campi: così si chiamano le piazze, e il nome ricorda quando erano spazi aperti, coperti d’erba e magari coltivati. Ne mostrerò alcune immagini, per sottoniarne alcuni aspetti:

- la varietà e l’armonia delle diverse dimensioni e forme degli edifici che racchiudono l’articolato spazio aperto;

- la dimensione degli spazi, appropriata alla scala dell’uomo e alle opportunità di incontri tra diversi gruppi di persone;

- l’integrazione tra funzioni private (le abitazioni che affacciano sul campo) e funzioni comuni (la chiesa, il palazzo con la scuola o l’ufficio, la bottega e il laboratorio artigiano);

- l’assenza di elementi di disturbo dei rapporti tra e persone, come automobili o altri elementi ingombranti o fastidiosi;

- la presenza di piccole utilità, come l’acqua della fontanella e del pozzo, e di elementi di architettura (gradini, muretti e balaustre, panche di pietra) utili per appoggiarsi o sedersi;

- l’apertura, sui bordi del campo, di numerosi piccoli passaggi coperti (“sottoporteghi”) dai quali le persone entrano nel campo o ne escono verso le loro case o gli altri luoghi e percorsi comuni, senza che mai il campo appaia come un incrocio di vie attraversate da un traffico noioso;

- l’animazione sociale costituita dalla presenza contemporanea di persone appartenenti a ceti, mestieri, età, condizioni personali diversi.

3. LA CITTÀ COME BENE COMUNE: CHE FARE?

I campi di Venezia e la festa dell’Unità del 1973

Venezia è una città molto antica (ha più di 1000 anni di vita) che nell’ultimo secolo è stata abbandonata dalla popolazione e ha cominciato a rinascere negli ultimi decenni. Un evento che contribuì alla sua riscoperta – da parte degli stessi veneziani e da tutti i cittadini dell’Italia e dell’Europa – è stata costituita da un grande evento che si svolse nel 1973.

In quell’anno si organizzò a Venezia la Festa nazionale dell’Unità, una grande kermesse politica che raduna ogni anno decine di migliaia di persone da tutt’Italia. In genere si organizzava in grandi spazi alla periferia delle grandi città. Quell’anno si decise di organizzarla a Venezia, nei suoi campi. Almeno 15-20 campi furono coinvolti nell’evento. In ciascuno si svolgevano spettacoli di musica, di teatro, di giocolieri, dibattiti, in ognuno c’era ila cucina all’aperto con le pietanze d’una città italiana o di un paese ospite. La città per una settimana cambiò faccia. Tutti riscoprirono la bellezza degli spazi occupati dalle persone, dai loro incontri, diventati vivi come non mai.

Da allora, abitanti e turisti abitano ogni giorno i campi: sono il soggiorno all’aperto di tutte le case della città, il luogo dove si incontrano gli amici e si conoscono persone nuove. I luoghi dove batte il cuore della città.

Il centro di Roma occupato dagli abitanti delle periferie

Un episodio molto significativo dell’importanza degli spazi pubblici per ristabilire il rapporto tra la società e la città è avvenuto a Roma, la capitale d’Italia, a partire dal 1976. Roma è una città molto grande. Allora aveva oltre due milioni di abitanti.

Un centro storico molto bello e famoso, estesissime periferie sempre più povere e degradate man mano che ci si allontanava dal centro verso l’hinterland. Il centro era occupato dai ricchi e dai turisti, le periferie dai ceti più poveri. Gli slum delle periferie più lontane erano diventati luoghi dove cresceva la delinquenza, gruppi di giovani erravano senza avere alternative ai giochi di prepotenza e sopraffazione. Erano anni nei quali l’Italia era ancora percorsa dal terrorismo, gli “anni di piombo” di quella società.

Un intelligente sindaco, il cui nome era Giulio Carlo Argan, e un geniale giovane assessore, Renato Nicolini, cambiarono radicalmente il clima sociale della città modificando il rapporto tra abitanti e spazi. Le attività culturali furono tirate fuori dalle ristrette sale dei teatri, dei concerti e dei musei. Grandi manifestazioni di massa (maratone cinematografiche di film popolari, teatro e “teatro di strada”, musica di tutti i generi – da Bach al pop – danze e altre manifestazioni) furono organizzati nei luoghi centrali della città.

I giovani la sera e i giorni di festa abbandonavano i loro slum e accorrevano nel centro della città, nelle sue piazze e nei luoghi famosi dell’archeologia. Le famiglie portavono le loro cene negli spazi dove si proiettavano all’aperto i film più amati e gli spettacoli più popolari. I cittadini riconquistarono di nuovo (forse conquistarono la prima volta) le parti più belle e più importanti della loro città: di una città dalla quale fino ad allora erano stati esclusi.

Che fare?

Questi due esempi indicano alcune possibilità di ricostruire un ruolo comune degli spazi pubblici attraverso un intelligente intervento che contrasti le tendenze individualistiche, prevalenti in una società disgregata. In Europa si può far leva sul patrimonio della storia rappresentato dalle città antiche e dai loro spazi. In altre parti del mondo, come in Africa, si può e si deve far leva su altri valori.

Per esempio, sulla presenza di una tradizione ancora viva di vita e di interessi comuni: le famiglie e le aggregazioni di famiglie, i villaggi, le lingue e i dialetti, le abitudini dei diversi gruppi sociali testimoniano la vitalità di valori comuni. Per esempio, sulla mancanza di una concezione della terra come un bene che possa essere privatizzato, frammentato, sottratto all’uso comune. L’individualizzazione del suolo urbano è stato in Europa una delle cause principali del degrado delle città. Partire dagli interessi comuni delle piccole comunità locali, arricchire la loro vita di spazi comuni ben funzionanti e attraenti è un buon punto di partenza. Perciò il progetto di Toi Market mi sembra particolarmente interessante, e spero vivamente che le comunità di Kimbera lo prendano nelle loro mani e lo sviluppino sotto la loro responsabilità.

Ma fare un passo non significa compiere tutto il percorso che quel passo preannuncia. L’obiettivo deve essere – come insegna l’esperienza di Roma che ho ricordato – impadronirsi di tutta la città. Ogni comunità, ogni villaggio, ogni quartiere è una parte di un organismo più vasto: la città.

Come in molte parti del mondo – dall’Asia all’Europa, dall’Africa all’America del Sud e del Nord – la città è divisa in parti rigidamente separate, che non comunicano tra loro, spesso ostili le une alle altre. È una situazione disumana, che viene vissuta con sofferenza (certo diversa) sia nei ghetti dei poveri che nei ghetti dei ricchi.

A partire dagli spazi pubblici, occorre porsi l’obiettivo di rendere davvero comune la città nel suo insieme: renderla finalmente la casa di una società dove le diverse parti (distinte per lingua, origine, tradizione, etnia, condizione sociale, religione) non solo si rispettino ma comprendano che ciascuna di esse è una ricchezza per ciascuna delle altre, e nel loro insieme costituiscano una ricchezza che è maggiore della somma delle singole ricchezze.

P.S. - Un malanno di stagione mi ha impedito di andare a Nairobi e svolgere la relazione. Essa è stata tradotta in inglese e letta in mia vece da Ilaria Boniburini, che aveva concorso a redigerla. (e.s.)

Venezia, 28 novembre 1998

Caro Piero, sono rimasto molto deluso dalla tavola rotonda di presentazione del tuo libro, ieri sera. L’ho seguita con l’attenzione di chi, immobilizzato a letto da una nevrite alla caviglia, puo’ dedicarsi interamente all’ascolto. L’ho trovata molto più farcita da affermazioni frettolose e fuorvianti che di riflessioni stimolanti. Il tuo bellissimo libro avrebbe meritato di meglio.

Permettimi di esporti alcune mie idee a proposito di un punto centrale della proposta culturale che emerge dai tuoi scritti (la “modernità” che oggi bisogna perseguire), e di due questioni che, quasi a corollario, da quel punto discendono, e che sono centrali per il futuro di Venezia (le difese mobili alle bocche di porto e il sistema veneziano dei trasporti: vulgo, il Mose e la Sublagunare).

Venezia e la “modernità”

È un tema che bisogna prendere un po’ da lontano. Riprenderò alcuni temi che ho esposto l’anno scorso in un dibattito su un “parco della laguna”.

Partirei da una constatazione. Lo sviluppo delle forze produttive ha provocato benefici immensi al genere umano, nell’epoca del sistema capitalistico-borghese. Ma anche enormi danni. Tra questi, una rottura dell’equilibrato rapporto tra produzione e natura che aveva contrassegnato millenni della nostra storia. Negli ultimi secoli la natura è stata negata nella sua personalità, ridotta a mero oggetto manipolabile e mercificabile: è stata cancellata e sostituita dalla tecnologia. Quest’ultima non è stata più indirizzata a guidare la natura, rispettandone leggi e ritmi, a foggiarne le forme costruendo con lei paesaggi amici dell’uomo. E l’economia non ha più considerato la natura come un insieme di risorse da impiegare con parsimonia: l’ha trattata come un giacimento da cui estrarre distruggendo, senza risparmio né attenzione al futuro.

Oggi i danni di quest'atteggiamento appaiono in tutta la loro evidenza. Proseguire in questo modo dissennato significa destinare il genere umano alla scomparsa, il nostro pianeta alla morte prematura. Molti sono d’accordo sul fatto che occorre invertire la tendenza. Molti si dicono convinti che occorre individuare, sperimentare e praticare un modo di produrre che foggi la natura rispettandola, che utilizzi le risorse che la natura ancora offre accrescendone le qualità. Questo – ne sono fortemente convinto - è il compito che spetta alla nostra generazione e a quelle che ci seguiranno, se vogliamo che un giorno il sole non tramonti in un immenso deserto.

Come accingersi però a questa memorabile impresa? Da dove partire? Saremmo davvero spreconi (e non avremmo capito nulla di ciò che ci hai narrato del rapporto tra “Natura e Storia”) se non pensassimo di mettere a frutto le risorse di cui disponiamo. Da questo punto di vista sembra a me evidente che Venezia e la sua laguna siano una risorsa preziosa. Essa testimonia, e può insegnare, un rapporto tra lavoro e cultura dell’uomo, e forze della natura, sapiente come pochi altri.

Qui l’uomo (il tuo libro su “Venezia e le acque” lo racconta in modo magistrale) ha saputo guidare l’evoluzione della natura, giorno dopo giorno e stagione dopo stagione, per arricchire le risorse del sito: perché le une e l’altro, le risorse e il sito, servissero meglio, il più durevolmente possibile, la sopravvivenza e lo sviluppo degli uomini e della società e il loro costante arricchimento. La scienza e la tecnica delle costruzioni, dei materiali, dell’architettura, dell’urbanistica; la pesca e la coltivazione delle acque e la conservazione dei suoi prodotti; il disegno e la produzione delle imbarcazioni e di tutte le loro componenti; l’esplorazione, il rilevamento, il disegno del mondo e delle sue parti vicine e lontane; l’arte del governo della società e dei rapporti tra le persone e tra i popoli: tutto ciò i veneziani hanno elaborato in forza e in virtù dell’esigenza di convivere con la natura, trasformandola senza distruggerla e rispettandola senza imbalsamarla.

Due destini possibiliper un’oasi di saggezza

Vedo insomma Venezia come un’oasi nella quale è depositata una saggezza che il mondo contemporaneo ha dimenticato. Un’oasi che può essere considerata in due modi.

Può essere considerata una anacronistica sacca di resistenza di un passato che non può più insegnare nulla, e che va eliminata, nei due modi possibili: alla Marinetti, sosituendola fisicamente con una nuova realtà di cemento e acciaio, oppure cristallizzandola nella sterilità di un museo o di una “riserva indiana”. Sono in realtà due modi complementari di omologare Venezia ai modelli di consumo e di produzione, di vita e di lavoro ormai dominanti - e dovunque in crisi

Oppure, viceversa, Venezia può essere considerata e governata come una scuola di modernità: come un luogo che può consentire di sperimentare, a vantaggio di tutto il mondo, un modo rinnovato di produrre. Rinnovato rispetto a quello che vogliamo lasciarci dietro le spalle, perché non distruttivo delle risorse e realmente “sostenibile”. E rinnovato rispetto a quello che due secoli fa la Repubblica Serenissima ci lasciò perché capace di utilizzare, in una prospettiva non più “industrialista”, le innovazioni che la scienza di questi ultimi secoli ha messo a disposizione del genere umano.

Non era questa, del resto, l’ispirazione che stava dietro alla proposta, culturale prima che politica, che vide Massimo Cacciari assumere per la prima volta il ruolo di Sindaco di Venezia, nel 1992?

Il Mose: tre ragioni di preoccupazione

Ma veniamo adesso alle due questioni di merito: il Mose e la Sublagunare. Se il Mose mi preoccupa non è perché sia una “grande opera”. Non mi preoccupa cioè per la ragione opposta e simmetrica rispetto a quella per cui piace a De Michelis. Non sono insomma contrario ideologicamente, né in linea di principio, alle grandi opere: in fondo l’editore Laterza ha pubblicato il mio libro nella collana “Grandi opere”, e non mi è dispiaciuto affatto. Venezia ha conosciuto del resto altre “grandi opere”, alle quali deve la sua sopravvivenza: dalla grandiosa diversione dei fiumi, su cui si azzannarono Sabbadino e Cornaro, ai settecenteschi Murazzi di pietra d’Istria progettati dal matematico Zendrini.

Questa “grande opera”, il progetto Mose, ha però tre particolarità preoccupanti:

(a) comporta l’artificializzazione permanente degli unici tre collegamenti residui tra mare e laguna (non è infatti costituita soltanto, come dice Francesco Indovina, da una serie di cassoni sommersi, ma anche, e irreversibilmente, da tre immani cordoni di calcestruzzo armato che collegano le due sponde d’ogni bocca, e interrompono definitivamente la continuità naturale del fondale della laguna con quello marino);

(b) a differenza dagli interventi di qualche secolo fa, è pensata con tecnologie e materiali che non hanno nulla a che fare con quelli “naturali” che per secoli sono stati adoperati: non voglio dire che questa sia una ragione dirimente, ma certo dovrebbe indurre a una maggiore cautela nel decidere;

(c) è un’opera di cui a mio parere i benefici non sono commisurati ai costi, davvero straordinari: se il loro elevato ammontare è un atout del progetto per Indovina (che vede in questo grandi possibilità di occupazione di forza lavoro) e per De Michelis (che si anima pensando al fervere delle attività delle imprese), a me, che forse in Laguna ho compreso l’importanza della parsimonia nell’impiego delle risorse, a me sembra un argomento sul quale riflettere a fondo.

Intendiamoci. Se il Mose fosse davvero necessario per salvare la laguna e Venezia, Chioggia, Murano, Burano e le altre perle disseminate dalla natura e dalla storia, pas de problèmes anche se la spesa fosse rilevante. Il punto è che non mi sembra affatto dimostrato che quell’intervento sia davvero necessario. Questa, a mio parere, è la ragione decisiva per non schierarsi con il nutrito plotone di sostenitori del Mose in nome della salvaguardia di Venezia e, soprattutto, dell’ideologico entusiasmo per le “magnifiche sorti e progressive” della modernità e della tecnologia tardo-industriale.

Il Mose è necessario?

Come sai, gli studi che sorreggono la proposta del Mose (lo Studio di impatto ambientale, redatto dal Consorzio Venezia Nuova) formulano tre scenari, corrispondenti ad altrettante ipotesi di innalzamento del livello delle acque. In relazione a ciascuno scenario è stato calcolato il numero di chiusure delle paratie mobili nel corso di un anno per evitare che Venezia (e gli altri centri) siano invasi dalle acque.

Il terzo scenario, corrispondente all’ipotesi più alta, è quello al quale alludeva Enzo Tiezzi quando, per tagliar corto con le querimonie dei dubbiosi, ha sparato la battuta arrogante: “Non è più tempo di raccogliere l’acqua con i secchi e le spugne, è tempo di decidersi a chiudere i rubinetti”. In questo scenario, per il congiunto effetto dei fenomeni già in atto e dell’aumento dei livelli oceanici causato dell’aumento della temperatura terrestre, bisognerebbe (secondo le analisi previsive dell’Ufficio Maree del Comune, che da anni segue il fenomeno) chiudere le bocche quasi 400 volte all’anno!

La laguna, insomma, sarebbe sempre chiusa. Il ricambio d’acqua sarebbe impedito, e così ogni attività portuale. Se allora si volesse assumere questo scenario come attendibile, e non solo come un manganello dialettico da agitare nelle polemiche e nel lobbying, le ipotesi operative sarebbero soltanto due: o chiudere definitivamente la laguna chiudendo definitivamente le tre bocche con solide dighe di cemento e pietrame: ridurre cioè la laguna a uno stagno, la cui depurazione dovrebbe essere tutta artrificiakle e il cui ambiente naturale sarebbe radicalmente modificato; oppure collocare i “rubinetti Tiezzi” sul Canale d’Otranto (o alle Colonne d’Ercole). Del resto, se il livello dell’Adriatico (e magari del Mediterraneo) crescesse tanto da superare il livello di un metro sul livello medio del mare 400 volte all’anno, bisognerebbe domandarsi quali provvedimenti dovrebbero esser presi a Spalato e Ancona, a Brindisi e a Rovigno, e nei numerosissimi altri centri grandi e piccoli dell’Adriatico (e magari del Mediterraneo) che vivono a contatto col mare.

Comunque una cosa è certa: se si manifestasse lo scenario collegato alla permanenza dell’effetto serra nelle dimensioni previste, il Mose applicato alle porte della laguna non servirebbe affatto.

Meno drammatici sono gli altri due scenari, che comporterebbero la necessità di intervenire con le chiusure da 10 a 70 volte all’anno. Ma qui vale la pena di soffermarsi sulla famosa questione degli “interventi diffusi” (riapertura delle parti della laguna occluse, rimodellamento dei fondali e ricostituzione del tessuto canalizio naturale, prudente sollevamento delle pavimentazioni stradali là dove sono a livelli inferiori a 120 cm sul livello medio del mare, ripulitura dei canali cittadini ecc.). Lo Studio d’impatto ambientale del Consorzio Venezia Nuova produce dati e simulazioni dai quali risulterebbe un’influenza del tutto marginale degli “interventi diffusi”. Il Comitato dei cinque esperti “di fama mondiale” prende per buoni i dati del Consorzio, e le conclusioni che esso ne trae. Ma il Laboratorio Grandi Masse del Consiglio Nazionale delle Ricerche dimostra che la riduzione dei “picchi”, cioè delle punte massime di marea, provocherebbero riduzioni consistenti, dell’ordine di 20-25 cm. Ciò significherebbe che, se quegli interventi si facessero, la frequenza delle acque alte si ridurrebbe a pochi giorni all’anno: così come è sempre stato, da quando Venezia è Venezia.

La convivenza quotidiana con l’acqua, il ricorso sistematico alla manutenzione, ai piccoli assestamenti, al “cuci e scuci”, non fanno del resto parte della cultura della città ben più delle eccezionali “grandi opere”? E’ difficile che tu non ne convenga, caro Piero. Non è casuale, del resto, che chi sostiene l’assoluta necessità del Mose sono proprio quelli dalle cui parole emerge con chiarezza il pensiero remoto: Venezia deve diventare come tutte le altre città del mondo. La mia ipotesi è invece l’opposta: tutte le altre città del mondo devono diventare Venezia, imparare come qui si è fatto per secoli a convivere con gli eventi naturali, a governarli senza cancellali e, anzi, arricchendone le proprie esperienze di vita.

E infine, vediamo le cose dal punto di vista dell’occupazione operaia. Certo, i mirabolanti investimenti per il Mose (secondo le stime di oggi del Consorzio, 4.440 miliardi di lire) provocherebbero un forte afflusso di imprese, materiali e prodotti, lavoratori, in gran parte da fuori dell’area veneziana. Il che non è certamente male. Ma non credo che si sia riflettuto abbastanza sul grande e durevole contributo che potrebbe dare alle forze di lavoro e alle imprese locali una dispiegata azione di “manutenzione ordinaria e straordinaria” della città e della laguna.

Quella manutenzione alla quale tu stesso, Piero, richiamavi nell’intervento conclusivo alla tavola rotonda, come grande insegnamento della Repubblica Serenissima da riprendere oggi. Quella manutenzione che oggi, a causa dell’abbandono in cui è stato lasciato l’intervento quotidiano sulla città negli ultimi due secoli, richiederebbe (se lo si assumesse come asse portante di un nuovo sviluppo) l’avvio di una gigantesca opera di ripristino dell’ambiente lagunare, di rimodellamento dei suoi fondali e di restauro delle sue rive, di ricostituzione delle sue difese e dei suoi ecotopi, di restauro e ripristino e adeguamento delle pavimentazioni e degli arredi urbani, di manutenzione straordinaria dei canali e delle barene.

Quanto le chiacchiere sul mirabolante “FARE Grande, Moderno e Progressista”, sul Mose e sulla Sublagunare distraggono oggi di attenzione, risorse, energie intellettuali, attenzione dell’opinione pubblica, spinta sindacale, dalla enorme massa di interventi diffusi su tutta l’area della laguna, che pure sono previsti e in parte già progettati?

…e la Sublagunare

Mi ha meravigliato molto che l’ex ministro per i Lavori pubblici, Paolo Costa, abbia ripreso l’ipotesi della “metropolitana sublagunare”, e che alla cosa abbia dato credito il nuovo Segretario della Camera del lavoro di Venezia. A me quella proposta è sempre sembrata una grande sciocchezza.

Intanto sono fra i molti che sono convinti che Venezia è massacrata dal turismo “mordi e fuggi”. Poiché la metropolitana si giustifica solo con flussi di massa, la Sublagunare non potrebbe non produrre l’effetto di drenare ulteriori flussi di visitatori a Piazza San Marco e negli altri siti, già resi invivibili dal turismo attuale. Negli anni in cui si cercava di ragionare e non ci si faceva sedurre dall’ideologia del progresso, si era convinti che il turismo dovesse essere “governato”, e che a questo fine fosse utile e opportuno arrestare i flussi ai terminali di terraferma (Fusina e Tronchetto), e da lì farli proseguire in battello per Venezia.

Se si vuole facilitare l’accessibilità alle funzioni direzionali di Venezia, allora la soluzione è stata indicata da molti anni, proprio a partire dai sindacati veneziani. Basterebbe riorganizzare l’attuale rete del ferro in Terraferma e utilizzare l’imponente asta ferroviaria del Ponte della Libertà per portare i pendolari a Santa Lucia e alla Marittima: luoghi dai quali, come a tutti è noto, si giunge facilmente e piacevolmente in ogni parte della città a piedi o con i civilissimi vaporetti.

Un’ultima annotazione a questo proposito. Della qualità di Venezia, del suo insegnamento terribilmente moderno, fanno parte integrante il tempo e il modo dei percorsi. Venezia è bella anche perché ti permette di vivere il tempo dei percorsi, a piedi o in vaporetto, come degli spazi nei quali ti distendi e ti arricchisci godendo la visione della città, delle sua case, i suoi spazi, i suoi abitanti. Il tempo del percorso non è a Venezia, come è nelle metropoli contemporanee, una sofferenza la cui durata va minimizzata, ma un piacere che s’inserisce nella giornata come una pausa naturale e gioiosa. Vogliamo eliminare anche questo?

Tuo

Edoardo Salzano

Caro Eddy,

grazie per la tua lunga e bellissima lettera: ma è un saggio! Ieri sera, tornato a casa abbastanza stanco, ho tirato fuori dalla borsa la solita montagna di carta, ( lettere, fax, dattiloscritti da leggere, ecc.) e stavo per poggiarli in un angolo per affrontarli in tempi migliori... Poi mi sono ricordato che doveva esserci la tua lettera, l'ho cercata e trovata, mi sono messo a leggerla e la concentrazione e la lucidità sono ritornate come per incanto. Dopo un paio di pagine mi sono accorto che sorridevo, per una curiosa e strana sensazione, che non avevo mai percepito prima: l'accordo era così pieno con le cose che leggevo da avere l'impressione che quella lettera me la fossi scritta io.

Sono dunque assolutamente d'accordo con te, su tutti i punti che hai toccato e non è il caso che ripercorra quanto tu hai già detto così bene. Sì anch'io avrei desiderato che si approfondissero di più certi temi contenuti nel mio libro. Ma, sai, a queste cose sono rassegnato: la presentazione serve a fare la pubblicità: e di questi tempi è già tanto avere una discussione pubblica, per giunta trasmessa per radio.

Sulla modernità di Venezia, alle cose giustissime che dici vorrei aggiungere un'ulteriore considerazione. Anche molti dei nostri amici intellettuali, persone spesso generosamente impegnate a tener viva la fiammella dell'impegno civile, sono in molti casi intrappolati nel sortilegio del “progressismo”. Ancora non si sono accorti di quale sia la tendenza profonda del nostro tempo, che trascina ogni cosa verso l'abisso della esemplificazione funzionale. Eppure basterebbe aprire gli occhi e leggere il mondo così com' è per capire i segnali quotidiani inequivocabili che esso ci manda. Ma proprio tale comprensione dovrebbe vivamente consigliarci di scorgere in Venezia un tesoro di diversità da conservare proprio per la sua irriducibile alterità. Non si riesce ancora a capire che la riccezza inestimabile del nostro tempo è tutto ciò che si sottrae alle logiche del nostro tempo... Tutto ciò che fa eccezione, che non è producibile industrialmente, che non ubbidisce a criteri rigidi di razionalità: starei per dire, tutto cio “che non funziona”. Il silenzio dei campi e delle calli, il poter andare a piedi ( o in barca come tu ricordi ) con i tempi lenti di un antico e ormai perduto rapporto fra cittadino e spazio urbano: dovrebbero costituire non un impaccio del vivere a Venezia, ma uno dei suoi ineguagliabili privilegi nel mondo presente. Certo, c'è il problema di farla vivere.Occorre una grande e originale progettualità politica per rendere viva la città in un modo che è diverso dalle altre. Ma prima di ogni cosa esiste un gigantesco problema culturale: la rivalutazione della modernità di Venezia, contenuta nella sua estraneità alla civiltà capitalistica di massa, all'eta fordista peraltro ormai tramontata.

E vengo brevemente al MOSE. Ho ritegno a intervenire sul tema, perché su di esso non posso vantare le competenze che invece mi permettono di giudicare dei fatti del passato. Sono molto sensibile a tutte le sensate obiezioni che tu muovi al progetto. La mia preoccupazione principale, espressa molto succintamente, è tuttavia la seguente. Io temo che il ripetersi sempre più frequente delle acque alte - a parte la minaccia incombente di episodi estremi come l'alluvione del 1966 - possa rendere progressivamente così disagevole vivere a Venezia da avviarne il declino definitivo. Per tacere del fatto che una città frequentemente allagata, alla fin fine ostile alla vita quotidiana dei suoi cittadini, costituirebbe un argomento inoppugnabile contro le nostre idee, contro la tesi di una modernità di Venezia fondata sulla sua refrattarietà agli “agi” della città capitalistica. Le nostre voci reclamerebbero nel deserto.

Tu aggiungi, fra le varie altre considerazioni, che un innalzamento generale dei mari per fenomeni globali renderebbe inutile il MOSE. E' quanto ho già scritto anch'io nel libro. E tuttavia io credo che occorre essere un pò più duttili e accogliere molte variabili possibili quando si proietta lo sguardo verso il futuro. Siamo proprio sicuri che nel momento in cui i segnali dell'innalzamento dei mari diventassero allarmanti le popolazioni della terra continuerebbero a consentire l'attuale modo dissennato di produrre ? Non c'é una sottovalutazione della possibilità di una correzione dovuta alla pressione dei gruppi intellettuali, degli ambientalisti, dei cittadini, ecc. Certo, non è detto che succeda. Questo ottimismo progressista lo lasciamo agli sciocchi, e a chi vuole continuare a farsi gli affari suoi. Ma noi dobbiamo credere che esso possa verificarsi. Su cosa, altrimenti, si fonderebbero le ragioni della nostra lotta?

Un caro saluto

dal tuo Piero.

P.S. A proposito di grandi opere. Hai trovato il mio messaggio telefonico nel quale ti dicevo quanto è bella la tua “grande opera” urbanistica pubblicata da Laterza ?

Lo sguardo di Edoardo Salzano sulle questioni urbanistiche di Napoli, che da decenni attendono una definitiva sistemazione, è quello complesso e articolato dello studioso; e, insieme, del cittadino part time. Salzano, benché di origini partenopee, vive a Venezia, dove insegna urbanistica al Dipartimento di pianificazione dell'Università Iuav.

Professore, trova corretto distinguere tra territorio ideale e reale nel discorso sulla riconversione di Bagnoli: un'area paesaggisticamente unica, ma destinata per tutto il Novecento a luogo di produzione industriale?

“L'urbanistica si occupa del territorio reale, tenendo conto che il territorio reale è come è, perché l'uomo nei secoli l'ha trasformato: alcune volte bene; altre volte male. C'è stata una lunga fase nella nostra storia in cui si è ritenuto che il territorio non avesse delle qualità proprie, valori proprî. E quindi: trasformare un pezzo del deserto più squallido del mondo e trasformare un pezzo della costa dei Campi Flegrei era indifferente”.”Oggi ci si rende conto che il territorio reale contiene una quantità enorme di cose. Perciò, si ripropone il problema di ricostituire la bellezza dove si è perduta”.

Ma come? Affidare il potere di decisione alla politica locale; o lasciare ai tempi lunghi della società il compito di modulare sui bisogni diffusi le future caratteristiche dell'area? L'onorevole Antonio Martusciello, coordinatore regionale di Forza Italia, ha proposto di attrarre investimenti esterni su Bagnoli, per creare “sviluppo e occupazione nel settore turistico » ( ma senza compromettere le superfici già destinate a verde).

“La democrazia moderna ha messo a punto degli strumenti per intervenire sul territorio, coerentemente con le leggi generali della democrazia stessa. Lo strumento che ha inventato per questo, a partire dagli inizi dell' 800, è stata la pianificazione urbanistica. Che cosa fare di quest'area è stato deciso dal Piano regolatore [approvato] dal Consiglio comunale: lungamente discusso e aperto a tutti i miglioramenti apportati; o che erano comunque apportabili nella fase delle osservazioni.

Adesso, si tratta di attuare quelle scelte: perché se una volta che la democrazia ha scelto cominciamo a cambiare, entriamo in quella spirale perversa in cui l'ultimo che parla ha ragione, e distrugge tutto quello che si è accumulato nel tempo. Non conosco nel merito le proposte di Forza Italia, ma se significano cambiare ciò che si è democraticamente deciso, allora direi che sono proposte non accettabili. Il Piano regolatore di Napoli, mi sembra che sia una miniera di occasioni di riqualificazione e di vita migliore per la città. Si tratta di utilizzarle».

Si direbbe che per lei il Piano urbanistico di Napoli sia perfetto e non richieda alcuna messa a punto.

“È un piano ottimo. E non solo a parere mio. È noto che è uno dei migliori piani italiani dell'ultimo decennio”.

In verità, sarebbe pronta un'altra proposta di integrazione. Si tratta di un progetto firmato da una équipe di architetti, coordinati da Vito Capiello, che prevede la pedonalizzazione di un'area di 5000 metri quadri, a cavallo tra la Galleria Principe di Napoli e il Museo Nazionale.

“Non conosco il progetto, ma le finalità mi sembrano giustissime. Non vorrei però che cadessimo nel vizio tutto italiano di non realizzare i progetti che abbiamo costruito, per inventarne ogni volta altri. Vorrei ricordare che ci sono degli interventi essenziali da fare per Napoli, già previsti dal Piano regolatore. In città, mancano dodici milioni di metri quadri di attrezzature; siamo molto al di sotto dello standard di venti metri quadri per abitante. Manca, insomma, quello che serve ad una città per dirsi civile — la cui carenza la rende un mero agglomerato di case e di automobili”.

Può fare un esempio di progetto contenuto nel Piano regolatore che si potrebbe attuare a breve termine?

“C'è un gigantesco progetto di istituzione del Parco della collina e del sistema del verde di Napoli.

C'è, poi, l'altro prodigio napoletano che è il piano della metropolitana urbana: formare un'unica rete mettendo insieme decine di segmenti e spezzoni di ferrovie, funicolari ecc. Sono entrambi progetti che è bene che vadano avanti.

Queste, e molte altre, sono le cose che potrebbero cambiare la faccia della città. E che fanno parte di un disegno organico. La città è un organismo complesso: si riesce a governare bene se si riesce a dominare la complessità. Se si sbrindella il disegno complessivo e si va pezzo per pezzo, elemento per elemento, la città non funziona più, decade”.

Quale ruolo potrebbero ricoprire i poteri pubblici nella trasformazione della città?

“Il primo piano regolatore moderno è nato a New York nel 1811: perché i cittadini e gli imprenditori, indignati che la città si sviluppasse caoticamente hanno chiesto al Comune di fare un piano che regolasse l'espansione della città stessa. Una richiesta all'autorità pubblica nata " dal basso". Il messaggio che è venuto dal mondo dell'individualismo e del mercato, è che il mercato non sa risolvere alcune situazioni. Ci vuole l'autorità pubblica”.

Gli interventi pensati nel Piano regolatore per Napoli vanno in controtendenza rispetto all'uso rapace del territorio, caratteristica comune dell'intera regione Campania? Possono dare un segnale positivo?

“Certamente. Lo possono dare e l'hanno già dato. A me sembra che il Piano regolatore sia ormai entrato nella consapevolezza comune. Meno in quella degli intellettuali, se vuole. Nella vicenda del Piano regolatore, c'è un episodio che mi ha colpito moltissimo. Quando sulle aree libere delle pendici del Vomero, in direzione di Chiaia, è stato posto con la variante di salvaguardia un vincolo di inedificabilità; e quando l'assessore Vezio De Lucia e l'allora sindaco Antonio Bassolino hanno dichiarato che su quelle aree non si sarebbe costruito né ora né mai, ebbene da quel momento gli abitanti hanno cominciato a ripiantare le vigne. Voglio dire che la città — anche gli interessi apparentemente più lontani da una logica di pianificazione e di primato del pubblico nelle decisioni sul territorio — si accorge quando c'è una volontà chiara di procedere.

Mi sembra che anche l'attuale amministrazione sia molto determinata nel difendere il Piano. Vorrei, però, che il Piano fosse inteso non solo come un insieme di regole, ma come un programma di interventi per riqualificare la città, per renderla moderna. Non nel senso di costruire piramidi di cristallo, ma nel senso di avere giardini, parchi, scuole e tutto quello che serve perché una città sia tale”.

Perché gli intellettuali non sarebbero d'accordo con quanto previsto nel Piano?

“Perché noto una certa tendenza all'accademismo. In una civiltà diversa dalla nostra si sarebbe levato un movimento guidato dagli intellettuali per la difesa del Piano regolatore”.

E, invece, cosa è successo?

“È successo che a Napoli esprimiamo vizi e virtù del popolo italiano. E l'individualismo è certamente uno dei nostri vizi peggiori”.

Lunedì alle 17, si svolgerà all'Istituto italiano per gli studi Filosofici un forum dal titolo “Pianificazione, ambiente, sviluppo”.Parteciperanno: Mauro Agnoletti, Piero Bevilacqua, Donato Ceglie, Pasquale Coppola, Vezio De Lucia, Antonio Di Gennaro, Maurizio Franzini, Edoardo Salzano. Coordinerà: Gabriella Corona.

Foto Pozzuoli bay (Napoli - Italy), © 2003 Carlotta Perazzi

La pianificazione spaziale cui si riferisce lo scritto di Parr è quella finalizzata alla «predisposizione di cornici generali e principi a orientare la localizzazione dello sviluppo e delle infrastrutture fisiche» e a ottenere «il coordinamento strategico di varie decisioni pubbliche e private (di solito decisioni di investimento) in un dato spazio entro un determinato periodo di tempo». È qualcosa di simile quella a cui si lavorò in Italia quando Antonio Giolitti era Ministro per il Bilancio e la programmazione economica (Progetto 80: la proiezione territoriale della programmazione economica. A mio parere non ha molto senso interrogarsi «sulle situazioni in cui la pianificazione spaziale è pericolosa»: come gli esempi illustrati dall’autore a questo proposito dimostrano, non è pericoloso lo strumento (la pianificazione), ma l’uso che se ne è fatto (le scelte dei decisori).

Quel particolare tipo di pianificazione (la proiezione sul territorio della politica economica) mi sembra patisca peraltro un grave limite, al quale Parr allude quando afferma che le definizioni correnti «non spiegano che cosa si intenda come “spaziale” nella definizione di “pianificazione spaziale”». La mia impressione è che la pianificazione spaziale che, per così dire, “nasce dall’economia”, si riferisce a uno spazio astratto, non molto diverso da quello praticato da Walter Christaller. Ancor oggi lo spazio al quale ci si riferisce è quello nel quale le decisioni possono essere rappresentate con «strumenti come i colori, elaborate ombreggiature, grosse linee con frecce che indicano le future aree di comunicazione».

A me sembra che una simile concezione dello spazio (e quindi del rapporto tra politiche territoriali e spazio) poteva essere comprensibile cinquant’anni fa, oggi molto meno. Cercherò di argomentarlo, partendo proprio da una delle definizioni della pianificazione spaziale cui Parr si riferisce.

Uno degli obiettivi della pianificazione spaziale, ricorda Parr, è il coordinamento delle azioni pubbliche. Ma da almeno un paio di decenni a questa parte tra le azioni pubbliche hanno assunto un peso crescente quelle orientate alla tutela e all’impiego sapiente delle risorse territoriali: dalle diverse componenti dell’ambiente (suolo, acqua, energia) a quelle del paesaggio e del patrimonio culturale e storico. Coordinare questo “settore” delle politiche pubbliche con quelli orientati alla trasformazione del territorio (infrastrutture, zone industriali, edilizia, turismo di massa, agricoltura intensiva ecc.) non determina forse conflitti che il “coordinamento” dovrebbe proprio sforzarsi di risolvere? Ma le tutele e l’impiego sapiente delle risorse territoriali esigono una rappresentazione del territorio (e, prima di questo, una “considerazione” del territorio, per adoperare il termine della legge Galasso) enormemente più corposo e “realistico” di quello impiegato della pianificazione spaziale di matrice economica.

Il fatto è che nell’ultimo mezzo secolo vi sono stati due movimenti convergenti, entrambi orientati a riconoscere nel territorio (quello fatto di suolo stabile o soggetto a dinamismi, di vegetazione allevata e brada e selvatica, di centri e manufatti e percorsi storici, di morfologie differenziate e di identità culturali diverse, di acque superficiali e profonde, correnti e ferme e stagnanti, e soprattutto di intricati intrecci tra queste diverse componenti dello spazio reale) un soggetto di diritti. Da una parte, infatti, si è compreso che le dimensioni delle trasformazioni provocate dai benefici dello sviluppo capitalistico incontravano un limite non valicabile nella scarsità e nella irriproducibilità di talune risorse naturali, costitutive del territorio. Dall’altro lato, si è generalizzata (almeno in una parte del mondo) la consapevolezza del fatto che la forma del territorio (ciò che può essere sintetizzato nel termine “paesaggio”) esprime qualità e valori che costituiscono una risorsa di cui non si può fare a meno.

A mio parere la scienza economica non si è ancora fatta carico né dell’una che dell’altra di queste componenti dell’odierna consapevolezza comune. Che non abbia compreso il concetto di limite è stato colto con spietata ironia da Kenneth Boulding, quando ha scritto che «chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista». Che trovi difficoltà ad attribuire valore alle qualità che non siano riconducibili a merci (e quindi trasformabili, fungibili, omogeneizzabili, standardizzabili) è testimoniato dal fatto che, dopo aver sapientemente distinto il valore di scambio dal valor d’uso, ha ridotto quest’ultimo a mero e generico supporto del primo.

Lo scritto di Parr sollecita quindi a riflessioni che forse legano tra loro linguaggi e punti di vista di discipline e mestieri diversi e, oggi, scioccamente lontani: le scienze del territorio da un lato, quelle dell’economia dall’altra. Ma c’è un altro versante dei saperi oggi rilevanti verso il quale Parr implicitamente invita e riflettere: quello della politica.

In tutte le definizioni di pianificazione spaziale assume rilievo il termine “pubblico”. Parr sembra condividere (giustamente) l’opinione secondo la quale la pianificazione (almeno quella spaziale) sia un’attività di competenza delle pubbliche amministrazioni. Ha consapevolezza del fatto che esistono diversi livelli territoriali di competenza delle amministrazioni pubbliche (sebbene la sua lettura si limiti a quelle nazionale e regionale). Non si pone però il problema del modo in cui il “coordinamento” possa risolvere i conflitti tra i diversi livelli di governo.

Nel sollevare questo problema forse mi lascio condizionare troppo dalla situazione italiana, dove le competenze in materia di territorio (di scelte che provocano o postulano impiego o trasformazione di risorse del territorio) sono ripartite tra molte autorità elettive di primo grado (governo nazionale, regione, provincia e area metropolitana, comune). Ma a me sembra che questo sia un problema cruciale per l’efficacia della pianificazione: non risolverlo correttamente significa aumentare considerevolmente quelli che Parr chiama «i rischi della pianificazione spaziale» (e che io, come ho detto, definirei i rischi della cattiva applicazione della pianificazione spaziale). Riferirsi al coordinamento, e in particolare a quello “verticale”, è certo opportuno; è quello, del resto, che hanno previsto numerose regioni nelle nuove leggi urbanistiche (dal 1995 in poi), e che alcune di loro stanno attuando da anni. Mi riferisco alla prassi delle “conferenze di pianificazione”, che sono la struttura decisiva, per esempio in Toscana, quando nella pianificazione territoriale si devono assumere decisioni la cui portata travalica i confini di competenza dell’una o dell’altra struttura amministrativa.

E tuttavia, ogni volta che una pluralità di soggetti deve decidere insieme, è certo importante l’individuazioni di sedi dove il confronto possa svolgersi e l’accordo maturare, ma è almeno altrettanto importante sapere a quale soggetto spetterà la responsabilità della decisione nel caso che l’accordo non si trovi. Può aiutare a individuare soluzioni corrette a questo proposito una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, nell’accezione europea e nel filone culturale aperto da Jacques Delors (a ogni livello la responsabilità delle scelte che a quel livello possono essere governate con maggiore efficacia), meglio che in quella italiana, nel filone culturale aperto da Umberto Bossi (tutto il potere al basso).

1. La legge dovrebbe mirare al "governo del territorio": cioè al modo più ragionevole di far sì che le trasformazioni del territorio abbiano: (a) il massimo di efficacia rispetto agli obiettivi definiti; (b) il migliore impiego delle risorse (finanziarie, territoriali, culturali, ambientali).

2. La legge dovrebbe perciò avere un triplice carattere.

Dovrebbe essere una legge di principi, per costituire riferimento alla specifica disciplina urbanistica la cui competenza è affidata dalla Costituzione alle regioni.

Dovrebbe definire e organizzare le competenze che la Costituzione, e l'assunzione del "principio di sussidiarietà", affidano agli organi centrali dello Stato.

Dovrebbe regolamentare alcuni aspetti di riserva statale, quali quelli concernenti i rapporti proprietari e i diritti dei cittadini.

3. Sui principi cui ispirare la pianificazione territoriale e urbanistica negli anni 2000 c'è una letteraturavasta e condivisa. Essa è stata ultimamente arricchita da alcune leggi regionali interessanti, già vigenti o in corso di discussione, quali quelle della Toscana, Liguria, Lazio, Emilia Romagna.

La distinzione tra componente strutturale (le scelte non negoziabili e quelle strategiche) e componente programmatica (ciò che si farà nel corso del prossimo mandato amministrativo) dei piani dovrebbe valere a tutti i livelli di pianificazione (comunale, provinciale, regionale), così come la sostituzione dell'approvazione con la verifica di conformità alle prescrizioni del piano da parte del livello di governo sovraordinato, da effettuare entro termini perentori.

4. I tre principi cardine, da cui tutti gli altri in qualche modo discendono, sono stati definiti con una certa precisione nel ddl del PDS. Essi sono:

(a) il principio di pianificazione: ogni ente elettivo di primo grado avente competenza territoriale esprime la propria volontà e le proprie scelte mediante un "piano", ossia un insieme di precetti riferitio al territorio attraverso una cartografia di adeguata precisione;

(b) il principio di sussidiarietà, non nell'accezione corrente (tutto il potere al livello più basso), ma in quella della cultura europea (trattati di Mastricht e di Amsterdam);

(c) il principio di salvaguardia, secondo il quale il livello sovraordinato ha il diritto/dovere di intervenire se quello sottordinato è inadempiente.

A proposito del "principio di pianificazione", per evitare che esso resti un'affermazione meramente formale, sarebbe indispensabile abrogare tutte le numerosissime forme di deroga autorizzata alla pianificazione (quali quelle contenute negli accordi di programma, nelle conferenze di servizio, nei piani urbani integrati, nei Prusst ecc. ecc.) e inserire le norme sull'abusivismo annunciate dal Ministro Micheli.

E a proposito del "principio di sussidiarietà" occorrerebbe ricordare il testo del Trattato di Amsterdam: "La Comunità interviene entro i limiti dei poteri conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ivi assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità".

5. È evidente che, appunto in base al principio di sussidiarietà, come della vigente Costituzione, agli organi centrali dello Stato competano decisioni su tutti gli oggetti e aspetti per i quali, parafrasando Maastricht, "gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità". Sarebbe opportuno definire, in modo non tassonomico, tali oggetti e aspetti. Anche su ciò c'è letteratura e giurisprudenza cui attingere.

Sarebbe poi indispensabile prevedere anche a livello statale un meccanismo di pianificazione che dia unitarietà ai molti "piani" in materia di competenza statale (paesaggio, difesa del suolo, aree protette, trasporti ecc), e statuisca il rispetto, anche da parte dello Stato, del "principio di pianificazione".

Ciò varrebbe, tra l'altro, a evitare i conflitti tra i portatori di differenti interessi (es: la tutela dell'ambiente e l'efficacia del sistema dei trasporti).

Vale la pena di osservare in proposito che, se ci fosse una "pianificazione nazionale", ossia una sintesi a priori dei diversi interessi implicanti trasformazioni del territorio, episodi come quello della variante di Valico non potrebbero aver luogo. E se ci fosse una visione d'insieme delle necessità, opportunità e costi delle diverse esigenze di adeguamento dell'attrezzatura del Paese le affermazioni, opportunamente rese nelle ultime settimane dal ministro Micheli e dal presidente Ciampi, sulla centralità delle "autostrade del mare", non apparirebbero come coraggiose prese di posizione controcorrente, ma come ovvi postulati di una strategia di uso delle risorse date.

7. Sul punto relativo alle questioni di riserva statale vorrei limitarmi a due osservazioni.

(A) La soluzione cosiddetta della "perequazione" per il regime degli immobili non è in grado di risolvere la differenza di trattamento tra i proprietari interessati dalle trasformazioni previste dai piani e quelli esterni alla linea tracciata dal piano. Non risolve quindi nessun problema che non sia già risolto dalle norme sul comparto edificatorio (legge 1150/1942) o sulle lottizzazioni convenzionate (legge 765/1967).

(B) Tra le questioni di riserva statale devono esser poste anche quelle riguardanti i diritti dei cittadini: diritto a ottenere uguali dotazioni di servizi, diritto all'informazione sulle decisioni che interessano la collettività ecc.

Agghiacciante. Mentre in Sicilia si decide di vendere (regalare) all’incanto il possesso e l'uso dei più preziosi beni culturali (si veda la postilla alla notizia di Maria Pia Guermandi), a Roma il governo, eletto dal 47% degli italiani ma che governa per tutti, avvia un ulteriore passo per imporre la privatizzazione dei beni comuni anche a chi non lo voglia. Ha ridotto i finanziamenti ai comuni? Ha ridotto ancora la possibilità di far funzionare asili nido e giardini, assistenza sociale e servizi alle residenze? Ha inciso anche così sui salari reali? Ha spinto i sindaci più sciocchi (e ce ne sono tanti!) ad aumentare lo spreco di territorio autorizzando espansioni ingiustificate per incassare gli oneri di urbanizzazione? Ebbene, permettiamo loro di allungare la loro agonia tagliandosi qualche altro pezzo di patrimonio pubblico.

Ecco il dettato del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, articolo 58. Introduce (l’obbligo? la facoltà?) della formazione del Piano delle Alienazioni Immobiliari. Questo deve contenere l’elenco dei “singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione”. L’inserimento dei beni nell’elenco ne determina la trasformazione in merci: “ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile”, e per di più, ma “ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale” Davvero incredibile. E naturalmente tale variante sfugge a qualsiasi controllo di merito: essa “non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni”.

Tragedia nella tragedia: nessuno ha reso pubblica questo ignobile provvedimento, benché dal 25 giugno scorso fosse noto al Palazzo (e quindi, si suppone, anche ai parlamentari d’opposizione, anche all’efficientissimo Governo Ombra del PD. Il potere degli Alienanti è diventato davvero egemonico, il loro governo un regime.

Ecco il testo dell’articolo

tratto dal DL 25 giugno 2008 n. 112

Articolo 58.

(Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali).

1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il Piano delle Alienazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione.

2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale. Tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni

3. Gli elenchi di cui ai commi 1 e 2, da pubblicare mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto.

4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura.

5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui ai commi 1 e 2, è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.

6. La procedura prevista dall'articolo 3-bis del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410, per la valorizzazione dei beni dello Stato si estende ai beni immobili inclusi negli elenchi di cui al presente articolo. In tal caso, la procedura prevista al comma 2 del suddetto articolo si applica solo per i soggetti diversi dai Comuni e l'iniziativa è rimessa all'Ente proprietario dei beni da valorizzare. I bandi previsti dal comma 5 sono predisposti dall'Ente proprietario dei beni da valorizzare.

7. I soggetti di cui all'articolo 1 possono in ogni caso individuare forme di valorizzazione alternative, nel rispetto dei principi di salvaguardia dell'interesse pubblico e mediante l'utilizzo di strumenti competitivi.

8. Gli enti proprietari degli immobili inseriti negli elenchi di cui al presente articolo possono conferire i propri beni immobili anche residenziali a fondi comuni di investimento immobiliare ovvero promuoverne la costituzione secondo le disposizioni degli articoli 4 e seguenti del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001, n. 410.

9. Ai conferimenti di cui al presente articolo, nonché alle dismissioni degli immobili inclusi negli elenchi di cui all'articolo 1, si applicano le disposizione dei commi 18 e 19 dell'articolo 3 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410.

Una tesi e un corollario

La tesi che vorrei argomentare è la seguente. Il processo di spopolamento delle aree interne e di quelle collinari, a “vantaggio” della concentrazione della popolazione, delle attività, degli investimenti, degli interessi, dei flussi di persone e di cose sulle aree costiere, è stato un processo parallelo a quello di erosione e di dequalificazione – infine di degrado e di deperimento – d’ogni risorsa non riducibile a merce, quindi in definitiva non riducibile a quell’unica merce che è la dominatrice del nostro mondo, cioè il denaro.

Questa tesi ha un corollario. I due processi cui mi sono riferito (squilibri territoriali e de-valorizzazione di tutte le risorse fuorché una), e il loro intreccio, non riguardano solo questa parte della Sardegna, né solo la Sardegna nel suo insieme, ma anche l’Italia, l’Europa, e il mondo nel suo complesso.

Tre conseguenze

Se questa tesi è attendibile, allora ne scaturiscono alcune conseguenza rilevanti.

La prima. L’azione che è stata intrapresa qui nel Barigadu, cioè il tentativo di arrestare lo spopolamento mediante una capillare azione di valorizzazione di tutte le risorse locali (dal paesaggio ai mestieri, dalle tradizioni alle case, dalle acque agli alberi, dalle persone agli animali, dal clima alle architetture, dalla solidarietà alla lingua) è l’azione giusta per contrastare quel processo ed è l’unico modo per superarne gli immensi aspetti negativi.

La seconda. Quest’azione è un’azione pilota nei confronti della speranza dell’intera umanità di sottrarsi a una prospettiva catastrofica: quindi è un’azione pilota per la Sardegna, per l’italia, per l’Europa, per il mondo intero.

La terza. È nell’interesse dello Stato – in tutte le sue articolazioni locali, nazionali e sovranazionali, appoggiare questa azione e – ove dia risultati soddisfacenti – impiegare risorse economiche e politiche per promuovere la generalizzazione degli indirizzii applicati, dei i metodi sperimentati, dei modelli elaborati.

Lo spopolamento: dall’equilibrio…

Se guardiamo una carta antica del territorio italiano, diciamo del XVI secolo, vediamo campagne e colline oggi deserte punteggiate da casolari e masserie, chiesette e fontanili, borghi e paesi.

Se guardiamo una restituzione dei rilevamenti vaticani o napoleonici del XIX secolo, o anche un IGM di primo impianto, vediamo dei segni meno ingenui, ma una realtà molto simile.

Per secoli rapporto tra uomo e territorio è rimasto stabile: l’insediamento, in una forma o nell’altra, era diffuso su tutti i territori abitabili.

Certo, in forme diverse: dove aggregato in paesi, circondati da una campagna priva di stabili segni di presenza umana – come qui in Burigado, o in vaste zone del Mezzogiorno continentale – e dove invece più sparso nei nuclei delle masserie organizzate.

In ogni caso una presenza diffusa sul territorio, dove perfino i boschi erano segnati dalla presenza dell’uomo, che li manteneva asportando i rami e i tronchi secchi per farne legna da utilizzare per le travi o i fuochi. (Quei tronchi e quei rami che, se non fossero stati rimossi, avrebbero impedito, e più tardi impedirono, il deflusso delle acque dei torrenti, provocando inondazioni e danni sia a monte che a valle).

I nostri paesaggi, che hanno fatto innamorare dell’Italia i massimi esponenti della letteratura e dell’arte del Settecento e dell’Ottocento europei, sono nati grazie a questo equilibrio. Ne rappresentano la testimonianza e il lascito: la testimonianza, e quindi l’insegnamento; il lascito, e quindi la ricchezza.

E i nostri prodotti da quelli alimentari (le diverse carni e i modi di cucinarle, i mille formaggi tutti buoni e tutti diversi, i vini famosi fin dai tempi dei fenici e dei romani, gli oli spremuti a freddo, e le tante tantissime paste che in certe regioni si moltiplicano) a quelli di un artigianato che spesso è l’anticamera dell’espressione artistica, tutto questo ha potuto essere inventato e accumulato e reso disponibile grazie a quell’equilibrio del rapporto tra uomo e territorio.

…alla rottura

A un certo punto quell’equilibrio si è rotto. La popolazione, le attività, gli investimenti sono franati a valle: nelle pianure litoranee, verso le coste.

Tutto lo “sviluppo” (quello sviluppo che abbiamo di recente compreso essere malato) si è rivolto verso i luoghi esterni rispetto ai cuori delle regioni.

Si è concentrato là dove il terreno era pianeggiante e poteva facilmente essere percorso dalle infrastrutture, dove potevano scorrere le macchine che nell’agricoltura avevano sostituito il bove e il mulo e perfino la fatica dell’uomo, dove le zone industriali potevano svilupparsi attingendo fiumi d’acqua dalle nascoste riserve delle falde superficiali e profonde, dove i fiumi e il mare potevano smaltire i veleni prodotti nelle fabbriche, dove le città potevano espandersi a volontà in tutte le direzioni.

In Italia ciò è accaduto, drammaticamente e tumultuosamente, negli anni del dopoguerra: prevalentemente negli anni dai Cinquanta ai Settanta, ma con code che si sono prolungate fino agli ultimi decenni del secolo scorso.

Tra il 1961 e il 1971 la popolazione rurale, ha perduto quasi 5 milioni di unita. La popolazione residente dei Comuni costieri è aumentata del 12,4% tra il 1951 e il 1961 e del 14.2% tra il 1961 e il 1971. All’inizio degli anni Settanta la metà della popolazione viveva già nei comuni costieri

Al 1951 il 45% della popolazione risiedeva in comuni piccoli e territorialmente sparsi. Al 1971 i comuni inferiori ai 10.000 abitanti raccoglievano il 35% della popolazione.

Nel complesso, si calcola che nel ventennio 1951-1971 17 milioni di italiani hanno cambiato la residenza. Un fenomeno, quindi, di dimensioni gigantesche.

Ma un fenomeno che – in tempi diversi e in modi diversi – si è sviluppato e sta sviluppandosi in tutto il mondo.

Non so se avete avuto occasione di vedere quelle fotografie dal satellite che il sito web della NASA mette a nostra disposizione. Periodicamente inseriscono una immagine, ottenuta unendo tra loro una successioni di immagini scattate dal satellite, che restituisce la visione del nostro pianeta di notte. Potete vederlo andando qui: http://www.antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/

È un’immagine per me terrificante. Le zone illuminate sono tutte lungo le coste, in Europa come in Australia, in Asia come nelle Americhe. Le vaste plaghe prive di ogni lumicino danno un’idea fortissima dei giganteschi squilibri che caratterizzano la nostra terra.

Il deperimento delle risorse

Sappiamo quali fenomeni si accompagnino alla concentrazione della popolazione, Sappiamo quali sono i grandi problemi sociali, umani,m economici, urbanistici delle aree metropolitane, i conflitti d’ogni tipo – tra cui quello con un ambiente sempre più degradato, inquinato, avvelenato. Ma io vorrei porre l’accento sul prezzo che la collettività paga per il deperimento delle risorse che avviene là dove il peso della popolazione e delle attività di riduce: nelle zone di spopolamento e d’abbandono.

Ho già accennato all’inizio a ciò che ritengo costituisca risorsa, in un modo corretto di intendere questo termine. Ho parlato di paesaggio e di mestieri, di tradizioni e di case, di acque e di alberi, di persone e di animali, di clima e di architetture, di solidarietà e di lingua e cultura.

Vorrei soffermarmi su una risorsa che è di gigantesche dimensioni e che è abbastanza trascurata. La sua importanza mi è apparsa in tutta la sua evidenza in un convegno, organizzato a Roma da Italia nostra, cui ho partecipato la settimana scorsa. Mi riferisco al territorio rurale, questo elemento che qui è davvero dominante.

Una risorsa rilevante: il territorio rurale

Il territorio rurale – il contenitore e la matrice dei nostri paesi - è una risorsa importante per molte ragioni.

È una risorsa perché è un serbatoio di naturalità addomesticata, che racconta la storia del rapporto fecondo dell’uomo con la natura, che conserva quindi per noi e per i posteri la memoria della nostra civiltà. E senza memoria, senza consapevolezza della propria storia, una civiltà non esiste. (Vi consiglio molto caldamente, a questo proposito, di leggere il bellissimo libro di Piero Bevilacqua, Utilità della storia, Donzelli

È una risorsa perché è una riserva di natura viva, capace di restituire alla vita nostra (e dei nostri posteri) l’ossigeno, l’energia vivente, la ricreazione serena che sono gli indispensabili antidoti per i veleni che il nostro “sviluppo” produce. E sempre più l’importanza di questo antidoto appare evidente a gran parte degli abitanti della metropoli, se è vero – come è vero – che cresce ogni anno la quota di visitatori che, nei periodi delle vacanze dal lavoro, preferiscono la campagna, i monti e le colline, le piccole città e i paesi alle grandi concentrazioni vacanziere delle riviere marine, sovraffollate, metropolizzate e trasformate in divertimentifici.

Ed è una risorsa perché è la matrice di una produzione di beni i quali – se sottratti alle tendenze all’omologazione e alla mercificazione che li sta mano a mano privando di ogni individualità – possono costituire strumenti importanti sia di uno sviluppo economico sostenibile sia una vita la cui qualità non si riduca a quella degli hamburger, della coca cola e delle vitamine in pillole.

Su quest’ultimo punto vorrei un momento soffermarmi. Vorrei parlarvi dell’alimentazione del mondo.

L’alimentazione nel mondo

Mi riferisco alle analisi e alle proposte di Frances Moore-Lappe, e al suo libro ‘ Diet for a Small Planet’ La Moore-Lappe è fondatrice dell’Institute for Food and Development Food First. Sostiene, e dimostra, che nel mondo esiste cibo a sufficienza a sfamare tutti i suoi abitanti se si cambia il modo di produrre alimenti rispetto a quello tendenziale. Sostiene che oggi si è adottato un approccio di tipo industriale ed estrattivo verso l’agricoltura e che da questo approccio consegue il fatto che si sta cambiando l’abbondanza in penuria. In una parola, la produzione di proteine alimentari avviene attraverso uno spreco così sterminato di prodotti alimentari primarti da mettere a rischio la capacità di alimentazione della popolazione planetaria.

"Per comprendere come ci si sia arrivati– sostiene la Moore-Lappe in un’intervista all’Espresso - bisogna risalire al prezzo dei cereali negli anni Cinquanta. All’epoca il prezzo delle granaglie era al di sopra delle capacità d’acquisto di gran parte della popolazione mondiale, di conseguenza il mercato registrava una situazione di intasamento. Così, per stabilizzare i prezzi, i produttori decisero di dare da mangiare il surplus agli animali d’allevamento. Un’abitudine rimasta immutata: le quantità di cereali date in pasto agli animali da macello superano di gran lunga quelle che vengono consumate dalla popolazione mondiale".

Secondo la Moore-Lappe, cambiando abitudini alimentari si può modificare l’equilibrio economico mondiale. Introducendo e generalizzando una dieta basata non più sulle proteine prodotte attraverso la trasformazione dei cereali in carni nella catena industriale dell’allevamento, ma su una stretta integrazione tra cereali, verdure e carni allevate naturalmente. L’esempio è la dieta mediterranea.

"Una dieta basata sulle piante piuttosto che vegetariana. Una dieta nella quale ci siano cereali non raffinati coltivati quanto più possibile localmente e senza pesticidi o fertilizzanti chimici”. Per integrare le verdure, il grano e la frutta si usano legumi, noci e semi, carne e prodotti di animali che non siano stati stati alimentati con granaglie e siano cresciuti nei pascoli aperti.

“Questa – sostiene la Moore-Lappe - non solo è la dieta più salutare, ma anche quella che pesa di meno sulle risorse della Terra. Purtroppo lo stile alimentare che ha prevalso nel mondo è quello statunitense a base di proteine e grassi animali. In questo senso gli Stati Uniti rappresentano l’apoteosi dello spreco; in questo paese: ci vogliono otto chili di grano e soia per produrne mezzo di carne. E ora stiamo esportando questo modello nel mondo”.

La Moore-Lappe fa altre due riflessioni interessanti. “La prima: sicuramente è più efficiente mangiare direttamente quello che coltiviamo senza doverlo prima somministrare ad animali. La seconda: nel mondo molti si stanno rendendo conto che l’unica strada sensata è quella di crescere e consumare cibi prodotti localmente, mantenendo la presenza di piccole e medie aziende agricole senza permettere che le nostre coltivazioni finiscano col dipendere dai fertilizzanti chimici. Non c’è dubbio inoltre che è anche più efficiente, almeno in termini energetici e sanitari, non trasportare il cibo lungo grandi distanze”.

E fa una una riflessione che definirei culturale."Riprendersi la propria alimentazione è anche una maniera per ritrovare un senso di direzione nella vita e appagamento spirituale. Nelle culture tradizionali il cibo è un elemento centrale della socializzazione; è intorno al tavolo che si incontrano i vari membri di una famiglia, che si riconnettono i percorsi personali, si celebrano gli avvenimenti importanti, e quando il cibo proviene dalla stessa comunità in cui viviamo, il senso di completezza è ancora più grande. Uno degli effetti inaspettati di quest’opera di ricollegamento tra la città e la campagna è la rinascita spirituale e morale delle comunità che ne sono interessate".

Quando si parla di modelli di sviluppo, le chiede l’intervistatrice, si finisce sempre nella dicotomia progresso-globalizzazione contro il ritorno all’antico. Come si fa a evitare questa trappola? "La soluzione è nella convivenza di scienza e tradizioni popolari. Questa convergenza nel settore agricolo sta producendo risultati interessanti: penso all’agroecologia, all’agricoltura sostenibile. Ci hanno insegnato come coltivare senza fertilizzanti chimici e gli ultimi studi scientifici ci hanno dimostrato che questi metodi producono quanto se non di più del metodo industriale intensivo. Non si tratta quindi di tornare indietro nel tempo. Ma, consapevoli delle nostre tradizioni, di proiettarci nel futuro costruendo sulle conoscenze che abbiamo acquisito".

Una battaglia d’avanguardia

Ho voluto citare a lungo questa intervista, e le tesi della Moore-Lappe, per sottolineare un punto. Il tentativo di sperimentare un modello di sviluppo basato sull’uso intelligente e “moderno” delle risorse locali – di quelle stesse risorse che lo sviluppo contemporaneo tende a degradare e distruggere – non è un tentativo di resistere a una direzione di marcia inarrestabile. Non è una battaglia di retroguardia. Non è la difesa assistenzialistica di piccole comunità che vogliono vivere come hanno sempre vissuto.

No. È, invece, la sperimentazione di un modello che può risolvere una crisi mondiale, che può permettere al nostro pianeta di evitare la gigantesca trappola nella quale uno sviluppo finalizzato unicamente alla crescita di alcuni grandi patrimoni privati ci sta portando.

Difendere e sviluppare le produzioni locali, promuovere le produzioni “di nicchia”, legare tutto ciò al territorio, al paesaggio, al capitale fisso sociale, alla ricchezza delle risorse che infinite generazioni hanno sedimentato qui, in questo luogo, offrire queste viventi ricchezze in uso a quanto voglianoi venure qui a goderne e a imparare da esse. Questo è un programma che non solo evita lo spopolamento – e lo spereco di risorse che ciò comporta – ma che indica una strada che il mondo intero può percorrere, deve percorrere, se vuole evitare il suo deperimento e la sua crisi.

Il nocciolo del problema

C’è un punto sul quale occorre riflettere, un punto molto complicato, che ci indica quanto sia complesso il problema che sta dietro a tutto ciò intorno a cui ragioniamo.

Quando parliamo di territorio, di paesaggio, di campagna (e di centri storici di monumenti di casali e di filari di alberi, di colline e di terrazzamenti, e di prodotti artigianali, di tradizioni, di prodotti peculiari di certi luoghi, caratterizzati da certi particolare profumi e sapori), noi parliamo di “beni”: di oggetti che ci interessano in relazione all’uso (estetico, didattico, ricreativo, alimentare ecc.) che se ne può fare. Parliamo di qualità, di differenze, di individualità.

E in effetti l’economia classica (Adamo Smith, David Ricardo, Karl Marx) aveva individuato due valori (o due aspetti, due componenti del valore): il valore d’uso e il valore di scambio. Il primo, il valor d’uso, si riferiva proprio alla qualità e all’individualità degli oggetti in relazione all’uso che l’uomo ne può fare. Il secondo, il valore di scambio, si riferiva invece all’equivalenza tra gli oggetti, alla loro capacità di essere scambiati lì’uno per l’altro – e tutti al loro equivalente monetario.

Per il primo, il valor d’uso, ogni oggetto è un bene. Per il secondo, il valore di scambio, ogni oggetto è una merce, conta in quanto merce.

Se la teoria economica aveva individuato con precisione entrambi questi requisiti degli oggetti, e aveva dato ad entrambi l’attributo del valore, l’economia pratica del sistema capitalistico (l’unico vigente) si è polarizzata solo sul valore di scambio, la moneta, gli schei.

L’intera economia si è ridotta a questo, e il valore d’uso è scomparso dalla scena. Ogni bene è stato ridotto a merce, e il bene in quanto tale non ha più alcun riconoscimento. Questo è il punto, questo l’obiettivo da raggiungere nella riflessione teorica e nella pratica del sistema economico: restituire legittimità economica a realtà (i “beni”) che oggi hanno solo legittimità morale.

Io credo che lo sforzo di sperimentare un modello alternativo di sviluppo, basato sulle risorse in quanto beni, in quanto individualità, qualità, differenza, sia anche un modo di aprire la strada a una concezione diversa dell’economia, e quindi della società. O, almeno, a stimolare la riflessione su di essa, e la consapevolezza della sua esigenza.

Perché è solo dalla consapevolezza delle esigenze di cambiamento che nascono i cambiamenti nella realtà.

In un’ampia intervista rilasciata a la Repubblica (1 novembre 2006) il Ministro per i beni e le attività culturali, cui spetta anche la competenza sul paesaggio, alla domanda “Lei pochi giorni fa è stato a Monticchiello, dove sindaci, cittadini, amministratori locali, hanno lanciato un grave allarme sul nuovo sacco edilizio. Cosa può fare il ministero?”, ha così risposto: “Il codice dei beni culturali prevede che ogni regione faccia i propri piani per il paesaggio, e che in questa fase vengano interpellate anche le soprintendenze. Alcune regioni sono già in regola, altre no. Quello che noi vorremmo è utilizzare proprio la Toscana come regione pilota di questa ‘collaborazione’. Per poter prevenire le brutture cementizie piuttosto che scoprire che è impossibile abbatterle dopo”.

Ottime intenzioni, quelle del Ministro. Ma non vorremmo che Rutelli avesse espresso (o che l’intervistatore avesse registrato) un’impressioni un po’ troppo superficiale della pianificazione paesaggistica così come disposta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.

E’ vero, il Codice prevede che ogni regione faccia il proprio “piano paesaggistico”. Ma ove la regione lo faccia (o voglia attribuire carattere ed efficacia di piano paesaggistico al suo piano territoriale regionale, comunque denominato), il codice prescrive molto esattamente quali devono essere: il contenuto del piano (molto definito e dettagliato, perché i beni tutelati devono essere precisamente individuati o individuabili), la sua precettività (molto cogente), la sua estensione (l’intero territorio della regione), la sua fonte (la regione in prima persona). La Corte costituzionale ha poi ribadito che il piano paesaggistico deve essere formato dalla regione, e non può essere un collage di piani comunali o provinciali, né può consistere in un mero rinvio a questi, se non per il recepimento e l’ulteriore specificazione delle norme di tutela.

Nella pianificazione paesaggistica regionale decisivo è il rapporto tra regioni e governo nazionale: non solo perché una malaugurata formulazione delle competenze attribuisce ai poteri esclusivi dello Stato la “tutela” e a quelli concorrenti di Stato e Regione la “valorizzazione”, ma anche e soprattutto perché la tutela del paesaggio è, per i principi stessi della Costituzione, preminente interesse della Repubblica, mentre la pianificazione del paesaggio è responsabilità della Regione. Perciò il Codice è molto attento alle modalità con le quali quel rapporto si esplica.

Si può dire che viene configurato una sorta di doppio regime. Nel regime separato la regione provvede alla “tutela e valorizzazione” dei beni mediante il piano paesaggistico, lo Stato li tutela mediante l’autorizzazione paesaggistica, e i due poteri si sovrappongono con distinti provvedimenti. Nel regime integrato invece il piano paesaggistico è redatto d’intesa tra Stato e Regione, e allora l’autorizzazione paesaggistica non è più necessaria. Ciò ovviamente accade solo se il piano ha i contenuti, la precettività, l’estensione, la fonte, la procedura di formazione prescritte dettagliatamente dal Codice, e quando le province e i comuni abbiano adeguato il loro strumenti al piano paesaggistico regionale.

Se il piano vuole avere gli effetti “liberatori” dell’autorizzazione paesaggistica, allora non basta che “in questa fase vengano interpellate le soprintendenze” (come un po’ burocraticamente si esprime il Ministro), ma che sempre il piano regionale, sia formato d’intesa con il ministero dei Beni e delle attività culturali e quello della Tutela dell’ambiente e del territorio. Ciò significa che non basta “interpellare” le soprintendenze, nè acquisire un loro formale parere, ma che i competenti uffici statali devono essere coinvolti nella formazione del piano, sì da poter essere d’accordo con ogni singola scelta del piano regionale.

“La Toscana come regione pilota” della collaborazione prevista dal Codice, auspica Rutelli. Ottima intenzione. La tutela del paesaggio ha, in quella regione, una tradizione che qualche malaugurato episodio non può cancellare. Tuttavia, per evitare equivoci, è lecito domandarsi se il PIT (piano d’inquadramento territoriale) che la Regione Toscana sta redigendo, avrà le caratteristiche prescritte dal Codice. Lo speriamo vivamente, ma dai documenti e dalle posizioni che conosciamo sembra che, per ora, tra la Toscana e il Codice la distanza sia molta: non sul terreno delle dichiarazioni d’intenti e degli obiettivi, ma certamente su quello della struttura, del contenuto e dell’efficacia. Non vorremmo che la distanza fosse superata non adeguando la pianificazione toscana alle regole stabilite dallo Stato, ma ammorbidendo il rigore del Codice. Come non vorremmo neppure che il ministero per i Beni e le attività culturali e quello per la Tutela dell’ambiente e del territorio, entrambi coinvolti nelle “intese” per la pianificazione paesaggistica, avessero sottovalutato le pesanti responsabilità che il Codice affida loro, e l’attrezzatura che è loro necessaria per adempiervi.

Premessa

Questa giornata è iniziata con un intervento di apertura, quello di Grazia Francescato, che ha illustrato una visione ampia, globale, ragionevolmente pessimistica del mondo di oggi. Una denuncia appassionata e convinta delle tendenze in atto, dei loro effetti perversi. Non voglio contestare niente dell’intervento di Francescato, poiché ne condivido tutto. Voglio però propormi (a differenza di altri) di riprendere l’indicazione che ha dato, verso la fine del suo intervento, a lavorare qui e ora per contrastare quella tendenza, e in particolare per evitare che il mondo si trasformi in quella “repellente crosta di cemento e asfalto” di cui così spesso parlava Antonio Cederna.

E vorrei partire proprio dal tema del nostro convegno (l’identità del territorio) e dal comprendere in che modo la pianificazione territoriale può contribuire a conservarla e confermarla.

Che cos’è l’identità del territorio

L’identità di un territorio è costituita da molte cose: la lingua, la cultura materiale e quella dei “mandarini”, la forma delle città, delle case e degli arredi, il paesaggio nelle sue diverse componenti, la memoria comune, i nomi e i patronimici delle persone, i sapori naturali e quelli delle composizioni culinarie, i materiali adoperati per vestirsi e per costruire…

Non credo affatto d’aver costruito un elenco completo, ma spero d’aver fatto comprendere che ho la consapevolezza della dimensione, dello spessore di ciò di cui stiamo parlando.

E però gli strumenti che adopero, il mestiere che pratico consentono di agire su alcuni soltanto di questi elementi. Prevalentemente, con quelli che hanno a che fare con la forma del territorio – il paesaggio, quindi – e col modo nel quale la società utilizza il territorio e le sue risorse.

Paesaggio

Dell’importanza del paesaggio nella determinazione (e nella tutela) dell’identità vi è consapevolezza da moltissimi anni. Vorrei ricordare un’espressione del ministro per la Pubblica istruzione dell’ultimo ministero Giolitti, Benedetto Croce, nel 1920.

Scriveva Croce:

Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” ( Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo [i].

Il paesaggio, quindi, come fisionomia, caratteristica, singolarità – come identità, insomma - per la quale una nazione (e una regione, una provincia, una città) si differenzia dall’altra.

Società

Ho parlato di paesaggio, e ho parlato – a proposito di ciò su cui la pianificazione può agire - del modo in cui lasocietà usa le risorse del territorio. Parlare di società impone però almeno una precisazione.

Di quale società parliamo quando parliamo di identità di un territorio?

Certo, parliamo della società di oggi: è questa la società in cui viviamo, con i cui occhi guardiamo, i cui gusti condividiamo (magari non tutti), i cui interessi cerchiamo di servire. Certo, parliamo di questa società frantumata, questa civitas che si esprime nelle forme di quella urbs dissolta e aberrante che ci ha illustrato poco fa Antonio Clemente. (Ma è anche, non dimentichiamolo, una civitas che ancora vive e ama le cento città che non sono ancora megalopoli né marmellata urbana).

Ma se parliamo di identità del territorio, e colleghiamo la nozione di identità a quella di memoria, di storia, di cultura (delle radici della società di oggi, del suo passato) non possiamo fare a meno di proiettarla anche nel futuro. Non possiamo fare a meno di riferirci anche alla società didomani, alle generazioni che ancora non sono nate.

Sostenibilità

Ecco allora che il concetto di identità, oltre che al concetto di paesaggio e a quello di società, si lega anche al concetto di sostenibilità. Perché parlare di sostenibilità, di sviluppo sostenibile, non significa parlare di uno sviluppo che risparmi, dove può e quando può, qualcosa dell’ambiente. Non significa alludere a mediazioni, a compromessi, tra un’esigenza (lo sviluppo) che di per sé consuma e distrugge risorse ambientali, e un’altra esigenza che viceversa quelle risorse vorrebbe conservare.

Sviluppo sostenibile significa invece “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri” [ii]. E’ una definizione ben più severa di quella della mediazione e del compromesso. Significa assumere, per la stessa valutazione dello sviluppo, parametri radicalmente diversi da quelli adoperati correntemente. E nella pratica significa a fare dei rigorosi bilanci tra le risorse che si impiegano per trasformare il territorio e dar luogo a nuove attività e le nuove risorse che si reimmettono nel ciclo vitale.

I compiti della pianificazione territoriale

Identità, paesaggio, società, sostenibilità. Stabiliti questi collegamenti mi resta da raccontare in che modo la pianificazione territoriale possa aiutare a conservare l’identità di un territorio.

Intanto, che cos’è un piano territoriale. Non voglio ripercorrere il faticoso percorso che ha portato anche l’Italia ad adottare la pianificazione d’area vasta. Voglio solo ricordare che la necessità della pianificazione territoriale è correlata a quel grandioso e terribile fenomeno per cui, con lo sviluppo del sistema capitalistico-borghese, il processo di “utilizzazione urbana” è esploso oltre i confini della città e ha investito l’intero territorio di vaste regioni del mondo.

E voglio soprattutto ricordare i tre compiti che, in Italia, si tende ad affidare alla pianificazione territoriale.

Un primo compito è quello di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società.

Un secondo compito è quello di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia.

Un terzo compito è quello di indirizzare a priori (anziché controllare a posteriori, come oggi avviene) le attività sul territorio degli enti sottordinati al comune in primo luogo i piani urbanistici dei comuni.

Vale la pena di soffermarsi sul secondo compito, quelle delle competenze proprie della provincia. Poiché oggi questa competenze non si limitano più soltanto alla viabilità infraregionale, all’istruzione superiore, alla caccia e pesca e a determinati rami dell’assistenza sanitaria, come una volta. Oggi alla provincia competono forti poteri in materia di ambiente, di paesaggio, di agricoltura, di uso e gestione delle risorse.

Questo a partire dagli anni Novanta: precisamente, da quella legge 142/1990 che attribuisce alla provincia nuovi e rilevanti compiti, riscattandola da quel destino di ente locale di serie B che aveva finito per assumere. Ed è interessante osservare che è proprio in quegli anni che il Parlamento approva le tre rilevanti leggi per la tutela delle risorse dell’ambiente quella per il paesaggio, la 431/1995, quella per la difesa del suolo e delle acque, la 183/1989, e quella per le aree protette, la 394/1991.

Nella stessa legislazione delle Regione Puglia (che a me sembra tra le più arretrate) si afferma che

il piano territoriale di coordinamento assume l’efficacia di piano di settore nell’ambito delle materie inerenti la protezione della natura, la tutela dell'ambiente, delle acque, della difesa del suolo, delle bellezze naturali, a condizione che la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intesa fra la Provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti. [iii]

Ma per renderci cono dell’evoluzione della cultura e della prassi della pianificazione territoriale nel nostro paese diamo un’occhiata a quanto hanno stabilito legislazioni regionali più avanzate.

La nuova legislazione regionale

Par due decenni le regioni sono rimaste paralizzate nell’obbedienza alla legge urbanistica del 1942, dimenticando che la Costituzione repubblicana attribuiva loro competenze primarie in materia di legislazione urbanistica, Dal 1990 hanno cominciato a muoversi, e hanno sfornato leggi interessanti e proposto meodi e strumenti innovativi nel governo del territorio. Varrà la pena di esaminarne sinteticamente qualche aspetto. Su due in particolare vorrei brevemente soffermarmi: l’ambiente e la conoscenza.

In tutte le leggi considerate la tutela e la riqualificazione dell’ambiente, la sostenibilità ambientale, le risorse naturali e storiche del territorio, la sua integrità fisica e identità culturale, l’ecologia – insomma, le diverse accezioni e definizioni e accentuazioni delle risorse territoriali – acquistano un peso rilevante nella indicazione dei contenuti, degli obiettivi e anche (nei casi più interessanti) nei procedimenti della pianificazione.

Tra le asserzioni di carattere generale merita di essere segnalato il testo della legge della Toscana[iv]:

Nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente. Le azioni di trasformazione del territorio sono soggette a procedure preventive di valutazione degli effetti ambientali previste dalla legge. Le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali del territorio.

Le dichiarazioni di volontà e d’intenti possono essere fuorvianti o ipocrite. Conviene allora verificare in che modo l’interesse per le risorse del territorio si esprime nei contenuti e nei meccanismi della pianificazione. Citando ancora la legge della Toscana, la conseguenza precettiva dell’asserzione ora citata è la seguente:

Tutti i livelli di piano previsti dalla presente legge inquadrano prioritariamente invarianti strutturali del territorio da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile nei termini e nei modi descritti dall'articolo 1 (articolo 5, comma 6).

Alcune regioni attribuiscono già al livello regionale la “attenta considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Così la legge dell’Umbria, quella dell’Emilia omagna, quella della Liguria. la legge della Basilicata dedica il più “solido” dei suoi atti di livello regionale (la “Carta dei suoli”), alla “la perimetrazione dei Sistemi (naturalistico-ambientale, insediativo, relazionale) che costituiscono il territorio regionale, individuandoli nelle loro relazioni e secondo la loro qualità ed il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità”.

Ma è nella pianificazione di livello provinciale il contenuto ambientale, è sempre indicato con particolare incisività, con efficacia precettiva diretta o almeno indiretta. Così:

in Toscana il piano territoriale provinciale contiene: “a) il quadro conoscitivo delle risorse essenziali del territorio e il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità in riferimento ai sistemi ambientali locali indicando, con particolare riferimento ai bacini idrografici, le relative condizioni d'uso, anche ai fini delle valutazioni di cui all'articolo 32 ; b) prescrizioni sull'articolazione e le linee di evoluzione dei sistemi territoriali, urbani, rurali e montani” (articolo 16).

In Umbria il piano urbanistico provinciale, tra l’altro: “a) sulla base delle caratteristiche geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio stabilisce le linee di intervento nelle aree oggetto di difesa del suolo e delle acque e per le attività estrattive; individua altresì le aree che richiedono ulteriori studi ed indagini a carattere particolare, ai fini della pianificazione comunale; provvede alla tutela ecologica del territorio anche mediante la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche ed alla prevenzione dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo; b) individua gli ambiti del territorio agricolo e boschivo che presentano caratteristiche omogenee e detta criteri per le relative discipline d'uso; detta altresì criteri per la localizzazione degli allevamenti agro-zootecnici con particolare riferimento a quelli che comportano particolare impatto ambientale; (…) e) individua le parti del territorio ed i beni di rilevante interesse paesaggistico, ambientale, naturalistico e storico-culturale, comprese le categorie di cui all'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, da sottoporre a specifica normativa d'uso per la loro tutela e valorizzazione; indica le aree da destinare a parco o a riserva naturale con particolare riferimento a quelle individuate dal Sistema parchi ambiente regionale; f) definisce le vocazioni prevalenti per ambiti del territorio provinciale con particolare riferimento a quelli nei quali sono necessari interventi di tutela, conservazione e ripristino ambientale, indicando le relative destinazioni di massima, i criteri e gli indirizzi, al fine di favorire l'uso integrato delle risorse territoriali;

In Liguria il piano provinciale, nella “struttura del piano”, tra l’altro: individua “le parti del territorio provinciale atte a conferire organicità e unitarietà, sotto il profilo della rigenerazione ecologica, al disegno di tutela e di conservazione ambientale delineato dalla pianificazione (…) c) integra e sviluppa gli elementi del PTR nella sua espressione paesistica, secondo le indicazioni contenute nel piano stesso, come stabilito dall’articolo 12, comma 3; d) definisce i criteri di identificazione delle risorse territoriali da destinare ad attività agricole e alla fruizione attiva, anche a fini di presidio ambientale e ricreativi; (…) f) definisce le azioni di tutela e di riqualificazione degli assetti idrogeologici del territorio, recepisce ed integra ove necessario, a norma della vigente legislazione in materia, le linee di intervento per la tutela della risorsa idrica, per la salvaguardia dell'intero ciclo delle acque, fermo restando il disposto di cui all’articolo 2, comma 5, e coordina gli effetti dei piani di bacino sulla pianificazione locale.

In Emilia Romagna il piano territoriale provinciale, tra l’altro: “c) definisce i criteri per la localizzazione e il dimensionamento di strutture e servizi di interesse provinciale e sovracomunale; d) definisce le caratteristiche di vulnerabilità, criticità e potenzialità delle singole parti e dei sistemi naturali ed antropici del territorio e le conseguenti tutele paesaggistico ambientali; e)definisce i bilanci delle risorse territoriali e ambientali, i criteri e le soglie del loro uso, stabilendo le condizioni e i limiti di sostenibilità territoriale e ambientale delle previsioni urbanistiche comunali che comportano rilevanti effetti che esulano dai confini amministrativi di ciascun ente” (articolo 26).

Infine, praticamente tutte le leggi regionali prescrivono che la base, il fondamento, il primo passo della pianificazione territoriale (e della pianificazione tout court) siano rappresentati da un sistema informativo territoriale. Un sistema in grado di connettere tra loro le numerosissime banche dati disponibili presso gli enti pubblici, nonché quelle da costituire ai fini specifici della pianificazione territoriale e urbanistica. Un sistema capace di essere sistematicamente aggiornato in relazione alla dinamica dei fenomeni, di essere precisamente riferito al territorio (“georeferenziata”), di essere consultato e utilizzato da una pluralità di soggetti: da quelli che hanno concorso a costruirla, a quelli che intendono utilizzarla per le loro azioni, e infine dai cittadini che vogliano conoscere il loro territorio e seguire le politiche.

I contenuti della pianificazione territoriale

Ritornando alla pianificazione territoriale, e al modo in cui la stiamo applicando nella Provincia di Foggia, possiamo allora tornare ai contenuti del piano per quanto concerne l’esplicazione sul territorio delle competenze provinciali.

Dobbiamo domandarci allora in primo luogo come distinguere le competenze della provincia da quelle degli altri enti locali a rappresentatività diretta, la Regione e il Comune?

Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Secondo il principio di sussidiarietà là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. La scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

Da questo punto di vista, applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree di competenza, che definiscono i contenuti del piano provinciale:

- la tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla sua capacità di sopportazione (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva.

- Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale, richiedono ugualmente un inquadramento, per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale.

- La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto vorrei svolgere una considerazione conclusiva, cioè rispondere a un’ultima domanda: esiste una identità della provincia?

L’identità della provincia

Perché un soggetto, un ente, possa avere un’identità è necessario che esso sia un organismo: che sia cioè un insieme di parti legate tra loro in modo che ciascuna di esse sia necessaria alle altre, tali cioè da essere caratterizzate da un’autonomia solo relativa. Così è l’uomo, così la città, così è la nazione. Possiamo dire che la Provincia sia un in tal senso organismo?

Molti possono sostenere il contrario. Possono ricordare l’arbitrarietà dei confini della provincia nati – nell’età napoleonica - in funzione del massimo percorso che poteva fare in un giorno il possidente che doveva pagare le imposte, o lo squadrone a cavallo dei gendarmi per sedare la sommossa nel paese più lontano. Possono ricordare la povertà dei poteri che le province hanno avuto fino a un decennio fa.

Io invece sono convinto che la Provincia è un organismo o, meglio, che può esserlo. E può esserlo proprio se affronta quella questione – la corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativi che hanno rilevanza sovracomunale - che costituisce uno dei contenuti essenziali del piano territoriale provinciale. Un organismo le cui parti (il Gargano e i Monti della Daunia, la città capoluogo e gli altri centri rilevanti della Capitanata, l’aeroporto e il porto e gli ospedali e l’università e le scuole superiori e i centri sportivi, e il sistema delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità delle persone e delle merci, siano tutti elementi legati dalla complementarietà dei ruoli, dalla integrazione delle funzioni, dalla reciprocità delle relazioni, dalla frequenza dei flussi.

E’ anche attraverso la vita in comune che questa organizzazione del territorio può determinare che può nascere, o può consolidarsi, quel comune sentire, quel partecipare a un comune destino e a una comune ricchezza, che sono i connotati più profondi dell’identità di un territorio.

Edoardo Salzano

[i] B. Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920. Il testo, sconosciuto ai più, mi è stato segnalato da Antonio Iannello, tenace e vigoroso organizzatore di memorabili vertenze contro la devastazione del paesaggio e dei beni culturali a Napoli e nella Penisola sorrentina e amalfitana.

[ii] Aa.vv, Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1989.

[iii] Comma 2 dell’articolo 6 della legge regionale 20/2001; riprende quanto già stabilito dal comma 2 dell’articolo 5 della legge regionale 25/2000, parafrasando, in ogni caso, l’articolo 57 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.

[iv] Legge regionale 5/1990, articolo 5 - Norme generali per la tutela e l'uso del territorio, comma 3

Il legislatore regionale non si muove nel vuoto. Egli è certo condizionato, in primo luogo, dalla situazione, dagli interessi, dalla cultura della sua regione. Ma la frenesia federalista non è giunta al punto di trasformare le regioni in isole segregate, in compartimenti stagni. Per ciò il legislatore regionale terrà conto anche del quadro nazionale, della cultura, degli interessi, della situazione che si esprimono nell’insieme della Repubblica di cui la Regione è parte.

Vorrei domandarmi, all’inizio di questo convegno di riflessione sulla legislazione della Regione Piemonte, quali sono i riferimenti che è possibile assumere e proporre a livello nazionale. Senza dimenticare il ruolo forte che, soprattutto in questa fase della vita del nostro paese, può essere svolto da questa regione: una Regione che ha nella sua storia una buona legge, forse il più compiuto prodotto della cultura urbanistica di quei decenni, che me è cara anche perchè è stata in larga parte il prodotto di due persone il cui ricordo e il cui insegnamento sono vivi in me: due persone come Givanni Astengo e Alberto Todros.

Domandiamoci in primo luogo a che punto stiamo

La legge Lupi e il lupismo

Il quadro nazionale non è incoraggiante. Ciò significa che è necessaria molta determinazione e molta lucidità per ricostruire strumenti positivi di governo del territorio: strumenti che consentano di utilizzare al meglio – oggi e domani, per noi e per i nostri posteri – le risorse di cui ancora disponiamo dopo la grande dilapidazione che è avvenuta soprattutto negli ultimi anni. Parlo di risorse culturali, ambientali, paesaggistiche, come delle risorse costituite dall’intelligenza, dalla capacità di lavoro, dalla sapienza amministrativa, e parlo dal patrimonio che mediante l’impiego di queste risorse è stato costituito nel territorio.

Il quadro non è incoraggiante. A meno di un colpo di mano ancora possibile, non dovrebbe giungere alla fine del suo percorso la legge denominata “Principi per il governo del territorio” che la Camera dei deputati ha approvato il 28 giugno 2005 e che è ancor oggi all’esame del Senato. Forse è un cadavere che sta alle nostre spalle. Ma la vicenda della sua gestazione rivela una situazione culturale e politica che a me sembra francamente allarmante.

Se la legge Lupi è morta, non è morto il “lupismo”: cioè quella ideologia così largamente condivisa che ha potuto far esclamare all’onorevole Lupi, all’indomani dell’approvazione della legge, che essa è il prodotto di un lavoro bipartisan.

Frase che non ha potuto essere contestata, poiché tutto il lavoro parlamentare testimonia il sostanziale accordo tra i parlamentari della destra e larga parte di quelli dell’opposizione su alcuni punti nodali del provvedimento.

Del resto, è largamente noto che nella formazione della Legge Lupi, e nella mediazione tra le proposte della destra e quelle di componenti rilevanti del centrosinistra ha svolto un ruolo rilevante la stessa cultura urbanistica ufficiale: quella rappresentata dall’Istituto nazionale di urbanistica. Un Istituto del quale sono stato presidente in tempi che mi sembrano lontani anni luce da quelli che abbiamo appena attraversato.

Una cultura ormai diffusa

La tesi che sostengo è che la legge Lupi esprime una cultura ormai diffusa, di cui si trovano tracce rilevanti in più d’una legislazione regionale e nel comportamento di molte amministrazioni locali di destra, di centro e di sinistra, la quale ha abbandonato alcuni principi cardine dell’urbanistica moderna e ha cercato:

- negli interessi immobiliari il protagonista delle trasformazioni territoriali, e quindi gli attori da promuovere e premiare

- nel potere pubblico uno strumento da trasformare da regista, arbitro e garante delle trasformazioni territoriali e urbane, a facilitatore degli interessi immobiliari,

- nel sistema delle regole (e perfino nei meccanismi della democrazia) un impaccio fastidioso da cui liberare i portatori di interessi privilegiati.

E’ del tutto evidente che da questa logica, nell’ambito di questa ideologia (e dei corposi interessi di cui è al servizio) derivano effetti molto gravi sotto due profili decisivi: quello della conservazione del patrimonio comune e quello della decadenza dell’economia.

L’aggressione al patrimonio comune

Il patrimonio comune (il territorio, l’ambiente, il paesaggio) diventa merce di scambio per consentire urbanizzazioni ed edificazioni. Le quantità dell’espansione urbana non sono più determinate sulla base delle necessità oggettive di nuove costruzioni per la residenza, per la produzione, per il commercio, per le attrezzature, ma dalla domanda degli investitori immobiliari.

Ogni nuova attività proposta, che richieda impiego di suolo e sua sottrazione al ciclo naturale (un porto turistico, un centro commerciale, una zona direzionale, un insediamento di case per vacanze), non viene valutata in relazione alla sua utilità sociale e alla sua fattibilità economica, ma semplicemente all’occupazione temporanea che può indurre (nel migliore dei casi) e dal giro di affari che promuove (nel peggiore).

E la sua localizzazione non discende da un’analisi sulla corretta disposizione degli elementi della struttura territoriale nello spazio, in relazione alle caratteristiche dei siti, all’accessibilità, alle esigenze della tutela, ma semplicemente dalla disponibilità dei proprietari a promuovere trasformazioni del loro patrimonio immobiliare (e magari delle sue esigenze di “valorizzazione”)

Non voglio dilungarmi nella descrizione dei danni che questa ideologia (e questa prassi) comportano sul patrimonio comune, sulla corretta organizzazione della città e del territorio, sulla loro vivibilità. Credo che esse siano evidenti a tutti i presenti. Vorrei invece accennare a un aspetto che troppo spesso viene trascurato: se non lo fosse, probabilmente l’attenzione delle foze sociali alla questione del governo del territorio sarebbe più vigile e continua.

Un contributo alla decadenza dell’economia italiana

Gli osservatori più attenti hanno ricordato l’estate scorsa il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Si è posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (F. Giavazzi, Corriere della sera, 9 agosto 2005 ). Si è osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (Galapagos, il manifesto, 6 agosto 2005).

E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice.

Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico? In questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale, sulla quale è utile riflettere. Il prevalere delle rendite nel nostro sistema - questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei - affonda infatti le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia: svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale.

Ma è una strada obbligata se si vuole evitare la decadenza irrimediabile. Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale: solo Bertinotti, Prodi, Epifani hanno segnalato, con parsimonia, la rilevanza di questo passaggio. E il “progetto dell’Italia” dell’Unione si limita ad affermare che “verranno assunte le iniziative necessarie a contrastare i privilegi legati alla rendita, le rendite di posizione e le distorsioni derivanti dai monopoli pubblici e privati” Ce n’est qu’un debut, piuttosto flebile in verità.

Vorrei domandarmi adesso che cosa dovrebbe stabilire una legge nazionale. L’ispirazione di una legge adeguata m sembra riassumibile in una convinzione e una consapevolezza. Vorrei esprimerle entrambe con parole non mie.

La convinzione l’hanno espressa molto bene Alberto Magnaghi e Anna Marson, nel loro contributo raccolto nel volumetto La controriforma urbanistica, a cura di Maria Cristina Gibelli, Alinea Editrice, che ieri abbiamo presentato al Politecnico:

“Il principio basilare dovrebbe affermare la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come “bene comune” [cioè non alienabile senza il consenso della comunità] essenziale al benessere delle comunità su di esso insediate.Questo principio si fonda sul presupposto che il territorio costituisca l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana, e al realizzarsi delle relazioni sociali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo”.

La consapevolezza che deve animarci la esprimo con le parole impiegate da Roberto Camagni, raccolte nello stesso volumetto:

“Il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro operare di rapporti di mercato [...]; esso richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa.

Come tradurre questa convinnzione e questa consapevolessa in precetti legislativi, in “principi” di una legge nazionale sul governo del territorio? Da tempo abbiamo proposto alcune idee.

Il comportamento generale del potere pubblico

Il primo principio non può che essere la prevalenza dell’interesse pubblico. La sua motivazione sta nel fatto che affermato da sempre come necessario nella stessa storia della pianificazione urbanistica e territoriale: questa infatti è caratterizzata, fin dalla sua nascita, dalla circostanza di essere uno strumento necessario per affrontare questioni che il mercato, di per se, non è in grado di affrontare. Tale rimane nella società di oggi. Essa consiste nel definire regole e promuovere azioni che consentano una utilizzazione del territorio coerentemente finalizzata a determinati obiettivi culturali, sociali e politici.

Accanto a questo principio ne porrei altri tre:

- il principio di pianificazione, ossia la regola che le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, sintetici (ossia comprendenti l’insieme delle scelte sul territorio che competono all’ente decisore), formati con procedure trasparenti che comprendano la partecipazione dei cittadini o delle loro rappresentanze; da tutti, a cominciare dallo Stato, le cui scelte non possono derivare da una serie di decisioni settoriali o, peggio ancora, da un “Contratto con gli italiani” disegnato sulla lavagna di Porta a porta;

.- il principio di competenza, ossia la prescrizione che la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune,

- il principio di sussidiarietà, non nella versione demagogica alla Bossi – che anche il centrosinistra ha assunto con la modifica al titolo V della Costituzione, nell’illusione fallace di tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega - ma come definito dai regolamenti europei, cioè senza nessun privilegio per i livelli sottordinati o per quelli sovraordinati, ma con riferimento al livello e alla scala degli oggetti e aspetti considerati.

I contenuti e le modalità della tutela dei beni pubblici d’interesse nazionale

Sostenibilità significa non lasciare ai posteri meno risorse di quante ne possiamo godere. Ciò impone di stabilire criteri di pianificazione che contribuiscano a controllare l’impiego di tutte le risorse e a individuare per ciascuna di esse il livello e l’autorità di pianificazione più idonei a tutelarle: ciò vale in primo luogo per le risorse basilari (acqua, aria, terra ed energia), sempre più sacrificate a una crescita della produzione di merci divenuta ormai, oltre che umanamente superflua, anche in violento contrasto, potenzialmente mortifero, con l’intrinseca limitatezza delle risorse.

Ma le risorse non sono soltanto le quattro fondamentali (acqua, aria, terra ed energia): massimo rilievo per la civiltà umana hanno cultura, storia e bellezza. Sembra allora maturo il momento per riprendere ed estendere la tutela dei valori che la natura e la storia hanno sedimentato nel territorio accrescendo la sua qualità.

Anche qui, si tratta di andare avanti lungo un percorso che è stato già avviato negli anni Settanta e Ottanta. Mi riferisco all’innovazione introdotta con la cosiddetta Legge Galasso del 1985, con la quale si sono affermati due principi.

Il primo è quello di superare la scissione tra paesaggio e urbanistica, e di attribuire la “considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” alla ordinaria pianificazione urbanistica e territoriale. Una scissione che ha provocato danni infiniti, contraddizioni, conflitti – naturalmente risolti sempre a danno della parte più debole, il paesaggio, sacrificato sistematicamente alla parte più forte, l’urbanistica intesa come edificazione e infrastrutturazione cementizia. Una scissione che l’ideologia sottesa alla Legge Lupi (e la stessa lettera della legge) sciaguratamente ripropongono.

Il secondo è quello di stabilire che l’individuazione delle qualità e dei valori del territorio meritevoli di tutela (come quella delle risorse non rinnovabili e dei rischi attuali e potenziali) sono oggetto di scelte di pianificazione che hanno la priorità rispetto alle scelte di trasformazione e urbanizzazione: sono invarianti che caratterizzano lo statuto del territorio, per riprendere i termini assunti nella legislazione della Regione Toscana.

In questo quadro, mi sembra che sia giunto il tempo di dichiarare che il territorio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. Il testo legislativo proposto da Italia Nostra nel corso della precedente gestione suggerisce appunto di introdurre questo principio aggiungendo una lettera (una categoria di beni) all’elenco dei beni da tutelare introdotto dalla Legge Galasso e ribadito dalle successive edizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

I diritti dei cittadini della repubblica italiana

Una ulteriore serie di principi dovrebbe regolare alcune questioni decisive del rapporto tra interessi privati e interessi collettivi nelle trasformazioni territoriali. Al vertice di questo gruppo di temi) ne porrei alcune che riguardano i diritti dei cittadini. Oltre alla questione dell’ambiente, della sua salubrità e della sua qualità – cui ho or ora accennato - si tratta di alcune questioni che, negli anni Sessanta e Settanta, furono al centro di un vasto movimento sociale e di un’intelligente lavoro politico e legislativo: la questione dei servizi sociali, quella della casa e quella della mobilità.

Sulla prima questione mi riferisco al movimento, e all’azione politica, che portarono anche il nostro paese a stabilire dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Questi devono certamente essere rivisti, aggiornati e integrati, tenendo conto delle nuove esigenze sociali e di antiche esigenze mai risolte (come quella alla casa), ma certamente alcuni “limiti non derogabili” di tali requisiti devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio.

Mi riferisco, in secondo luogo, all’azione per realizzare il principio della casa come servizio sociale. Fu un’azione che condusse a ottenere strumenti ricchi di potenzialità non del tutto utilizzate, sia sul versante della realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica e sociale, sia su qello del controllo del mercato privato. Un’azione che esigerebbe oggi strumenti nuovi, più adatti alle profonde modifiche che hanno distorto l’uso dello stock edilizio, ma che invece è stata sostituita dal semplice smantellamento degli strumenti faticosamente conquistati.

Mi riferisco infine alla questione della mobilità e all’angosciosa situazione del traffico, provocatrice di sprechi immani di risorse e di non misurabile malessere delle persone. E’ una questione che nasce da scelte di politica economica compiute nel dopoguerra, già allora segnalate come foriere di drammatiche conseguenze, che hanno sviluppato tutta la loro carica negativa. In pochi casi come questo la contraddizione tra carattere di massa delle esigenze e carattere indiividualistico delle soluzioni offerte ha rivelato la sua devastante portata.

Credo che su questi temi la Repubblica (che è costituita dai comuni, dalle province, dalle regioni e dallo Stato) non possa tacere lasciando a ogni regione di definire diversamente i diritti dei propri cittadini. La legislazione nazionale deve stabilire alcuni paletti, alcuni diritti che valgano per ogni cittadino italiano, dovunque abbia fissato la sua residenza. E ai principi che la legge nazionale deve stabilire devono accompagnarsi provvedimenti capaci di suscitare politiche, azioni, interventi concreti sui diversi settori coinvolti: a partire dall’economia.

I limiti del diritto di proprietà

Le peggiori devastazioni del territorio (oltre a quelle derivate dalla miopia scriteriata di cui hanno dato spesso prova i promotori delle opere pubbliche) sono state indubbiamente provocate dal prevalere degli interessi della proprietà immobiliare, in particolare di quella fondiaria. E’ a questo prevalere che si deve anche l’0irrazionalità dell’assetto delle nostre città e dei nistri territori. Sono convinto che questo sia un punto notale di una buona legge per il governo del territorio. Non si tratta di innovare gran che sul terreno dei principi giuridici già presenti nel nostro diritto, quanto di definirli con maggiore chiarezza e perentorietà e di tradurli in istituti e procedure più chiari ed espliciti.

Occorre precisare che la facoltà di edificare (ciò che taluni chiamano “diritti edificatori”) si costituisce solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati. Non esiste alcun “diritto” del proprietario a costruire alcunchè sul terreno di sua proprietà, anche se un piano regolatore legittimamente approvato lo consentiva e una successiva variante riduce o elimina del tutto la prevista edificabilità. Perfino una lottizzazione convenzionata già stipulata può essere annullata dall’amministrazione, se la motivazione è adeguata e se i proprietari sono indennizzati delle spese documentatamente e legittimamente sostenute.

Occorre ribadire che i vincoli ricognitivi, quelli cioè che costituiscono la concreta individuazione sul territorio di beni appartenenti a categorie tutelate da leggi nazionali e regionali (beni architettonici, ambientali, storici, paesaggistici) non sono indennizzabili, come ha stabilito una costante giurisprudenza costituzionale, a partire dalle famose sentenze 55 e 56 del 1968, con una chiarezza e una perentorietà crescenti.

Occorre stabilire che i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree (diverse da quelle di cui al punto precedente) alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti. Che l’espropriazione deve avvenire entro termini temporali certi e che, in assenza. l’ente pubblico è tenuto a pagare l’indennizzo di legge e ad acquisire il bene al proprio patrimonio. L’articolazione della pianificazione in due componenti (una strutturale, che definisca i vincoli ricognitivi e lo “statuto dei luoghi”, una programmatica e operativa, che stabilisca che cosa, nel periodo di tempo considerato, si farà e si lascerà fare ai diversi soggetti interessati) può essere uno strumento utile per lavorare in questa direzione, sebbene non mi sembri opportuno che questa prassi tecnica venga stabilità da una legge nazionale.

Infine, occorre stabilire che la perequazione tra proprietari di immobili cui il piano attribuisce differenti possibilità di utilizzazione, può essere praticata solo nell’ambito di ciascun comparto d’intervento operativo, come era del resto previsto, sia pure con qualche ambiguità, dalla proposta che era stata presentata dai deputati della Margherita. Generalizzazione, in altri termini, delle tecniche di compensazione tra proprietari interessati dalla medesima operazione trasformativa (come previde la legge 1150/1942 con i comparti, e la legge 765/1967 con e lottizzazioni convenzionate), ma non spalmatura generalizzata di edificabilità sul territorio, che oltretutto sancirebbe un diritto dei proprietari a una qualche quota di edificazione che nulla, nel pur arcaico diritto italiano, ha finora riconosciuto.

Per concludere.

Il ruolo delle regioni

Non sono un federalista. In Italia il federalismo ha in significato opposto a quello che il vocabolario e la storia gli assegnano: il federalismo all’italiana è qualcosa che divide, mentre il federalismo è nato per unire. Sono invece un regionalista convinto. ma non nel senso che le regioni debbano chiudersi al loro interno, rivendicando poteri dallo Stato per gestirli in piena autonomia. Credo che tra le regioni e lo Stato ci debba essere un forte interrelazione, anche nel senso che le regioni più forti ed evolute devono, generalizzando a livello statale le loro conquiste, trascinare quelle meno fortunate. Fu così, del resto, che l’esperienza del buon governo del territorio in alcune regioni contribuì a formare la legislazione riformista degli anni Sessante e Settanta. Non posso mancar di ricordare, in questa sede, il ruolo che svolse Giovanni Astengo nei primi anni dell’entrata in vigore dell’ordinamento regionale.

Una corretta applicazione del principio di sussidiarietà (non alla Bossi, ma alla Delors) può essere d’aiuto nel determinare le reciproche competenze. Ma a me qui, in Piemonte, interessa più sottolineare la responsabilità nazionale che ciascuna regione deve cercar di assumere. E vorrei a questo proposito accennate a un ultimo tema, che non saprei in quale livello di legislazione urbanistica collocare (forse in nessuno), ma che permea tutta la tematica del governo del territorio: mi riferisco alla questione della partecipazione.

Partecipazione e democrazia

È un tema molto delicato. Si pone sulla cerniera di quel rapporto che legittima l’urbanistica: il rapporto con la politica e con la società. La questione che c’è sotto è globale: è la questione della democrazia.

In Italia il nodo è quello del rapporto tra società e politica. Questo rapporto si è rotto: la società non si sente più rappresentata dagli strumenti e dagli istituti della democrazia. I partiti, e di conseguenza le istituzioni non hanno più credito. Se la maggioranza dei cittadini li subisce (e comunque elude i valori che essi dovrebbero rappresentare, accettando il potere reale degli strumenti di comunicazione di massa), quella porzione che si rifiuta di sottomettersi chiede di rappresentarsi da sé: di decidere, o almeno di partecipare direttamente al processo delle decisioni.

Si forma così (caso per caso, episodio per episodio) una opposizione al “potere che decide” che vuole decidere in sua vece. Ma poiché non ha la forza per costruire, riesce solo a decidere ciò che non va fatto: riesce a bloccare le decisioni, a ritardarle. Magari a proporre una soluzione alternativa: mai a praticarla. Ecco che la partecipazione (questa partecipazione) diventa una forza di paralisi. Al tempo richiesto dal gioco di pesi e contrappesi della democrazia, che è nato per garantire interessi legittimi contro il decisionismo del tiranno, si aggiungono così i tempi degli arresti provocati dalla partecipazione. La crisi del sistema aumenta.

Il rapporto tra politica e società

Mi rendo conto di dare un’interpretazione che può apparire pessimistica della partecipazione. Allora cerco di domandarmi da dove nasce quella crisi del rapporto tra politica e società cui la partecipazione vuole dare una risposta “dal basso“.

La mia tesi è semplice, forse semplicistica. Quando la democrazia fu introdotta in Italia (dai comunisti, dai democristiani, dai socialisti, dai liberali), essa prevedeva una stretta relazione collaborativa tra i partiti e le istituzioni. Le istituzioni, gli strumenti della democrazia rappresentativa, erano nutrite dalla società attraverso i partiti: ben al di là del collegamento a lunga periodicità dei comizi elettorali. I partiti, e soprattutto i grandi partiti, esprimevano le diverse componenti della società: nei loro ideali e nei loro interessi, nei loro egoismi e nelle loro speranze. Davano ad esse un progetto di società, in nome del quale chiedevano l’adesione e fornivano soluzioni. Mediando tra loro, ricercando intese dove era possibile raggiungerle, e denunciando differenze dove queste restavano, governavano attraverso le istituzioni. Il rito pluriennale delle elezioni non era quindi che una verifica periodica della forza elettorale dei diversi partiti, ma ciascuno di questi era il tramite quotidiano tra la società (certo informalmente rappresentata) e le istituzioni.

Il problema allora cui la partecipazione allude è proprio questo: come ricostituire un legame tra società e istituzioni, che salvi queste dalla necrosi e restituisca alla società la possibilità di intervenire positivamente sul potere? Come sostituire (o ricostituire) i partiti, e il ruolo che essi svolgevano? Oppure, avvicinandoci a un livello più praticabile, come utilizzare la partecipazione nelle decisioni sul governo del territorio in modo da aiutare il superamento della crisi in atto?

Una risposta in due direzioni

A me sembra che la risposta vada cercata in due direzioni, che richiedono entrambe un impegno reciproco: da parte delle istituzioni, e da parte dei membri della società.

Innanzitutto bisogna ricordare che il primo requisito della partecipazione è la conoscenza esatta delle questioni su cui si decide. Garantire la conoscenza è compito impegnativo per le istituzioni. Richiede di ripensare compiutamente le procedure, e soprattutto la forma dei materiali, del processo di formazione degli atti in cui si esplicita la decisione. Richiede un investimento consistente di risorse: intelligenze, formazione, persone, mezzi finanziari. Ed è un compito impegnativo anche per l’altra parte, per i cittadini: richiede attenzione, studio, costanza, modestia nell’esprimere le proprie idee. Non è poco, rispetto ai modi in cui si esprime la partecipazione oggi.

In secondo luogo, bisogna ricordare la massima di Winston Churchill: “La democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più”. Ciò significa che alcune regole elementari della democrazia vanno rispettate, e vanno rispettati i suoi istituti. Rispettati, e adoperati, finché non se ne costruiscono di migliori.

Significa che la partecipazione deve passare attraverso le istituzioni, lottando per il loro corretto funzionamento. E significa che le istituzioni devono fare il massimo sforzo per aprirsi alla società, senza rinchiudersi nel rapporto (ormai divenuto sterile) con i partiti. Bisogna forse avere più coraggio nel praticare tutti i lati del triangolo costituito dal rapporto tra istituzioni, partiti e società. Senza cadere nell’errore della demagogia populistica, conservando tutto il rigore richiesto dalla missione di governo, ma evitando di ripiombare nelle pratiche del secolo scorso, divenute ormai sterile palude: come le vicende politiche di molte città italiane testimoniano.

Di nuovo oggi i giornali ci informano che la gente è tornata ad occupare le strade e i binari, nei paesi tra Napoli e Salerno, per protestare contro la riapertura di una discarica. Protestano perché quella discarica aveva già portato pestilenza, malattia e morte. Ma in Campania non sanno dove collocare i rifiuti: le città ne scoppiano. Ho accennato alla questione nel mio intervento di ieri. Vorrei riprenderla oggi, plerchè mi sembra emblematica.

Il punto di partenza: si producono troppi rifiuti. Questo ci ricorda la centralità di temi come “la riconversione ecologica dell’economia”: riconversione ecologica, ristrutturazione profonda, dei modi di produrre, di confezionare le merci, di consumare.

Ma un passaggio ulteriore è necessario: i rifiuti, comunque, oggi e domani, molti o pochi, bisogna smaltirli. Esistono tecnologie,m esistono parametri di localizzazione degli impianti, esistono procedure che consentono di informare, discutere, decidere insieme le localizzazioni più giuste. Ma questo richiede una forte capacità di governo pubblico del territorio. Invece in Campania, dove sarebbe servita una pianificazione efficace e democratica, hanno scelto al suo posto il project financing: l’appalto ai privati di scelte delicatissime.

L’origine dell’errore: non aver voluto affrontare per tempo un problema certamente complesso, con l’unico strumento che consente di affrontare problemi territoriali complessi – la pianificazione – e con l’unica autorità che è competente – quella eletta dai cittadini e responsabile nei loro confronti.

Ma le discariche e gli inbceneritori sono solo uno degli aspetti di un uso sbagliato del territorio e del potere pubblico. Un altro aspetto lo abbiamo sotto gli occhi: la “ dispersione insediativa”, quella sequela di casette, ville e villette (le abitazioni dei “tavernicoli”, come li ha battezzati Marco Paolini), capannoni e capannoncini, depositi, piazzali, strade, autostrade, svincoli . che hanno cancellato le campagne, distrutto i paesaggi, provocato l’inquinbamento delle falde idriche, sottratto suolo prezioso al ciclo biologico essenziale per la vita dell’uomo.

Questo aspetto è stato sottolineato da molrti interventi, soprattutto stamattina. Condivido in particolare l’intervento del sindaco di Arzignano, Fracasso, anche per la forza con la quale ha posto il problema di far comprendere a tutti i cittadini la gravutà e l’entità del danno, individuanto gli appropriati modi di comunicare una visione efficace della realtà che è sotto i loro occhi ma che non vedono, con strumenti quali quelli multimediali adoperati dalla Compagnia dei Celestini.

La dispersione insediativa è uno degli aspetti più gravi dell’attuale uso del territorio, del potere e delle risorse:

Del territorio: adoperato come un mero contenitore di ogni possibile manufatto, con la completa indifferenza per i valori del territorio. La terra impermeabiulizzata, la vegetazione estirpata, i fossi trasformati in fogne, i paesaggi lontani cancellati alla vista dei passanti. Mentre vaste estebnzioni di terreni già urbanizzati giacciono inutilizzati.

Del potere, adoperato per consentire ai proprietari immobiliari di accrescere la loro rendita trasformando gli annessi rustici in capannoncini e questi in capannoni e fabbriche, i campi in piazzali o in lottizzazioni. Il potere, adoparato per seguire e incoraggiare lo spontaneismo – 200 anni dopo che, nell’America dell’iniziatiova privata e dell’intrapresa, si era scoperto che lo spontaneismo è deleterio per la città e per l’economia.

Delle risorse economiche, dilapidate incoraggiando il modello di urbanizzazione più costoso in termini di distruzione dell’agricoltura, di aumento delle spese di energia, di tempo, d’investimento derivanti dall’irrazionale aumento della domanda di moobilità (si veda il lavoro di R. Camagni, M.C.Gibelli, P. Rigamonti , I costi collettivi della città dispersa, Alinea, Firenze 2003).

Il teritorio, insomma, viene devastato provocando il degrado di risorse preziose oer la vita e per l’economia. Ma ciò che soprattutto iundigna è che esistono gli strumenti per evitare questa dissipazione.

Alcuni casi concreti.

A Salerno, nell’ambito della progettazione del Piano territoriale di coordinamento provinciale si erano compite una serie di analisi territoriali su tutti i principali aspetti della sua struttura fisica e sociale, e su questa base si era costruito un sistema informnativo territoriale che consentiva l’0interrogazione istantanea e simultanea di tutte le basi di dati raccolti e territorializzati. Quando da una commissione regionale si definirono i parametri di sicurezza ai quali doveva rispondere la localizzazione di un impianto di smaltimento dei rifiuti, fu immediata la risposta che si diede, segnalando tutte le precise localizzazioni che rispondevano a quei criteri. Gli strumenti della pianificazione, con l’impiego delle tecnologie attualmente disponibili, consentono di individuare la gamma delle risposte ottimali a qualunque quesito territoriale.

Negli USA e nei Paesi Bassi ci si sta ponendo il problema fi frenate la dispersione urbana tracciando dei confini invalicabili al di là dei quali qualsiasi costruzione è impedita. Ho personalmente partecipato anche in Italia (nel comune di Sesto Fiorentino) a un’esperienza del genere, che è stata richiesta dagli stessi amministratori e adottata nella pianificazione urbanistica senza sollevare alcun problema sociale.

Ho accennato agli aspetti economici di un uso corretto del territorio. Poiché vi sto parlando di esperienze positive, vorrei accennarne a una che mi sembra significativa: l’Emscher Park nella Ruhr.

La crisi della produzione dell’acciaio stava portando l’intero land della Westfalia-Renania alla crisi. I tentativi di diversificare la produzione e attirare investitori erano falliti. Ciò che si comprese era che gli investitori erano dissuasi dalle pesanti coindizioni ambientali: la Ruhr dava un’immagine di fumo, grigio, sporco. Willy Brand, leader del partito socialdemocratico che era egemone nella regione, lanciò lo slogan “Cielo azzurro sulla Ruhr” e una iniziativa politica molto forte e di lunga durata. Nel giro di qualche decina di anni riuscirono a trasformare il paesaggio di una vasta zona: fiumiciattoli, diventati scarichi industriali , sono stati trasformati in fiumi azzurri tra rive boscose, dove si va a pescare e a remare; gli altissimi mucchi di residui carboniosi, più alti delle caìse dei villaggi operai, sono diventate colline divestite da foreste planiziali; i villaggi sono stati restaurati, le minieri e le industrie trasformate in musei, sedi di associazioni culturali e sportive e luoghi di manifestazioni creative e di loisir. Picole e medie inbdustrie “pulite” e attività direzionali si sono installate: si è avviato un altro sviluppo.

Questo esempio mi sembra che insegni due cose:

La prima. La qualità del territorio, della città, dell’ambiente è di per sé un valore economico. Infatti, man mano che procede la trasformazione delle attività produttive (dal semplice al complesso, dal grezzo al sofisticato, dal chiodo al microchip) aumenta la rischiesta di mano d’opera qualificata. Ma questa nbon chiede solo retribuzioni elevate: a un determinato livello di reddito, più che uno stpendio più alto conta un quadro di vita più piacevole: la bellezza del paesaggio, la ricchezza di occasioni culturali, il bun funziona,ento dei servizi colelttivi sono le carte che valgono di più.

Nopn a caso la sede europea della IBM è in un grande bosco alla periferia di Bruixelles, e quella della Hewlett Pacvkard è nella verde Irlanda, nei pressi della bella Dublino.

La seconda.Le trasformnazioni del’ambiente, anche le più radicali, possono essere effettuate, a condizione che ci sia un progetto definito e una forte, costante, coesa volontà politica, capace di costruire e attuare senza oscillazioni un progetto a lungo termine: una strategia. E vorrei osservare qui che il termine “piano strategico” (che in questi anni ha una certa fortuna in Italia) può significare due cose. Può essere, appunto, la delineazione e la condivisione di un progetto a lungo ternmone, “strategico” appunti, che poi trova nei piabni urbanistici, nei programmi di amministrazione, nei bilanci, negli accordi i suoi molteplici strumenti. Oppure può ridursi (come purtroppo spesso avviene) nella mera accettazione di una lista di cose da fare, di progetti da finanziare, di deroghe da ammettere.

Per concludere. I problemi ci sono. Gli strumenti ci sono. I poteri ci sono. E tra i poteri vorrei sottolineare il possibile ruolo della Provincia che, soprattutto in una situazione come quella del Vicentino, potrebbe svolgere un decisivo ruolo di promozione e di coordinamento, come del resto la legge le imporrebbe.

La responsabilità prima delle situazioni di disagio e inefficienza è indubbiamente attribuibile ai poteri, che non danno priorità ai problemi giusti né li affrontano con gli strumenti giusti. Ma io credo che granbde potrebbe essere il ruolo (e quindi grande è la responsabilità) delle forze sociali. In, primo luogo, di quelle che rappresentano il lavoro. Esse potrebbero, e perciò dovrebbero, porre all’attenzione dei poteri i problemi reali e le soluzioni giuste e possibili.

In altri tempi, questo è successo. Molti di noi hanno ricordato le lotte degli anni Sessanta e Settanta, e i loro risultati sul terreno degli strumenti. Oggi può succedere di nuovo. Il sindacato può riprendere la battaglia per questi aspetti della difesa del lavoro.

L’iniziativa che oggi si conclude, e quella di cui ci ha parlato il segretario della Camera del lavoro di Bologna, inducono a sperare che a Vicenza, e non solo a Vicenza, si riprenderà a lavorare per “un’altra idea di città”.

La relazione introduttiva di Oscar Mancini, Segretario della Camera del lavoro di Vicenza

Caro Dino,

non ti nascondo il mio vivissimo stupore nel leggere le righe che Gigi Mazza ha dedicato al mio articolo su “Urbanistica” n. 118.

Anziché discutere, e magari contestare, le mie critiche alla sua proposta Mazza si dichiara offeso per le mie affermazioni calunniose contenute nelle seguenti righe: “La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che l’Autore del documento milanese dà a quelle pratiche è indice d’una rilevante linea di continuità degli indirizzi che, conclusa la stagione di Mani pulite, ora si (ri)propongono”. La sua indignazione per questa frase lo esime di fatto dall’entrare nel merito delle mie critiche al Documento.

Ora si dà il caso che:

  1. quelle affermazioni “calunniose” erano già presenti in una relazione che avevo svolto nell’ottobre 2000 in un convegno dell’associazione Polis, e il cui testo avevo consegnato personalmente a Mazza in un incontro all’Università Roma 3 nel giugno 2001 e inserito nel mio sito web;
  2. al mio testo Mazza aveva risposto con una lettera del settembre 2001: lettera civile, corretta, amichevole, nella quale difendeva il Documento dalle mie critiche (sebbene senza convincermi affatto); alla questione che lo ha offeso nel 2002 nel 2001 dedicava una marginale nota a piè di pagina;
  3. in un mio intervento scritto per un forum organizzato da “Urbanistica” nel novembre 2001 rispondevo puntualmente agli argomenti sollevati da Mazza nella sua lettera, precisando anche che cosa intendessi nel mio riferimento alla continuità della linea proposta dal Documento con l’ideologia sottesa a Tangentopoli.

Non solo. Come ben sai, nel testo del mio articolo pubblicato su “Urbanistica” non c’è più quella frase incriminata, che compariva nel testo inviato in precedenza e che (apprendo dall’articolo sulla tua rivista) aveva fatto retrospettivamente indignare Mazza. Come sai, non avendo la possibilità di svilupparne più ampiamente il significato e rendendomi conto che poteva, di per sé, suonare sgradevole per Mazza (che consideravo e considero un mio amico) con una lettera alla redazione avevo chiesto di sopprimerla. Cosa che naturalmente è stata fatta.

Immagino lo sconcerto del lettore diligente, che abbia voluto riscontrare sul mio testo le citazioni di Mazza! E permettimi di osservare che questo sconcerto (come la stizzita impennata di Mazza) avresti potuto evitarli se, come Direttore della rivista e amico di entrambi, avessi fatto presente a Luigi che esprimeva la sua indignazione per una frase che non c’era.

Ti sarò grato se vorrai pubblicare queste mie precisazioni nel numero di “Urbanistica” in corso di preparazione.

Relazione al Convegno PolisEboli, 14 ottobre 2000

(stralcio)

La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice.

Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante.

In questi anni di nuovo Milano si presenta con una novità dello stesso segno. Una novità importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato. Grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.

Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegnano ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.

[omissis]

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli [1]. La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che gli autori del documento milanese danno a quelle pratiche mi sembra significativa, e preoccupante.

Lettera di Luigi Mazza a Edoardo Salzano

5 settembre 2001

Caro Eddy,

mi scuso per non aver reagito al testo che mi avevi consegnato l’ultima volta che ci siamo visti a Roma. Vedo ora una stampa della tua relazione di Eboli (14/10/00), tratta dal sito IUAV. e colgo l’occasione per scriverti. Ho l’impressione che i tuoi necessari pregiudizi (chi potrebbe farne a meno) in questo caso siano particolarmente forti e mi piacerebbe provare a discutere con te con un po’ di calma, non durante le solite inconcludenti tavole rotonde. Le tue osservazioni sono molte (mi chiami anche “Autore”, una presa in giro in cui spero di poter cogliere anche una sfumatura affettuosa), più che riprenderle puntualmente — potrò se mai farlo in seguito, una volta chiarite alcune questioni di fondo — provo a procedere dalla considerazione dei cinque principi di buona pratica urbanistica che tu elenchi. Sui cinque principi è facile concordare, anche se ad una seconda lettura è possibile un’incertezza sul preciso significato del primo e del quinto principio; inizio di qui.

Il primo principio afferma “ Il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio”, il quinto “La garanzia degli interessi collettivi coinvolti”. Poiché ritengo che il primato del pubblico consista nel garantire gli interessi collettivi, mi chiedo per quale ragione tu separi e allontani i due principi. Due possibilità: (i) il quinto principio è una sottolineatura del primo, in quanto il “primato del pubblico” sta per il primato del pubblico interesse; (b) “il primato del pubblico” non indica il primato del pubblico interesse, ma il primato dello Stato, definito come attore che ha un primato su gli altri attori.

Nel caso in cui la prima interpretazione sia quella giusta — considererò poi la seconda — mi chiedo quale sia in urbanistica il modo migliore per l’attuazione pratica del primato del pubblico (interesse). La mia convinzione è che il piano regolatore — o altre forme di piano con valore giuridico impositivo — non siano più uno strumento efficace; lo sono stati, in qualche misura, quando il problema era l’espansione urbana, non lo sono più oggi. In ogni caso, sia o non sia il piano uno strumento efficace, quasi mezzo secolo di urbanistica insegna che, non solo a Milano, le scelte di piano sono attuate quando esiste un attore politico che ha la volontà e la forza politica per sostenere quelle scelte. Se viene meno il sostegno politico le scelte vengono variate e il piano modificato. Le varianti possono essere motivate da mutamenti del contesto e delle finalità perseguite, ma spesso accade che siano il risultato della pressione di interessi particolari, indifferenti all’interesse pubblico o in conflitto con esso, in questi casi l’esperienza insegna che il potere impositivo del piano non costituisce mai o quasi mai una difesa efficace; contro varianti che abbiano il sostegno, anche solo passivo, del potere politico non c’è legge o magistratura che tenga [2]. Il primato dell’interesse pubblico in urbanistica non credo sia mai garantito dalla legge [3], può essere garantito solo da una politica forte di un adeguato consenso. Se lo stesso adeguato consenso agisce contro l’interesse pubblico, la legge, come sappiamo, non sarà sufficiente ad impedirlo. In tutto ciò credo non ci sia nulla di sorprendente e scandaloso, a meno di ritenere che esista un ‘altrove’ — la scienza urbanistica? — in cui è possibile rintracciare un modello del bene e dell’interesse pubblico di cui il piano degli urbanisti costituisce la rappresentazione e a cui le pratiche politiche e tecniche devono conformarsi.

Molti anni fa Haar ha definito il piano urbanistico “una costituzione impermanente” intendendo con ciò, ritengo, un contratto sociale che può e deve essere modificato per adeguarlo ai possibili mutamenti di contesto e delle finalità della comunità, ovvero, deve essere modificato quando esistano ragioni sufficienti per farlo. E le ragioni non sono necessariamente degli interessi particolari in contrasto con l’interesse generale, anche perché l’interesse generale, come del resto il piano, non sono un dato, ma il prodotto di un progetto politico; un progetto che riesce a costruire una mediazione tra interessi particolari e intorno ad essa organizza un consenso sufficiente per perseguire gli obiettivi che si è proposto. Il piano è un contratto sociale proprio perché negozia e disegna una mediazione tra interessi; la mediazione non è neutrale ed equilibrata, è sempre orientata da una prospettiva ridistribuiva che premia alcuni interessi a scapito di altri, la scelta degli interessi dipende dal progetto politico, ovvero da chi e come è stato definito l’interesse pubblico; ancora una volta, com’è giusto, la scelta torna alla politica. Nelle pratiche l’urbanistica è sempre stata contrattata (nelle sacrestie, nelle sedi dei partiti, nei rotary, ecc.), se vogliamo usare un’espressione accademica, è sempre stata, come ogni decisione importante, il prodotto di una o più policy community che nelle occasioni migliori si assumevano il compito di strutturare il dibattito e preparare la discussione del consiglio comunale, nelle peggiori riducevano il consiglio ad una cassa di risonanza pubblica delle decisioni già assunte altrove. Il piano con valore impositivo ha sempre costituito una formidabile risorsa di scambio (e di corruzione) nei rapporti tra sistema politico ed economico e quindi all’interno dello stesso sistema politico; uno scambio che avveniva nell’ombra e si travestiva nel dibattito formale, quando spesso maggioranza e opposizione, avendo già raggiunto un accordo, recitavano in pubblico una falsa contrapposizione. Contrapporre un’urbanistica contrattata ad un’urbanistica non contrattata è un’ingenuità o un’ipocrisia. L’urbanistica — anche la più autoritaria — è nelle pratiche sempre contrattata, il problema è contrattarla bene e sottoporre la contrattazione ad un controllo trasparente, ovvero rendere esplicita la contrattazione che produce le scelte e comprensibili le ragioni che le giustificano, i nomi di coloro che le hanno assunte e sottoscritte, e non nascondere le scelte, come è sempre accaduto, dietro il velo anonimo del piano che tutto legittima perché, per definizione, è legge (ottima) dello Stato. È così, ritengo, che si realizza palesemente il primato del pubblico interesse.

Rimane da considerare la seconda possibilità interpretativa del primo principio, ovvero che il primato del pubblico debba essere inteso come primato dello Stato rispetto ad altri attori. Ancora volta è questione di intendersi; credo che lo Stato debba essere forte e autorevole, ma non dimentico che lo Stato siamo sempre ‘noi’ e che nello Stato si manifesta in modo estremo la nostra arroganza, incompetenza e irresponsabilità. Sono sorpreso nel vedere come molti dimentichino che l’azione dello Stato è il risultato combinato di burocrazie e sistema politico. Anche la polizia a Genova è Stato, e Genova insegna che non è possibile concedere a questo o ad un altro stato alcun primato preventivo, e lo insegnano quotidianamente il rapporto con il fisco o il lavoro nell’università. Ad esempio, ritengo che la riforma Berlinguer fosse indispensabile, ma ritengo che poche volte una buona riforma sia stata introdotta con tanta approssimazione, presunzione e forse involontaria arroganza, senza alcun tentativo di coinvolgimento reale di docenti e studenti, senza affrontare un aspetto centrale di tutta la riforma, il valore legale del titolo di studio, e senza chiarire che o la riforma fallisce o è destinata a produrre — come ritengo inevitabile al punto attuale di medio degrado dell’università italiana — una competizione tra sedi che rivelerà le differenze di qualità esistenti nella didattica e nella ricerca.. Sono molte le forme dello Stato italiano in cui non mi riconosco e a cui voglio resistere, sta a noi modificarle con un’azione politica più efficace di quella già svolta dal governo di centrosinistra, ma proprio per questo non sono disposto a firmare cambiali in bianco a nessuno, né a livello centrale, né a livello locale. Nessun primato ex-ante allo Stato, lo Stato proponga la sua autorevolezza argomentando le sue scelte e confrontandosi anche con l’ultimo e il più modesto dei suoi cittadini — gli altri avranno sempre avvocati e fiscalisti a tutelarli — e giustifichi la sua forza essendo soprattutto forte con i forti, e poi gli si potrà concedere una maggior, ma non illimitata, considerazione.

Infine, due parole su Milano, non certo come un paradigma, ma come un esperimento su cui discutere e da confrontare con i tuoi cinque principi. Una soluzione del tipo adottato a Milano ritengo abbia il pregio — che il piano tradizionale e le altre soluzioni da te citate non hanno — di rendere le contrattazioni esplicite e più esplicite le responsabilità di chi le assume. In questo modo una soluzione come quella milanese soddisfa il primo, il quinto e il quarto (“la trasparenza del processo di formazione delle scelte”) principio. La soluzione milanese soddisfa anche il secondo principio (“la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele”): (a) un intero capitolo del documento di Milano è costituito da regole inderogabili; (b) il piano regolatore tuttora vigente costituisce in molti casi un limite invalicabile per il decisore pubblico; (c) è in preparazione il “piano dei servizi” che definirà con uno spettro più ampio dei vincoli degli standard quali sono le esigenze pubbliche e di interesse collettivo che devono essere soddisfatte per procedere negli interventi di trasformazione. Il piano dei servizi è un tentativo di definire un sistema integrato e comprensivo di esigenze di interesse pubblico che non sono negoziabili in quanto prestazioni, anche se sono negoziabili le modalità secondo cui le prestazioni verranno fornite e le esigenze soddisfatte. Il rischio che non nascondo è che, per la nostra pochezza tecnica, il piano dei servizi possa reintrodurre molti elementi di rigidità che il documento di inquadramento ha cercato di indebolire. Rigidità che non costituisce — come continuo a sentir ripetere — garanzia per gli interessi pubblici, ma motivo di ritardo, impedimenti burocratici, e risorsa di scambio, nonché di ricatto e corruzione. Se la definizione del piano dei servizi potrà rispondere alle attese, la proposta milanese sarà completa e ordinata su tre strumenti: il documento di inquadramento che indica la volontà e la prospettiva politica e strategica dell’amministrazione; il piano dei servizi che definisce le scelte pubbliche specifiche; le rappresentazioni dell’esistente rispetto alle quali valutare i possibili effetti sulla realtà attuale delle proposte di trasformazione. Per questo brevissimo confronto della proposta milanese con i tuoi principi, rimane da considerare il terzo principio, “la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni”, si tratta di una capacità che soprattutto gli urbanisti dovrebbero mettere a disposizione del dibattito pubblico, o si pensa che possa essere disposta per legge? La soluzione milanese prevede che ogni proposta di trasformazione debba essere valutata da un organo tecnico dell’amministrazione che integra competenze tecniche, amministrative e giuridiche, e conduce autonomamente un’istruttoria e una valutazione delle proposte insieme ad un gruppo di tre consulenti esterni che hanno parere consultivo. Poiché sono uno dei tre consulenti non sta a me esprimere opinioni sul lavoro che abbiamo svolto in più di un anno e la cui qualità dipende dalla nostra competenza professionale; credo, comunque, di poter dire che, grazie ai nuovi modi di operare introdotti dalle riforme Bassanini, il lavoro svolto abbia caratteristiche diverse da quello previsto dalle procedure tradizionali per le modalità argomentative e per le tracce che esso lascia a disposizione del consiglio comunale e del pubblico [4]. Per concludere, è sin troppo evidente, salvo forse ai critici frettolosi, che in ogni caso le opportunità offerte dal documento milanese sono solo opportunità che il decisore pubblico può cogliere o respingere dal momento che gli impegni che ha assunto con il documento di inquadramento sono politico-programmatici e non giuridici.

Mi sono promesso di non intervenire sui tuoi commenti specifici, ma non riesco ad esimermi dal chiederti perché scrivi in neretto “rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato” (p.8)? In un sistema negoziato non c’è per definizione nulla di certo a cominciare dalle molte regole non negoziabili. O ancora: “una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle ‘convenienze’)” (p.9), la flessibilità è uno strumento, come lo zoning, lo puoi asservire tanto all’interesse pubblico come agli interessi privati, dipende solo da chi decide. “A me sembra molto più convincente, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che non ce ne devono essere più” (p.10), è proprio quello che è stato fatto a Milano, anche se credo che dovendo fare i conti con il piano regolatore esistente le regole in vigore siano ancora troppe e talora sembrano fatte a posta per sollecitare contratti poco trasparenti. Chiudo con un’ammissione di responsabilità, ho scritto contrapponendo la pianificazione britannica e quella continentale, invece di continentale avrei dovuto scrivere più esplicitamente italiana: gradi diversi di flessibilità sono stati introdotti in Francia sin dagli anni ottanta e in Spagna un poco più di recente, ma di questo so troppo poco per scriverne. Tanto per cambiare anche fra i paesi latini siamo ancora una volta gli ultimi.

Molti cordiali saluti, Gigi

Edoardo Salzano, Note per il forum di Milano

9 novembre 2001

La valutazione critica che esprimo a proposito del modello proposto dalla recente esperienza milanese è esposta, mi sembra con sufficiente chiarezza, nell’articolo per Urbanistica, di cui comunque allego il testo. Alla mia valutazione - che avevo già espresso in un seminario alla facoltà di architettura di Roma 3 (9.6.00) e in un successivo convegno dell’associazione Polis (14.10.00) - Gigi Mazza ha replicato inviandomi una nota (5.9.01), della quale gli sono grato anche perchè mi consente di precisare ulteriormente il mio punto di vista: ciò che faccio un po’ frettolosamente in questo testo, che mi riprometto di sviluppare e chiarire ulteriormente.

La nota di Gigi Mazza muove dai “cinque principi della buona pratica urbanistica”, che concludono la mia valutazione. Li riporto per esteso dal mio testo:

1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,

2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,

3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,

4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,

5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Mazza afferma che “sui cinque principi è facile concordare, anche se ad una seconda lettura è possibile un’incertezza sul preciso significato del primo e del quinto principio”: e comincia da qui. Premesso che “il primato del pubblico consista nel garantire gli interessi collettivi”, si chiede per quale ragione io separi e allontani i due principi. Configura “due possibilità: (a) il quinto principio è una sottolineatura del primo, in quanto il primato del pubblico sta per il primato del pubblico interesse; (b) il primato del pubblico non indica il primato del pubblico interesse, ma il primato dello Stato, definito come attore che ha un primato su gli altri attori”.

Per me “pubblico” e “collettivo” sono concetti e categorie distinti. Per “collettivo” intendo un insieme di individui, una comunità sociale, mentre per “pubblico” intendo le istituzioni, i soggetti, le regole mediante cui si governa e amministra la collettività. Distinguo il primo e il quinto “principio” anche per tener conto che, come la storia ci insegna, non sempre il “pubblico” garantisce gli interessi “collettivi”, neppure nei secoli successivi alla rivoluzione borghese. Ma lasciamo le definizioni terminologiche ed entriamo nel merito.

Assumendo la prima delle due possibilità interpretative, Mazza si domanda “quale sia in urbanistica il modo migliore per l’attuazione pratica del primato del pubblico (interesse)”. Egli esprime la convinzione che “il piano regolatore — o altre forme di piano con valore giuridico impositivo - non siano più uno strumento efficace”, e che in ogni caso “le scelte di piano sono attuate quando esiste un attore politico che ha la volontà e la forza politica per sostenere quelle scelte”.

Sono affermazioni che non ho nessuna intenzione di contestare, poiché sostengo da almeno vent’anni che la pianificazione è in crisi e i suoi strumenti obsoleti. Che la volontà politica sia decisiva perché un piano sia attuato è per me tanto vero che ho abbracciato con entusiasmo la definizione di Francesco Indovina, secondo la quale il piano urbanistico è “una scelta politica tecnicamente assistita”: è una definizione che potrà dispiacere a qualche clerc, ma che esprime icasticamente il carattere innanzitutto politico (della polis) del piano urbanistico.

Ma che c’entra questo con la trasformazione della pianificazione che propone Mazza? A mio parere, non la giustifica affatto. Indurrebbe invece ad aprire una riflessione ben più seria e severa di quella proposta da Mazza (e che in ultima analisi si riduce all’adeguamento del piano al mercato): una riflessione sulla crisi della politica.

E a me, a questo proposito, appare del tutto evidente: (a) che la politica è in una crisi profonda, dalla quale non si esce con Berlusconi né con Comunione e Liberazione, (b) che quando la politica è in una crisi siffatta la pianificazione urbanistica non può star bene.

Mazza prosegue affermando che “se viene meno il sostegno politico le scelte vengono variate e il piano modificato”, e analizza acutamente l’effetto irresistibilmente distruttivo delle “varianti” sul piano. Non avrei nulla da eccepire né sull’affermazione né sull’analisi. Ho da eccepire invece a proposito di un’osservazione in limine. Mazza, a proposito di Tangentopoli e Mani pulite, osserva che “Mani pulite è un’altra storia” rispetto a Milano, “perché la corruzione in urbanistica nasce anche prima degli anni sessanta, e si sviluppa senza scosse non solo nella Milano del rito ambrosiano”.

Nel formulare questa osservazione Mazza sembra credere (come peraltro gran parte della pubblicistica, non solo di destra) che il mostruoso fenomeno di Tangentopoli, nato a Milano all’inizio degli anni 80 e sviluppatosi in tutt’Italia all’ombra del craxismo, sia consistito semplicemente in una serie di episodi di corruzione. Sono convinto invece, e ho tentato di argomentarlo [5], che in quegli anni la società italiana ha patito il trasformarsi della corruzione, da una serie più o meno numerosa episodi isolati (e nascosti), a teorizzato sistema di governo e di regolazione generale del rapporto tra pubblico e privato.

Ridurre Tangentopoli a un mero fatto di corruzione (“quella c’è sempre stata, e sempre ci sarà”) significa non aver compreso la reale entità del problema, e quindi comporta l’abbassare la guardia rispetto a una teoria e una prassi che sono ancora vive e attive.

Ma torniamo al filone principale del ragionamento. Mazza afferma perentoriamente che “il primato dell’interesse pubblico in urbanistica” non è “mai garantito dalla legge, può essere garantito solo da una politica forte di un adeguato consenso”. Anch’io ho letto Gramsci, e so che forza e consenso sono le due componenti essenziali del governo (egemonia). Entrambe però: se si tralascia la forza (la legge) e ci si poggia solo sul consenso, l’unico che garantisce la permanenza al potere è quello dei più forti. Non a caso, l’abbandono della “urbanistica regolativa” (cioè di una urbanistica basata anche sulle regole) conduce Mazza ad assumere come polo d’orientamento della sua ricerca del consenso i poteri forti del blocco costituito attorno alla proprietà immobiliare milanese.

Richiamandosi a una definizione di Charles M. Haar (il piano urbanistico è “una costituzione impermanente”) Mazza ricorda che il piano è “un contratto sociale che può e deve essere modificato per adeguarlo ai possibili mutamenti di contesto e delle finalità della comunità, ovvero, deve essere modificato quando esistano ragioni sufficienti per farlo”. Come non essere d’accordo? Sostiene poi che “le ragioni non sono necessariamente degli interessi particolari in contrasto con l’interesse generale, anche perché l’interesse generale, come del resto il piano, non sono un dato, ma il prodotto di un progetto politico; un progetto che riesce a costruire una mediazione tra interessi particolari e intorno ad essa organizza un consenso sufficiente per perseguire gli obiettivi che si è proposto”. Anche qui, non potrei esprimere meglio un concetto che è anche mio.

Il punto è che la concreta procedura che Mazza propone per costruire un “contratto sociale” è quella della contrattazione con gli interessi immobiliari. Se è così (e nella mia critica del Documento milanese mi sembra di averlo messo abbastanza in evidenza) allora non si comprende proprio in che modo un progetto sociale costruito attorno agli interessi immobiliari (che a mio parere sono quelli più ostili agli “interessi cittadini”) possa esprimere le ragioni dei gruppi sociali più deboli, delle generazioni future, della tutela dell’ambiente (e degli stessi interessi dell’impresa capitalistica).

“Contrapporre un’urbanistica contrattata ad un’urbanistica non contrattata – sostiene Mazza - è un’ingenuità o un’ipocrisia”. Certo, ma il problema non è questo. E non è neppure solo quello di “sottoporre la contrattazione ad un controllo trasparente”.

A me sembra che il problema sia in primo luogo quello di comprendere su quali basi, su quale piattaforma, su quale “proposta di piano” si apre la contrattazione: E si tratta, in secondo luogo, di sapere chi è invitato alla contrattazione. Se la base della contrattazione è costituita dagli interessi della proprietà immpbiliare, e se dalla contrattazione vengono esclusi (nella prassi) tutti gli altri, allora la contrattazione ha un segno che è agli antipodi di tutta la faticosa costruzione dell’urbanistica (e della politica) moderna.

Il nodo di fondo del mio disaccordo con la proposta di Mazza sta insomma nel fatto che in questa si vuole sostituire una visione mercatistica dell’urbanistica a una visione sociale.

La distinzione e l’allontanamento tra il primo e il quinto dei “principi” che avevo esposto avevano indotto Mazza a configurare due ipotesi interpretative. Si sofferma anche sulla seconda, “ovvero che il primato del pubblico debba essere inteso come primato dello Stato rispetto ad altri attori”.

Dopo aver ricordato come lo stato, particolarmente in Italia, sia criticabile, Gigi Mazza non si dichiara disposto ad assicurare “nessun primato ex-ante allo Stato”. Lo Stato – prosegue – “proponga la sua autorevolezza argomentando le sue scelte e confrontandosi anche con l’ultimo e il più modesto dei suoi cittadini — gli altri avranno sempre avvocati e fiscalisti a tutelarli — e giustifichi la sua forza essendo soprattutto forte con i forti, e poi gli si potrà concedere una maggior, ma non illimitata, considerazione”.

Vorrei avere più tempo per affrontare il tema proposto, che mi sembra meritare un’attenzione particolare. Per ora mi limito a dire che io non mi sento affatto neutrale tra lo stato e gli altri: non mi sento di assumere la posizione dello spettatore attento al gioco che gli “attori” svolgono sul palcoscenico della società, e pronto a decretare il trionfo di quello degli “attori” che avrà saputo giocare meglio le sue carte.

Lungi dal sentirmi uno spettatore neutrale, mi sento membro di una collettività che ha scelto le forme della democrazia rappresentativa, nella consapevolezza che questa, pur essendo piena di difetti, ne ha comunque meno di tutte le altre che siano state inventate. So bene che questo stato, figlio di quella democrazia (e della sedimentazione storica accumulata nel mio paese, che è la mia ricchezza e la mia croce) è anch’esso pieno di difetti e di soperchierie, commette errori e provoca ingiustizie. Mi sforzo di contribuire al suo miglioramento, ma non mi sogno di porlo sullo stesso piano degli altri “attori”. So che il suo mestiere, in una democrazia rappresentativa, deve essere quello di lavorare per l’interesse della collettività. So anche che questo mestiere lo fa male, ma non accetterò di sostituirlo con “attori” che abbiano, come proprio mestiere, quello di perseguire interessi parziali.

Testo inviato a “Urbanistica”

12 gennaio 2001

(stralci)

La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice [6].

Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese [7]. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante [8].

L’intreccio tra posizioni “di destra” e posizioni “di sinistra”, tra impostazioni aperte agli interessi privatistici più spinti e posizioni giacobine, è una caratteristica della cultura milanese che andrebbe indagata a fondo. Qui vorrei segnalare che in questi anni di nuovo Milano si presenta con un evento dello stesso segno. Una evento importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato: grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.

Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegneranno ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero [9]. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.

[omissis]

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli [10]. La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che l’Autore del documento milanese dà a quelle pratiche è indice d’una rilevante linea di continuità degli indirizzi che, conclusa la stagione di Mani pulite, ora si (ri)propongono

Lettera alla redazione di “Urbanistica”

27 febbraio 2002

Prego sostituire il seguente capoverso:

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli [11]. La valutazione positiva (o quanto meno neutrale) che l’Autore del documento milanese dà a quelle pratiche è indice d’una rilevante linea di continuità degli indirizzi che, conclusa la stagione di Mani pulite, ora si (ri)propongono.

Con questo:

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. E con quest’ultimo termine non si indica una periodo di particolare estensione e diffusione delle pratiche di corruzione (quelle pratiche, come molti giustificazionisti ricordano spesso, che “sempre ci sono state e sempre ci saranno”), ma una fase particolare della nostra storia: una fase nella quale la corruzione è divenuta chiave di volta di un sistema di potere e bussola accreditata delle decisioni politiche – in particolare di quelle relative al governo del territorio [12].

[1] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla.

[2] Mani pulite è stata un’altra storia, per quanto ci riguarda in parte da scrivere perché la corruzione in urbanistica nasce anche prima degli anni sessanta, e si sviluppa senza scosse non solo nella Milano del rito ambrosiano, ricordiamo tutti Roma, a Torino le cose erano un po’ meno appariscenti, ma non per questo meno gravi, ricordi gli articoli di Novelli?

[3] E neppure dai magistrati che per quarant’anni non si sono accorti di quanto accadeva sotto gli occhi di tutti; certo, meglio tardi che mai, ma ho l’impressione che la stagione di mani pulite sia finita da un pezzo e credo che sarebbe ingiusto addossarne la colpa solo alla magistratura.

[4] Inoltre il lavoro svolto con le nuove regole ha prodotto una quantità di trasferimenti d’aree al demanio pubblico e di contributi finanziari oltre gli oneri obbligatori, sensibilmente superiori a quanto avvenisse con le procedure precedenti.

[5] Rinvio il curioso al libro che scrissi con Piero della Seta, L’Italia a sacco – Cme e perché nacque Tangentopoli, Editori riuniti, Roma 1993. È esaurito da tempo ma chi vuole leggerlo lo trova nel mio sito web.

[6] Lo ha denunciato sistematicamente Giuseppe Campos Venuti, a partire dagli anni ’80. Si veda ad esempio: G. Campos Venuti, Deregulation urbanistica a Milano, introduzione al dossier Milano senza piano – Urbanistica milanese degli anni 80, a cura di V. Erba, “Urbanistica informazioni”, n. 107, anno XVIII, set.-ott.1990. Si veda anche G. Barbacetto, E. Veltri, Milano degli scandali, Laterza, Bari 1991 e, per gli anni più recenti, F. Pagano, In assenza di una nuova legge regionale, o in alternativa..., “Urbanistica informazioni”, n. 171, anno XXVIII, mag-giu 2000.

[7] La polemica tra due assessori, entrambi del PCI, Raffele Radicioni a Torino e Maurizio Mottini a Milano, fu resa esplicita in articoli molto chiari sulla stampa quotidiana di quegli anni. Mottini può essere considerato un anticipatore della linea che affida agli interessi degli operatori e dei proprietari privati l’egemonia nella gestione dell’urbanistica. Si veda, su “L’Unità”, la posizione di Mottini il 18 agosto 1982 e la replica di Radicioni il 2 settembre 1982.

[8] Suscitò reazioni contrastanti un editoriale di “Urbanistica informazioni” (n. 60, anno X, nov.-dic. 1981) in cui criticavo le “complicità oggettive” degli atteggiamenti accademici e neutrali di parte della cultura urbanistica dell’epoca nei confronti di una linea politica emergente, che tendeva a incrinare il principio della funzione pubblica dell’urbanistica.

[9] Il pensiero e la proposta espressi nel documento della giunta milanese erano stati elaborati ed esposti da Luigi Mazza in molti dei suoi scritti: si veda, tra gli altri, Piani ordinativi e piani strategici, “CRU – Critica alla razionalità urbanistica” n. 3, 1995; Difficoltà della pianificazione strategica, “Territorio” n. 2, 1996; Il tempo del piano, “Urbanistica” n. 109, 1996; Certezza e flessibilità, “Urbanistica” n.111, 1999.

[10] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

[11] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

[12] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

Una buona legge, certo criticabile in più di un punto, ma migliore di tante altre che sono state approvate di recente dalle regioni, o che stanno per esserla. Una buona legge, sottoposta a un nutrito fuoco di critiche da parte delle associazioni ambientaliste soprattutto perché abrogherebbe i vincoli di tutela sulle coste e sugli altri elementi rilevanti del paesaggio e gli obblighi di prevedere nei piani determinate dotazioni di spazi pubblici e d’uso pubblico (standard urbanistici). Secondo le associazioni ambientaliste, in sostanza, la legge “appare censurabile sia per i suoi contenuti, sia perchè si pone quale norma eminentemente abrogativa dell’attuale sistema di regole di settore senza che di contro venga proposta una disciplina sostanziale e realmente sostitutiva”. Vale la pena di approfondire l’argomento.

Abrogate le tutele?

Se è vero che la legge abroga (con l’art. 56) le norme di tutela prescritte da alcune leggi regionali, è anche vero che essa prevede un sistema di pianificazione, fortemente incentrato sulla pianificazione regionale e provinciale (e questo della legge è indubbiamente un merito), alle quali viene attribuito il compito di individuare “la struttura delle invarianti territoriali, distinguendo tra aree indisponibili, quindi preposte alla conservazione di specifiche risorse e funzioni, e aree disponibili per la trasformazione richiesta dalle strategie di sviluppo” (art. 28), nonché i diversi elementi del paesaggio e dell’ambiente, adeguatamente elencati (art. 29), cartografati a una scala di sufficiente dettaglio (fino al 1:25.000 e al 1:10.000), e inseriti nel Sistema informativo territoriale regionale (art. 30). A differenza di molte altre leggi regionali recenti, la proposta siciliana prevede opportunamente che le scelte della pianificazione regionale e provinciale abbiano “efficacia prescrittiva e prevalente sugli strumenti urbanistici comunali”, siano cioè conformative della proprietà: veri piani, cioè, e non documenti strategici e d’indirizzo, o addirittura narrazioni e dichiarazioni d’intenti. Le determinazioni dei piani provinciali possono essere modificate dalla pianificazione comunale, ma la loro ammissibilità è soggetta all’approvazione provinciale.

Per questo aspetto, in definitiva, la proposta siciliana sembra del tutto coerente con la novità più profonda e positiva introdotta dalla legge Galasso (431/1985): quella cioè di affidare la tutela del paesaggio e dell’ambiente a tecniche e procedure di pianificazione, anziché soltanto all’arida geometria del vincolo quantitativo Certo, si tratta di piani da venire. Abrogare le norme di tutela (anche se solo procedimentali) in attesa di piani ancora da avviare sarebbe molto più di un’imprudenza: sarebbe un crimine, se si tiene conto degli interessi in gioco, della forza degli interessi immobiliari e della particolare coloritura mafiosa di cui quegli interessi sono tinti.

Ma la legge non termina con l’articolo delle abrogazioni. Essa prosegue, e prevede specifiche norme di salvaguardia (art. 60) in attesa della formazione dei nuovi piani. Nella sostanza, per due anni valgono le norme di vincolo oggi vigenti, e se alla scadenza del biennio i nuovi piani non fossero ancora vigenti le norme vincolistiche sarebbero ancora rafforzate: in particolare, per la fascia costiera il limite di inedificabulità verrebbe portato da 150 a300 metri.

Abrogati gli standard urbanistici?

Del tutto analogo è il ragionamento per quanto riguarda gli standard urbanistici. Il malfamato (giustamente) articolo 56 del disegno di legge siciliano abroga i provvedimenti regionali mediante i quali si era disciplinata per legge l’obbligo di prevedere determinate quantità di spazi pubblici o d’uso pubblico. Ma è sbagliato affermare che in tal modo la legge determina “lo scardinamento del sistema dei cosiddetti standard urbanistici inderogabili”. In realtà la legge stabilisce “la pianificazione territoriale e urbanistica definisce gli standard di qualità urbana e ambientale che si intendono perseguire, nel rispetto delle indicazioni contenute in specifici atti di indirizzo e coordinamento regionali che devono essere emanati dall’Assessorato regionale al territorio e all’ambiente con obbligo di dotazione quantitativa, anche differenziata in base a criteri di funzionalità prestazionale” (art.42). In altri termini, gli standard non sono stabiliti da un atto legislativo ma da un atto amministrativo. Ma non era così, del resto, nello stesso originario provvedimento nazionale? Gli standard furono infatti stabiliti con un decreto interministeriale (1444 del 2 aprile 1968), e non dalla legge (la 765/1967) che lo prevedeva.

E a me francamente non sembra un danno (e anzi) che dall’abrogazione degli standard urbanistici derivi l’impossibilitò di continuare ad adoperare le “zone territoriali omogenee” come metodo cardine della pianificazione comunale. Ho sempre ritenuto, e sostenuto, che le zone territoriali omogenee altro non erano che uno strumento di verifica dell’adeguatezza quantitativa degli standard, e che averle fatte divenire nella prassi (o nella legislazione regionale) strumento di progettazione del piano era stato un errore di burocratismo urbanistico e di pigrizia culturale: come sempre avviene quando si ipostatizza uno strumento al di là della necessità che lo ha originato.

Qui peraltro non sembra che si sia posta la stessa attenzione riservata al periodo transitorio nell’abrogazione delle tutele geometriche. Non è chiarito in che modo il diritto dei cittadini a veder riservate, nei piani urbanistici, determinate quantità di spazio alle esigenze sociali, verrà tenuto in considerazione nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge (e delle abrogazioni previste) e la definizione dei nuovi standard quantitativi e prestazionali che la legge stabilisce di definire. E neppure vi è cenno sul modo di valutare e di accollare agli operatori gli oneri necessari per pagare le opere di urbanizzazione e per ottenerne gratuitamente tutte le aree destinate a usi collettivi.

Non è una legge da buttare

Non sono solo queste le critiche mosse dalle associazioni ambientaliste. Alcune meritano certo d’essere raccolte, e anche altre di essere aggiunte. Per esempio, è criticabile la sottrazione al Consiglio regionale della responsabilità di approvare il Piano territoriale regionale; lo è l’insufficiente specificazione del carattere strutturale della pianificazione territoriale, il frequente ricorso a un concetto di “sostenibilità” più vicino a quello di “sopportabilità” che a quello di “durabilità” (ma non è forse divenuta questa, in Italia, l’accezione corrente di quel termine sfortunato?), l’ulteriore riduzione dei momenti di controllo esterno, la mancata considerazione della necessità dell’intesa con gli organi statali preposti alla tutela dei beni paesaggistici.

Ma se si considera la proposta nel quadro della legislazione urbanistica regionale di questi anni la legge non sembra peggiore di altre, anche considerate tra le migliori, come quella emiliano-romagnola o quella toscana. E’ peggiore per certi aspetti (per esempio il rigore della Toscana nella tutela dei territori rurali), è migliore per altri, come la precettività della pianificazione territoriale e la pulizia garantista del sistema procedurale (fatta salva l’aberrazione nell’approvazione del piano territoriale regionale cui facevo cenno). E’ certamente una legge migliorabile, ma rispettando la dignità e la coerenza della costruzione complessiva.

L’auspicio è che il dibattito faccia chiarezza e aiuti a comprendere e superare i limiti veri distinguendoli degli errori (e orrori) presunti.

Qui la relazione e il collegamento al file scaricabile del disegno di legge urbanistica regionale

Le critiche al disegno di legge cui mi riferisco sono raccolte nel sito di Legambiente Sicilia

A chiunque è consentito utilizzare questo articolo alla condizione di citarne la fonte

I dare to say that the city is the square.

I dare to say that a city without squares (without a square) is not a city.

Of course, I speak about one kind of city, not about any present city. I speak about the good European city: the city as the history of our civilisation built it, and as we want preserve it and restore it and build it today: for the people of today and for the people of tomorrow.

But what is the European City? That "uniquely European invention, intimately connected to the development of democratic and representative self-government" as Suzanne defined it this morning.

1. The City is a product, a creation, an invention of man, when he reached a certain degree of development of his needs, possibilities, culture, relationship, and when he conquered the will to free himself from the power of the landlords. It is a product of the application of work and culture to transforming the rough (but wise) resources and rhythms of nature. Then the City has a good relationship with its site and with the environment. It is part of the balance between nature and history, between the action and culture of man and the forces and rhythms of nature. The design of the Good City demonstrates the respect and value of the characteristics of sites and illustrates care for the environment.

2. The City is not a mere concentration and agglomeration of houses and streets. The City is the home of the community. So the City has an identity that is not the sum of the identities present among its walls. Then, in the best ages of its millenary history, the identity of the City is directly linked to the prevalence of the interests of the whole community over the interests of groups and individuals.

3. The City is marked by complexity, by the richness of its functions and of the interpersonal exchanges it fosters. The City was born, - was invented - as the site of exchanges and of increased opportunities. The actual historical centres tell us how liveable the City is when different functions live together: housing, working, shopping, meeting, recreation, health care.

This is the City. But the Spirit of the City, or the Genius of City as Suzanne called it – doesn’t exist everywhere with the same density and intensity. The Spirit of the City lives mainly in the public spaces, and it is emphasised in public opens paces.

The French historian Marcel Aymard described this reality well, in an essay on the Piazza in the Mediterranean city.

The public space of the city, where the man is held to appear, has a double identity. On one hand it is different from the home from the site of rest and sleep, from closed space, private space, feminine space, space defended and to be defended. On the other hand, it is different from the flat country, from the empty country, an open space but the space of work and of nature.

The public space of the city imposes itself as the space of action without work : the site of ceremonies and festivals, of gestures and of games, of leisure and of jokes. The city is organized for exchanges between men: exchanges of signs and symbols more than of goods.

The real centre of social life is not in the roads, it is in the piazza, where all the confused and chaotic circulation of the narrow streets flows. More and more defended from the trespassing of the private individuals, the piazza is the public space par excellence, a constant rule for town designing. It is the site of encounters and gossips, of the citizen’s assembly and of mass manifestations, of solemn decisions as of capital punishments.

So wrote Marcel Aymard, that I dare translate into my very elementary English. This is the significance of the piazza : the site where the Spirit of the City reaches its greatest power. Then we can easily understand what the piazza can do for mankind.

The piazza is the catalyst for community involvement. The site where people recognise one another, were each citizen discovers that he has common interests with other citizens; we can even say, where the inhabitants becomes citizens, where the individuals become a community.

The piazza is a school for learning social behaviour, for preparing children and young people to live in an heterogeneous and diverse social world, as Henry Lennard wrote. Henry often says that to stay a day in a Venetian Campo in the fastest way to understand how babies and children and young people concretely learn to behave, and try to emulate the skill of their elders, in a melting pot where (if the city is not a segregating one) different uses open windows toward different habits, and classes, and civilisations.

The piazza is the symbol, and the site, of the representation of city identity. In many cities, the main square develops this function. In other cities such as Venice, public spaces have a larger function : each of them represents the identity of one of the parts, or the neighbourhoods, or the villages, that constitute the city, but all together they represent a system of public spaces that together constitute the identity of the city.

The piazza is the market where the goods of the citizen can be exchanged. The material, as well as the immaterial goods, whose importance increases more and more, as Marcel Aymard told us. Exchange inside the city, between the citizens, but also exchange between the city and the outdoor world. I think that we must look into this key to the reason for the existence of tourists : they are outdoors visitors, persons that come to learn from our identity, and that tell us something about their own identity. Tourists are visiting professors and visiting students, and not distributors of homogenisation.

The functions that public spaces can provide for human civilisation are therefore very important. They really constitute a European treasure, an important added value to its international balance. Some pictures (not as beautiful as those that Suzanne showed us) will help us remember this treasure. (See the Power Point presentation attached)

We must now ask : in what direction goes the state of the piazza today? How is the stream of the time working? In a word, what is the value of the open public spaces in Europe?

The question has two aspects. On one hand, what happens to squares where they were created and they were lived in as living and liveable parts of the city, first of all in the historic centres ? On one other hand, how are public spaces in the new parts of the cities, in the new settlements and in the new peripheries ?

I think we will have good answers to both the aspects of the questions at the end of this Conference. And in the exhibition I have seen some good examples of efforts that are made in the last years to give a new life to public open spaces.

Remembering the experience of Erlangen that our friend Dietmar Hallweg briefly illustrated yesterday morning, I will jump to the conclusion that the best examples are those in which restoring the social function of the piazza is part (an important part ) of a larger strategy, aiming at reorganising the distribution of functions in the whole urban territory, at reducing car traffic, at implementing pedestrian and bicycle mobility, at improving public facilities (such as bus, tramway and light railways), at fighting against pollution

But let us come back to general trends, against which valuable experiences conduct their struggle.

We can see several aspects of degradation of the squares in historical centres of many of our cities:

1. disfiguring by arrogant and incongruous architectures

2. invasion of car traffic and car parks

3. flooding by mass tourism

4. disappearance of normal functions

A few comments on each of these aspects.

Disfiguring by arrogant and incongruous architecture.

I think that the foremost real enemy of the contemporary city is the triumph of individualism. It is the denial of the essence of the city, and of the basic reason for its invention. In the shape of the city we can see two aspects of this enemy. On one hand, urban sprawl. On another hand, the appearance in the old city and in its historical centres of contemporary architecture totally indifferent to the context: often, not only indifferent, but totally in conflict with the rules of the old cities. I will show you two examples:

- the main place of Ulm, degraded many years ago by a nice object (a project of Richard Meyer) located in a space that rejects such objects as an intolerable intrusion,

- the Saint Stephan Platz in Vienna, where a sparkling architecture of Hans Hollein intrudes heavily and presumptuously into the delicate space between the Graben and the Cathedral.

invasion by car traffic and parking.

This is the third way in which individualism destroys the city. It basically destroys cities by invading and occupying the sites where the Spirit of city resides, the squares. Many public open spaces, in many cities are now quite far from what I tried to illustrate when I spoke of the nature of the piazza and of the task that it accomplishes for human development. Many public open spaces in many cities are no longer sites where people meet, and gather, and play, and exchange experiences, and walk, or rest, or learn, or applaud. Many squares are large deposits of cars, of big metallic self-moving boxes that have replaced human beings and there is there no longer space for people.

I think that the Campi of Venice are so celebrated and so beautiful to live in, essentially because Venice is a car-free city. And also I think that the best examples of urban policies for the restoration of squares are policies in which the goal of their strategy is eliminating, or considerably reducing, mechanical traffic from public squares.

Flooding by mass tourism.

Tourism can certainly bring large benefits to the cities. Tourism can be seen and managed (as I told you) as a new type of exchange between the world and the city, and between the city and the world. But this can happen only by respecting some conditions, and I must say that - unhappily – these conditions are rarely respected in the cities that attract the greatest number of tourists.

The first, and the main, condition is that there must be an appropriate balance between tourism and other activities. The particular kind of city user : the touring visitor; can neither be more numerous than the residents, nor even an important percentage of the number of residents. If tourism displaces the normal activities of the city (residence, shops for daily life, inhabitants that work in the city and their services), then public open spaces are destroyed not in their stones and shapes, but in their basic character : the mixed use of the building located on open space, and of space itself.

Disappearance of normal functions

The disappearance of normal functions is the result of all that I described above. Between the causes that allow this to happen, I think we must place foremost the incapacity of local government to control the level of rents. This suggests a larger reflection on the incapacity of «market laws» to bring satisfactory results to the organisation of the city and in his liveability.

I often remember in my university lessons the history of the plan of New York in 1811. The small colony of Dutch emigrants had become a city with 60,000 inhabitants: an important vertex to the fanning out of itineraries which led to the western territories. The dynamics of transformation were such that, in the span of a few years, the lots planned for housing were filled with factories and warehouses. The streets were commonly used both by pedestrians and by horse-drawn carriages which, leaving the textile factories, headed west. The real estate values were very unstable: the intrusion of factories in the once residential areas decreased their value, provoking disastrous effects on investors. This system was not working. In absence of a minimum of clear rules, the market would lose any control and the social-economic conditions would become unsustainable. Based on these needs, and with an active public participation, the government decided to draw up a regulatory plan. So we can state that the modern master plan, the limitation of free initiative that was necessary for the life of cities and for the activities in them - was born essentially because the market needed it.

Today perhaps more than in 1811 we need a stronger presence of public regulations, a stronger control by public government of the land market in cities.

Reverting to the central course of my speech, and before concluding it, I will consider a final issue. What should be the shape and the structure of open public spaces in the new settlements (unfortunately so rare!). I offer you some very simple goals that I have derived from the observation of the ancient and living piazza and from listening to the speeches and from reading the books of Henry and Suzanne.

I think we must first of all never forget that the stones are important, but if they are alone they will not make a square or a city.

Then we must know that in order to manage the relationship between shape and people we must be able to manage (to plan) the whole city, and its territory, in all their aspects: traffic and mobility as well as environment, land use as well as housing, tourist policies as well as commercial policies and so on.

Within this general concept, how can we imagine a good square? I offer you ten rules.

1. The squares must be partially closed and protected, but they must at the same time be opened on a perspective, on a panorama, on a flow; adequate openings for a partially closed open space can be a valley or a hill, a river or the sea, or a main road with its traffic.

2. The buildings that surround it must compose a chorus of background buildings, but at the same time we must have some soloist - some foreground buildings. At two or three sides you must have common houses, nor very tall and not very different one from the other, but on the fourth side, or in the middle, we must have a taller building, such as a church or a Civic building - or a tower, or a big tree.

3. The shape of the space must be regular, but also varied. Curved lines and straight ones can very well combine together, but playing with regular lines and figures you can also obtain both variety and regularity.

4. Urban furniture must encourage different uses from different kind of persons. I think it is better to have elements were you can sit or jump or walk or play, than to have different elements for seating, for jumping and for playing - and so on.

5. Open public spaces must be alive and animated at different moments of each day and every day of the week. So you must have different functions mixed together: surrounding it, private homes and shops, public utilities and cafes and restaurants, used for occasional events and festivals, and so on.

6. Very small utilities can help to make a public space live: a simple mail-box and a bancomat and some telephones can be very useful, if the neighborhood is not large enough to justify a bank or a post-office.

7. Open public spaces must be at the very centre of neighborhood. Several routes must cross in it or near it. Public spaces don’t live only as a scenario, but typically as a focus point for a community.

8. Open public spaces must also be the hinge between the neighborhood and the city - between indoors and outdoors. A hinge in two senses: the door through which you enter in the neighborhood and the door from which you go out from the neighborhood and you enter the city.

9. Open public spaces must be the sites where the events that can interest the community happen : festivals and music bands, but also small markets or sites were the mayor or the candidates for elections meet the citizens.

10. And finally, I think it is better if in public open spaces you sense the presence of nature. You can have a view of the sea - like in Piazza San Marco in Venice or in Praça do Comerço in Lisboa - or some trees were there was once the water of canals - like in Campo Santa Margherita and Campo San Polo, or simply birds - like in Piazza San Marco and in so many open public spaces in Venice.

As you can see, I haven’t mentioned in these ten points anything about the styles of architecture. A debate about this point could well fill an entire conference.

My bad english was gently correctet by Patrice Rauszer, a good friend, that read and appreciated this paper in Eddyburg

Per rendere “competitivo” il nostro povero paese hanno deciso di anticipare alcuni dei più perversi istituti della proposta di legge Lupi accompagnandoli con una fortissima dose di centralismo statale. L’articolo 9 del disegno di legge che accompagna il decreto per la competitività introduce infatti procedure che raggiungono due risultati: scardinare le procedure garantiste ed autonomiste della pianificazione urbanistica, aumentare il peso della grande proprietà immobiliare. Ma ecco in sintesi la legge (allegato il testo dell’articolo 9 presentato in Commissione, e le note ministeriali d’accompagnamento).

Il Governo (e per esso, oggi, il ministro Lunardi), “per promuovere lo sviluppo economico”, individua (con qualche segno di pennarello su una carta geografica, o magari un semplice elenco) “gli ambiti urbani e territoriali di area vasta, strategici e di preminente interesse nazionale, ove attuare un programma di interventi in grado di accrescerne le potenzialità competitive a livello nazionale ed internazionale, con particolare riferimento al sistema europeo delle città”. D’intesa con le regioni interessate. E se le regioni non ci stanno? Il Governo si propone di adottare “procedure sostitutive”. In queste aree i comuni, anche sulla base delle proposte di privati, formulano i programmi d’intervento. Se sono in contrasto con i piani urbanistici, si può derogare con l’accordo di programma. Per attuare gli interventi i comuni, o i soggetti da loro delegati, possono disporre il “trasferimento di diritti edificatori” e possono attribuire “ incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana”. Se mi regali un parco o l’area per una scuola, in cambio di permetto di edificare il doppio o il triplo di quanto sarebbe giusto e necessario.

Ad alcune “aree strategiche” vengono affidati compiti specifici. Così, nell’area Messina-Reggio Calabria il compito affidato ai comuni (o a chi per loro) è quello di prevedere tutto quello che serve per realizzare ilk Ponte sullo Stretto.

L’esigenza dello “sviluppo”, magari “sostenibile”, fornisce la pelle d’agnello sotto la quale camuffare il solito lupo della vecchia, familiare, speculazione immobiliare. Ho rivisto da poco Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi. Le forme sono certamente molto cambiate, la sostanza è la stessa. In più, una dose di centralismo.

Caro Presidente,

un lettore di Eddyburg mi ha inviato l’articolo di Pierluigi Properzi, che ti allego. Sono veramente indignato. Mi dicono che il Properzi è stato anche vicepresidente dell’INU, e che è ancora membro del gruppo dirigente.

Come sai è da tempo che non condivido la linea dell’INU. Devo dire che le ragioni di fondo erano già presenti quando mi dimisi da direttore di Urbanistica informazioni, e sono state confermate in tutta la gestione successiva alla sconfitta della mia posizione al congresso di Milano. Speravo che con la tua presidenza le cose sarebbero cambiate, ma così non è stato. Anzi, le nostre recenti polemiche dimostrano che le differenze si sono consolidate.

Ciò non mi avrebbe sollecitato a un passo per me così doloroso come quello che sto per compiere, perché la differenza delle posizioni è il sale della crescita culturale, dei singoli e delle comunità. Ma che un membro del gruppo dirigente dell’INU si permetta di insultare una persona come De Lucia è veramente qualcosa che non riesco a sopportare. Significa, tra l’altro, che l’INU ha perso la memoria della propria storia, quindi della propria natura.

La consapevolezza di ciò – come la presenza nell’INU di tante persone cui sono legato da vincoli di stima e di amicizia - mi rende molto amaro, caro Paolo, quanto sto per fare. Ti chiedo infatti di comunicare al Consiglio direttivo, perché ne prenda atto, le mie dimissioni da appartenente all’INU e alle strutture delle quali l’Istituto mi ha designato membro.

I film che abbiamo visto, nella postazione fuori dalla sala e qui dentro, ci danno molti elementi per comprendere un momento della nostra storia che è stato decisivo: la fase della ricostruzione del paese dopo la fine della guerra e la sconfitta del nazismo e del fascismo.

Molti elementi, non tutti. Alcuni li dobbiamo aggiungere noi, utilizzando qualcosa che abbiamo appreso dai libri e dai giornali e – i più vecchi di noi - la memoria personale.

Abbiamo visto - nella pellicola “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiata da Carlo Doglio e girata per la regia di Nicolò Ferrari - qual’era la situazione di miseria e di arretratezza del nostro paese, dopo la guerra e – soprattutto – dopo il ventennio fascista.

Le immagini e le parole sulle campagne, sul Mezzogiorno, sui paesi arroccati sulle montagne e sulle colline o dispersi nei latifondi e sul loro isolamento e il loro abbandono, sulla mancanza d’acqua in vaste zone del paese, sui metodi arcaici dell’agricoltura dove uomo e animale quasi si scambiano i ruoli – tutto questo ce lo hanno raccontato.

Abbiamo visto la complessità e l’impegno del grande sforzo di ricostruire su basi diverse – modernizzando ma senza rompere il tessuto tradizionale di solidarietà sociale – un paese diventato vecchio, e dissanguato dai conati imperialisti del regime di quel tempo. Le immagini e le parole sull’esperienza dei nuovi borghi rurali della Basilicata (in primo luogo la Martella) e quelle sulla riforma agraria, ne hanno dato immagini ed episodi.

Non abbiamo visto però, se non marginalmente, il motore di quella tentativo di cambiare l’Italia, riscattando dalla miseria, dall’abbandono, dalla sete, dall’ignoranza, dalla sottoccupazione endemica masse sterminate di abitanti delle campagne, delle zone interne, del Sud.

Non abbiamo visto l’epopea dell’impegno collettivo - immane, generoso, spesso punito nel sangue - delle lotte sindacali e contadine: l’impegno dell’ intero movimento sindacale e operaio italiano.

Un impegno unitario, pienamente nazionale, teso a liberare il Mezzogiorno e le campagne dall’arretratezza e dalla miseria.

Un impegno unitario e nazionale che trovò la sua espressione - più che il suo simbolo - nel fatto che un uomo del mondo bracciantile del Sud, un uomo di Cerignola, in terra di Puglia, Giuseppe Di Vittorio, diventasse negli anni difficili del dopoguerra e della ricostruzione il più grande leader dell’intero movimento sindacale italiano.

Ma si sa, dodici minuti di pellicola non possono raccontare tutto. Io però voglio sottolineare il nesso tra

- processo di riforma (di riforme strutturali, quali erano quelle per cui si lottava allora, non di riforme elettorali e istituzionali, quali quelle di cui sciaguratamente ci si limita a parlare oggi) - tra processo di riforma e processo di rinnovamento delle basi della società da un lato,

- e movimenti e lotte di popolo dall’altro: movimenti e lotte guidati da una politica che era tesa, allora, a incidere sui meccanismi reali della società, e non solo sul gioco superficiale dei poteri.

Quel nesso che del resto è perfettamente individuato e sentito da Carlo Doglio – il generoso sociologo bolognese d’adozione, apostolo del riscatto della “povera gente” attraverso l’intreccio tra pratiche sociali e pratiche urbanistiche – negli ultimi fotogrammi del film.

Doglio individua con molta precisione il nocciolo dei valori che la storia sociale ha depositato nella città e che non devono essere perduti, dei valori che nella città moderna (anche quella disegnata con le migliori intenzioni) rischiano invece d’essere smarriti.

Avete visto le immagini dei casermoni anonimi e tristi, dei quartieri recintati e chiusi, degli insediamenti nei quali i bambini venuti in città dalle campagne non sanno dove giocare. E avete visto, per converso, come quel popolo, quei cittadini vivessero prima nei paesi “poveri ma accoglienti” – dice il film - , dove le piazze, gli spazi pubblici erano i luoghi nei quali la comunità si riconosceva come tale, e l’uomo si sentiva parte di una società.

Insomma, il ruolo degli spazi pubblici come vera cerniera tra l’ uomo sociale e la città umana Carlo Doglio l’aveva colta quasi cinquant’anni prima della Compagnia dei Celestini.

Alcune immagini mi hanno particolarmente colpito. Nei nuovi borghi della riforma incompiuta gli uomini, la sera, in assenza di spazi comuni, prendono il cavallo o la motoretta e vanno al vecchio paese, dove trovano gli amici, l’osteria – e magari la casa del popolo. E nel borgo le donne rimangono sole: gli spazi comuni sono lontano dalle abitazioni, e le donne rimangono nella loro solitudine casalinga.

Le donne, la condizione delle donne: accorgersi di questa servitù e di questa esigenza di riscatto in quegli anni significava davvero saper guardare bene addentro alla società del tempo e ai suoi disagi, e ben avanti nel tempo.

Sono dovuti passare quasi tre lustri prima che la consapevolezza evocata da Doglio diventasse norma e strumento. Mi riferisco al decreto per gli standard del 1968 che impose di riservare, in tutti i piani urbanistici, determinate quantità di spazi pubblici e d’uso pubblico in ragione del numero dei cittadini previsti.

E poiché parliamo di questo, di quella regola e di quello strumento che noi tecnici chiamiamo gli standard urbanistici – e poiché poi ho sottolineato il ruolo delle forze sociali, della spinta del popolo organizzato, per ottenere i cambiamenti nella società e nella città, voglio parlarvi di un libriccino che ho riscoperto qualche giorno fa. E’ una storia della quale i film di De Carlo e Doglio non potevano dar conto, perché è avvenuta dopo: sebbene – l’ho appena detto – nei loro lavori ce n’erano i germi e – per così dire – l’attesa.

Il libriccino che ho ritrovato raccoglie gli atti di un convegno sul tema “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico”, organizzato dall’UDI (Unione Donne Italiane), a Roma, il 21-22 marzo 1964. Di quel libriccino, stampato ma fuori commercio e fuori dalle biblioteche universitarie, mi hanno colpito due cose che hanno a che fare con questa manifestazione.

La prima: quattro anni prima che gli urbanisti riuscissero a far diventare legge dello Stato la loro richiesta che anche in Italia - come negli altri paesi europei – ci fossero aree in misura adeguata per le esigenze della collettività (asili nido e scuole, campi sportivi e palestre, biblioteche pubbliche e ambulatori, piazze e giardini), quattro anni primi una grande organizzazione di massa aveva organizzato e svolto una vasta campagna di mobilitazione dell’opinione pubblica, aveva raccolto migliaia di firme in calce a una proposta di legge d’iniziativa popolare, e aveva posto al centro della sua iniziativa un convegno di studi. Quel lavoro ebbe uno sbocco, se quattro anni dopo la rivendicazione di più spazi per le cittadine e i cittadini diventò legge.

(E’ vero, l’elemento scatenante perché si arrivasse alla “legge ponte urbanistica” e al decreto sugli standard fu la frana di Agrigento e lo scandalo che quell’evento rivelò. Furono provvedimenti dettati dall’emergenza. Ma una volta tanto il movimento popolare che si era determinato indusse il legislatore a rispondere all’emergenza con un intervento strutturale).

La seconda cosa che in quel libricino mi ha colpito. A quel convegno due delle quattro relazioni fondamentali furono svolte da due urbanisti già allora famosi – due uomini cui l’urbanistica italiana deve moltissimo, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti.

Due figure di rilievo, nelle cui vite l’attività professionale e l’attività politica si erano sempre strettamente intrecciate, ed entrambe avevano alimentato un loro ruolo importante nell’attività di direzione culturale – in particolare, nel’Istituto Nazionale di Urbanistica di cui Astengo era il portavoce e Detti divenne il Presidente in anni difficili.

Non era la concertazione con gli interessi forti che cercavano allora gli urbanisti.

Non era la pretesa di far sedere gli interessi immobiliari al tavolo delle decisioni che stimolava gli urbanisti a cercare nuove soluzioni legislative.

Non era lo sforzo di perequare gli interessi dei proprietari fondiari che li affaticava.

Ciò che invece li impegnava

- era lo sforzo di soddisfare le esigenze della vita sociale delle donne e degli uomini, di dare risposta alle domande che salivano dai settori avanzati del popolo,

- era la ricerca di soluzioni che, nell’organizzazione della città, riducessero la sperequazione – quella sì ingiusta, e da assumere come avversario! – tra chi ha un’area e diventa straricco se ottiene di edificarla, e chi – come tante donne, tanti bambini, tanti uomini, come la Compagnia dei Celestini nel libr di Benni – cerca uno spazio per giocare, per crescere, per diventare comunità.

Ho parlato fino adesso soprattutto di uno dei film che abbiamo visto: quello intitolato “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiato da Carlo Doglio e girato sotto la regia di Nicolò Ferrari. E ripensando al titolo mi colpisce – mi sembra tanto lontano dall’oggi – che urbanistica significava, per quegli uomini, cose un po’ diverse da quello che sembra oggi.

Significava occuparsi

- delle trasformazioni economiche e sociali del paese,

- dei diritti concreti delle masse diseredate,

- del benessere dei lavoratori e delle componenti più deboli della popolazione: le donne, i bambini, i contadini emigrati nella città, gli abitanti dei tuguri e delle baraccopoli – di quei campi di concentramento nelle lontane periferie delle città che ci ricordano quelli dove, da decine di anni, vivono sull’altra sponda del Mediterraneo centinaia di migliaia di palestinesi.

E’ una faccia del paese, e della storia italiana di quegli anni, che Doglio richiama alla nostra memoria: la faccia della sorgente (il Mezzogiorno, i campi, le zone interne collinari e montuose) di quella grande, e impetuosa, e largamente sregolata trasformazione dell’Italia, da paese prevalentemente agricolo e rurale, a paese prevalentemente industriale e cittadino.

Una trasformazione largamente sregolata, che provocò danni e disastri - umani sociali economici e territoriali - di cui molte generazioni pagheranno il prezzo.

Perché non fu raccolta, in quegli anni, l’esortazione che – nell’interesse comune – veniva da quei brevi messaggi cinematografici: si ricostruisca il paese mediante la pianificazione. Il film di Doglio si conclude proprio con queste parole: “La ricostruzione diventi pianificazione urbanistica, strumento di tutti e non arma di pochi”.

L’altro film che abbiamo visto or ora anche in questa sala, quello dal titolo “La città degli uomini”, sceneggiato da Giancarlo De Carlo e da Elio Vittorini, diretto da Michele Gandin, rivela un’altra faccia dell’Italia di quegli anni – e, per tante ragioni, anche dei nostri anni. Protagonista è la città, “la città degli uomini”.

Anche lì, la sensazione piena che la città non è solo le case e le strade, è anche gliuomini che la abitano e vi lavorano. E, soprattutto, è per gli uomini.

Un antico brocardo medievale proclamava: “L’aria della città rende liberi”. Si riferiva evidentemente a quel periodo lungo e fondativo della storia della città in Europa nel quale la città, amministrata da una borghesia che ospitava nelle sue fabbriche uomini liberi da balzelli e legami feudali, e perciò era disposta a vendere liberamente la propria forza di lavoro - torme di contadini cacciati dalla miseria, dalle angherie dei signore e dei suoi sgherri, dalle pestilenze- affluiva nei luoghi della libertà.

Nei luoghi nei quali diritti comuni e consumi comuni legavano gli uomini in un’unica cittadinanza, un’unicà società – solidale nelle sue elementari regole di convivenza.

Giancarlo De Carlo ed Elio Vittorini sottolineano come, fin dai tempi più remoti, “costruimmo la città per stare insieme”. E affermano – proprio all’inizio del film – che da “Babilonia a New York” (due città oggi unite da eventi orrendi), dall’uno Evo all’altro, due sono state le ragioni che hanno sollecitato gli uomini a stare insieme nelle città: il bisogno e la lotta per la sua soddisfazione, la libertà e la lotta per la libertà.

Da sempre, insomma, la città è il luogo dell’appagamento e della dialettica. Ma poi, nella lunga storia dell’uomo, qualcosa deve essere accaduto che ha minacciato di tramutare il bene in male, che ha tramutato l’appagamento in solitudine e la dialettica in caos.

Il film – lo avete visto e sentito - ha un lungo avvio costruito con i ritmi della città. Ritmi sonori e ritmi visuali: i clacson delle automobili e l’ossessiva ripetizione delle finestre. I telefoni, le macchine da scrivere, le sirene delle ambulanze e quelle delle fabbriche.

Oggi, la città è – dice De Carlo- ”un ritmo che attrae e disorienta”. Luogo della libertà possibile, e luogo dell’alienazione. Luogo della folla e luogo della solitudine.

Agghiaccianti, indimenticabili alcune delle sequenze del film.

La sequenza che segue la lunga attesa nelle macchine, l’uomo investito. L’ambulanza, la folla, la traccia di gesso sull’asfalto che ricorda l’uomo che non è più, le ruote dell’automobile che ne calpestano la memoria. Il commento: “Un uomo che muore non è che un incidente”.

La sequenza della lunga smisurata serie di uomini visti di schiena, nutrirsi faccia al muro sullo stretto banco del self service. Il commento: “Nutrirsi non è più una festa comune”.

E la sequenza della lunghissima, insopportabilmente lunga passeggiata della donna distrutta, interiormente devastata quanto esteriormente normale e quasi accattivante. Una donna sola e disperata, che cammina tra la folla assente, estranea, lontana. Il commento: “Non vediamo chi ci passa accanto disperato”.

A me, a dire il vero, di questo film è sembrata più forte la critica alla città d’oggi – alla città come cominciava a configurarsi in quegli anni – che la sottolineatura degli elementi positivi. E quando li vediamo, essi ci rinviano quasi tutti alla dimensione comunitaria.

E’ così quando il film richiama alla città come il luogo nel quale si svolge la “lotta per accrescere la libertà, e le immagini sono quelle della fabbrica e di uno sciopero operaio.

E’ così quando il film definisce, tra le positività della condizione urbana, la “possibilità inesauribile di comunicare”, le immagini sono quelle, bellissime, nutrite di echi di René Clair e di Cesare Zavattini, delle case a ballatoio dell’area milanese, dove nelle lunghe vie esterne che danno accesso agli alloggi si svolge una vita che è, a un tempo, individuale e sociale: sull’uscio di casa, e insieme sulla pubblica via. Come era fino a pochi anni fa nelle calli di Venezia o nei vicoli del Mercato a Napoli – o, se volete, negli spazi pubblici dei PEEP meglio riusciti, come quello di Giancarlo De Carlo.

Quei film furono girati, nel 1954, con la speranza che fossero proiettati nelle sale commerciali seguendo i film della programmazione normale. Il loro obiettivo non era quello di farne dei documenti d’archivio, o dei testi multimediali adatti a nutrire le aule universitarie e le carriere accademiche.

Il loro obiettivo era quello stesso della Compagnia dei Celestini: aiutare le cittadine e i cittadini a comprendere

- che il miglioramento delle loro condizioni di vita, materiali e morali, passa attraverso la conoscenza di meccanismi complessi che governano il loro destino,

- che essi hanno – in un regime democratico, quale quello che è stato conquistato all’Italia da una legione di martiri – il diritto e quindi anche il dovere di intervenire su quei meccanismi, per ottenere che le ruote girino a vantaggio del popolo e del suo futuro, e non a vantaggio dei padroni e della loro immediata ricchezza,

- che a questo fine essi, le cittadine e i cittadini, devono praticare l’urbanistica, la pianificazione, l’amministrazione della città, perché è attraverso questi strumenti che si cambia il futuro degli uomini: che si dà loro la possibilità di utilizzare le possibilità dello stare insieme, dell’esser diventati più ricchi, più consapevoli, più forti.

E in quei film c’è un insegnamento e un messaggio rivolto agli urbanisti, ai tecnici, a quelli come me e come molti di voi. Si fa effettivamente il proprio mestiere se ci si pone al servizio non di chi dà più soldi, ma di chi deve vivere la città.

Cercare e stimolare la partecipazione delle cittadine e dei cittadini non è qualcosa che si deve fare per ottenere gratificazione e popolarità, e neppure solo perché è un loro diritto. È qualcosa che si deve fare perché il nostro lavoro venga su bene, perché serva a ciò cui deve servire.

Oggi la situazione è certo più complicata di venti o cinquant’anni fa. Allora c’erano istituzioni, rappresentative dei cittadini (un po’ meno delle cittadine), che costituivano un riferimento sicuro.

Lo costituivano perché erano espressione di partiti e correnti politiche che rappresentavano grandi progetti di società, grandi e definiti sistemi di interessi e forze sociali, che si ponevano come generali: come capaci – magari in alternativa e in conflitto gl’uno con gli altri – di esprimere un futuro migliore per l’intiera società.

Le cose sono cambiate.

Se conoscere il passato e riflettere su di esso è utile per comprendere il presente e progettare il futuro, ogni rimpianto e ogni nostalgia servono solo a riscaldare qualche cuore senile.

Se abbiamo compreso che le cose sono cambiate, che non esiste più – o non esiste ancora - un circuito virtuoso tra popolo > partiti politici > istituzioni > urbanistica, allora credo che dobbiamo comprendere anche che occorre ricostruire quel circuito cominciando dal basso, dal popolo, dalle cittadine e i cittadini. Che la partecipazione (alla progettazione della città e alla progettazione della politica) è un compito di tutti, nel quale dobbiamo tutti sentirci impegnati.

Credo che è anche questo che hanno voluto fare, le amiche e gli amici della Compagnia dei Celestini (e se di Compagnia si tratta, possiamo chiamarli compagne e compagni) con questa bella manifestazione. Alla quale, spero, molte altre ne seguiranno.

Prima una email, poi un’altra. Telefonate e appuntamenti mancati. Tutto in un paio di giorni. Poi ho rilasciato una intervista a una voce femminile anonima che non conoscevo, che me la chiedeva per pubblicarla in un sito sconosciuto. Al sito avevo dato un’occhiata: un po’ confuso, testi belli, immagini interessanti, ottimo italiano, grafica un po’ dozzinale. Si chiama Dentro il cerchio (www.luccone.com).

L’anonima intervistatrice ha un nom de plume (oggi si dice "nome di mouse"?) che ricorda uno di quei servizi domestici che c’erano una volta (La Rapida, La Perfetta): si chiama La pregiatina. Tiene un rigoroso anonimato, ed è eccezionalmente professionale. Quando, due giorni dopo, ho letto il testo dell’intervista sul blog mi sono meravigliato della fedeltà e della correttezza della restituzione. Se volete verificare, andate al sito, in fondo c’è l’elenco delle rubriche, le pregiate interviste de La pregiatina sono in quella denominata Converso controverso. Precisamente qui.

Anche per me, come per molti che lo conoscono e ne hanno scritto, di Pietro Ingrao sembra esemplare soprattutto lo stile: il modo in cui esercita, e vive, il difficile mestiere del politico. Pensare a Ingrao significa pensare alla possibilità che la politica sia qualcosa di diverso, di profondamente e radicalmente diverso, dall’immagine corrente della politica (e dei politici) di oggi. Oggi, che la politica è diventata nel migliore dei casi politique politicienne (possiamo tradurre “la politica politicante”), nei peggiori, politica affaristica – e nella media, politica come personale affermazione sociale.

Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta perciò su tre versanti.

Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.

Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani alla fine lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.

E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, ricordo un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; in un angolo del podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando nelle questioni che erano state sollevate, nelle proposte che erano state formulate. Il merito delle cose - al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile – era questo che contava: con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.

Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un'eccezione).

Ho accettato la proposta di presentarmi in una lista che appoggiasse Gianfranco Bettin come Sindaco di Venezia. Per alcune ragioni che ritengo doveroso esprimere.

Non perché abbia intenzione di rientrare nella politica e nell’amministrazione: ho già dato abbastanza, e abbastanza ho ricevuto. Sono stato consigliere comunale a Roma per dieci anni, consigliere comunale e assessore a Venezia per altrettanto tempo, e consigliere regionale nel Veneto per quattro anni. Ho lavorato all’opposizione e al governo in anni nei quali – checché se ne dica – fare politica nell’amministrazione pubblica era molto più pulito e gratificante di quanto oggi spesso sia diventato. Non mi spinge la voglia di ricominciare oggi, che le ragioni per cui si combatte per il potere diventano sempre più indecifrabili.

Neppure perché io sia un “Verde”. Ho molto rispetto e amicizia per gli amici delle liste Verdi, ho lavorato spesso con loro e ho cercato di aiutarli a comprendere che un albero non è una foresta, e che se si ama una foresta non si può vederla solo come un puntolino su un pianeta. La mia, però, è un’altra storia: io la politica - le sue ragioni, emozioni, tensioni, le sue regole severe, le sue vittorie e i suoi fallimenti - le ho apprese da comunista. E poiché “natura di cose altro non è che nascimento di esse”, tale sono rimasto, inguaribilmente temo.

Ho accettato la proposta che mi è stata fatta perché ho paura: paura per Venezia. Vedo il rischio di una convergenza, d’interessi e di miti, su una “idea di Venezia” molto lontana da quella che alimentò la discesa in campo di Massimo Cacciari all’inizio degli anni Novanta. Un’idea di Venezia che vede senza tremori la galoppante omologazione di Venezia ai moduli di una “modernità” che è in crisi in tutto il mondo, e che qui viene osannata come la soluzione di tutti i problemi.

Una “modernità”, se andiamo bene a vedere, basata sulle Grandi Opere (e concimata dagli affari, grandi e piccoli). Fuori di Venezia si potrà anche sorridere della querelle sul Mose. e sulla metropolitana sublagunare. Chi conosce Venezia (e l’ha compresa: le due cose non coincidono necessariamente) non sorride, e anzi ha paura. Ma bisogna che mi spieghi un po’ meglio.

Venezia, la vita che in essa si svolge, la sua organizzazione urbana, il suo rapporto con l’acqua e con gli altri elementi naturali, il tempo della vita quotidiana, sono diversi da quelli di qualsiasi città contemporanea. Sono la testimonianza del fatto che si può vivere in un altro modo: che si può passeggiare senza automobili, mandare i bambini per strada senza paura, incontrarsi in tutte le ore del giorno in quegli esemplari spazi di vita sociale che sono i campi, andare al lavoro e tornare a casa godendo del percorso che si compie, a piedi o sui canali con i vaporetti. E la forma stessa della città, la solida leggerezza delle sue architetture, il tracciato dei suoi canali e delle sue fondamenta, la sua dipendenza dal ritmo delle maree, il suo ritrovato rapporto con la laguna (oltre che la sua storia) testimoniano ed esprimono la capacità di governare un rapporto con la natura che produce bellezza e qualità della vita: una capacità che altrove si è persa, e affannosamente si ricerca.

A me sembra che chi sostiene la “modernizzazione” di Venezia, e proponga per ottenerla di affidarsi alle Grandi Opere, promuova di fatto la cancellazione del carattere speciale di Venezia, e la sua riduzione a ciò che le altre città del mondo sono diventate. Venezia invece può essere considerata e governata come una scuola di modernità: come un luogo che può consentire di sperimentare, a vantaggio di tutto il mondo, un modo rinnovato di produrre. Rinnovato rispetto a quello che vogliamo lasciarci dietro le spalle, perché non distruttivo delle risorse e realmente “sostenibile”. E rinnovato rispetto a quello che due secoli fa la Repubblica Serenissima ci lasciò perché capace di utilizzare, in una prospettiva non più “industrialista”, le innovazioni che la scienza di questi ultimi secoli ha messo a disposizione del genere umano.

È in questa prospettiva che vedo due questioni di merito, sulle quali il centro-sinistra da tempo è diviso: il Mose e la Sublagunare.

Entrambi i progetti si pongono sulla stessa linea. Entrambi pretendono di applicare alla laguna e alla città quelle regole ingegneristiche, rigide, astrattamente funzionali che contrastano e contraddicono gli equilibri che un millennio di sapiente governo dell’ambiente hanno costruito. Ed entrambi sono caratterizzati dal fatto di non essere utili e di costare moltissimo.

Non è utile il Mose (o almeno, è fortemente in dubbio la sua utilità). Se le maree proseguono con i ritmi e i livelli attuali, bastano gli interventi diffusi per ridurne l’impatto a livelli accettabili. E se invece il futuro vedrà un aumento straordinario dei livelli di marea, allora è dimostrato che la chiusura delle bocche di porto sarebbe così frequente da ridurre la laguna ad un lago: meglio sarebbe allora chiuderla stabilmente, con una spesa mille e mille volte inferiore.

E non è utile (anzi, è dannosa) la Sublagunare. Una metropolitana si giustifica solo con flussi di massa, la Sublagunare non potrebbe non produrre l’effetto di drenare ulteriori flussi di visitatori a Piazza San Marco e negli altri siti, già resi invivibili dal turismo attuale. Negli anni in cui si cercava di ragionare e non ci si faceva sedurre dall’ideologia del progresso, si era convinti che il turismo dovesse essere “governato”, e che a questo fine fosse utile e opportuno arrestare i flussi ai terminali di terraferma (Fusina e Tronchetto), e da lì farli proseguire in battello per Venezia. Se si vuole facilitare l’accessibilità alle funzioni direzionali di Venezia, allora la soluzione è stata indicata da molti anni, proprio a partire dai sindacati veneziani. Basterebbe riorganizzare l’attuale rete del ferro in Terraferma e utilizzare l’imponente asta ferroviaria del Ponte della Libertà per portare i pendolari a Santa Lucia e alla Marittima: luoghi dai quali, come a tutti è noto, si giunge facilmente e piacevolmente in ogni parte della città a piedi o con i civilissimi vaporetti.

Del resto, della qualità di Venezia, del suo insegnamento terribilmente moderno, fanno parte integrante il tempo e il modo dei percorsi. Venezia è bella anche perché permette di vivere il tempo dei percorsi, a piedi o in vaporetto, come spazi nei quali ti distendi e ti arricchisci godendo la visione della città, delle sua case, i suoi campi, i suoi abitanti. Il tempo del percorso non è a Venezia, come è nelle altre città contemporanee, una sofferenza la cui durata va minimizzata, ma un piacere che s’inserisce nella giornata come una pausa naturale e gioiosa.

I due candidati “maggioritari”, Brunetta e Costa, hanno entrambi più volte dichiarato il loro favore per il Mose e per la Sublagunare. E i DS, nonostante molti mugugni e qualche resistenza, non sembrano volersi impegnare a fondo perché questi due temi siano affrontati come meritano. Del resto, è proprio una giunta nella quale i DS sono determinanti che ha approvato, senza nessun dibattito consiliare, un incredibile e incoerente ammasso di carte denominato PRUSST (programma di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio), che prevede la realizzazione di un primo tronco della Sublagunare, da Tessera all’Arsenale. Ed è quella stessa giunta che ha rinunciato subito, al suo primo insediamento, a operare con qualche efficacia contro la trasformazione della città in un emporio di squallidi e squalificate merci prodotte, uguali in tutto il mondo, per i turisti “mordi e fuggi”.

Nella sua lettera agli elettori Arnaldo (Bibo) Cecchini ha scritto che “i poteri delle amministrazioni locali sono talmente irrisori rispetto ai processi reali (per Venezia: il trionfo della mono-cultura del turismo in centro storico e del modello insediativo e produttivo della città diffusa in terraferma) che quel che si può fare è davvero poco”. Su questo punto Bibo (la cui bella lettera condivido in grandissima parte) sbaglia. Il comune ha i mezzi per contrastare sia la “città diffusa” che il trionfo della monocultura turistica. Solo che il Comune di Venezia, ha teorizzato (e soprattutto praticato) il liberismo urbanistico: l’assessore all’urbanistica ha più volte affermato che non si dovevano vincolare le destinazioni d’uso, per non ingessare il mercato e la città!

Il cronista attento, poi, registra, tra i primi atti della Giunta Cacciari, la revoca di una deliberazione, approvata dalla Giunta Casellati (proponente l’assessore Maurizio Cecconi) con la quale si decideva di applicare le facoltà concesse ai comuni dalla cosiddetta Legge Mammì: la facoltà impedire la sostituzione di determinati tipi di esercizi commerciali con altri. Applicare questa deliberazione avrebbe permesso, per esempio, di evitare la proliferazione dei fast food (per anni le giunte di sinistra avevano vittoriosamente contrastato il primo tentativo a Campo San Luca), e di difendere gli esercizi commerciali tradizionali contro l’invasione dei rivenditori di paccottiglia.

Queste sono le mie preoccupazioni. So per quale destino di Venezia lavorerebbe Renato Brunetta. Temo che Paolo Costa lavorerebbe nella stessa direzione, visto che il DS si è mostrato così arrendevole, incapace di imporre un programma serio e di garantirne il rispetto. Non vedo, francamente, alternative diverse da quella di tentar di condizionare una maggioranza di centro sinistra con la presenza determinante di un raggruppamento ispirato da un’altra idea di Venezia, diversa da quella che accomuna Costa e Brunetta. Un raggruppamento che si riferisca ad una personalità – come quella di Gianfranco Bettin – che ha dato prova non solo di coraggio civile e capacità di ascolto, ma anche di capire Venezia, e di volerne una diversa da quella delle Grandi Opere e della monocultura turistica.

Piacevole (è scritto in buon italiano, ciò che è abbastanza raro nella letteratura di genere) e in gran parte condivisibile, il saggio di Francesco Ventura: nell’ispirazione di fondo che lo muove, nella passione che lo anima, nei puntuali appunti che muove all’urbanistica della Toscana Felix. In gran parte condivisibile, se non fosse per due errori, tra loro strettamente connessi, che rendono poco utile l’intero ragionamento.

In sostanza Ventura propone che sia il decreto di vincolo a definire i criteri che le azioni dell’uomo devono rispettare perché i beni siano tutelati nei loro caratteri propri. Scrive Ventura: “È l’atto di vincolo, e non il piano, che deve dire in concreto in quel luogo quali sono i limiti che qualsiasi atto di piano, pubblico o privato, deve rispettare. Il vincolo deve determinare inequivocabilmente l’oggetto concreto della tutela in ogni specifico luogo, se si vuol tentare di raggiungere una tutela efficace, rigorosa e certa”.

Ventura non spiega perché un atto amministrativo essenzialmente monocratico (il decreto di vincolo) dovrebbe compiere quella medesima operazione che le leggi vigenti affidano alla pianificazione: una procedura soggetta a garanzie di trasparenza e di coerenza (spesso violate, ma chi si oppone alle violazioni?), pienamente conforme al regime democratico nel quale viviamo (pieno di difetti, lo sappiamo: ma vogliamo abolire la repubblica per restaurare il Re, esautorare il parlamento e i consigli comunali per ripristinare i tiranni e i podestà?). O per meglio dire, lo spiega con un pre-concetto: la pianificazione è essenzialmente, strutturalmente, per sua propria natura cattiva.

Questo è appunto il secondo errore di Ventura. Egli ritiene che la pianificazione territoriale e urbanistica, e anche quella “con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, sia esclusivamente, univocamente, totalitariamente fondata sul valore venale. È un errore identico a quello che avrebbe fatto uno scienziato (quale Ventura indubbiamente è) il quale, avendo conosciuto solo le donne ospitate nel manicomio criminale, sostenesse che tutte le donne sono assassine. La pianificazione è uno strumento. Come tutti gli strumenti può essere adoperato in più modi, buoni e cattivi. Peccato che Ventura abbia conosciuto solo quella cattiva, o solo da quella sia stato conquistato.

Per carità, si tratta di una tesi perfettamente legittima sotto il profilo culturale. Ma ha senso discuterne? Non sarebbe meglio comprendere che cosa precisamente la legislazione vigente dispone, e far sì che sia rispettato? Lavorare perché effettivamente le soprintendenze siano attrezzate per entrare nel processo di pianificazione? I contenuti che Ventura vorrebbe attribuire al vincolo sono esattamente quelli che la buona pianificazione (quella fedele alle prescrizioni e alla ratio della legge Galasso e delle successive versioni del Codice del paesaggio) deve possedere. E che già possedeva quando Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli tutelavano le colline e i paesaggi di Siena, Edoardo Detti quelle di Firenze e Giovanni Astengo quelli di Assisi.

Ventura aiuti a far sì che la Regione Toscana rispetti la priorità dei precetti dettati dall’esigenza della tutela su ogni ammissibile trasformazione che quelle leggi, e le sentenze costituzionali, prescrivono a tutte le istituzioni della Repubblica. Temo che sostenere che la pianificazione è in ogni caso, e irrimediabilmente, perversa finisca per essere utilizzato come alibi da chi vuole utilizzarla per spalmare “perequazioni” anche sui beni paesaggistici. Dimenticando che, a partire dalle sentenze costituzionali 55 e, soprattutto, 56 del 1968 tutti dovrebbero sapere che le limitazioni determinate da ragioni di tutela paesaggistica non danno diritto a nessun indennizzo delle proprietà vincolate.

I fatti

Baia Sistiana. Guardando dal mare: a sinistra, un’alta falesia alleggerita da chiazze di macchia mediterranea (nella quale d’autunno spicca il rosso sommàco), percorsa in cima dal Sentiero di Rilke: là dove il poeta, ospite del barone Turn und Taxis, passeggiava. A destra, la lunga bassa costa rocciosa della Costa dei Barbari. Al centro, l’incavo verdeggiante della Baia, occupata alla base dal relitto di un antico albergo austriaco, da qualche costruzione utilitaria, dalla darsena ripiena di imbarcazioni da diporto. Alla destra della Baia, l’ampia ferita della Cava: Duino Aurisina (in sloveno Devin Nabrezina), il comune carsico che s’affaccia al mare con la Baia di Sistiana, è luogo d’escavazioni di calcare fin dai tempi dei romani..

La Baia è il naturale sbocco a mare degli abitanti del Carso e dei suoi borghi, e dei triestini, che d’estate affollano la spiaggetta della Baia e la Costa dei Barbari. La proprietà è tutta di una unica società; anche la piccola porzione del demanio regionale è stata recentemente svenduta ai privati. L’utilizzazione consolidata nelle proposte di tutte le componenti dell’opinione pubblica locale e regionale è quella turistica. Questa utilizzazione era confermata da tutti i piani regolatori vigenti nel comune.

Baia Sistiana è venuta alla ribalta delle cronache nazionali nel 1990, quando un progetto attuativo del PRG fu presentato al Consiglio comunale. Del progetto, redatto da Renzo Piano per la proprietà (allora Finsepol), non piacevano le cubature eccessive, la trasformazione edilizia della Baia, l’altezza delle costruzioni nella Cava, la minaccia di privatizzazione della fruizione del litorale. L’operazione fu bloccata da una campagna di stampa e da un NO all’ultim’ora del ministro Facchiano (Beni culturali). Un ruolo decisivo lo ebbe allora Antonio Jannello, instancabile tessitore di trame per la salvaguardia dei residui brandelli del Belpaese.

Fu redatto un nuovo PRG (alla cui progettazione fui chiamato a collaborare) che ridimensionò fortemente le cubature, previde un sistema di parcheggi a monte e l’eliminazione del traffico lungo la costa, definì le garanzie per la fruizione libera degli spazi balneari. L’obiettivo era quello di promuovere, accanto alla balneazione, un turismo a rapida rotazione d’uso e lunga durata, legato alla convegnistica e ad altre funzioni di profilo internazionale. La prospettiva di Baia Sistiana era inquadrata in una serie di scelte per l’intero territorio comunale che attribuiva il primato alla tutela del paesaggio carsico (la tipica landa del Carso è erosa sia dall’inselvatichimento boschivo che dalle colture), alla difesa delle attività agro-silvo-pastorali dalla pressione della domanda di seconde case dei triestini, alla tutela dell’identità dei borghi carsici e al rilancio del loro ruolo. Il piano fu discusso con le associazioni ambinntalistiche prima della sua adozione ed ebbe da esse valutazioni molto positive

Nel 2003 la polemica è divampata di nuovo, e fino ad oggi non è cessata. Essa esplose allorché furono presentate e discusse il PP attuativo in parziale variante al PRG, e fu reso pubblico dalla proprietà un progetto architettonico che chiariva la prospettiva verso la quale si muove.

La variante, il PP e il connesso progetto preoccupavano per motivi condivisibili e gravi: 1) la modifica delle utilizzazioni consentite nelle nuove costruzioni, che prefiguravano un destino di “villaggio residenziale al mare”: funzionalmente, una periferia balneare di Trieste; 2) la tendenza strisciante verso la privatizzazione della fruizione balneare (altro non significava una “regolamentazione degli accessi” affidata alla proprietà); 3) il livello modestissimo della progettazione architettonica, ispirata a modelli assolutamente inaccettabili (si ricostruisce in vitro un falso stile locale, mai esistito, denominato “istro-veneto”).

Le reazioni molto allarmate delle associazioni ambientaliste, animate da Wilma Diviacchi (purtroppo prematuramente scomparsa), misero in evidenza gravi difetti nelle procedure che condussero a ripetuti annullamenti da parte del Tribunale amministrativo regionale.

Una nuova fase si aperta all’inizio del 2005. È sceso pesantemente in campo il presidente della Regione Friuli – Venezia Giulia, Riccardo Illy, esprimendo il suo aperto sostegno ai proprietari e ai loro progetti: una discesa in campo così plateale da provocare scandalo in chi è rimasto legato al rispetto delle istituzioni del loro ruolo nei confronti dei privati e nelle loro funzioni specifiche: il presidente aveva infatti espresso il suo sostegno a un progetto che il Consiglio comunale competente non aveva ancora discusso. Quasi a corollario di questo intervento le osservazioni dei cittadini e delle associazioni al piano particolareggiato, la cui ignoranza da parte del comune aveva indotto il TAR ad annullare l’approvazione, aveva indotto il sindaco e la giunta regionale a parlare di “mere formalità”.

Una riflessione

Fin qui i fatti. Nella vicenda ho avuto un ruolo di un certo rilievo. Ho contribuito a far esplodere la polemica contro il progetto della Finsepol, firmato da Renzo Piano. Ho collaborato con il comune (sindaci prima Giorgio Depangher, poi Marino Vocci, entrambi di sinistra) nella progettazione del PRG oggi vigente. Sono stato informato dei successivi “slittamenti” che, con interpretazioni e varianti, allontanavano il progetto dalle impostazioni iniziali. Ugualmente sono stato informato dei passi che le associazioni ambientaliste facevano per arrestare lo svilimento del progetto, condividendoli.

Da tempo mi pongo una domanda: come mai si è passati, attraverso piccoli passi nessuno dei quali in contrasto palese con il PRG, a uno snaturamento dell’impostazione di partenza? Ho dato una prima risposta intervenendo su Il Giornale dell’Architettura. Scrivevo che l’esito deludente dell’operazione è dovuto al fatto che non si è mai posta sul tappeto la opzione zero” da parte dell’amministrazione e di tutte le forze politiche e sociali. D’altra parte, il privato giocava in una situazione di monopolio: il Comune poteva trattare con lui e solo con lui. Regione e provincia sono stati latitanti, e anzi la prima di fatto collusa con la proprietà, cui ha svenduto l’unica parte pubblica dell’area.

Il potere formale è certamente nella mani dell’amministrazione pubblica. Ma se questa vuole “fare”, deve necessariamente avvalersi di soggetti privati: soggetti proprietari o soggetti imprenditori. Ma determinate operazioni non sono alla portata di qualunque imprenditore. A Baia Siriana era necessario un imprenditore capace di puntare su un risultato di alto livello qualitativo, d’avanguardia, realmente (per adoperare un termine alla moda) “innovativo”. Occorreva studiare, esplorare, cercare e promuovere nel mercato internazionale correnti di visita legate alla qualità dei servizi offerti. Occorreva investire (e rischiare) nella ricerca di modi nuovi di offrire i servizi di un territorio di pregio eccezionale. Un’operazione capitalistica: ma di un capitalismo serio, che punta sul profitto ottenibile dalla qualità del prodotto-servizio offerto, non dalla rendita di posizione. Nei fatti, questo imprenditore non s’è trovato. Chi possedeva il tesoro collettivo della Baia e della Cava ha preferito comportarsi da palazzinaro: progettare per vendere lotti edificabili.

Temo che sia così non solo in quel caso, ma in tutt’Italia. Impresa capitalistica e proprietà immobiliare sono indissolubilmente legate. Le facili rendite che si possono ottenere sfruttando la seconda scoraggia dall’investire nella prima. La ragione prima è quella storica: sta nel modo in cui è stata fatta l’unità d’Italia, attraverso un’alleanza tra borghesia capitalistica e aristocrazia fondiaria nella quale “il morto ha afferrato il vivo”. Gli interessi capitalistici hanno potuto svilupparsi solo lasciandosi condizionare da quelli fondiari, utilizzando il sostegno statale per compensare la propria debolezza. Più tardi, si sono strettamente intrecciati con quelli immobiliari. La percezione di rendite (immobiliari e finanziarie) ha coperto i livelli non competitivi del profitto.

Anche nei decenni più vicini a noi nessuna forza politica (salvo, sul finire degli anni Sessanta, la sinistra comunista e socialista) si è posta il problema di sconfiggere la prevalenza della rendita sul terreno della sua formazione: il governo della città e del territorio. Nessuna forza sociale (se si esclude qualche barlume nei sindacati operai e qualche flebile tentativo del mondo dell’industria avanzata, in quella medesima stagione) ha posto con forza e continuità questo problema, proponendo gli strumenti adeguati.

È anche in questo la radice (una delle radici) dell’attuale decadenza dell’industria italiana: le risorse sono affluite nei settori della rendita, dove non erano necessarie né innovazione né accumulazione, poiché non era necessaria competizione. Ed è certamente in questo la ragione principale della svendita delle qualità del territorio che i governanti promuovono (a livello nazionale, regionale e locale) ogni volta che ci si pone il problema dello “sviluppo”.

Che fare?

Che fare in una situazione siffatta? La soluzione razionale, solidamente ancorata alla tradizione dell’urbanistica moderna e ai fondamenti del pensiero liberale: sarebbe quella che la comunità locale divenisse di nuovo, come suggeriva Hans Bernoulli, “padrona del proprio suolo”. Concretamente, se i costi dell’acquisizione pubblica delle aree fossero coerenti con le finanze comunali.

Se la comunità fosse, o diventasse, padrona del proprio suolo allora essa potrebbe individuare, o aspettare, l’imprenditore giusto per realizzare il “suo” progetto di utilizzazione. E nel frattempo, potrebbe svolgere quei compiti minimali di sorveglianza, manutenzione, messa in sicurezza a rinaturalizzazione delle aree degradate dal saccheggio di cava. Oggi, che perfino gli istituti storici degli urbanisti e le loro accademie relegano le acquisizioni pubbliche di aree nell’archivio dei ferrivecchi, oggi che la mano pubblica si sbarazza (lo abbiamo visto proprio a Baia Sistiana) dei loro patrimoni, questa via non sembra proprio percorribile. Ci hanno consegnati, mano e piedi legati, alla privata proprietà immobiliare.

Così stando le cose, non credo neppure che la pianificazione urbanistica possa essere così poderosamente trasformata dalle pratiche concertative e strategiche, dall’abbandono del government per la governance, da poter porre al proprio interno l’attivazione di particolari capacità imprenditoriali; anzi, lo slittamento dalla pianificazione verso la valutazione rende l’urbanista più vicino allo spettatore che all’attore. Allora forse l’unica soluzione possibile è quella, tutta politica, di porre la “opzione zero” tra le possibilità della politica urbanistica

A Baia Sistiana, si avrebbe dovuto avere l’acume politico di prendere atto dell’’incapacità dell’imprenditoria italiana (o almeno di quella sua parte legata alla masima utilizzazione delle rendite) ad affrontare la questione nei termini desiderati. Avrebbe dovuto dimostrare questo acume politico certo la comunità locale, ma soprattutto quei livelli di governo che, per essere teoricamente custodi di interessi territoriali più vasti, ed essendo teoricamente più distanti, e “superiori”, rispetto agli interessi economici locali. Nello specifico, dato anche il ruolo subalterno e marginale che viene in quella parte d’Italia lasciato alla Provincia, il necessario colpo d’ala avrebbe dovuto venire dalla Regione: erede, tra l’altro di un passato, mai formalmente rinnegato, di buona custodia delle qualità del territorio e della sua identità.

L’insegnamento

L’insegnamento che viene da Baia Sistiana ha un valore generale. Esso può essere espresso in tre punti.

1. La rinuncia alla battaglia per conservare, e soprattutto applicare nel concreto, la capacità di espropriare le aree quando ciò è necessario è stata un errore grave che la cultura urbanistica dominante (stimolata dalla cultura politica dominante) ha perpetrato.

2. Nelle aree la cui qualità può essere conservata solo con un progetto di trasformazione intelligente e “innovativo”, se l’intelligenza e l’innovazione necessarie non si manifestano occorre avere il coraggio di dire: meglio aspettare tempi migliori che distruggere quello che c’è

3. Non è detto che “chi è più vicino al popolo” abbia sempre ragione. Esistono interessi generali, la cui tutela spetta strutturalmente a chi rappresenta comunità più vaste. Ruolo della Regione non è quello di sommare le domande (e le miopie) localistiche, ma di vedere più grande e più lontano. In Friuli-Venezia Giulia non ci si è riusciti (altrove, per fortuna, si).

Obiettivo: proteggere le residue aree non urbanizzate, e in particolare quelle che conservano vistosi segni del rapporto tra lavoro e natura – i paesaggi rurali, i paesaggi forestali, i lacerti di natura intatta – dall’invasione immotivata e ingiustificata delle trasformazioni che quei segni hanno cancellato da gran parte del territorio del Belpaese. Un vincolo di immodificabilità del residuo paesaggio rurale: un vincolo di salvaguardia di una specie in via di estinzione.

Obiettivo forte, ma essenziale per conservare alle generazioni future la nostra civiltà. Occorreva trovare un ancoraggio giuridico altrettanto forte: l’abbiamo trovato nel decreto Galasso, poi tradotto nella legge 431/1985, infine inserito nel Codice Urbani (d. lgs 42/2004).

Nel decreto Galasso, poi nella legge 431, oggi nel 1° primo comma dell’articolo 142 del decreto legislativo del 2004, la collettività nazionale ha inserito - fin dal 1985 - l’elenco dei beni (anzi, delle categorie di beni) che si ritiene debbano essere sottoposti a tutela: i corsi d’acqua e le coste, i monti e i boschi, i ghiacciai e le aree archeologiche.

Noi proponiamo che in questa lista di categorie venga inserito anche “il territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agrosilvopastorale”. Per questo territorio “ il piano paesaggistico prevede obiettivi e strumenti per la conservazione e il restauro del paesaggio agrario e non urbanizzato": queste sono le trasformazioni primarie cui la tutela è finalizzata

La legge (un testo snello, costituito da due soli articoli) stabilisce che l’individuazione specifica del territorio non urbanizzato sia effettuata dai “comuni, d'intesa con la competente soprintendenza, […] nell'ambito dei rispettivi strumenti di pianificazione”. E fino all’individuazione sono considerati soggette al vincolo tutte le zone agricole definite dagli strumenti di pianificazione vigenti.

Poichè la proposta non vuole essere estremistica ma realistica, si prevede che i nuovi strumenti urbanistici possano prevedere l’utilizzazione del territorio così individuato “per nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali”, ma ciò solo a due condizioni: che ci sia l’intesa con la competente soprintendenza, e che “ non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture o attrezzature esistenti”.

Il secondo articolo della proposta definisce i “principi fondamentali in materia di governo del territorio con riferimento al territorio non urbanizzato” che la legislazione regionale deve applicare. Tra questi voglio sottolineare i seguenti:

- “gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali”

- “la demolizione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria”, norma già applicata dalla Regione Toscana,

- la possibilità di stabilire “ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, relativamente al territorio non urbanizzato, o a sue definite articolazioni, per ragioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente”

Per comprendere la legge, e in particolare l’essenzialità dell’ancoraggio alla lista delle “categorie di beni”, occorre ricordare il percorso culturale e politico che ha condotto al Codice del paesaggio.

Nel 1968 due sentenze costituzionali turbarono la coscienza degli urbanisti e dell’opinione pubblica, in quegli anni ben più vigile di oggi: la 55 e la 56. La prima dichiarava l’incostituzionalità dei vincoli urbanistici preordinati agli espropri (e quindi dei vincoli posti dai piani per gli spazi pubblici e d’uso pubblico), perché discrezionali e di incerta indennizzabilità. La seconda dichiarava la costituzionalità di una legge della provincia di Bolzano che attribuiva particolari limitazioni all’insieme dei beni vincolati dalla legge del 1939i.

La Corte costituzionale precisò, nelle sentenze e in sue successive letture interpretative, la portata della decisione e inviò al legislatore un messaggio chiaro ed esplicito: è legittimo vincolare le utilizzazioni, e la stessa appartenenza, di determinate categorie di beni, a condizione – appunto – che non si tratti di singoli beni, ma di intere categorie di beni, che svolgano una funzione riconosciuta d’interesse generale e che il legislatore definisca ope legis vincolate. In questo caso l’azione di individuazione del singolo bene a quella determinata categoria, e quindi l’apposizione del vincolo sul singolo bene, è un atto meramente amministrativo ed esecutivo d’una volontà chiaramente espresso dal legislatore.

La Corte costituzionale ha ribadito questa sua dottrina in tutte le successive sentenze che ha emesso in relazione a un infinità di casi. Non solo, ma ha ulteriormente precisato che la tutela dei beni culturali non si esaurisce nell’azione a livello nazionale, ma deve completarsi in un’opera di “assidua ricognizione”, che si sviluppa a tutte le scale da parte delle diverse componenti del sistema del potere pubblico democratico. Poteri elettivi nazionali, regionali, provinciali e comunali sono tutti articolazioni di un unico Stato, strumenti di un’unica nazione, tutti ugualmente impegnati all’individuazione e alla tutela dei beni appartenenti alle categorie stabilite dalla legislazione.

La 431 del 1985 s’inserisce pienamente in questa linea della giurisprudenza costituzionale. Giuseppe Galasso (di cui stamattina la Presidente ha giustamente ricordato i meriti) già nel suo decreto che apre la strada alla legge sviluppa l’intuizione di Benedetto Croce, e vincola le categorie di beni che esprimono l’identità del paesaggio italiano, i suoi lineamenti percepibili a scala dell’intero paese.

La legge 431 introduce un’ulteriore rilevante innovazione: supera la separazione tra tutela e pianificazione ordinaria (che il legislatore del 1939/1942 non era riuscito a superare), invitando a conferire “specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” a tutti gli strumenti di pianificazione ordinaria”. Mi sembra che si possa dire che con la 431/1985 si introduce la tutela del paesaggio tra gli obiettivi di un lavoro congiunto tra sistema delle autonomie (la pianificazione ordinaria) e organi nazionali preposti alla tutela nazionale d’un interesse di rilevanza nazionale.

È in questa linea culturale che si inserisce dunque la proposta che il gruppo di lavoro di Italia Nostra presenta oggi, e che vi ho sinteticamente descritta. Qualcuno stamattina mi ha chiesto se sono ottimista o pessimista sulla possibilità che questa proposta diventi legge.

Se guardo alle tendenze generali in atto nel nostro paese dovrei dire che nutro il pessimismo implicito in ogni azione che sia controcorrente.

Noi infatti proponiamo di tutelare, nell’interesse pubblico un bene che è certamente interesse di tutte le donne e gli uomini, di oggi e di domani, conservare e migliorare nella sua qualità. Proponiamo quindi di allargare l’area dei beni, dei servizi, delle condizioni di godimento soggetti al primato dell’interesse pubblico. Proponiamo di subordinare a questo interesse quello economico dello sfruttamento immediato. Proponiamo di guardare ai beni, non alle merci. E “in un mondo che fa della cultura una merce”, come ha scritto Desideria Pasolini, questa nostra volontà è certamente controcorrente.

Basta pensare alle dismissioni dei patrimoni pubblici, ai condoni edilizi e urbanistici, all’indebolimento del ruolo degli organismi di tutela.

Basta pensare alla finanziaria che ha eliminato la finalizzazione degli oneri di urbanizzazione alla realizzazione delle opere essenziali alla vita civile delle comunità.

Basta pensare – voglio qui sollevare un preoccupato allarme – alla legge per il governo del territorio, oggi in lento e sicuro cammino alla Camera dei deputati, secondo un percorso reso agevole dalla complicità di fatto degli stessi partiti d’opposizione.

È una legge – se vedesse la luce – che cancellerebbe molti decenni di riforme sostanziali.

Cancellerebbe quella saldatura tra tutela del paesaggio e dei beni culturali e pianificazione del territorio, di cui ho dianzi parlato.

Cancellerebbe (l’ha scritto l’altro giorno, plaudendo,Il Sole – 24 ore) gli standard urbanistici; cancellerebbe quell’obbligo di riservare determinate quantità di spazi pubblici per il verde, le scuole, la sanità, la ricreazione, lo sport e le altre esigenze sociali. Quegli standard urbanistici che furono il prodotto della collaborazione e della fatica comune di intellettuali (ricordo il contributo di Mario Ghio e Vittoria Calzolari), di organizzazioni sindacali, del movimento associativo e di quello femminile, delle associazioni culturali, di forze politiche una volta aperte ai problemi e alle speranze della società.

Cancellerebbe infine il primato del pubblico nel governo del territorio, affidando al motore dell’interesse privato – e diciamolo, degli interessi immobiliari – le stesse decisioni della pianificazioni, contraddicendo così un principio che non la rivoluzione d’ottobre ha introdotto nella prassi delle collettività moderne, ma l’esigenza del sistema economico-sociale basato sui principi delle rivoluzioni borghesi e dell’economia capitalistica di conferire ordine, funzionalità e bellezza ad aspetti della vita collettiva che il mercato, da solo, si era rivelato incapace di soddisfare.

Se guardo a quanto sta accadendo nell’Italia ufficiale dovrei quindi essere pessimista. Ma se ascolto i segnali che ci vengono dal paese credo di poter nutrire un ragionevole ottimismo. Voglio assumere come simboli della speranza, e stimoli a un ragionevole ottimismo, due messaggi che ho udito qui: il messaggio del presidente Carlo Azeglio Ciampi, che ci ha ricordato il valore innovativo della conservazione, e l’invito del progetto MACRICO, che ci sollecita a impegnarci anche personalmente per la salvaguardia di valori comuni.

© 2025 Eddyburg