DIRITTO ALLA CITTA'
Significato, motivi e contesto di un antico slogan. Sintomi e ragioni dlla sua rinascita
Il mio intervento, come enuncia il sottotitolo, sarà articolato in due parti:
1. Significato, motivi e contesto dello slogan “diritto alla città”, che ebbe una grande fortuna alla fine del decennio Sessanta del secolo sorso e poi declinò nel corso del decennio successivo.
2. Sintomi e ragioni della sua rinascita, che si manifesta – secondo molti studiosi della città e della società – nei nostri anni: gli anni della globalizzazione e, soprattutto, del neoliberismo.
A queste due parti vorrei anteporre qualche considerazione di carattere un po' più generale, che vi servirà a comprendere il mio punto di vista sugli argomenti che svilupperò. Credo che sia buona norma non presentarsi enunciando solo i propri titoli formali, ma anche dichiarando qual'è la propria posizione, la propria ideologia.
PREMESSA. ALCUNE PAROLE
Ideologia
Cominciamo proprio da questa parole: ideologia. E' una parola oggi largamente screditata. Oggi per “ideologia” si intende qualcosa che esclude la ragione, che rinvia a parole e concetti quali schematismo, dogmaticità, partito-preso, pregiudizio e preconcetto. Il significato classico del termine, che condivido e adopero, è invece il seguente: L'ideologia è «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali» (T. A. Van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Firenze 2004).
Screditare quel termine è stata, in Italia, un’operazione culturale che ha voluto cancellare un preciso fatto storico: che l'ideologia è stata, nei decenni che hanno preceduto il neoliberalismo, «quel sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009).
Sostenere che l’ideologia è morta, rendere il termine sinonimo di “dogmatismo” e “preconcetto, ha aiutato a inculcare l'idea (e la prassi) che la politica è pura amministrazione. E quando la politica si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina prevale sugli obiettivi che dovrebbero guidarla. La politica diventa gestione del potere fine a sé stessa: gli unici interessi da servire sono quelli di chi della politica è il gestore.
Politica
Un'altra parole per me importante è – appunto – la parola politica. Una parola oggi molto di moda, anche se in senso prevalentemente negativo. Una parola che viene adoperata spesso rovesciata nel suo significato fino a divenire un'arma contro l'avversario: si rovescia in anti-politica.
Per me la “politica” non è solo quella che si fa nelle istituzioni e nei palazzi del potere, è anche quella che si promuove là dove si è accusati di praticare l'”anti-politica”. La definizione di politica che a me pare eccellente – negli anni in cui la “politica” ufficiale sembra più interessata all'accumulazione del potere da parte di chi ce l'ha già anziché al realizzarsi di interessi generali della società – è quella che ne diede don Lorenzo Milani, quando fece esprimere a uno scolaro della sua Scuola di Barbiana la sua esoerienza:
«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» (Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967).
Politica è insomma, anche per me, l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti – o almeno di molti, dei “tutti” di una determinata comunità – o dell'intera società.
Comunità e società, democrazia e istituzioni, rappresentanza e partecipazione. E poi, accanto a politica, economia (quella che oggi è diventata la padrona della politica). Ecco altre parole chiave sulle quali mi piacerebbe ragionare con voi. Ma non posso dedicare tutto il mio spazio al preambolo, quindi accennerò soltanto ad altre due parole: città e storia.
Città
Comprendere che cosa è città dovrebbe essere facile per persone che – come noi tutti in quest'aula - di essa ci occupiamo professionalmente. Io ho dedicato anni importanti della mia vita a cercar di comprenderlo , e ne è nato un libro (Edoardo Salzano, Urbanistica e società opulenta, Laterza, Roma 1969). Passati alcuni anni (una quarantina) mi sono accorto che la città alla quale mi ero riferito era una particolare città; la città dell'Europa, forse la più ricca di qualità e più rivelatrice di principi di carattere universale, ma non credo l'unica, nè la sola portatrice di principi e valori d'interesse universale.
I punti fermi della mia ricerca di allora, e i principi di partenza per una nuova investigazione, sono tutti desumibili da due espressioni intimamente legate:
1. la città non è un aggregato di case ma è la casa della società, quindi non hanno senso le interpretazioni basate su dati esclusivamente o principalmente quantitativi o descrittivi, mentre è fondamentale la presenza, accanto all'ineliminabile dimensione dell'”IO”, quella altrettanto fondamentale del “NOI”;
2. la città non è comprensibile se non si tiene sempre presente lo stretto legame tra le sue tre dimensioni, “ urbs, civitas, polis”, la città come sistema di strutture fisiche, di relazioni sociali, di capacità politica.
Naturalmente – come tutto nella vicenda dell'uomo – questi due attributi della città non devono essere considerati ipostatizzando il presente, la nostra esperienza personale, ma allargando lo sguardo sulle dimensioni della geografia e della storia: dell'universo spaziale e di quello temporale.
Oggi mi sembra particolarmente importante la seconda parola, storia. Perciò dedicherò a questa qualche ulteriore minuto del preambolo.
Storia
«Natura di cose altro non è che nascimento di esse», scriveva Giambattista Vico. Senza avere consapevolezza della nostra storia (e del modo in cui le cose sono nate) non si è neppure capaci di pensare a un futuro diverso dal presente che viviamo. Non è quindi un caso se, per spegnere sul nascere qualunque tentativo, speranza, sforzo per cambiare lo stato di cose attuale e costruire un domani diverso dall' oggi, lo slogan più espressivo dell'attuale fase del sistema capitalistico – il neoliberismo – è quello coniato da Margareth Tatcher, “There is no alternative”, non c'è alternativa: il famoso acronimo TINA.
E' appena il caso di precisare che consapevolezza della storia – e della sua importanza per comprendere l'oggi e preparare il domani – non ha nulla a che fare con la nostalgia, con il lamentoso rimpianto per i tempi andati. Significa invece ricordare che la storia è maestra di vita (Historia Magistra Vitae): la storia ci insegna a vivere, cioè a cambiare, a crescere, a migliorare, noi stessi e il mondo.
Ma veniamo adesso alla nostra storia più vicina. In particolare, a quegli anni nei quali nacque, si sviluppò e divenne portatore di azioni lo slogan del quale ci stiamo occupando: il “diritto alla città”.
SIGNIFICATO, MOTIVI E CONTESTO
DELLO SLOGAN “DIRITTO ALLA CITTÀ”
Che vuol dire “diritto”?
La parola “diritto ha almeno due significati. Può significare norma che garantisce al soggetto portatore del diritto determinate prestazioni, o privilegi, o condizioni, nell'ambito del dispositivo giuridico vigente. In Italia, ho diritto al servizio sanitario nazionale, ho diritto a partecipare all'elezione di chi governa, e quant'altro stabiliscono la Costituzione e il sistema di norme che ne deriva. Oppure, “diritto” può significare aspirazione, tensione, rivendicazione di qualcosa che ancora non è riconosciuto dal sistema di regole sociali in atto, ma che è il risultato sperato di un'azione che sento necessaria.
Quando parliamo di “diritto alla città come qualcosa che si è manifestato nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso ci riferiamo a questo secondo significato del termine. La rapida esplorazione che faremo di quegli anni ci rivelerà che, per alcuni rilevanti aspetti, quel secondo significato dell'espressione “diritto alla città” (diritto come rivendicazione) si è tradotto, sia pure parzialmente, in diritto giuridicamente sanzionato.
Henry Lefebvre
Henry Lefebvre coniò l'espressione “diritto alla città”, nell'ambito di una riflessione sulla città e l'urbanistica condotta con gli strumenti d'analisi e interpretazione della scuola marxista. In polemica con le culture dell'epoca Lefebvre studiò la città non nelle sue forme e funzioni, ma nel meccanismo della sua produzione. La città era per lui il prodotto dell'azione della società, quindi strettamente legata (e anzi determinata) dalle regole e dagli interessi dei rapporti di produzione, quindi dal gioco di potere delle classi sociali. Egli vedeva il deterioramento della città (e della condizione urbana) come conseguenza dei rapporti (di produzione e di potere) propri del sistema capitalistico-borghese.
Secondo la sintesi che Ilaria Boniburini ne ha esposto alla Scuola di eddyburg del 2009, «per Lefebvre la città è un oeuvre, un’opera, una realizzazione alla cui costruzione tutti gli abitanti partecipano: gli “abitanti”, non solo i residenti e i cittadini. Il diritto alla città è il diritto alla vita urbana, all’abitazione, ai luoghi dell’incontro e dello scambio, ai tempi e ai ritmi necessari per un uso pieno dei luoghi e delle opportunità». La sua realizzazione «richiede una scienza capace di comprendere la città, un’ urbanistica orientata ai bisogni sociali e una forza politica e sociale capace di metterle in atto». Questa forza Lefebvre la individuava nella classe operaia, cui il pensiero marxista affidava la responsablità storica di superare dialetticamente il sistema capitalistiico-borghese.
E' interessante osservare oggi – nel pieno dell'affermazione del tema dei “beni comuni” e della riflessione sulla nuova rivendicazione della “città come bene comune” - che Lefebvre poneva l'accento sulla necessità di stabilire il primato del valore d’uso; ciò che a suo parere richiedeva il controllo della sfera economica, quindi una riconfigurazione delle relazioni di potere.
Ancora due corollari della visione lefebvriana del “diritto alla città”: esso, per Lefebvre, «postula il diritto a partecipare (tutti gli abitanti dovrebbero avere un ruolo centrale nelle decisioni che contribuiscono alle trasformazioni urbane), e postula il diritto all’appropriazione che include la prerogativa di occupare».
Il biennio 1968-69 in Italia
Il pensiero di Lefebvre ebbe una forte influenza nel pensiero e nelle azioni che dominarono nel biennio di grandi trasformazioni che fu il 1968-69, momento di massima tensione di un periodo (dagli inizi degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo) che vide realizzarsi in Italia una fase ricca di riforme profonde della società.
Si tratta di un biennio (e di un ventennio) che nei decenni successivi il pensiero dominante ha fatto di tutto per cancellare – riducendoli all'immagine di un periodo di tensioni sociali anarcoidi, dominate da un terrorismo di sinistra.
Gli storici dell'Italia contemporanea (da Paul Ginzborg a Guido Crainz, per non citare che quelli i cui articoli ospito spesso su eddyburg) hanno cominciato a raddrizzare le cose e a ristabilire una memoria corretta di quegli anni. Io stesso – non come storico, ma come testimone - ne ho scritto con una certa ampiezza, anche nel mio libro Memorie di un urbanista (Corte del Fontego, 2010), nel quale cerco di ragionare sull'Italia che ho vissuto: un'Italia nella quale, le ragioni della società e della politica e quelle della città e dell'urbanistica sembravano – e anzi erano – strettamente collegate. Non solo nel pensiero di qualche accademico e di qualche intellettuale, ma nella vita della società nel suo insieme.
Furono anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio.
Di quegli anni vorrei ricordare soprattutto due cose: il ruolo delle forze sociali, le conquiste ottenute. Il diritto alla città come rivendicazione, e il diritto alla città come norma.
Le forze sociali
Due componenti furono a mio parere essenziali, oltre al movimento degli studenti: il movimento per l’emancipazione delle donne, il movimento operaio.
Inizio dal movimento femminile, perché fu cronologicamente il primo a scendere in campo su un aspetto del “diritto alla città”. E lo faccio particolarmente volentieri anche perché oggi è l'8 marzo.
Il movimento femminile era rappresentato in quegli anni quasi esclusivamente dall'Unione Donne Italiane. Fu particolarmente rilevante la vertenza aperta dall'UDI all'inizio degli anni Sessanta nell'intento di liberare le donne dall'obbligo del lavoro casalingo.
L’Udi aveva lanciato una vasta campagna per l’istituzione di servizi che alleggerissero le lavoratrici (e le donne in generale) dal peso della gestione domestica; tra le attività svolte su questo tema, una legge d’iniziativa popolare, sulla quale si raccolsero oltre 50mila firme, e un convegno per la previsione dei servizi sociali nella pianificazione urbanistica.
Il titolo del convegno era “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico”. Si svolse a Roma, il 21-22 marzo 1964. Tre delle quattro relazioni di base furono svolte da altrettanti urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti e Alberto Todros.
Ma decisivo fu soprattutto il ruolo del movimento dei lavoratori, nelle sue espressioni sindacali e in quelle politiche.
Voglio ricordare soprattutto l’autunno del 1969, che fu certamente il momento più alto dello scontro sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra (allora espresse dall’ala della sinistra del Psi che faceva capo a Riccardo Lombardi). Era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci.
Il ruolo delle forze sociali è stato riconosciuto, tra gli altri, dallo storico Paul Ginsborg. In quegli anni, scrive, «le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centrosinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio».
E voglio ricordare che un ruolo essenziale nel raggiungere i risultati (al di là delle cause legate alle trasformazioni della struttura economica e alla politica internazionale) fu il fatto che la spinta delle rivendicazioni sociali trovava la sponda delle istituzioni, tramite partiti politici che erano ancora – secondo quanto detta la Costituzione – i canali attraverso i quali i cittadini potevano «concorrere con metodo democratico ala politica nazionale».
I risultati
Non voglio dilungarmi troppo. Mi limito a ricordare alcune delle maggiori trasformazioni che ebbero un riflesso concreto sul diritto – più precisamente, sulla norma – anche se, malauguratamente, non ebbero il tempo sufficiente per tradursi nei fatti in modo adeguato.
Nel campo del nostro interesse di urbanisti e studiosi della città ricordiamo che:
Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia
- la generalizzazione della pianificazione urbanistica,
- il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,
- l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.
Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), del 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), del 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), del 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità:
- di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,
- di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,
- di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni 80, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi, secondo il quale la definizione normativa delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto.
Ma usciamo dal nostro stretto campo, per comprendere meglio. E ricordiamo che in quegli stessi decenni, sincronicamente e per merito degli stessi soggetti, culture, movimenti, si ottennero altre grandi conquiste sul terreno dei diritti sociali, strettamente collegati alla condizioni urbana.
Ricordiamo:
- lo statuto dei diritti dei lavoratori,
- la scala mobile,
- il servizio sanitario nazionale,
- la libertà per le donne di interrompere la gravidanza e
- la libertà per tutti di divorziare,
- l’istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato,
- il tempo pieno nella scuola elementare,
- il voto ai diciottenni
- l’estensione della democrazia, nelle istituzioni, nella scuola e nelle fabbriche.
SINTOMI E RAGIONI DELLA RINASCITA
DEL “DIRITTO ALLA CITTÀ”
La svolta
Il mondo è molto cambiato dagli anni nei quali il “diritto alla città” si tradusse da rivendicazione a sistema di norme. Gli storici concordano ormai sugli anni in cui va collocata la svolta, e sul nome della fase che da allora è cominciata. In Italia si colloca nella metà degli anni 80 del secolo scorso, e segue di pochi anni quella iniziata con le presidenze di Ronald Reagan e di Margaret Tatcher (cui David Harvey accompagna, come terzo e quarto cavaliere dell’apocalisse, Pinochet e Deng Tsao Ping). Il mondo cambia giro. Inizia la fase di quello che in Italia si chiama Neoliberismo, e nel resto del mondo Neoliberalism. Una fase del tutto nuova del sistema capitalismo; quella che nel suo recente libro Luciano Gallino definisce – secondo me con grande precisione – Finanzcapitalismo.
Dall’economia delle cose si passa all’economia della carta. Il Denaro non è più un mezzo per comprare Merci e produrre più Merci, ma è il Denaro in sé che diventa il fine: trasformare il Denaro in più Denaro producendo Merci o – sempre più largamente – trasformando Beni comuni in Merci per produrre sempre più Denaro.
É una mutazione totale dell’economia capitalistica. Che trascina con sé una mutazione profonda della società, dell’uomo – e naturalmente anche della città e del modo in cui si svolge il mestiere dell’urbanista.
Vediamo alcuni aspetti generali di questa mutazione. Dall’equilibrio tra privato e pubblico (e tra individuale e collettivo) si è passati al dominio del privato e dell’individuale. Dal ruolo del mercato come strumento di definizione dei prezzi delle merci si è passati al Mercato come dominus indiscusso d’ogni decisione (e a un “mercato” il quale, come abbiamo appreso nella crisi recente, è composto da 25 soggetti che decidono sui destini del mondo intero). La politica è diventata un’ancella dell’economia data, si è schiacciata su di essa.
Le conseguenze della svolta neoliberista sulla città (sull’habitat dell’uomo) sono state devastanti. Voglio sottolinearne tre aspetti a mio parere più significativi.
Dal pubblico al privato
Innanzitutto è pofondamente colpito il carattere pubblico, comune, collettivo della città nel suo insieme.
Nella nostra storia quel carattere era stato ritenuto raggiungibile mediante l’affermazione di un principio (il diritto/dovere della collettività di decidere l’uso del suolo e le trasformazioni urbane) raggiungibile mediante due strumenti:
- lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire),
- lo strumento di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa, promossa e garantita da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Oggi si sostituisce di fatto la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non presenti testimonianze molteplici di questa nuova prassi di “urbanistica contrattata”.
Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Ma il primo passo era stato compiuto quando si erano inventati quegli strumenti urbanistici anomali (programmi complessi, programmi integrati, e poi tutte le sigle immaginabili) che consentivano a un accordo stipulato tra amministratore e proprietario di derogare alla pianificazione ordinaria – soggetta a una procedura di larga evidenza pubblica.
E un passo successivo era stato effettuato quando, con il PRG di Roma redatto e approvato da amministrazioni di sinistra, con consulenti di sinistra, si inventarono presunti “diritti edificatori” (fino ad allora sconosciuti al diritto e ai giuristi), che avrebbero comportato l’obbligo del pagamento di pesanti indennizzi a un comune che avesse voluto ridurre, motivatamente, l’edificabilità sul suo territorio concessa da un piano regolatore troppo permissivo.
Il trionfo della rendita
La condizione grazie alla quale il governo pubblico poteva esercitare il suo diritto /dovere di regolare le trasformazioni dell’habitat dell’uomo era considerato – nei regimi liberali prima ancora che in quelli socialdemocratici e socialisti - la capacità del governo pubblico di ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia) sulle decisioni e sui costi della trasformazione della città, e di trasferirne l‘incremento dal privato al pubblico, per reinvestirlo nel miglioramento delle funzioni urbane.
In Italia, agli inizi degli anni 70 la necessità di contenere i grandi plusvalori della rendita immobiliare era così largamente condivisa che la stessa Confindustria dichiarava di sostenere una riforma urbanistica che, contenendo la rendita, avrebbe garantito buoni profitti senza colpire i salari.
Ma le cose cambiarono rapidamente. Gli stessi gruppi industriali che avevano criticato la rendita trovarono comodo appropriarsene, intrecciare sempre più profondamente rendita e profitto, e anzi spostare la loro attenzione dalle attività industriali a quelle immobiliari
Il percorso iniziò negli anni delle grandi trasformazioni del sistema produttivo (dalla manifattura al terziario), per svilupparsi fino ai nostri anni. La finanziarizzazione dell’economia aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio.
All’inizio degli anni 90 l’esplodere della bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si aprì la fase che Walter Tocci definisce della “rendita pura”: la fase in cui si celebra il trionfo della rendita immobiliare, diventata (insieme a quella finanziaria) il fine dell’intero sistema economico.
Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno introdotto significativi cambiamenti nelle loro politiche. Aiutate, e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno proceduto allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti .
Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.
Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio.
Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.
Rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso. E perché troppo stesso gli urbanisti abbiano trasformato il loro ruolo da quello di servitori dell’interesse collettivo a facilitatori dei progetti immobiliari.
Lo spazio pubblico
Un altro aspetto emblematico – il terzo - di quella che definisco “la città della rendita” è la progressiva riduzione e mistificazione dello spazio pubblico.
Gli spazi pubblici sono l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi dell’attuale crisi della città è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.
Sono rischi che non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia):
- la recinzione mentre la piazza è aperta,
- la sicurezza mentre la piazza è avventura,
- l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità,
- la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini,
- la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.
E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza della previsione e progettazione di spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città.
I diritti nella città del neoliberismo
In sintesi possiamo dire che l’elemento che caratterizza la condizione urbana nella città del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.
Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un’edificio abbandonato.
Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimenti in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo (componenti della “infrastruttura globale”) e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.
E le stesse opere d’interesse generale e sovra-locale (le ferrovie e i porti, gli ospedali e le dighe, e tutte le attrezzature a grande scala) non vengono definite, collocate, progettate, gestite finalizzandole agli interessi collettivi che devono soddisfare, non sono inquadrate perciò in una visione sistemica del territorio, non rispettano quindi della priorità della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale de territorio, ma tengono conto di un solo requisito: la quantità di danaro che possono far circolare, gli affari che possono consentire, gli arricchimenti che possono produrre nei patrimoni dei soggetti che le promuovono o le realizzano.
Un filo di speranza
La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata a un filo molto tenue. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi diinsofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.
Mi riferisco al variegato complesso dei movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Sono fragili, discontinui, limitati dal volontarismo che li caratterizza, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti.
- Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità.
- La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche.
- Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti
- Le difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro.
- La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale.
- La mercificazione (con le tre tappe della privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione) di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.
- I diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.
Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione raccontata da don Lorenzo Milani di cui vi ho parlato.
Un nuovo “diritto alla città”
É ormai ricca la letteratura che riprende questa espressione. Si sono occupati dell’argomento, sviluppando l’originaria analisi di Lefebvre, David Harvey, John Friedmann, Don Mitchell, Susann Parnell, Edgard Pieterse, e molti altri. Sono anche numerosi i tentativi di mettere in rete le mille esperienze che in tutto il mondo si stanno sviluppando, inquadrandole nel dibattito teorico. La letteratura e numerose eperienze sono raccolte in un libro in corso di pubblicazione a Bruxelles (The right to the city. The city as common good. Between social politics and urban planning, a cura di Ilaria Boniburini et al., «Cahier de La Cambre Bruxelles», La Lettre volée, 2012).
La luce che si vede, attraverso i rottami della crisi, è che sta emergendo la rivendicazione di un nuovo diritto alla citta, che comprende quelli delle rivendicazioni del secolo scorso, le integra e arricchisce con nuove rivendicazioni.
La nuova idea di città che sta emergendo è esprimibile in un’espressione semplice e semplicemente comprensibile, a un concetto al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato: occorre che la città, e anzi l’intero habitat dell’uomo, sia considerato un bene comune.
Ma su questo, magari riprenderemo il discorso in un’altra occasione.
Per scaricare il lin al testo audiovisivo del seminario
IL SIGNIFICATO DEL PATRIMONIO CULTURALE E PAESAGGISTICO FINO ALLE RECENTI MODIFICHE NORMATIVE DEL CODICE DEI B.C.
Sintesi: Acquisizioni culturali, progressi della legislazione e tradimenti del pensare e del fare, dalla legge di Benedetto Croce (1922) all’ultima versione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2008). Interpretate da un urbanista.
ALCUNE PAROLE PER COMINCIARE
Le parole
Importanza delle parole e necessità di valutarle nel loro contesto semantico, storico e normativo.
Comincio a ragionare partendo da due espressioni, che trovo nei titoli rispettivamente del nostro convegno (Tutela e valorizzazione del paesaggio) e della mia relazione (Patrimonio culturale e paesaggio)
Valorizzazione
Questo termine ha, nella pratica sociale, un significato ambiguo: anzi, viene adoperato in due accezioni sostanzialmente alternative.
Da un lato, di parla di “valorizzazione” come trasformazione/gestione di qualcosa al fine di ricavarne un vantaggio economico. Quindi, in un’economia “di mercato”, equivale (o addirittura comporta) la riduzione di elementi (e, nel caso specifico dei beni culturali) a merci. È un’interpretazione che mette l’accento sullo sfruttamento economico anziché sulla qualità del bene.
Dall’altro lato, si può parlare di valorizzazione come “messa in valore”, evidenziazione, disvelamento e accrescimento delle qualità proprie del bene. Si può porre insomma l’accento sulla necessità di scoprire, di tutelare e di porre in giusta evidenza il valore intrinsecamente già presente nel bene, prioritariamente rispetto a qualsiasi obiettivo economico.
Nel linguaggio corrente prevale la prima accezione. Ed è palesemente a questa che si fa riferimento in tutto il dibattito attorno al paesaggio e alla sua tutela: a partire dalla nuova stesura del Titolo V della Costituzione, il quale attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” e alla legislazione concorrente tra Stato e Regione la “valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali” (articolo 3 lex cost 3/1981).
Scrive Salvatore Settis. «La “valorizzazione” è stata sempre più spesso intesa (a destra come a sinistra) in un senso meramente o prevalentemente economico: per “valorizzare” un palazzo che c’è meglio che venderlo? E per “valorizzare” un paesaggio che c’è di meglio che lottizzarlo?»
Patrimonio
Vorrei sottolineare la profonda differenza che c’è tra il termine “patrimonio” e il termine “risorsa”. Il primo esprime qualcosa che deriva dai nostri padri, e abbiamo il dovere di lasciare ai nostri eredi, accresciuto e migliorato e non degradato. Risorsa qualcosa che può (anzi, tendenzialmente deve) essere trasformata anche ad aaltro da sé: anche distrutta, se serve a uno scopo che nella considerazione sociale vale di più. Risorsa è un termine molto vicino a giacimento, espressione che chi si occupa di beni culturali e paesaggio ha cominciato ad odiare quando è stato adoperato da un ministro del governo Craxi, Gianni De Michelis, proprio per lanciare la “valorizzazione” delle nostre ricchezze, dei nostri patrimoni. Un patrimonio non si dissipa, una risorsa si può anche distruggere.
UN SECOLO DI ARRICCHIMENTI E TRADIMENTI
Proseguo con un molto sintetico excursus delle acquisizioni e delle perdite lungo il percorso dei 100 anni passati
1922 La legge Croce
La necessità di proteggere il paesaggio cominciò ad acquistare rilevanza istituzionale, in Italia, nei primissimi decenni del secolo corso. Mi sembra di poter dire che in una prima fase, che ha caratterizzato l’intera prima metà del XX secolo, ha prevalso una visione aristocratica del paesaggio in due sensi. (1) La consapevolezza del “valore” del paesaggio era percepita esclusivamente dalle aristocrazie culturali e politiche, dai “ceti alti” della cultura e del reddito. (2) Il “valore” del paesaggio era individuato solo nella sua qualità estetica, e i luoghi da tutelare erano i “bei paesaggi”.
Una intuizione che andava al di là di questa concezione può dirsi quella espressa da un ministro della Pubblica Istruzione che si chiamava Benedetto Croce. Questi introdusse per la prima volta il nesso tra paesaggio e identità di un territorio.
Il filosofo napoletano, quale ministro per la Pubblica istruzione nell’ultimo ministero Giolitti, scrive nel 1920:
«Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteri-stica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo» . È interessante rilevare che è dall’ambito di una visione estetica (la quale oggi ci appare limitata) del paesaggio che nasce, in Italia, l’esigenza della tutela e la sua interpretazione in funzione dell’identità nazionale. E la responsabilità di questa tutela non può che appartenere allo Stato, espressione della collettività nazionale.
1939 La legge Bottai
È su questa stessa linea che si collocano le leggi Bottai del 1939, introducendo alcuni elementi di novità per quanto riguarda soprattutto la strumentazione.
La prima normativa di carattere generale per la tutela del paesaggio è costituita dalla legge 29 giugno 1939 n. 1497, i cui principi e strumenti sono ancora operanti nella gestione dei vincoli paesistici del territorio italiano.
Il punto di vista della legge, la ragione per la quale essa prescrive la tutela delle “bellezze naturali”, è primariamente quello estetico e vedutistico. Ma accanto a questo al legislatore non sfuggono altri significati: quello scientifico (le singolarità geologiche), e quello legato alla fruizione (“punti di vista o di belvedere aperti al pubblico”).
I beni vengono tutelati in due modi. Si può inserire il bene o il complesso di beni che si vogliono tutelare in un apposito elenco, debitamente reso pubblico. Oppure, si può formare un “piano territoriale paesistico”, il quale detta norme alle quali qualsiasi intervento nella zona tutelata deve attenersi.
Accanto a un vincolo puramente procedimentale, il legislatore già nel 1939 - prima ancora, dunque, della legge urbanistica - aveva previsto la possibilità di tutelare i beni di rilievo paesaggistico mediante un piano.
1947 La Costituzione
Nella Costituzione della Repubblica italiana (1948) la tutela del paesaggio entra tra i massimi principi del nostro ordinamento. Il testo dell’articolo 9 della Costituzione è il seguente: «la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
La lettura dei verbali dell’Assemblea costituente rivela come la discussione sia stata ampia e impegnata, come sia stata significativamente approfondito l’esame del contenuto del paesaggio, del significato del termine “tutela” e del ruolo delle istituzioni. Settis nel suo ultimo libro ne dà ampiamente ragione. Tra i vari punti in discussione nella Costituente mi sembra di particolare interesse la questione della competenza della tutela. Già appariva la tensione tra un principio centralista e un principio regionalista. I membri della Costituente stavano lavorando contemporaneamente, in altre sale, sul tema regionalismo. E si cercava un equilibrio tra le istanze stataliste e quelle regionalista.
È interessante rilevare come un significativo passaggio di responsabilità sia avvenuto per merito di un autorevolissimo costituente sardo, Emilio Lussu. Si sta discutendo sulla sostituzione del termine “protezione” col termine “tutela”.
Il costituente Codignola, nell'illustrarlo , precisa che «si tratta di garantire allo Stato che il patrimonio artistico del Paese sia sotto la sua tutela, resti cioè vincolato allo Stato», e che «patrimonio artistico non significa soltanto i monumenti artistici e storici, poiché comprende [... ] l'insieme degli oggetti e dei beni di valore artistico e storico». Sottolinea inoltre di ritenere necessaria «una garanzia anche rispetto al previsto ordinamento regionale», giacché quest'ultimo «se esteso a certe materie, tra cui anche quella delle belle arti, può diventare un esperimento molto pericoloso», per cui occorre, «proprio prima di votare la questione delle autonomie regionali», stabilire «il principio che l'intero patrimonio artistico, culturale e storico del nostro Paese […] sia sottoposto alla tutela e non alla protezione dello Stato».
Interviene Emilio Lussu che dichiara di aderire totalmente all'emendamento di Codignola e propone di sostituire il termine "Stato" con il termine "Repubblica". Viste anche le note convinzioni di Lussu, la proposta non può che leggersi alla luce dell'asserzione, già presente nel progetto di Costituzione elaborato dal Comitato di redazione, per cui «la Repubblica si riparte in Regioni e Comuni». Con la proposta sostituzione di termini, cioè, si vuole non già traslare i compiti della "tutela" dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, ma certamente istituire la possibilità di competenze concorrenti.
Qui voglio accennare a un’altra parola ambigua. Concorrere: è una parola che ha due significati che nella prassi sono addirittura antitetici. Concorrere può significare correre insieme gareggiando l’uno contro l’altro, cioè competere, oppure correre insieme aiutandosi l’uno con l’altro, cioè co-operare. Mi sembra che la competizione sia riconosciuta oggi come un requisito indispensabile nell’ideologia corrente, mentre al significato co-operativo era quello preconizzato dai padri costituenti.
1956 La Corte costituzionale
I vincoli di tutela incidono ovviamente sulla disponibilità della proprietà degli oggetti territoriali (edifici o aree che siano) individuati dai provvedimenti amministrativi previsti dalle leggi. Tali vincoli devono essere indennizzati o meno? La questione è stata a lungo discussa, e pacificamente risolta dalla Corte costituzionale fin dal 1968, con una sentenza (la n. 56) che fu messa in ombra dalla contemporanea sentenza (la n. 55) la quale invece dichiarava l’illegittimità costituzionale della non indennizzabilità dei vincoli cosiddetti “urbanistici” o “funzionali”.
La questione meriterebbe di essere approfondita. Mi limiterò in questa sede a ricordare che per la Corte costituzionale, mentre sono di natura “espropriativa”, e perciò illegittimi se non indennizzati, i vincoli funzionali (sentenza n. 55), sono invece legittimi i vincoli di inedificabilità per la tutela del paesaggi (sentenza n. 56).
Ma ciò avviene a una precisa condizione: che il vincolo riguardi tutti i beni appartenenti a definite “categorie a confine certo”: dove per confine ovviamente non si intende un perimetro territoriale, ma una categoria concettuale.
Così, la sentenza costituzionale n. 179 del 1999, riepilogando le precedenti sentenze, ricorda che non sono indennizzabili “i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, "in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge".
1985 La legge Galasso
La legge Galasso riprende la questione tenendo il massimo conto delle sen-tenze costituzionali del 1968. L’imposizione del vincolo paesaggistico avviene su aree individuate attraverso la definizione di categorie di beni a confine certo. Questa categorie di beni sono definite in ragione della loro singolarità geologica (rilievi, vulcani, ghiacciai, coste ecc.) o ecologica (zone umide, parchi, riserve naturali ecc.) oppure in virtù della loro capacità di testimoniare le trasformazioni dell’ambiente ad opera dell’uomo (argini, zone archeologiche, ville e giardini ecc.), o, infine, per la loro appartenenza a determinati soggetti (aree assegnate alle università agrarie).
Si tratta di una tutela del paesaggio che non riguarda più soltanto beni di esclusiva rilevanza estetica (bellezze naturali) o culturale (singolarità geologiche, beni rari o di interesse scientifico o di valore tradizionale) bensì beni che costituiscono elementi caratterizzanti la struttura morfologica del territorio nazionale, siano essi naturali o effetto dell’attività umana.
Rispetto alla legge del 1939, è mutata la concezione, e quindi la specificità del “notevole interesse pubblico” protetto dall’ordinamento. Non più e non solo beni individuati come singoli o come complessi, ma tutela dell’ambiente come patrimonio collettivo, come segno e testimonianza della nostra cultura.
Il paesaggio, viene così inteso e protetto per elementi territoriali «che segnano le grandi linee di articolazione del suolo e delle coste», come bene ambientale che però «non annulla, ma supera, non nega ma integra quello originario di bellezza naturale» .
Anche la scelta del legislatore, di aver inserito tutti i beni elencati dalla legge in questione, nell’articolo 82 del Dpr. 616/1977 e non più nell’articolo 1 della legge n. 1497, fa intendere il distacco dalla impostazione tradizionale, acco-gliendo invece (Zaccardi) «una nozione di tutela paesaggistica diversa e desunta da alcune impostazioni dottrinarie secondo cui il paesaggio è una nozione che va ben oltre la tutela della bellezza naturale» .
I meriti della legge non consistono peraltro solo nell’aver aperto una fase di più progredita salvaguardia dei connotati essenziali del territorio italiano, ri-prendendo l’intuizione del paesaggio come elemento caratterizzante l’identità nazionale: sono anche nell’aver introdotto una sostanziale innovazione nei modi della tutela e nella pianificazione territoriale e ur-banistica. La legge non ha abrogato la vecchia legge del 1939 e non ha quindi eliminato la possibilità di vincolare certi beni col sistema tradizionale della individuazione attraverso “elenchi”, ma ha individuato direttamente talune categorie di beni da salvaguardare, in al modo facendo derivare il vincolo paesaggistico immediatamente dalla semplice previsione legislativa .
La legge enuncia l’obbligo delle regioni di procedere all’approvazione del piano paesistico relativamente ai beni e alle aree sopraccitate. Questo è l’aspetto più innovativo della nuova disciplina: il vincolo non è più fine a se stesso, ma è la premessa della necessaria pianificazione paesistica-territoriale.
I beni direttamente vincolati dalla legge, dovranno essere identificati in via amministrativa e provvisti, a cura delle Regioni, di una «specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale» (sottolineo: valorizzazione ambientale, non economica), mediante la redazione di «piani paesistici o piani urbanistico-territoriali aventi specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali».
La legge non fa riferimento solo ai piani paesistici, ma anche a “piani urbani-stico-territoriali aventi specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Non solo piani volti esclusivamente alla tutela del paesaggio (sia pure nel senso nuovo implicito nella legge 431/1985), le regioni possono adempiere al dettato della legge, e tutelare il paesaggio anche con gli strumenti ordinari della pianificazione. Purché (la sottolineatura non è irrilevante) quella pianificazione ordinaria abbia “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.
È la pianificazione nel suo complesso, ad ogni livello, che deve insomma farsi carico della tutela del paesaggio e dell’ambiente. E se ne deve far carico ad ogni livello: mentre la pianificazione regionale individua gli elementi rilevanti a quel livello, quella provinciale e quella comunale approfondiscono e specificano via via individuando gli elementi percepibili al loro livello.
1985-1990 La Corte Costituzionale
La Corte costituzionale aveva riconosciuto la piena legittimità di quel dispositivo della legge Galasso. Non solo. In più occasioni aveva dichiarato necessario che l’individuazione dei beni e la definizione delle regole per la loro tutela proseguisse sistematicamente: la legge, ha affermato la Corte, «introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale» .
Essa non si esaurisce nell’individuare le grandi componenti del paesaggio nazionale, ma deve prolungarsi nell’azione “assidua” non solo nel nel tempo, ma anche nello spazio. Nell’azione insomma di tutte le istituzioni della Repubblica, riprendendo cosè l’antica intuizione dell’Assemblea costituente: l’azione tutelatrice anche delle regioni, le province, i comuni.
Nelle stesse occasioni la Corte aveva riconosciuto come, in conformità con l’articolo 9 della Costituzione, le scelte relative alla tutela del paesaggio avessero assoluta prevalenza rispetto a quelle concernenti altri interessi, esigenze, motivazioni: esse sono un prius rispetto alle decisioni di trasformazione. La pianificazione paesaggistica, o la componente paesaggistica della pianificazione territoriale e urbanistica, deve precedere le componenti che attribuiscono al territorio capacità di “sviluppo urbanistico (orrenda espressione)”, cioè che prevedono la realizzazione di infrastruttu-re, urbanizzazioni, edificazioni.
2001 Le modifiche al titolo V della Costituzione
Alle soglie del nuovo millennio si andava già nella direzione di uno slabbra-mento dell’ordinamento statale delineato dalla Costituzione.
Nella speranza di mettere le braghe al federalismo della Lega di Bossi si varò la modifica del Titolo V. Solo con grande fatica si riuscì allora a evitare l’introduzione nella nostra carta costituzionale di alcune innovazioni (o restaurazioni) molto preoccupanti per l’assetto del territorio, quali l’attribuzione di competenze legislative esclusiva all’uno o all’altro dei poteri legislativi. Dimenticando il carattere cooperativo della con-correnza, si preferì comunque il ritaglio delle competenze. Si introdusse la separazione tra tutela e valorizzazione. Ciò che ha significato accentuare il carattere me-ramente economico della valorizzazione e rompere l’eguaglianza di principio tra Stato e Regione.
2000-2006 La convenzione europea
Secondo la Convenzione europea del paesaggio , il paesaggio è «una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni»; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio «costituisce una risorsa favorevole all’attività economica» e «può contribuire alla creazione di posti di lavoro».
Entrambi gli enunciati suddetti hanno sollevato discussioni e critiche.
La sottolineature del “valore economico” del paesaggio è sembrato a molti (a partire da chi v parla) molto rischiosa dato il contesto nel quale oggi operiamo. La prevalenza della dimensione economica su ogni altra dimensione dell’agire umano e sociale è un incontestabile dato di fatto, e la sua negatività è stata messa ripetutamente in luce. Ciò soprattutto in una fase e in un’area storico-geografica nella quale la riduzione d’ogni bene a merce, la privatizzazione e mercificazione dei beni comuni, l’appiattimento d’ogni interesse a quello individuale appaiono dominanti.
Il riferimento della definizione stessa del paesaggio alla sue percezione da parte delle popolazioni è stato oggetto di ampie discussioni le quali, sia pure partendo da preoccupazioni diverse, impongono tutte distinzioni e cautele.
Così, ad esempio, secondo Vezio De Lucia
«la subordinazione del valore paesaggistico alle percezioni dei cittadini direttamente interessati a eventuali trasformazioni e, ancor più, la funzionalizzazione del paesaggio allo sviluppo economico sono obiettivi evidentemente in contrasto con l’assunzione della tutela del paesaggio fra i principi della Costituzione repubblicana (art. 9) e con la tradizione della legislazione e delle politiche di settore. Insomma, almeno in teoria, nel nostro paese il paesaggio è sempre stato inteso come un valore in sé, svincolato da ogni subordinazione, soprattutto dalle convenienze locali, e quest’impianto concettuale è opportunamente ricordato in ogni occasione di dibattito su attentati alla bellezza del territorio» .
Parte invece da un giudizio positivo sulla convenzione un altro urbanista, Al-berto Magnaghi, per approdare a considerazioni anch’esse – seppur diversa-mente – critiche. Secondo Magnaghi «la Convenzione europea del paesaggio apre la strada allo sviluppo della coscienza di luogo: dar voce alla percezione sociale del paesaggio e dei suoi valori da parte delle popolazioni attraverso processi partecipativi».
Tuttavia, prosegue Magnaghi, si deve tener conto del fatto che: «la designazione di paesaggio come “determinata parte del territorio cosi come è percepita dalle popolazioni “, è un processo e non un dato; non si dà nei territori locali una identificazione stretta fra popolazioni e luoghi: […] “abitanti” significa abitanti “locali” ma anche nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users, presenze multietniche, giovani, anziani, ecc.».
La pianificazione non può quindi ridursi, prosegue Magnaghi, alla «semplice registrazione di una “percezione” data, ma un processo euristico di decodificazione e ricostruzione di significati, attraverso l’apprendimento collettivo del paesaggio come bene comune, facendo interagire saperi esperti e saperi contestuali per il riconoscimento da parte dei diversi attori dei valori patrimoniali e per innescare patti per la cura e la valorizzazione del patrimonio. Non si da infatti la gestione di un paesaggio come bene comune se è il risultato di una somma di azioni individuali dettate da interessi particolari. E’ necessario un processo partecipativo che avvii una trasformazione culturale di riconoscimento condiviso dei beni comuni per agire le trasformazioni del paesaggio e la fruibilità collettiva di beni in via di privatizzazione: il paesaggio agrario, le coste, gli spazi pubblici delle città, i fiumi, le foreste» .
E se – per concudere su questo punto - la percezione del paesaggio non è il punto di partenza, ma l’obiettivo d’un ”processo euristico”, di un percorso aperto da costruire per ipotesi e tentativi progressivamente modificati e aggiustati, allora è evidente che occorre operare sia sul versante della maturazione della consapevolezza di chi vive il paesaggio a distanza più ravvicinata, sia con l’azione tendente a salvaguardare, “dall’alto” delle istitu-zioni, la permanenza nel tempo delle componenti essenziali del patrimonio paesaggistico. Ciò con una pianificazione che abbia nella tutela delle qualità del territorio (della sua integrità fisica e della sua identità culturale) la sua decisione prioritaria e condizionante, e con le altre forme di tutela e di vincolo quando questa garanzia non sia ancora raggiunta.
2004-2008 Il codice dei B.C. e del paesaggio
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, nelle sue successive edizioni, ha ripreso integralmente la disciplina della legge Galasso, introducendo alcuni ulteriori elementi: tra questi, vorrei segnalare
- l’individuazione – come oggetti della pianificazione paesaggistica - degli «ambiti di paesaggio», accanto alle «categorie di beni a confine certo
- la co-pianificazione, ossia la condivisione (con-correnza in senso co-operativo) tra Stato e Regione nella pianificazione paesaggistica
- la ripresa dell’impegno dello Stato a definire le «linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale».
Gli “ambiti” non sono precisamente definiti dalla legge, e anzi il loro ruolo si è ridotto nelle successive versioni del Codice. Nella sostanza essi fanno tuttavia riferimento a un criterio di analisi e trattamento del paesaggio aaggiuntivo a quello dell’individuazione e regolamentazione dellle grandi componenti (le “categorie a confini certi”): un criterio che pone l’accento sulla specificità di ogni contesto territoriale, e allo stretto intreccio tra le varie componenti del paesaggio e tra queste e la società che li ha prodotti e che li utilizza.
La “co-pianificazione” avrebbe voluto e potuto essere lo strumento mediante il quale avviare il processo di “assidua riconsiderazione” tutelatrice del paesaggio nazionale mediante la coopperazzione tecnica dei due principali soggetti istituzionali prepost alla sua “tutela e valorizzazione”.
La ripresa del dettato del Dpr 616/1977, sul “lineamenti fondamentali del’assetto territoriale nazionele”, avrebbe consentito di partire dal paesaggio per raggiungere una ricomposizione dei mille conflitti d’uso e di prospettiva che affliggono la comunità nazionale (pensiamo solo a quella tra grandi infrastrutture da un lato, e paesaggio e ambiente dall’altro)
I limiti e gli errori
Possiamo dire che, in Italia, nell’elaborazione culturale e legislativa che si svolta nel corso di un secolo (ma che ha le sue radici nell’Italia preunitaria), si è raggiunta con la legge del 1985 e quella del 2008 un quadro di principi, di procedure e di strumenti che avrebbero potuto consentire una effettiva ed efficace utela delle qualità del Belpaese. Tuttavia, vediamo con i nostri occhi che non è così. É inutile in questa sede che mi dilunghi a illustrare questo punto. Mi domando però: perché ciò è accaduto?
Ho fatto più volte riferimento al clima generale nel quale siamo immersi (in Italia e nel mondo); alla grande svolta – a mio parere negativa – che si è aperta negli anni 80 del secolo scorso. Ma non è neppure su questo che voglio in questa sede insistere.
Ci sono errori e limiti della cultura politica tipicamente italiani: sappiamo fare buone leggi, ma non siamo capaci (o non vogliamo) mettere a punto gli strumenti amministrativi e operativi capaci di gestirle: l’intendenza non segue. E ci sono errori nelle stesse leggi. Vorrei segnalarne uno a questo proposito, proprio dalle modifiche introdotte nel 2008 al Codice del paesaggio.
Mi riferisco all’articolo 135, comma 1. Nelle precedenti stesure del Codice il piano paesaggistico elaborato congiuntamente da Stato e Regioni si estendeva all’intero territorio regionale. Il testo ora vigente assume invece come area di piano quella limitata ai “beni paesaggistici”, e cioè agli immobili vincolati a norma delle leggi del 1939, alle categorie della legge Galasso e alle loro integrazioni.
Questa decisione è assolutamente controcorrente rispetto al percorso che ho potuto finora delineare. Scompare l’unitarietà del paesaggio. Scompare la posizione di pariteticità tra Stato e Regione: il primo deve limitare la sua presenza al recinto dei beni già individuati la Regione no. É la logica dei “parchi” e dei “preparchi”: all’interno tutto è tutelato, attorno si può insediare tutto ciò che di quel siito tutelato può godere. Nel recinto la “tutela”, fuori la “valorizzazione” – con ciò che questa oggi, e in Italia, significa. Scompare la “assidua riconsiderazione del territorio nazionale” nella sua multiscalarità che la Corte aveva giudicato essenziale al rispetto del dettato costituzionale.
Più ampie e generali le preoccupazioni che nascono se si valuta nel suo complesso l’attuazione delle leggi per la tutela del paesaggio. Le ha puntualizzate in un documento di un anno fa l’associazione Italia Nostra, con un lavoro a tappeto, coordinato da Maria Pia Guermandi .
Partiamo dalle Regioni. Una sola dispone di un piano paesaggistico compiuto: la Sardegna . Ma siamo ancora lontani dall’adeguamento della pianificazione comunale a quella statale/regionale, e quindi alla dispiegata efficacia delle procedure del codice. La tutela dello Stato è ancora imperiosamente necessaria.
Del resto, con l’eccezione della Sardegna «i piani paesaggistici elaborati dalle regioni possiedono solo raramente elementi prescrittivi e una definizione chiara di procedure e regole atte a regolamentare l’uso del territorio e a delimitare senza ambiguità le aree tutelate e i diversi livelli di tutela. […] In generale, la disciplina del paesaggio rimane invischiata nel sistema della pianificazione territoriale ordinaria dove comanda sempre il livello comunale, al quale è riconosciuta, un’autonomia ampia, quando non amplissima, mentre a livello regionale generalizzata è la rinuncia a operazioni di strategia territoriale su area vasta».
Né le cose vanno meglio a livello statale. Non solo le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio, «sono restate finora una pura dichiarazione d’intenti». A mancare, «a livello centrale, è anche l’elaborazione di un quadro univoco di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, solo, potrebbe consentire una reale omogeneità di obiettivi e di risultati, mentre ugualmente relegata alla dimensione della ipotesi futuribile sembra l’organizzazione sul territorio di un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati».
Il rapporto di Italia nostra attribuisce una particolare negatività a un orienta-mento che l’associazione individua nell’ambito della politica ministeriale, ma che a mio parere ha una portata molto più generale. Si tratta della tendenza «ad oscurare il carattere di prevalenza e preminenza della tutela del paesaggio rispetto ad ogni altro interesse pubblico, pur eretto limpidamente a valore primario dalla disciplina costituzionale, per sostituirlo con un ben più accomodante ‘contemperamento’ fra la salvaguardia di tali valori e la esigenze della libera attività imprenditoriale anche laddove quest’ultima comporta pesanti interventi di trasformazione del territorio».
ALTRE PAROLE PER CONCLUDERE
Concludo ragionando brevemente su un ulteriore gruppo di parole spesso ambigue, fuorvianti, e non di rado adoperate per forzare il contesto.
Sviluppo
Sviluppo è un termine ambiguo. Per meglio dire, è adoperato in modi diversi, e assume diversi significati. È un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia.
Ma nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa da molti decenni unicamente crescita quantitativa dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità reale.
Vincolo
Vincolo, invece, è un termine screditato. Nessuno osa più difendere il vincolo. Vincolo è oggi solo un impaccio da cui occorre liberarsi. Ma che cosa si intende per vincolo, a proposito del territorio?
Per “vincolo” il linguaggio corrente considera qualunque utilizzazione del suolo che non preveda la sua trasformazione profonda, la sua sottrazione a un uso in qualche modo legato alla natura e alla storia, la sua laterizzazione. É vincolato un territorio sottratto al bosco, all’agricoltura, alla landa o al prato, alle acque correnti o a quelle immobili e stagnanti, al pascolo e all’uso degli animali, all’agricoltura.
Criticare e cbtestare questa concezone non significa dire che occorra sempre vincolare, cioè sottoporre alla rigida conservazione. Il problema non è quello di affermare “qui si conserva tutto quello che c’è”, “qui nessuna tra-sformazione è consentita”. E non è neppure quello di individuare alcune aree nelle quale quelle due parole, conservazione e vincolo, devono essere le uniche che valgono, recintarle e abbandonare tutto il testo alla trasformazione scriteriata.
La vicenda della legislazione di tutela del paesaggio ci racconta qual è la soluzione ragionevole.
Tutto il territorio è intriso di qualità: naturali, storiche, culturali. Queste qualità sono il prodotto della collaborazione tra natura e storia. In ogni brandello del territorio ci sono elementi da conservare ed elementi suscettibili (o bisognosi) d’essere trasformati. Anche un bosco richiede l’abbattimento di certi suoi alberi e il diradamento di certe sue essenze, e anche la necropoli richiede la manutenzione dei suoi elementi (quindi la trasformazione di ciò che gli eventi del tempo, se lasciati soli, provocherebbero). Anche l’edilizia storica, per rimanere viva, richiede trasformazioni, che siano però coerenti con le regole che hanno guidato nei secoli la sua formazione e le sue trasformazioni organiche.
Una cosa è importante stabilire senza equivoci. Le esigenze della tutela delle qualità (naturali, storiche, culturali) di ogni porzione di territorio hanno la priorità – in termini di valori, in termini di utilizzazioni, in termini di tempo – rispetto a ogni trasformazione. E finché regole saggiamente elaborate e rigorosamente amministrate non rendono possibile raggiungere questo status, difendiamo la conservazione anche generale (e generica), difendiamo il vincolo.
Sostenibilità
É un’espressione passepartout: un grimaldello universale. Nasce inizialmente nell’ambito di una critica allo sviluppo divoratore delle risorse non riproducibili. Una prima mediazione a livello alto è quella tentata dalla Commissione Brundtland, che introduce il concetto di “riserva per i posteri” delle risorse fornite dall’ambiente planetario(«soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future»), postula quindi la priorità della riserva ambientale nei confronti dello sviluppo economico. Successivamente viene annacquato: accanto alla “sostenibilità ambientale” vennero poste quelle “economica” e “sociale”. Tra le tre, si sa chi vince.
Oggi “sostenibile” è un attributo che costa poco, pesa pochissimo ed è appli-cabile a ogni intervento devastatore, purché questo sia mitigato, compensato, perequato. Ecco tre ulteriori parole sulle quali avrei voluto soffermarmi, ma il tempo è scaduto.
Ringrazio innanzitutto Giovanni Spalla, Luca Borsari e la Fondazione per la cultura Palazzo Ducale, Andrea Agostini e Legambiente, di avermi invitato a partecipare a questa serie di incontri. Ho potuto apprezzare molto quello che ho visto e sentito – delle precedenti sedute – dal sito che ne riporta i materiali. L’oscuro silenzio che avvolge i temi su cui ragioniamo (in sostanza, qual è lo stato delle città, e quale il suo destino) è per me grave fonte di preoccupazione, e qualsiasi iniziativa ragionevole che tenti di forare questa coltre è benvenuta.
La città
Vi parlo come urbanista. E come urbanista che ha imparato che il suo mestiere ha senso, e può essere utile, se non dimentica mai che la città – la realtà alla cui essenza il suo mestiere è legato –può essere compresa e trasfomata solo se si tengono insieme i suoi tre aspetti: la città come urbs, come insieme di relazioni dello spazio e nello spazio; la città come civitas, come società che concretamente abita quello spazio; la città come polis, come capacità e struttura di governo dell’urbs e della civitas.
Estendendo un po’ questa connotazione della città si potrebbe facilmente giungere a una sua più compiuta definizione: cosa che a me sembra essenziale se si vuole non solo descriverla, ma agire per trasformarla. Il tempo non mi consente di dilungarmi su questo tema. Mi limiterà a una sola considerazione.
Se consideriamo la città non come un mero aggregato di case e di altri elementi, ma come “la casa della società”, allora non possiamo non renderci conto che oggi intero territorio è diventato “la casa della società”: è il territorio nel suo insieme il luogo che l’uomo associato impiega per tutte le sue necessità legate alla sua vita.
Une definizione che in questo senso mi sembra interessante e utile è quella coniata da Piero Bevilacqua: il territorio come “habitat dell’uomo”.
“La città dei diritti”
Il tema che mi è stato assegnato può essere affrontare almeno sotto due profili, in relazione a due facce della parola “diritto”:
diritto come norma garantisce la tutela di determinate facoltà e possibilità della persona e il soddisfacimento di determinate esigenze;
diritto come rivendicazione di una facoltà, una possibilità, una esigenza attualmente non garantite, o garantite in modo insufficiente.
Questi due profili non sono antitetici, ma sono legati dialetticamente, nel senso che – come la storia ci insegna – la rivendicazione di un diritto conduce (può condurre) alla sua trasposizione in norma.
Se parliamo oggi dei diritti in relazione alla città allora penso che sia utile affrontare l’argomento in relazione a tre successivi momenti della nostra storia:
ieri, quando, nell’ambito della “città del welfare”, nel nostro paese una serie di rivendicazioni hanno trovato il loro soddisfacimento e sono diventate norma;
oggi, che dalle vicende dei decenni a noi più vicini è scaturita una nuova serie di rivendicazioni, che aspirano a essere a loro volta tradotte in norma.
domani, futuro possibile, che possiamo – se non prevedere né progettare – provare a progettare e a costruire.
IERI.
La città del welfare
Gli storici cominciano a guardare con sguardi più attenti a un ventennio della nostra storia recente il cui ricordo, nei trent’anni passati, è stato deformato, o rimosso, o addirittura demonizzato. Mi riferisco agli anni 60 e 70 del secolo scorso.
Anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio.
Mi sembra che tra le riforme vere e le riformicchie la differenza stia nel fatto che le prime modificano le strutture della società, dell’economia, della politica, della cultura, e aprono la strada a più profonde trasformazioni, mentre che le riformicchie di oggi siano al più aggiustamenti, mitigazioni, ammorbidimenti di storture vere o presunte.
Non voglio dilungarmi troppo. Mi limito a ricordare alcune delle maggiori trasformazioni che ebbero un riflesso concreto sul diritto – più precisamente, sulla norma – anche se, malauguratamente, non ebbero il tempo sufficiente per tradursi nei fatti in modo adeguato.
Nel campo dell’urbanistica
Nel campo del nostro interesse di urbanisti e studiosi della città ricordiamo alcuni obiettivi raggiunti.
Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia
- la generalizzazione della pianificazione urbanistica,
- il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,
- l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.
Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità
- di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,
- di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,
- di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni 80, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi e nella cultura che le ha prodotte e stabilito nei suoi meccanismi, secondo il quale la definizione delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto.
Ma usciamo dal nostro stretto campo, per comprendere meglio. E ricordiamo che in quegli stessi decenni, sincronicamente e per merito degli stessi soggetti, culture, movimenti, si ottennero altre grandi conquiste sul terreno dei diritti sociali, strettamente collegati alla condizioni urbana.
Ricordiamo: lo statuto dei diritti dei lavoratori, la scala mobile, il servizio sanitario nazionale, la libertà per le donne di interrompere la gravidanza e la libertà per tutti di divorziare, l’istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato, il tempo pieno nella scuola elementare, il voto ai diciottenni e l’estensione della democrazia, nelle istituzioni, nella scuola e nelle fabbriche.
Come e perché si raggiunsero questi obiettivi
Un ruolo essenziale nel raggiungere questi risultati (al di là delle cause legate alle trasformazioni della struttura economica e alla politica internazionale) fu la spinta che nasceva dalle rivendicazioni sociali e la sponda che questa trovava nelle istituzioni, tramite partiti politici che erano ancora – secondo detta la Costituzione – i canali attraverso i quali i cittadini potevano «concorrere con metodo democratico ala politica nazionale».
Questa spinta ebbe una complessa maturazione, e conobbe forse il punto più alto negli eventi del 1968-69. Tre componenti furono a mio parere essenziali: il movimento per l’emancipazione delle donne, il movimento studentesco e il movimento operaio. Quest’ultimo – nelle sue espressioni sindacali e in quelle politiche – fu decisivo.
Voglio ricordare soprattutto l’autunno del 1969 che fu certamente il momento più alto dello scontro sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra (allora espresse dall’ala della sinistra del Psi che faceva capo a Riccardo Lombardi). Era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci. Un partito il cui animatore su questi temi era allora – voglio ricordarlo oggi nella sua città – Alarico Carrassi, allora responsabile della politica della casa e l’urbanistica in quel partito.
Lo ha riconosciuto del resto uno storico del livello di Paul Ginsborg. In quegli anni, scrive, «le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centrosinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio».
“Diritto alla città”
C’è uno slogan che suona particolarmente interessante all’orecchio di un urbanista, e che in qualche modo riassume il senso generale, il “diritto generale” delle trasformazioni di quegli anni: il diritto alla città. É uno slogan, ma è anzitutto il titolo di un libro, del sociologo francese Henry Lefebvre: Droit à la ville. Un libro che agì molto nelle coscienze.
Il libro di Lefebvre indicava le due componenti essenziali del “diritto alla città”: il diritto per tutti di appropriarsi della città, di usarla senza esclusioni né preclusioni;
, e il diritto di tutti a partecipare alle decisioni circa le sue trasformazioni, il suo governo.
Si tratta evidentemente dell’uso della parola “diritto” per indicare una rivendicazione, non un sistema di norme e di pratiche acquisite. Ma chi ha vissuto quegli anni sa bene che sono stati allora i grandi movimenti della società (gli studenti, gli operai, le donne…), ascoltati da una intelligente politica del Palazzo a ottenere gli obiettivi normativi raggiunti in quel periodo.
L’espressione “diritto alla città” è scomparsa quasi interamente nei decenni successivi. Sta riemergendo oggi, ed è forse rivelatrice di una nuova stagione di speranza. Ma su questo tornerò più avanti. Vorrei domandarmi invece in quale terreno affondano le radici dei due decenni. In quegli anni in cui, in Italia, si poté parlare di “città del welfare” non solo come di un immaginario che in quella fase era condiviso – in quanto proprio dell’ideologia egemone,- ma come obiettivo reso concretamente raggiungibile dal sistema normativo.
Le radici
Le radici di quella fase erano indubbiamente, in Italia, nella Resistenza antifascista e nell’unità delle forze che avevano costruito la “Repubblica fondata sul lavoro”. Erano nella Costituzione, quindi, e nella cornice di principi condivisi che essa forniva a interessi e progetti diversi e in conflitto tra loro.
Quelle radici erano anche in una concezione della politica. La concezione che la politica significava, per tutti, anteporre gli interessi generali a quelli particolari. Nei diversi progetti politici lo stesso riferimento “di parte” che l’uno o l’atro schieramento assumeva (il primato del lavoro proletario o quello della proprietà privata o quello dell’impresa capitalistica) erano assunti in quanto chiave del raggiungimento di un maggiore “interesse generale”, e non in quanto bastone con cui picchiare e annullare l’avversario, o recinti degli interessi che devono essere garantiti contro tutti gli altri.
In un orizzonte più ampio nella storia e nella geografia le radici di quei due decenni erano nel compromesso keynesiano tra capitale e lavoro, e nell’accordo tra le potenze mondiali nella guerra antifascista.
Certo, quel compromesso era consentito dal fatto che ci si muoveva ancora entro una parte del mondo. Ne erano escluse quelle vaste porzioni del pianeta che poi furono chiamate Terzo mondo, o Paesi in via di sviluppo, e verso le quali venivano esportati i conflitti perché non turbassero il difficile equilibrio tra le classi del sistema capitalistico. Non dimentichiamo mai che il prezzo del maggior benessere dei paesi dell’Europa socialdemocratica e del Nordamerica fu pagato, ed é ancora pagato, dalle vittime della colonizzazione dell’Asia e dell’Africa.
OGGI
La svolta
Gli storici concordano ormai sugli anni in cui va collocata la svolta, e sul nome della fase che da allora è cominciata. In Italia si colloca nella metà degli anni 80 del secolo scorso, e segue di pochi anni quella iniziata con le presidenze di Ronald Reagan e di Margaret Tatcher (cui David Harvey accompagna, come terzo e quarto cavaliere dell’apocalisse, Pinochet e Deng Tsao Ping). Il mondo cambia giro. Inizia la fase di quello che in Italia si chiama Neoliberismo, e nel resto del mondo Neoliberalism. Una fase del tutto nuova del sistema capitalismo; quella che nel suo recente libro Luciano Gallino definisce – secondo me con grande precisione – Finanzcapitalismo.
Dall’economia delle cose s passa all’economia della carta. Il Denaro non è più un mezzo per comprare Merci e produrre piùMerci, ma è il Denaro in sé che diventa il fine: trasformare il Denaro in piùDenaro producendo Merci o – sempre più largamente – trasformando Beni comuni in Merci per produrre sempre piùDenaro
É una mutazione totale dell’economia capitalistica. Che trascina con sé una mutazione profonda della società, dell’uomo – e naturalmente anche della città e del modo in cui si svolge il mestiere dell’urbanista.
Vediamo alcuni aspetti generali di questa mutazione. Dall’equilibrio tra privato e pubblico (e tra individuale e collettivo) si è passati al dominio del privato e dell’individuale. Dal ruolo del mercato come strumento di definizione dei prezzi delle merci si è passati al Mercato come dominus indiscusso d’ogni decisione (e a un “mercato” il quale, come abbiamo appreso nella crisi recente, è composto d 25 soggetti che decidono sui destini del mondo intero). La politica è diventata un’ancella dell’economia data, si è schiacciata su di essa.
Le conseguenze della svolta neoliberista sulla città (sull’habitat dell’uomo) sono state devastanti. Voglio sottolinearne tre aspetti a mio parere più significativi.
Dal pubblico al privato
Innanzitutto è profondamente colpito il carattere pubblico, comune, collettivo della città nel suo insieme.
Nella nostra storia quel carattere era stato ritenuto raggiungibile mediante l’affermazione di un principio (il diritto/dovere della collettività di decidere l’uso del suolo e le trasfrmazioni urbane) raggiungibile mediante due strumenti: lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), lo strumento di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa, promossa e garantita da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Oggi si sostituisce di fatto la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non presenti testimonianze molteplici di questa nuova prassi di “urbanistica contrattata”.
Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Ma il primo passo era stato compiuto quando si erano inventati quegli strumenti urbanistici anomali (programmi complessi, programmi integrati, e poi tutte le sigle immaginabili) che consentivano a un accordo stipulato tra amministratore e proprietario di dergare alla pianificazione ordinaria – soggetta a una procedura di larga evidenza pubblica. E un passo successivo era stato effettuato quando, con il PRG di Roma redatto e approvato da amministrazioni di sinistra, con consulenti di sinistra, si inventarono presunti “diritti edificatori” (fino ad allora sconosciuti al diritto e ai giuristi), che avrebbero comportato l’obbligo del pagamento di pesanti indennizzi a un comune che avesse voluto ridurre, motivatamente, l’edificabilità sul suo territorio concessa da un piano regolatore troppo permissivo.
La rendita immobiliare
La condizione grazie alla quale il governo pubblico poteva esercitare il suo diritto /dovere di regolare le trasformazioni dell’habitat dell’uomo era considerato – nei regimi liberali prima ancora che in quelli socialdemocratici e socialisti - la capacità del governo pubblico di ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia) sulle decisioni e sui costi della trasformazione della città, e di traferirne l‘incremento dal privato al pubblico, per reinvestirlo nel miglioramento delle funzioni urbane.
In Italia, agli inizi degli anni 70 la necessità di contenere i grandi plusvalori della rendita immobiliare era così largamente condivisa che la stessa Confindustria dichiarava di sostenere una riforma urbanistica che, contenendo la rendita, avrebbe garantito buoni profitti senza colpire i salari. Ma le cose cambiarono rapidamente. Gli stessi gruppi industriali che avevano criticato la rendita trovarono comodo appropriarsene, intrecciare sempre più profondamente rendita e profitto, e anzi spostare la loro attenzione dalle attività industriali a quelle immobiliari
Il percorso iniziò negli anni delle grandi trasformazioni del sistema produttivo (dalla manifattura al terziario), per svilupparsi fino ai nostri anni. Esso è stato recentemente analizzato con grande acume da Walter Tocci. «La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».
Il trionfo della rendita
Negli anni successivi la finanziarizzazione dell’economia aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio. L’appropriazione privata di rendite (finanziarie e immobiliari) divenne la componente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del capitale intrecciandosi strettamente al profitto.
All’inizio degli anni 90 l’esplodere della bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si aprì la fase che Tocci definisce della “rendita pura”: la fase in cui si celebra il trionfo della rendita immobiliare, diventata (insieme a quella finanziaria) il fine dell’intero sistema economico.
Gli amministratori e la rendita
L’appiattimento della politica sull’economia ha consentito ai gestori del capitale di ottenere dagli amministratori il consistente aiuto derivante dalla loro possibilità di promuovere o consentire, con l’insieme delle politiche urbane, la sistematica espansione delle parti del territorio il cui valore di scambio passava dalle utilizzazioni legate alle caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edilizia. Attraverso le politiche urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’economia spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare. Decisivo, a questo fine, è stato l’aiuto fornito alla speculazione fondiaria dalle politiche nazionali, che hanno ridotto via via le risorse trasferite ai comuni lasciando loro la possibilità di stornare i cespiti degli oneri di concessione dalla realizzazione delle attrezzature pubbliche alle spese correnti.
Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno introdotto significativi cambiamenti nelle loro politiche. Aiutate, e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno proceduto allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti .
Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.
Alto è il prezzo
Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano, afferma Tocci.
Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio. Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una macchina - costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività - usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.
Rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso. E perché troppo stesso gli urbanisti , avallati dai loro istituti, abbiano trasformato il loro ruolo da quello di servitori dell’interesse collettivo a facilitatori dei progetti immobiliari.
Abbandono della pianificazione della città e del territorio, e trionfo della rendita come motore dello sviluppo: non sono forse queste due novità anche le cause dei disastri recenti?
Lo spazio pubblico
Un altro aspetto emblematico – il terzo - di quella che definisco “la città della rendita” è la progressiva riduzione e mistificazione dello spazio pubblico.
Gli spazi pubblici siano l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi dell’attuale crisi della città è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.
Sono rischi che non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia):
la recinzione mentre la piazza è aperta,
la sicurezza mentre la piazza è avventura,
l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità,
la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini,
la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.
E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza della previsione e progettazione di spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città
I diritti nella città del neoliberismo
In sintesi possiamo dire che l’elemento che caratterizza la condizione urbana nella città del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.
Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un’edificio abbandonato.
Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimento in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo (componenti della “infrastruttura globali”) e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.
E le stesse opere d’interesse generale e sovra-locale (le ferrovie e i porti, gli ospedali e le dighe, e tutte le attrezzature a grande scala) non vengono definite, collocate, progettate, gestite finalizzandole agli interessi collettivi che devono soddisfare, non sono inquadrate perciò in una visione sistemica del territorio, non risoettano quindi della priorità della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale de territorio, ma tengono cnto di un solo requisito: la quantità di danaro che possono far circolare, gli affari che possono consentire, gli arricchimenti che possono produrre nei patrimoni dei soggetti che le promuovono o le realizzano.
DOMANI
«Del doman non v’è certezza»
Il trend non ci aiuta certo. Se le cose proseguono così come stanno andando, la città diventerebbe quella che gli studiosi e romanzieri come Saskia Sassen, Mike Davis e James G. Ballard ci raccontano. Da un lato l’infrastruttura globale, il luogo universale della residenza, delle attività, dei piaceri e delle connessioni tra quelli che comandano – la porzione più ristretta e più ricca dell’umanità e i suoi servi più diretti. All’estremo opposto, il pianeta degli slum. L’insieme in continua espansione delle residenze delle persone prive di diritti, di ricchezza, di dotazioni, in preda alla precarietà. In mezzo, il vasto mondo dei ceti in transizione, illusi da una penetrante pubblicità di poter aspirare a raggiungere livelli di vita più alti, e rigettati via via verso il mondo degli umili e dei precari.
La crisi aperta da qualche anno – che moltissimi ormai leggono come una crisi del sistema, e non una crisi nel sistema – potrebbe essere utilizzata per uscire dal trend, dal progressivo disfacimento di tutte le condizioni positive del passato. Ma sembra che le forze che tuttora governano il mondo non siano su questa strada. Sembra che l’uscita dalla crisi sia perseguita nel ripristino dei meccanismi stessi che l’hanno provocata. Sembra che l’ideologia della crescita indefinita sia ancra quella dominante, in un arco vastissimo di forze.
Non lo testimonia anche il fatto che vi sia una convergenza pressochè assoluta delle forze politiche di destra, di centro e di sinistra nel credere che la realizzazione di nuove infrastrutture, di nuovi pezzi di città, di nuove sottrazioni del territorio agli usi di un’agricoltura “naturale”, che la formazione di nuove rendite immobiliari sia un bene, perché aumenta il “prodotto interno lordo”?
Dobbiamo dirci fortunati se, con Lorenzo de’ Madici, possiamo dire “del doman non v’è certezza”. E per trovare segni di speranza dobbiamo cercare nelle incertezze, negli interstizi. Non possiamo sperare di trovarla nei partiti politici, non possiamo sperare di trovarla nelle istituzioni, se gli uni e le altre non cambiano profondamente. Possiamo trovarli se guardiamo nella società: o meglio, in alcuni movimenti che oggi l’agitano
Un filo di speranza
La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata a un filo molto tenue che tuttavia esiste. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.
Mi riferisco al variegato complesso dei movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, limitati dal volontarismo che li caratterizza, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti.
- Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità.
- La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche.
- Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti
- Le difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro.
- La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale.
- La mercificazione (con le tre tappe della privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione) di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.
- I diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.
Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione raccontata da don Lorenzo Milani; l’’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana che disse di aver aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica».
É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione: l’habitat dell’uomo.
La terra si ribella
Il dramma di oggi sta nel fatto che l’intervento necessario per ribaltare la logica del trend attuale è anche estremamente urgente. Segnali sempre più forti e continui di arrivano dalla stessa terra su cui poggiamo i piedi. La terra, la superficie, la crosta del nostro pianeta si ribella. L’abbiamo maltrattata, le cassandre hanno oreisto il futuro e non sono state ascoltate.
Da quanti decenni chi sa leggere con occhi limpidi ha ammonito che le nostre case, città, strade, fabbriche sorgevano su terreni fragili – oltre che ricchi di bellezza naturale e culturale? Non voglio ricordare Giustino Fortunato, che all’inizio del secolo scorso denunciava lo “sfasciume pendulo su mare” che caratterizzava ampie zone del Mezzogiorno (ma anche in Liguria ne sapete qualcosa), né gli intellettuali (da Piero Calamandrei a Manlio Rossi Doria) che ne ripresero il messaggio negli anni della nascente Repubblica. Ma voglio ricordare Antonio Cederna, leggendovi un brano che pubblicò nel 1973, quasi 40 anni fa:
«Un’Italia che frana e si sbriciola non appena piove per due giorni di fila, ecco l’immagine che subito ci propone il 1973, quasi a imporre alla nostra attenzione il problema di fondo e il più trascurato della politica italiana: la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica.
«I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato: e tutti dovremmo aver capito che ben poco essi hanno di “naturale” poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti».
Che cosa hanno imparato i nostri governanti? E noi stessi, i nostri istituti di cultura, le nostre università. Ancora oggi, nonostante le lagrime di coccodrillo a ogni alluvione, frana, inondazione, smottamento, tutto prosegue come prima. Case a go-go anche quando il mercato è sovrassaturo, strade e autostrade, gallerie e trafori, grattacieli e grandi opere, ponti sullo stretto e inutili treni ad alta velocità per far concorrenza agli aerei, strade camionali per evitare di usare il mare.
I più saggi – come il nostro Presidente della Repubblica – ammoniscono che, per evitare i disastri quali quelli che si sono recentemente abbattutti sulla Toscana, la Liguria, la Sicilia, affermano che occorre investire di più nella prevenzione. Ma pochi, pochissimi, riconoscono che la prima e più completa prevenzione è quella di una pianificazione urbanistica e territoriale corretta e rigorosa, condivisa e autorevole, e nel preliminare riviuto a riconoscere nello sviluppo della rendita immobilare il deus ex machina delle decisini sull’uuso del territorio.
Non siamo soli
Per fortuna ciò che si muove nella nostra società per difendere le condizioni della nostra vita di cittadini non è limitato nei nostri confini. Sui temi della critica alla condizione urbana e alla degradazione del territorio, sui temi della rivendicazione di rinnovati diritti i gruppi sociali che si muovono in Italia non sono isolati.
In moltissime parti del mondo essi sono nati, si sviluppano, trovano momenti di vicinanza e di identità ideale, e spesso anche pratica, movimenti analoghi mossi da analoghe motivi di sofferenza, di protesta, di rivendicazione: soprattutto sui temi della casa e degli sfratti, della segregazione e dell’esclusione dai beni essenziali, della volontà di partecipare alle politiche urbane. Insomma, sui temi che nutrivano l’antica proposta di Lucien Lefebvre sul “diritto alla città”.
Un nuovo “diritto alla città”
É ormai ricca la letteratura che riprende questa espressione, e sono numerosi i tentativi di mettere in rete le mille esperienze che in tutto il mondo si stanno sviluppando. Alcune sono raccolte in un libro in corso di pubblicazione a Bruxelles, a cura di Ilaria Boniburini e altri studiosi. La luce che si vede, attraverso i rottami della crisi, è che sta emergendo la rivendicazione di un nuovo diritto alla citta, che comprende quelli delle rivendicazioni del secolo scorso, le integra e arricchisce con nuove rivendicazioni.
La nuova idea di città che sta emergendo è esprimibile in un’espressione semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti, di questo rinnovato “diritto”? C’è un concetto al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città, e anzi l’intero habitat dell’uomo, sia considerato un bene comune.
Non credo che sia necessario precisare ulteriormente che cosa intendo per città. Qualche rapida notazione sugli altri due termini, bene e comune.
Bene
Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.
Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quanto posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Che fare?
Si può reagire al mainstream e navigare controcorrente a condizione che si assumano quattro obiettivi, che sono anche quattro impegni.
Bisogna far crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali.
Un esempio vistoso è il termine “vincolo”: si intende per tale qualunque destinazione del suolo che non consenta l’edificabilità di tipo urbano: è un vincolo la destinazione a una utilizzazione agricola, o all’impianto o la conservazione di una foresta, alla ricerca in un’area archeologica, nella costituzione di un’area di libera visione di un monumento o al godimento di un paesaggio. “Vincolo” è tutto ciò che contrasta con l’uso mercantile, venale del suolo.
Secondo obiettivo: bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.
Bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più si allargherà il campo di quanti occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.
Ma in primo luogo occorre resistere. La difesa dello spazio pubblico deve essere al centro dell’ attenzione. Mi riferisco allo spazio pubblico in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi, e senza trascurare gli spazi aperti della natura, sempre più malamente antropizzata, degradata e dissestata; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme, il diritto alla democrazia, alla partecipazione alle scelte, all’esercizio della politica così come la intendeva Don Milani. E quando parlo di spazio punbblico non mi riferisco solo alle competenze, alle decisioni e alle responsabilità delle istituzioni democratiche, ma all’insieme delle persone che formano la società: quello che tu, io e l’altro occupiamo insieme, per discutere e decidere insieme del comune destino.
Mi sembra che la resistenza offra un ampio campo d’azione agli urbanisti, e a chiunque si occupi di città e territorio con competenze specialistiche. Ne suggerisco alcune alla discussione. La difesa della legalità, delle regole che sono state ottenute in stagioni migliori e che stabiliscono la priorità degli interesse generali su quelli particolari, la difesa del territorio e dei suoi abitanti, la trasparenza delle procedure, la partecipazione e i confronto. L’educazione degli amministratori: occore spiegare loro qual è l’esito delle scelte che propongono anche quando sono sbagliate, le possibili alternative, le conseguenze dei loro atti, e bisogna ottenere da loro la traspareza del processo delle decisioni. L’aiuto ai cittadini, perché sempre più comprendano e possano intervenire, senza farsi illudere della demagogia dei camuffatori di ciò che c’è dietro le decisioni.
E soprattutto credo che agli urbanisti – ma a chiunque interessi un uso corretto della crosta del nostro pianeta - competa la difesa della pianificazione, come metodo che può riuscire a portare a sintesi critica i diversi aspetti, interessi, esigenze delle trasformazioni del territorio, dando la priorità a quelli che esprimono l’interesse comune di tutte le cittadine e cittadini a partire da quelli che necessitano di maggior tutela: i più deboli e potenzialmente esclusi, e i nostri posteri.
L’audio e le immagini della conferenza sono raggiungibili qui
Il convegno “Prato della Valle. Dal restauro del monumento alla rivalutazione dell’area”, , è stato organizzzato dale associazioni Amissi del Piovego, Comitato Memmo, Italia Nostra, Lega Ambiente di Padova, e si è svolto all’Accademia galileiana il 27 novembre 2010. Qui il link al dossier presentato da Sergio Lironi, Legambiente di Padova
Quattro passi per Pra’ della Valle
“Dal restauro del monumento alla rivalutazione dell’area”: questo è il tema del nostro incontro, e l’obiettivo al quale miriamo. Un obiettivo che ci sembra del tutto ragionevole. Esso può essere articolato in quattro proposizioni.
1. Vogliamo che la città riconosca il gioiello che ne caratterizza l’identità, il Prato della Valle, assumendolo come il suo bene più prezioso.
2. Vogliamo che la città – i suoi cittadini – prenda atto del degrado che caratterizza oggi questo bene.
3. Vogliamo che, sulla base di questo riconoscimento e di questa presa d’atto, la città, i cittadini, i loro attuali governanti assumano quale loro impegno prioritario il restauro di quel bene.
4. Vogliamo, infine, che questi tre primi passi – il riconoscimento, la presa d’atto, il restauro – siano considerati e costruiti come l’avvio di una rivalutazione dell’intera area centrale della città, e del territorio di cui essa è parte.
Gli interventi che seguiranno il mio argomenteranno, con rigore e con passione, le quattro proposizioni che ho formulato. Essi riveleranno anche quale sia l’ingombrante ostacolo che si frappone al raggiungimento del nostro obiettivo: la presenta di un devastante progetto di “valorizzazione” dell’area gravitante su Pra’ della Valle: un progetto che ha il suo nocciolo duro sulla realizzazione di un parcheggio interrato nell’area del Foro Boario, da realizzare con la formula del project financing. Una formula che – soprattutto nella sua declinazione italiana – mette nelle mani degli interessi privati le decisioni e i vantaggi del destino della città.
Due vizi dei governanti
Come si afferma nel dossier elaborato da Sergio Lironi e Lorenzo Cabrelle quel progetto rivela due gravi vizi che, nei trent’anni che sono alle nostre spalle, caratterizzano il modo in cui il decisore pubblico interviene sulla città. Chi ci governa (non solo a Padova, in quasi tutte le città italiane) è mosso da due preoccupazioni che annebbiano ogni altra esigenza, ragionamento, ricerca:
- dimostrare di essere iscritti a quel “partito del fare”, che ha oggi nel Presidente del consiglio dei ministri il suo più autorevole esponente;
- “lasciare il segno”, conferire visibilità al proprio operato mediante la realizzazione di opere “innovative” – chissà perchè sempre cementizie.
Per chi è delegato dagli elettori a governare, il fare è certamente importante. Ma ancora più importate è che, prima del fare, ci sia stato il pensare, il riflettere, il ragionare. Ancora più importante è che – quando il fare comporta trasformazioni irreversibili dell’assetto e l’oganizzazione della città, qundo il gfare qualcosa di nuovo comporta la cancellazione di qualcosa che c’era – si sappia dimostrare che ciò che si fa di nuovo è meglio di ciò che c’era prima.
Questa dimostrazione, questa testimonianza di aver pensato, non c’è: non è stata riconosciuta da quanti hanno studiato, con serietà e rigore, le proposte avanzate. La realizzazione del progetto a Piazza Isak Rabin è fortemente peggiorativo non solo dell’area di Pra’ della Valle, ma dell’intero assetto attuale e futuro della città.
Il segno che gli amministratori lasceranno – ad esaminare con attenzione gli atti della proposta – è costituito da molti elementi negativi:
- la rinuncia a ripristinare un corretto rapporto tra la terra e l’acqua nell’area centrale di Padova,
- l’aggravemento della situazione di degrado dell’Isola Memmia,
’ulteriore peggioramento della situazione del traffico (e quindi del’inquinamento e dello spreco energetico) con l’incentivo alla motorizzazione privata: il cancro che corrode la città,
- la subordinazione degli interventi, anche futuri, di organizzazione della mobilità agli interessi economici degli investitori privati.
Che cosa c’è dietro
Tornerò poi, seppur brevemente, sulle questioni relative all’area del Pra’ della Valle. Ma vorrei prima inquadrare la questione in un contesto più generale. Anche perchè non credo affatto che Padova abbia oggi amministratori particolarmente perversi o incapaci. Credo che gli atteggiamenti e i comportamenti, i progetti e le azioni siano sempre il portato di un modo di pensare la città, e quindi di agire su di essa. Sono convinto insomma che le azioni nascano sempre da un pensiero, da un modo di vedere e affrontare le questioni che è tale da indurre chi agisce a vedere certe cose e ignorarne altre, a considerare prioritarie certe esigenze e a sacrificarne altre.
Oggi prevale un modo nuovo – rispetto a qualche decina d’anni fa – di pensare la città, e quindi di agire su di essa.
Oggi la città non è pensata come la “casa della societa”: come un luogo nel quale una parte dell’umanità abita, lavora, incontra, ama, gioisce, si nutre e si riposa, si cura e si diverte. Ciascuno con le sue esigenze e I suoi mezzi, ciascuno titolare di diritti magari non da tutti ugualmente esercitabili, ma tutti ugualmente meritevoli di considerazione.
Oggi la città è pensata come uno strumento economico, finalizzato ad acrescere una ricchezza che non è di tutti, e che è costituita da uno solo degli elementi di cui è costituita la riccheza di una nazione – o di un popolo, o di una società: la ricchezza misurata in termini economici.
La città è considerate, dal pensiero comune, come uno strumento da impiegare per accrescere il Prodotto interno lordo: quell PIL – vero feticcio della religione corrente – che, come diceva Robert Kennedy,
«mette in conto l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze necessarie per ripulire le nostre strade dalle carneficine. Mette in conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le infrangono. Mette in conto la distruzione dei boschi sempreverdi e la perdita delle nostre meraviglie naturali nel caotico sprawl. Mette in conto il napalm e le testate nucleari e i carri armati che la polizia usa per combattere le rivolte nelle nostre città. Mette in conto i fucili Whitman’s e i coltelli Speck’s, e i programmi della televisione che glorificano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini».
Quel Prodotto Interno Lordo, prosegue l’invettiva di Robert Kennedy, che
« non mette in conto la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione o la gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità delle nostre famiglie, l’intelligenza dei nostri dibattiti e l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né la nostra intelligenza né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né il nostro sapere, né la nostra compassione né la nostra dedizione al nostro paese. In sintesi, misura tutto, fuorché quello rende la vita degna d’essere vissuta».
La rendita: “componente parassitaria del reddito”
Ora si dà il caso che la ricchezza economica della città (cioè la somma del denaro che percepiscono i suoi operatori economici) oggi è in gran parte costituita dalle rendite, e in particolare dalla rendita immobiliare, cui si aggiungono dalla rendite costituite dalla gestione monopolistica dei servizi urbani (come i parcheggi, o come la gestione dei servizi ospedalieri realizzati con il project financing).
Non dimentichiamo che la rendita è quella che gli economisti liberali defnivano “la componente parassitaria del reddito”:non è il compenso di un’attività svolta, ma solo la remunerazione del privilegio proprietario.
Non dimentichiamo che la rendita è prodotta dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ed è percepita dai proprietari immobiliari.
In Italia la rendite urbane crescono in misura incredibile. Ciò ha provocato il degrado delle città e la loro crescente invivibilità. Ha indotto i grandi gruppi industriali (la Fiat, la Pirelli, la Benetton, per non citare che le più grosse) a investire nel mattone e nei monopoli pubblici anziché nell’innovazione e nella ricerca, nel miglioramento della competitività dell’industria manifatturiera.
Trent’anni fa la rendita immobiliare era un avversario che non solo gli urbanisti, ma anche gli amministratori e i politici di un arco di forza vasto si sforzavano di combattere, di contenere. Oggi è consideratail motore dello sviluppo. Di quello sviluppo della ricchezza cartacea, della ricchezza volatile, che ha portato il mondo a una crisi dalla quale non si vede uscita.
Il saccheggio e la sua strategia
Ciò che accade alle città è sua volta parte di un contesto più ampio. Un contesto caratterizzato da un obiettivo sistematicamente perseguito da chi ha oggi il maggior potere: il sistema economico del capitalismo globalizzato.
L’obiettivo è far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.
Per raggiungere quest’obiettivo le componenti della strategia sono chiare.
Bisogna inculcare l’idea che unica scienza valida è l’Economia: quella economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, e nella crescita del PIL l’unico termometro capace di misurare il valore delle cose.
Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico, e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte.
Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.
I beni che si vogliono ridurre a merci, i “comuni” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza:
- Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia.
- Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose.
- I servizi pubblici, come l’università e la sanità, ridotte ad “aziende” i cui frequentatori diventano “clienti”, e non più studenti o pazienti
- Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia.
- I beni culturali: non a caso si sceglie un esperto della vendita delle polpette come massimo dirigente del ministero della cultura.
- Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Che fare?
E’ possible reagire a questa strategia, e alle trasformazioni che essa induce nel territorio e nella città, nei nostri pensieri e nelle nostre vite? Io credo di si, e questa stessa iniziativa ne dà testimonianza.
E’ lo stesso disagio provocato dal saccheggio che provoca resistenze e reazioni. In mille parti d’Italia si sviluppano iniziative e nascono comitati, movimenti, gruppi di volontariato e gruppi di cittadinanza attiva, o si rafforzano asociazioni che operano da tempo a livello nazionale o locale: come quelle che hanno promosso e organizato questa iniziativa. Dovunque essi cercano l’incontro tra cittadini ed esperti, perchè non vogliono limitarsi a contrastare, vogliono comprendere perchè quell’iniziativa, quel progetto sono nati, e vogliono contrastarli anche proponendo alternative giuste.
Si dice spesso che le iniziative che nascono dal basso si limitano a pronunciare dei NO, e con questo si tenta di screditarli dinnanzi all’opinione pubblica (che in genere viene tenuta all’oscuro delle ragioni delle proteste). Ora è chiaro che per chi non ha il potere di fare (chi non ha uffici, competenze formali , informazioni, finanziamenti) difficilmente riesce a proporre alternative convincenti. Chi è piccolo e fuori dale istituzioni riesce difficilnemente a contrapporre la sua proposta a quell ache nasce dall’istiituzione e dal potere economico. Eppure, a volte ci riesce, come testimonia questa bellissima iniziativa alla quale mi avete invitato a partecipare.
Qui avete la forza di una proposta. Una proposta progettuale – un’idea di città e una proposta per l’area e il suo disegno – e un’idea culturale e politica – quali interessi privilegiare, quail priorità stabilire.
E mi sembra particolarmente interessante che il cuore della proposta sia il recupero della memoria: il restauro del Pra’ della Valle, la riapertura dell’Alicorno, il ricongiungimento dell’Isola Memmia al Parco dei bastioni e delle acque. Credo che la ricognizione attenta dei lasciti della storia, il loro recupero, la loro messa in valore (che non significa “valorizzazione” nel senso in cui questo termine viene usato nella logica economicista, sviluppista e immobiliarista), in vista della loro fruizione aperta a tutti, è il primo passo di ogni virtuosa politica del territorio e della città.
Solo comprendendo il passato possiamo valutare criticamente il presente e costruire un futuro migliore.
DI CHE PARLIAMO
La corruzione non è una novità
La proprietà immobiliare ha sempre condizionato, in misura maggiore o minore, le decisioni pubbliche della pianificazione urbanistica. Di più o di meno, a seconda di due variabili: l’incidenza della proprietà immobiliare nel sistema complessivo degli interessi, la maggiore o minore distanza della pubblica amministrazione dagli interessi immobiliari. In sintesi, dal peso della proprietà immobiliare nell’economia e nella politica.
Il ruolo della pianificazione urbanistica moderna (dal XIX al XX secolo) è sempre stato quello di “regolare” gli interessi immobiliari, perché in gran parte attraverso di essi che nelle economie liberali si costruisce e si trasforma materialmente la città. La pianificazione urbanistica è stata storicamente proprio il sistema di regole mediante il quale le operazioni di trasformazione immobiliare, ciascuna delle quali promossa da un singolo operatore, davano luogo a un progetto complessivo di città. Un progetto del quale facevano parte non solo gli elementi, per così dire, d’interesse immediato dei proprietari immobiliari, ma anche quelli che interessavano gli abitanti della città, i cittadini in quanto tali e i suoi fruitori e visitatori, nonché il complesso delle attività che nella città si svolgono. Un progetto che doveva raggiungere i tre requisiti della funzionalità, del benessere e della bellezza. Un progetto che non poteva traguardare solo al breve termine (quello percepito come rilevante dall’operatore economico), ma doveva riferirsi al lungo termine, peculiare alla dimensione temporale della città (che quindi era percepito come rilevante dal Buon governo).
Naturalmente, poiché il potere politico-amministrativo era determinante nell’assegnare peso economico alle proprietà immobiliari, la contrattazione delle decisioni sul territorio, e la stessa corruzione, non sono mai mancate tra gli ingredienti del sistema delle decisioni. La proprietà immobiliare ha insomma sempre esercitato una pressione più o meno forte sugli amministratori, ma sempre nell’ambito di un dispositivo complessivo nel quale era chiaro che il ruolo del progettista e decisore delle regole della città era il governo pubblico.
Ma l’urbanistica contrattata è un’altra cosa
A un certo punto della nostra storia recente questo è cambiato. La pianificazione espressiva d’una autorità pubblica, quindi rivolta a regolare a priori (secondo un piano, un disegno, un sistema di regole) l’attività degli operatori privati, è stata definita “urbanistica regolativa” e ad essa si è opposta la “urbanistica concertata”, o – più esplicitamente – “urbanistica contrattata”. Il nostro convegno si riferisce a Vent’anni di urbanistica contrattata. In realtà allungherei di un decennio il periodo, poichè è proprio all’inizio degli anni 80 del secolo scorso che collocherei quel tornante.
Prima di ragionare sugli eventi che hanno concorso a quella svolta, e sulle sue conseguenze, credo che sia utile di precisare che cosa intendo per “urbanistica contrattata".
In termini molto sintetici significa sostituire, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica e finalizzate alla realizzazione di un assetto della città e del territorio ordinato a un insieme di obiettivi d’interesse generale, la contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere, e in particolare di quelli che hanno un interesse economico diretto nelle utilizzazioni che saranno consentite alla sua proprietà.
Essa perciò si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, o addirittura sulla base delle proposte di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma chi ha iniziativa è la proprietà, e non il Comune.
UN PO’ DI STORIA
Il contesto della svolta
Il passaggio dall’urbanistica tradizionale all’urbanistica contrattata, avviene come dicevo, nel corso degli anni 80. Si è appena concluso un ventennio sul quale la riflessione degli storici ha gettato molta luce. A una fase nella quale si erano raggiunte grandi conquiste sul terreno dell’organizzazione della città e della società (rilancio della pianificazione urbanistica, politica della casa, standard urbanistici, e insieme istituzione del servizio sanitario nazionale, scuola per tutti, istituzioni per l’infanzia, diritti del lavoro, diritti della donna, …), aveva fatto seguito una fase in cui la pressione delle forze che alle riforme di opponevano avevano incrinato, smantellato, depotenziato i risultati raggiunti.
Nel mondo dominano ormai i tre slogan del neoliberismo: liberalizzazione, deregolazione, privatizzazione. Margaret Tatcher e Ronald Reagan sono i leader incontrastati degli orientamenti che prevalgono nel contesto della globalizzazione. Le politiche keynesiane sono sostituite dall’ideologia e dalla prassi del neoliberalismo.
In altri paesi il neoliberismo trova – almeno nel campo del governo del territorio - gli argini di una forte autorevolezza della pubblica amministrazione e di una consolidata prassi di buona pianificazione urbanistica; in Italia, nonostante le eccezioni, mancano entrambi questi requisiti. Nel Belpaese la spinta al cambiamento (lo chiamano “modernizzazione”) ha la sua forza trainante nel nuovo PSI di Bettino Craxi. Slogan quali “privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via i lacci e lacciuoli” risuonano al centro, a destra e a sinistra: diventano via via pensiero corrente. E alla fine degli anni 70 diviene ministro dei lavori pubblici Franco Nicolazzi, promotore dei primi provvedimenti di liberalizzazzione, deregolamentazione, condono dell’abusivismo.
Intanto i gruppi industriali del “capitalismo avanzato”, che negli anni precedenti avevano dichiarato di essere favorevoli a riforme urbanistiche che riducessero il peso della rendita fondiaria, avevano rapidamente cambiato di spalla al fucile: riducendo l’impegno e l’investimento nelle attività industriali, avevano accresciuto il peso delle attività immobiliari. Ciò era stato favorito dalle trasformazioni strutturali dell’economia italiana. L’accresciuto peso del terziario sulla produzione manifatturiera aveva provocato l’obsolescenza dei grandi complessi industriali, spesso collocati al centro delle città. Ai proprietari e ai gestori dei gruppi industriali che pochi anni prima si erano schierati con l’Espresso nella campagna contro il sacco di Roma e avevano plaudito a una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita fondiaria, parve molto più conveniente speculare sulla rendita immobiliare consentita da un’utilizzazione contrattata dei loro grandi complessi dismessi.
Il ruolo della cultura
Poiché ragioniamo nell’ambito di un’associazione culturale, credo che sia utile domandarsi quale ruolo abbia svolto la cultura in questa svolta. Benché i recinti delle discipline mi siano antipatici, parlerò del campo nel quale opero: l’urbanistica.
Nel cammino verso un’urbanistica contrattata, alle ragioni provocate dalle nuove convenienze per i “padroni del vapore” determinate dalle trasformazioni strutturali e al prevalere di una nuova ideologia a livello mondiale, ha fatto puntuale riscontro una mutazione nella cultura urbanistica. Invero molte novità avrebbero richiesto di aggiornare i metodi e gli strumenti della pianificazione: mi riferisco, oltre alle trasformazioni strutturali cui ho accennato, alla forte riduzione delle necessità d’espansione delle città e, per contro, alla necessità di intervenire nel recupero dell’esistente, all’insorgere e l’affermarsi della questione ambientale e al rafforzarsi della volontà di tutelare il paesaggio e la cultura del territorio.
E tuttavia, mentre alcuni lavoravano per affrontare le questioni nuove nell’ambito dei principi della pianificazione pubblica, altri vedevano nella forza economica delle trasformazioni immobiliari la molla da liberare al massimo grado dai lacci e lacciuoli della regolazione, o almeno da assecondare nei suoi moventi e nelle sue convenienze.
La critica all’efficacia della pianificazione
Il grimaldello attraverso il quale far passare un sistema di principi radicalmente opposto a quello della pianificazione tradizionale fu la critica all’efficacia della pianificazione tradizionale. Questa era giudicata inefficace per il lungo tempo dedicato alla formazione del piano, per le difficoltà della successiva attuazione, per la mancanza di controllo sulla forma della città. Mentre qualcuno proponeva di innovare il modo in cui modificare il sistema della pianificazione restando fedeli ai principi che la sorreggevano (primato del pubblico, carattere sistemico delle regole, coerenza della visione, trasparenza delle procedure), altri proponevano modifiche sostanziali.
Una polemica si aprì, in particolare, tra chi difendeva il piano e chi proponeva di sostituire ad esso il progetto: alla definizione di un sistema complessivo di regole, si voleva preferire interventi limitati a un’area di dimensioni discrete, nella quale il progettista poteva definire l’aspetto finale. Naturalmente, limitare l’intervento urbanistico all’architettura di una singola parte della città senza preoccuparsi della coerenza complessiva dell’organismo urbano rendeva più snelle le operazioni. Consentiva tra l’altro di avere a che fare con interlocutori noti (proprietari e imprenditori), con cui si potevano concordare gli interventi.
A mio parere il modo in cui le critiche alla pianificazione venivano formulate, le strade che si proponevano per superarle, la scarsa chiarezza sui principi, la disattenzione al contesto politico erano molto pericolosi. In un editoriale della rivista dell’INU sostenevo che le iniziative deregolatrici pesantemente avviate dal ministro Nicolazzi trovavano «complicità oggettive anche nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica». Denunciavo l’esistenza di «assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica». Osservavo che, all’interno stesso degli urbanisti, si consideravano quasi con compatimento e distacco e si sorrideva «degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell'lnu anni 50, dei metodi "ingegneristici" di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico».
Il cedimento del PCI
All’interno stesso della sinistra politica era avvenuta una mutazione dello stesso segno. L’ideologia craxiana aveva portato il PSI su posizioni molto distanti da quelle della sinistra lombardiana, e aveva trovato aveva trovato echi significativi nel PCI: da un lato, nelle posizioni di chi sosteneva che la pianificazione delle amministrazioni pubbliche era inefficace e che occorreva sostituirla con una gestione intelligente, flessibile e – naturalmente – concordata con le forze del mercato[1]; dall’altro lato, in quelle di chi difendeva l’abusivismo, soprattutto nelle regioni meridionali, addebitandolo alla rigidezza della pianificazione che conculcava il sano desiderio di possedere un’abitazione[2].
Lo scontro tra gli urbanisti rappresentati dall’INU raggiunse livelli acuti, sia dentro che fuori il Pci. Il responsabile del settore nel PCI, Lucio Libertini, scrive che “si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme perverse di oppressione burocratica”[3]. In una lettera al segretario generale del Pci (Alessandro Natta), e ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche. Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il PCI voleva superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari.
La polemica divampò. Ricordo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna, Giovanni Russo, Cesare De Seta, Fabrizio Giovenale, Vezio De Lucia, Pierluigi Cervellati, Carlo Melograni. A quell’epoca la cultura reagiva tempestivamente alle cattive proposte sul governo del territorio, anche quando provenivano da molto vicino[4].
Il caso Fiat-Fondiaria
Il caso fiorentino dell’area FIAT-Fondiaria, fece balzare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’urbanistica contrattata nel 1988, a causa della telefonata di Achille Occhetto, allora segretario del PCI, che aveva impedito l’approvazione, da parte della federazione di quel partito, allora al governo di Firenze, di procedere nell’approvazione di una variante urbanistica relativa a quell’area. L’operazione era partita diversi anni prima, tra il 1980 e il 1983, con la proposta di un intelligente intellettuale italo-argentino, Thomas Maldonado, elaborata d’intesa con la società assicuratrice Fondiaria e i locali dirigenti del PCI. Riguardava l’urbanizzazione dell’area tra Firenze e Sesto Fiorentino, con la localizzazione di oltre 3 milioni di metricubi di costruzioni. Nel 1984 l'Agip, la FIAT e la Fondiaria, proprietarie di aree e impianti in quell’ambito, manifestano al comune l'intenzione di avviare operazioni immobiliari. Nel 1985 la giunta centrista avvia una variante del piano regolatore per il settore nord-ovest. Si prevede tra Novoli e Castello un sistema di aree terziario-direzionali. Quattro milioni di metri cubi 3.000 miliardi di investimenti.
Iniziano subito le proteste contro l’intervento. Un primo appello è firmato a Firenze da 90 intellettuali (tra cui Pietro Annigoni, Eugenio Garin e Alessandro Parronchi). L’elaborazione della variante procede, mentre parallelamente iniziano i lavori per il nuovo Prg. Ma le proteste aumentano. Italia Nostra è al centro della protesta, che coinvolge moltissime associazioni, comitati, gruppi. Le ragioni dell’opposizione sono ben sintetizzate da Antonio Cederna: «Saldatura a macchia d’olio della squallida periferia occidentale ed eliminazione dell’ultima area libera;disastrose conseguenza sul centro storico; premessa per la creazione di un ininterrotto agglomerato tra Firenze e Prato»[5].
Giovanni Losavio organizza la pubblicazione di un fascicolo speciale del bollettino di Italia Nostra (n. 255/1998), in cui s’impegna particolarmente Antonio Iannello. Manlio Marchetta, da Firenze, cura un numero speciale della rivista Edilizia popolare (n. 204/1988). Si riesce a coinvolgere la segreteria del PCI. Nella sede fiorentina del PCI è intanto in corso un animato dibattito, che la telefonata di Achille Occhetto interrompe. Il PCI ritira il suo appoggio alla variante.
A distanza di tanti anni l’intuizione appare felice. L’intervento dal centro era essenziale, poiché l’operazione FIAT-Fondiaria aveva un significato nazionale. Avallare quel contratto tra proprietà immobiliare e amministrazione avrebbe significato avallare una prassi che sarebbe stata seguita in tutto il paese. L’intervento da Roma era necessario, ma come oggi sappiamo non bastò.
Lacerazioni nell’INU
Il caso FIAT-Fondiaria fu il primo sul quale discutemmo a lungo nell’INU, ma non il solo. Nel 1990 ci apprestavamo a svolgere il XIX congresso dell’istituto. Avevamo deciso di organizzarlo “a tesi”, per agevolare l’emergere delle diverse posizioni che si erano manifestate tra gli urbanisti italiani. C’era molta esitazione a esprimere posizioni nette su alcuni avvenimenti secondo me cruciali: tra questi, proprio sulla questione del rapporto tra pubblico e privato nel governo del territorio. Operazioni di urbanistica contrattata erano progettate anche in altre città.
A Napoli, dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del "Regno del possibile" proponevano al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupero di quasi 70mila alloggi nel centro storico. A Roma, dove l'Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si proponeva come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasformazione della città. Infine a Milano, dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree era divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale. Con una rapidissima sequenza di varianti puntuali si erano infatti autorizzati, oltre 12 milioni di nuove strutture edilizie per il terziario.
La tesi che proponevamo partiva dall’affermazione che il principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana su cui tutti, in teoria, si dichiarano d'accordo «è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, ad opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico». Affermavamo che si contraddice quel principio «quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull'organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell'ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianificazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri». E proseguivamo citando e illustrando i casi che ho appena enunciato
Il consiglio direttivo dell’INU respinse la nostra tesi. Sull’argomento occorreva studiare, approfondire, riflettere: non ci si poteva ancora esprimere. Altri, per fortuna, studiavano, approfondivano, riflettevano: la magistratura. Se la cultura esitava, la giustizia agiva. Esplose lo scandalo di Tangentopoli e si conobbero gli esiti dell’indagine Mani pulite.
Mani Pulite
Fu con l’indagine della Procura della Repubblica di Milano (dal pool composto dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, dal suo vice Gerardo D'Ambrosio e da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Ilda Boccassini) che si comprese ciò che la contrattazione delle decisioni sull’uso del territorio aveva provocato all’insieme dei rapporti sociali, economici e politici. Nel commentare i risultati delle indagini scrivevamo, con Piero Della Seta, che «lo smantellamento delle regole, degli strumenti e delle strutture del governo del territorio sono stati i passaggi obbligati che il sistema politico-affaristico ha dovuto superare per poter perseguire i suoi obiettivi di potenza e di ricchezza». Non a caso, «circa i tre quarti dei fatti svelati riguardano interventi compiuti (o minacciati) sul territorio e sull'ambiente»[6].
Grazie al lavoro compiuto negli anni dalla rivista Urbanistica informazioni potemmo raccontare i principali casi di urbanistica contrattata che si erano registrati, e che emergevano nella loro natura di incubatori del sistema di corruzione. Oltre al caso della Fiat-Fondiaria balzava in primo piano Milano, dove già il bravo sindaco Pietro Bucalossi, molti anni prima, aveva scoperto esterrefatto il rito ambrosiano. A Milano era successo di peggio oltre alle varianti che avevamo denunciato nell’INU. Commentano alla vigilia di Mani pulite Barbacetto e Veltri: «In mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finanziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io amministratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)» contropartite garantite da lettere private, tenute accuratamente segrete.
Difficile credere che, oltre a queste contropartite, l’opacità della contrattazione non ne celi altre[7]. E infatti il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle successive azioni della magistratura.
Profetica ci apparve dopo l’esplosione di Tangentopoli una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto: «Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca» [8]. Così era, a Milano, e non solo a Milano.
Firenze, Milano, Napoli, Roma. Ma in tantissimi luoghi, a Duino Aurisina e a Trieste come a Palermo, al nord come al sud. In molte città grandi e piccole, la polpa degli affari e della contrattazione discreta sono le aree dismesse dalle industrie, dai militari, dalle ferrovie. Grandi occasioni per riorganizzare le città a vantaggio di tutti i cittadini, per restituire verse, spazi pubblici, attrezzature sociali, aria, verde, salute. Trattate una per una, in un rapporto esclusivo col possessore e con l’obiettivo della “valorizzazione economica” (di cui la collettività otterrà una briciola[9] e l’amministratore, o il suo partito, una tangente) si perde in quegli anni la grande opportunità di ridisegnare le città nell’interesse dei cittadini, anziché dei proprietari immobiliari. di
Mani Pulite riesce a determinare uno scossone nell’opinione pubblica, che conduce alla liquidazione dei gruppi politici più direttamente implicati nelle conseguenze aventi rilevanza penale dell’urbanistica contrattata: nella corruzione. Ma non scalfisce la concezione del rapporto tra pubblico e privato che è alla base di quel modo di gestire le trasformazioni del territorio.
ANCORA PEGGIO
Roma e i “diritti edificatori”
Due capitoli della storia dell’urbanistica italiana, che qualcuno dovrà scrivere, testimoniano una svolta preoccupante: l’uno a Roma, l’altro a Milano. Due capitoli già trattati stamattina, da Paolo Berdini e da Giuseppe Boatti, di cui vorrei riprendere alcuni elementi.
A Roma, mentre lo slogan dl “pianificar facendo” può essere benevolmente considerato un cedimento intellettuale al linguaggio e alle prassi neoliberiste, che ha aperto ulteriormente spianato la strada all’urbanistica cotrattata, l’invenzione dei “diritti edificatori” ha significato conferire alla proprietà immobiliare un potere contro le decisioni pubbliche che nessuno si era mai sognato di dar loro. Conoscete la tesi, propugnata da un urbanista che è stato maestro di molti di noi. É alla base delle scelte devastanti del PRG del 2003.
Secondo quella tesi, una volta che un piano urbanistico abbia assegnato l’edificabilità a un’area, questa diventa un titolo che al proprietario non può venir tolto senza indennizzarlo adeguatamente. Era stata inventata l’espressione “diritti edificatori”, mai adoperata prima nello jure italiano. Italia Nostra organizzò un convegno a Roma, per discutere il PRG. Preparai una relazione; colsi l’occasione per comprendere come la giurisprudenza aveva trattato la questione. Scoprii che le cose erano radicalmente diverse da quanto gli autori del Prg di Roma sostenessero. Era giurisprudenza costante che il comune potesse, con un piano successivo, modificare ampiamente le previsioni di un piano precedente. Non soltanto nel caso di un piano generale (come il Prg) ma anche di un piano di lottizzazione privata per il quale sia già stata stipulata con i proprietari una convenzione a norma di legge. In questo caso, ovviamente, è necessario indennizzare il proprietario per le spese che ha legittimamente sostenuto, e che è in grado di documentare, relative all’attivazione dl piano.
La presidenza di Italia nostra chiese un parere pro veritate al prof. Vincenzo Cerulli Irelli, illustre esperto di diritto amministrativo e forse massimo conoscitore italiano del diritto urbanistico. Le nostre convinzioni furono presentate al sindaco Veltroni, il quale andò avanti per la sua strada. Ma l’azione di Italia nostra e di chi, come eddyburg, aveva sollevato la questione e dimostrato le devastazioni che il Prg avrebbe provocato stimolarono il sorgere o il rafforzarsi di decine e decine di comitati, associazioni, gruppi di cittadini, che costituiscono una delle non molte speranze per una Roma migliore.
I piani anomali
La presunta impossibilità di cambiare le decisioni passate aveva fornito un ulteriore decisivo sostegno a favore di un modo nuovo di pianificare, basato esclusivamente, o principalmente, sulla contrattazione con la proprietà privata. Strumento di questo modo, ed effetto amministrativo della querelle del “progetto” contro il “piano”, fu l’invenzione di piani “anomali”, derogatori della classica pianificazione urbanistica, elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli e approvati a getto continuo negli anni immediatamente successivi. Ciò che accomuna la quasi totalità di questi “piani anomali” è che “enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini).
Milano e la flessibilità per i potenti
L’episodio romano era stato preceduto da una iniziativa del comune di Milano, tesa a superare in modo ancora più esplicito i principi e il metodo della pianificazione pubblica mediante l’accordo preliminare con la proprietà immobiliare, teorizzandolo con chiarezza.
Un colto e intelligente urbanista, Luigi Mazza, consulente del comune di Milano, aveva proposto agli amministratori un modello alternativo alla pianificazione “tradizionale” consistente nel decidere le trasformazioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inquadrate in un documento “strategico” a maglie larghissime, poco più di un ideogramma. Il comune aveva seguito il suggerimento e approvato un documento, "Costruire la grande Milano”, sul quale si aprì subito una vivace polemica. Svolsi una relazione in un convegno dell’associazione Polis, poi intervenni in un seminario alla facoltà di architettura di Roma Tre, in cui Mazza, nel giugno 2001, illustrò il documento. Lo criticai, sostenendo che il nuovo modello proposto “si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato” e che ciò avrebbe provocato una giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a danno dell’interesse generale. Precisai il mio punto di vista in un ampio articolo sulla rivista “Urbanistica”, in contraddittorio con Mazza[10]. Pochi intervennero criticamente: l’innovazione milanese incontrava lo spirito dei tempi, cui l’accademia era sensibile.
Le parole chiare di Maurizio Lupi
Il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle scelte sulla città e il territorio è costituito dalla proposta di legge per il governo del territorio dell’on. Maurizio Lupi, di Forza Italia. Quella proposta chiariva definitivamente il senso dell’urbanistica contrattata. Proponeva il ribaltamento dei principi che da sempre avevano retto la pianificazione urbanistica con la seguente affermazione, semplice e chiara. Proponeva di stabilire che le funzioni amministrative delle istituzioni pubbliche, tra cui la pianificazione urbanistica, «sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l'adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti istituzionali e fra questi e i soggetti interessati, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti» (articolo 3, comma 3). Naturalmente i “soggetti interessati” sono i padroni della città, la proprietà immobiliare.
Il successivo dibattito parlamentare condusse a un testo unificato, su cui si era manifestato un consenso ampio (che comprendeva l’INU), e al quale si oppose un fronte che conobbe al convegno di Italia nostra (Roma 28 gennaio 2005) un suo momento rilevante. In quella sede fu presentato e approvatoun appello, sul quale si raccolsero successivamente moltissime adesioni. Nel documento si protestava perché la proposta di legge «sopprime il principio stesso del governo pubblico del territorio, che rappresenta una della principali conquiste del pensiero liberale e accomuna tutti i paesi sviluppati, e cancella i risultati di importanti conquiste per la civiltà e la vivibilità della condizione urbana e la tutela del territorio ottenute nell’ultimo mezzo secolo dalle forze sociali e politiche e dalla cultura italiana. Nella legge – prosegue l’appello - si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato».
Grazie all’intelligente azione di filibustering promosso da una minoranza attiva, di cui Italia nostra fece parte a pieno titolo, la legge non fu approvata (grande merito va in particolare a Sauro Turroni, allora senatore del gruppo dei Verdi). Ma l’obiettivo che denunciavamo è ancora dominante. Gli eventi successivi sono andati tutti nella direzione predicata dai più schietti difensori dell’urbanistica contrattata: un diritto collettivo viene sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. E i luoghi della vita comune, le città e il territorio, vengono affidati alle convenienze del mercato.
PER CONCLUDERE
Il trionfo della rendita
Ho solo accennato alla questione della rendita. Parlarne di più avrebbe reso ancora più pletorica questo intervento. Non posso però, per chiudere il quadro, trascurare di riferirmi alle lucide osservazioni svolte da uno dei pochi che oggi dedicano attenzione a questo argomento, Walter Tocci, nel ssuo saggio ascesa della rendita urbana.
Per una lunga fase della nostra storia avevamo vissuto nella convinzione che, essendo la rendita la componente parassitaria del reddito, era possibile, nel corso di una modernizzazione sana dell’economia italiana, ridurne pesantemente il peso ricorrendo alla comune convenienze delle classi produttrici: i possessori del lavoro e quelli del capitale. Tocci ci rivela che le cose sono radicalmente mutate. Oggi la rendita immobiliare è diventata un elemento essenziale, e trainante, dell’intero sistema economico: un sistema economico ormai totalmente artificializzato, reso cartaceo e virtuale, legato al gioco della finanza e non a quello della produzione di beni e servizi.
E’ dagli anni 70 che si parla dei rapporti mutevoli tra profitti e rendita, e io stesso ne ho accennato proprio a proposito dell’atteggiamento della Fiat in quegli anni. Ma adesso non solo c’è un’integrazione piena, c’è addirittura – per esprimermi col massimo di sintesi – un dominio della rendita sul profitto (e di entrambe sul salario, ma questo è un altro discorso).
Sono convinto che questo non debba far mutare il nostro giudizio negativo sul peso della rendita nelle trasformazione della città e del territorio, ma deve anzi richiederci un di più di attenzione, di rigore, di capacità di analisi, di critica, di contrasto nei mille episodi in cui la forza della rendita minaccia i valori nei quali crediamo.
Le due città
Vorrei precisare che quanto parlo di città dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città” sia la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello rurale. Credo che oggi si debba parlare di due città, o se volete due progetti di città antitetici, dei quali bisogna assumere consapevolezza per poter agire con efficacia. Le definirei la città della rendita e la città dei cittadini.
Conosciamo bene la città della rendita. É quella alla quale si applicano le pratiche dell’urbanistica contrattata, e che è stata ampiamente formata da essa. É quella che denunciamo e soffriamo ogni giorno, in tutti gli episodi di distruzione, di degrado, di bruttificazione e disfunzione. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse, distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.
Per i promotori, produttori e facilitatori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene che può essere utile ad altri.
In esplicita antitesi della città della rendita si è affacciata sulla scena una città alternativa: quella che definirei “la città dei cittadini. É quella che emerge dalla miriade di vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e quartieri, per rivendicare qualcosa he si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative che caratterizzano la vita sociale in questi anni.
Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo “sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni della “città infinita” … Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di città.
Non sono chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione.
Un diverso rapporto tra città e campagna, tra urbanizzato e non urbanizzato, (bellezza, storia, identità, alimentazione sana e filiere corte, aria luce sole, ricreazione e distensione, …)
Una più ricca dotazione di utilities e commodities, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli, risparmiatrici d’energia, utilizzabili da tutti, … (welfare urbano ma non solo, socialità, condivisione…)
La possibilità di accedere all’uso di un’abitazione, collocata e servita nel modo giusto, a un prezzo commisurato al reddito.
Il diritto da parte di tutti i cittadini di partecipare alla costruzione/trasformazione della città, di conoscere in anticipo i progetti di trasformazione, di comprenderne le conseguenze, di concorrere alle scelte
La mia tesi (o se volete la mia speranza) è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni ecc.
Il ruolo della cultura, oggi
La cultura e le sue istituzioni svolgono un ruolo rilevante nella formazione degli eventi. Ricordiamo tutti gli episodi degli anni 50 e 60, lo stimolo critico e la capacità propositiva delle istituzioni della cultura urbanistica e quelle neonate del protezionismo. Anche in quegli anni, molto più per l’iniziativa volontaria di persone dallo spirito indipendente che per quella dell’accademia.
Ho accennato al ruolo che questo stesso mondo ha svolto negli anni in cui si è conformato il modello d’intervento sul territorio che è riassunto dell’espressione urbanistica contrattata. Un ruolo non sempre positivo. O meglio, negativo per alcuni (l’Inu è arrivato a difendere la legge ispirata da Lupi), positivo per altri. In particolare, per Italia Nostra.
Mi riferisco, in particolare, alle esperienze nelle quali ho più direttamente collaborato con gli organi nazionali di Italia Nostra per svelare e contrastare lo stravolgimento delle regole della buona pianificazione e per proporre le regole giuste. Ho ricordato la partecipazione di Italia Nostra alla denuncia dello scandalo dell’area Castello di Firenze, giustamente interpretato come il prodromo di una pratica, la “urbanistica contrattata”, pericolosissima per la città e il territorio. Ho ricordato l’iniziativa che Italia Nostra ha assunto sul PRG di Roma – un PRG che aveva autori politici e professionali vicini all’associazione, e che perciò è stato ancora più meritorio criticare - individuato come deleterio non solo per le vaste distruzioni dell’Agro romano che consentiva, ma per l’aberrante principio (l’esistenza di i “diritti edificatori”) che introduceva. E ho ricordato il tenace contributo che Italia Nostra ha dato alle iniziative per contrastare la legge Lupi e i suo successivo travestimento nel formato Lupi-Mantini, largamente condiviso anche nell’ambito dell’ambientalismo. Voglio ricordare ancora il lavoro svolto da Italia Nostra per contrastare il consumo di suolo promuovendo la tutela dell’agricoltura e, più generalmente, del territorio rurale, che condusse alla proposta di legge che elaborammo insieme e alla quale Luigi Scano, proprio in ambito Italia Nostra, collaborò con la geniale proposta di introdurre il territorio rurale tra le categorie di beni tutelati ope legis ieri dalla legge Galasso, oggi dal Codice del paesaggio.
Non sempre le battaglie culturali di Italia nostra hanno avuto riscontro immediato nell’opinione pubblica, neppure in quella “colta” e in quella “ambientalmente orientata”. Ricordo il caso emblematico dell’auditorium di Ravello, nel quale Italia nostra difendeva, quasi sola, il paesaggio e la legalità urbanistica contro il potere di un satrapo e l’immagine di una Grande Firma. Ma per chi pensa che la cultura sia un lievito, e non un miscuglio di acqua e farina con cui formare una pizza, questo appare come un prezzo da pagare per la verità. Un prezzo che verrà rimborsato a usura dalla storia, se si avrà il coraggio di sottoporre in ogni momento a discussione i propri principi, ma di conservarsi fedeli a essi con rigore e con chiarezza finché principi diversi non saranno stati elaborati e condivisi. E la cultura ha il compito – quando ne ha gli strumenti – di diffondere questa sua conoscanza, i frutti della propria capacità critica.
Il nostro compito
Compito essenziale della cultura è quello di scrutare ciò che accade, cercar di intravedere ciò che gli eventi dell’oggi preparano, valutare criticamente la realtà di oggi e quella che si prepara, comprendere chi e che cosa, dalle trasformazioni che avvengono o avverranno, guadagna, e chi e cosa ci rimette, perde. Non c’è trasformazione in cui non ci sia qualcuno che guadagna e qualcuno che perde.
Se si accetta l’assunzione della legge del mercato come unica legge valida per decidere sulla trasformazioni del territorio – se si accetta l’urbanistica contrattata – è chiaro che è sconfitta la città dei cittadini. E allora non si possono avere esitazioni, incertezze, ambiguità nel giudicare. Con i portatori di tesi diverse si può discutere, anche perché questo conduce spesso ad affinare i propri argomenti e a rendere più convincenti le proprie idee, ma non si può derogare, o transigere, sui principi – finchè questi non sono sostituiti da altri, esplicitamente formulati e condivisi.
E a mio parere è sul rigore nell’affermazione dei principi che condivide che un’istituzione culturale (e un intellettuale) deve esprimersi con chiarezza.
Io credo che tra i principi, a proposito del territorio – dell’habitat dell’uomo e nel deposito della sua storia – il primo principio che debba essere stabilito è che l’uso del territorio, e le sue trasformazioni, devono essere ordinati al maggior benessere di tutti gli abitanti del pianeta, presenti e futuri: la città dei cittadini, e non la città della rendita.
Il secondo principio che a mio parere va ribadito riguarda il metodo e l’insieme di strumenti che, in una civiltà complessa quale la nostra: la pianificazione urbanistica come operazione d’interesse collettivo, quindi necessariamente affidata alla mano pubblica. Assumerei senza esitazioni la definizione che ne dava Antonio Cederna: «La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica». Certo, il termine “coercitivo” può sembrare un po’ forte. Ma oggi la coercizione è esercitata chi ha ridotto la città, e ogni sua componente, a merce, sottraendola ai suoi legittimi proprietari, i cittadini e degradandone le qualità naturali, storiche, sociali.
Non ho detto nulla della vicenda che ha portato gli eredi di Antonio Cederna a ottenere il ritiro del libro pubblicato dalla sezione lombarda di Italia Nostra, né di quella che ha portato alle dimissioni di Vezio De Lucia. E nulla di più credo necessario aggiungere dopo le molte parole che pronunciato. Se non riprendere la speranza, che Vezio esprimeva, che l’intera vicenda, e questo stesso convegno, servano ad aprire una discussione autentica, dentro e fuori l’associazione. Perché se ci si chiude si è inevitabilmente condannati alla sterilità e alla sconfitta.
Grazie
[1]Ricordo la discussione che si aprì sulle pagine de l’Unità, nell’agosto 1983 tra Maurizio Mottini, assessore a Milano, fautore del mercato e Raffaele Radicioni, assessore a Torino, fautore della pianificazione.
[2]Principale interprete di questa linea fu Lucio Libertini, che divenne responsabile del settore che comprendeva lurbanistica nella direzione del PCI.
[3]L. Libertini, Nicolazzi non passerà, “Urbanistica informazioni”, n. 75, maggio-giugno 1984
[4]Questi episodi sono raccontati con maggiore ampiezza nel mio libro Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del Fontego, venezia 2010
[5]Vezio De Lucia, Le mie città, Diabasis, Reggio Emilia 2010, p. 65.
[6]P. Della Seta, E. Salzano, l’Italia a sacco. Come negli incredibili anni 80 nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma 1993
[7]Gianni Barbacetto, Elio Veltri, Milano degli scandali, prefazione di Stefano Rodotà, Laterza, Bari, 1991, p.55.
[8]Ibidem, p.51.
[9]Vedi i lavori di Roberto Camagni e Cristina Gibelli.
[10]E. Salzano, Il modello flessibile a Milano in "Urbanistica", n. 118, (gennaio-giugno 2002).
Un’importante sentenza del Consiglio di Stato (IV sezione, sentenza n.2418/2009 del 10 gennaio 2009) ribadisce un principio da tempo affermato nella giurisprudenza, e tranquillamente calpestato di quanti affermano che, se un piano urbanistico comunale prevede una volta che un determinato terreno sia edificabile, nasce nel proprietario un “diritto edificatorio” che non può essere revocato da unb piano successivo. Una conferma, con qualche interessante integrazione a favore dell’interesse pubblico.
Il fatto
Il terreno di un certo soggetto, nel comune di Perugia, era stato inserito nel Prg tra le aree edificabili. Successivamente era iniziato l’iter di un piano di lottizzazione, attuativo di quella previsione; iter che si era protratto per molti anni senza peraltro concludersi con gli atti formali richiesti dalla legge.
Nel 2002 il comune aveva approvato un nuovo Prg, nel quale quell’area, insieme ad altre, era stata classificata cone zona agricola. La società proprietaria aveva ricorso al Tar, e questo aveva dato ragione al Comune. Nuovo ricorso, questa volta al livello superiore della giustizia amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha confermato il parere del Tar con alcune argomentazioni che vogliamo riassumere per il loro generale interesse.
La sentenza in tre punti
Il Consiglio di Stato ribadisce, in primo luogo, che un Prg (o una sua variante) ha un potere superiore a quello di un piano di lottizzazione il cui iter non si sia concluso, e quindi può tranquillamente modificarne o annullarne le previsioni. Così si esprime la sentenza:
“Ed invero, muovendo proprio dalla giurisprudenza in materia di aspettative derivanti da lottizzazioni edilizie e modifiche preclusive dello strumento urbanistico, deve premettersi e ribadirsi che nessuna posizione giuridicamente può essere riconosciuta a progetti di lottizzazione che, al momento della variazione del PRG, risultino ancora in itinere o in istruttoria ancorché da lungo tempo. É evidente che ciò non è assentibile, in ragione del fatto che, mentre la variante di PRG assume immediata efficacia, per contro non sussiste alcuna approvazione di atto giuridico che sia perciò assurto al rango di uno strumento urbanistico efficace (nella specie attuativo, ad iniziativa di parte privata, quale il piano di lottizzazione) e del quale debba in qualche modo tenersi conto”.
La proprietà aveva poi sostenuto che comunque, avendo il terreno la destinazione d’uso edificatoria, era stata versata al comune una quota dei contributi previsti per le opere di urbanizzazione. La sentenza afferma: ciò significa che il Comune dovrà probabilmente restituire la somma percepita, ma non costituisce un mootivo per annullare la variante al Prg e ripristinare i “diritti edificatori”. Ecco le parole della sentenza:
“[…] anche il pagamento di oneri di urbanizzazione, lungi dal costituire aspettative edificatorie tutelate, si muove in realtà nel solo ambito obbligatorio-patrimoniale, generando al più il dovere restitutorio di somme non dovute, ma non può certamente comportare il sorgere di un dovere dell’amministrazione di fornire particolare motivazione delle proprie scelte urbanistiche incisive delle aspettative di mero fatto”.
Un ulteriore argomento di contestazione da parte della società proprietaria era nella circostanza che, comunque, il Comune aveva cambiato la destinazione d’uso del terreno da edificatorio ad agricolo. La sentenza afferma che ciò è nella piena potestà del comune, e che la situazione documentata dal piano rivelava che, se c’era una “vocazione”, questa era quella agricola e che quindi era pienamente legittimo adeguare a questa realtà le prescrizioni della pianificazione. Afferma la sentenza che non vale mettere in contrasto la previsione del precedente piano e quella del nuovo, poichè
“tale correlazione non può fondare alcun vizio di illegittimità, rappresentando il contenuto stesso del legittimo esercizio dello “jus variandi” in sede pianificatoria e comporta proprio il potere di mutare il regime giuridico-urbanistico dell’area, che vede quindi cambiare la sua “vocazione” in senso giuridico (nella specie da edificatoria ad agricola). Altra nozione è invece rappresentata dalla “vocazione” intesa come la situazione dell’area nelle caratteristiche geomorfologiche del contesto in cui essa si trova al momento dell’esercizio del potere pianificatorio e quindi indipendentemente dalla destinazione giuridica sino a quel momento impressa ma che può avere o meno avuto esplicazione mediante un effettiva trasformazione del territorio. Ed è tale situazione che viene in rilievo rispetto alla nuova destinazione giuridico-urbanistica che all’area si intende conferire e che, come correttamente confermato dal TAR, il Comune risulta aver nella specie preso in considerazione ove ha evidenziato (nello studio preliminare e carta d’uso del suolo) che l’area ha oggettivamente caratteristiche agricole essendo di natura “seminativo-irrigua”. Rispetto a tale valutazione tecnica, quindi, la scelta del nuovo PRG di imprimere destinazione agricola è del tutto coerente […]”.
Riassumendo: il piano urbanistico generale può senza ombra di dubbio modificare una destinazione d’uso precedente, anche se è stata avviata e lungamente elaborata lsa procedura di formazione di un piano di lottizzazione. Oltre alla corretta motivazione, l’unica spesa che il comune deve sostenere è quella eventuale di spese legittimamente sostenute dal proprietario. É del tutto legittimo imprimere una destinazione d’uso agricola a un terreno precedentemente dichiarato edificabile quel terreno è idoneo per l’agricoltura.
Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
Tra gli studiosi della città (un po' meno tra quelli della società) Fiorentino Sullo è noto per la sua proposta di legge urbanistica, elaborata nei primi anni 60, presentata nell'estate del 1962 e clamorosamente bocciata nella primavera del 1963. Sullo era allora democristiano e ministro per i lavori pubblici. Fu sconfessato dal suo stesso partito (segretario era Aldo Moro) in seguito a una campagna di stampa dai toni così feroci come solo negli anni recenti li abbiamo sentiti riecheggiare di nuovo. Non c'erano allora né “il Giornale” né “Libero”, ma c'era in compenso il “Tempo” di Roma che svolse un analogo ruolo. L'accusa che gli si rivolgeva era di voler togliere la casa agli italiani. Si affannò a dimostrare che le accuse erano fantasiose bugie ma non ci riuscì. Già allora l'informazione corretta era molto difficile.
La sua proposta era innovativa per la realtà italiana. Sviluppava gli elementi positivi già introdotti nella legislazione italiana dalla legge urbanistica del 1942, adeguandola alla nuova realtà del paese: l'accresciuta dinamica insediativa, le consistenti differenze nell'organizzazione del territorio, la dimensione di massa della riconquistata democrazia. L'adeguamento alla nuova realtà imponeva di fare i conti con quello che era stato il dominus dell'espansione urbana e la matrice della forma sciagurata che le sterminate periferie avevano assunto nei primi tre lustri del dopoguerra: bisognava fare i conti con la rendita fondiaria urbana.
Il ministro democristiano ci provò, con prudenza, ed elaborò la sua proposta. Si rifaceva all'insegnamento degli economisti liberali. Si riallacciava a principi che erano stati trasformati in leggi negli anni della destra storica, della sinistra storica e del giolittismo. Applicava strumenti che erano stati adoperati ampiamente negli anni del regime fascista. Ma questo non bastò a salvarlo. Come non gli bastò dimostrare che intendeva applicare in Italia la stessa politica fondiaria urbana che aveva reso civili le periferie delle città di più evoluti paesi europei.
Riflettendo su quell'esperienza mi viene da pensare che non molto è cambiato in Italia, da allora oggi, quanto meno per due profili: per la tendenza perniciosa a ignorare la storia del nostro paese, e per l'ugualmente pervasivo e letale provincialismo pratico. Due aspetti della medesima miopia, l'una nel tempo, l'altra nello spazio.
Le due ragioni di Fiorentino Sullo
per contrastare la rendita
É opportuno precisare quale fosse l'obiettivo che Sullo si poneva nel contrastare la rendita fondiaria urbana. La rendita fondiaria urbana: cioè quell’elevatissimo gradiente che gratifica il proprietario del suolo quando il prezzo, da quello del terreno agricolo, ascende a quello del terreno edificabile.
Dalla lettura delle pagine che scrisse all'indomani della sua sconfitta emergono due ragioni sostanziali:
1. l'enorme incremento del prezzo dei terreni, che si manifestava quando questi da agricoli divenivano idonei all'edificazione, incideva in modo insopportabile sul prezzo delle abitazioni, delle quali c'era un grande bisogno a causa sia dell'entità delle migrazioni interne sia dall'esigenza di migliorare le condizioni di abitabilità;
2. l'entità della rendita urbana e la sua appropriazione da parte dei proprietari facevano sì che forma e struttura della città fossero determinati dall'unica regola del massimo sfruttamento economico d'ogni porzione di suolo, realizzando periferie invivibili.
Sullo insiste molto sulla descrizione delle trasformazioni che avevano caratterizzato l’assetto territoriale e demografico del paese negli anni della ricostruzione postbellica e sulle ragioni che pretendevano dall’azione pubblica un governo del territorio e del mercato capace di abbattere in misura consistente il prezzo delle case. Su questo gli incrementi della rendita fondiaria urbana incidono in modo insostenibile, sia per i bilanci delle famiglie che per il potere pubblico, che deve provvedere sia ad assicurare il godimento dell’abitazione per quei ceti che non possono accedere al mercato sia ad arricchire la città delle dotazioni che le rendono cosa diversa, e più civile, che un mero ammasso di case e capannoni.
Ed egli insiste ugualmente sul denunciare il risultato funzionale ed estetico dell'appropriazione privatistica della rendita urbana. Per effetto di questa
«la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli o medi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni a mezzo delle maggiori altezze dei fabbricati e che si pongono in netto antagonismo con i cittadini non interessati alla speculazione, i quali chiedono spazio per i veicoli ed aria per le persone. E quindi riduzione al massimo della densità fabbricativa».
Cita, proposito delle conseguenze nefaste della rendita urbana, classici della cultura urbanistica. Cita Gustavo Giovannoni, e cita Camillo Sitte (1889):
«I prezzi elevati dei terreni - scrive Sitte - spingono i costruttori alla loro massima utilizzazione possibile; è questa la ragione per cui molti dei più attraenti motivi dell’ architettura cadono a poco a poco. in disuso ed ogni lotto fabbricabile dà luogo ad un blocco squadrato» (Camillo Sitte, L’arte di costruire la città, )
Cita con ampiezza Hans Bernoulli (1946), del quale riporta un lungo brano nel quale lo studioso elvetico racconta (dice Sullo) «l'assurdo di di un’urbanistica che si sviluppi consentendo l’anarchica utilizzazione del suolo da parte di ciascun proprietario privato».
Fa sue le conclusioni di Bernoulli: «La nuova città, i nuovi quartieri abbisognano . di territorio; debbono liberamente disporre del terreno su cui sorgeranno, liberi e disimpegnati per poter erigersi e svilupparsi secondo le migliori norme. Perché il suolo corrisponda ad un compito così nuovo e di così diversa qualità, è necessario rimuovere con sicurezza e con tranquillità le suddivisioni attuali per dar luogo a quella nuova» (Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano)
La proposta di Sullo
Dall’intreccio tra queste due ragioni nasce la sua proposta, volta a impedire che negli anni successivi la prosecuzione dei trend espansivi della città producesse effetti sociali analoghi a quelli che si erano registrati nel periodo precedente: pesante incidenza sui bilanci delle famiglie, assenza delle elementari condizioni d’igiene e di vivibilità, sovraffollamento, disagio abitativo e urbano.
L’attenzione era volta all’espansione delle città. Lo strumento era quello impiegato dagli stati dell’Europa nei quali il welfare urbano si era affermato più che in Italia: l’acquisizione preventiva da parte del comune delle aree d’espansione individuate dai piani urbanistici, con un indennizzo commisurato al valore agricolo; la progettazione dei nuovi insediamenti da parte della pubblica amministrazione; la realizzazione, da parte del comune, di tutte le urbanizzazioni primarie e secondarie, tecniche e sociali; la cessione agli utilizzatori, privati e pubblici non della proprietà del suolo, ma del diritto di utilizzarlo per un periodo determinato, a un prezzo corrispondente alla spesa sostenuta della pubblica amministrazione.
La scelta della cessione temporanea e non della proprietà (“diritto di superficie”) avrebbe consentito al comune di rientrare in possesso delle aree nel momento in cui l’edificato fosse divenuto obsoleto e si fosse voluto modificare l’assetto dell’area.
La violenta reazione del blocco sociale e politico formatosi attorno alla grande proprietà fondiaria ed edilizia indusse la DC ad abbandonare, come sappiamo, la proposta di Sullo.
Se il suo iter fosse proceduto, sarebbero venute alla luce (e avrebbero potuto essere risolte) alcune contraddizioni che la legge non superava. In particolare, la legge introduceva una disparità di trattamento tra i proprietari delle aree non ancora urbanizzate, soggetti all’espropriazione e quindi privati dalla possibilità di lucrare della rendita urbana, e i beneficiari del diritto di superficie, che avrebbero potuto godere degli incrementi della rendita edilizia (cioè del trasferimento della rendita dal fondo all’edificio). Una seconda disparità si sarebbe manifestata tra gli espropriati e i proprietari degli immobili (aree ed edifici) nella città consolidata. Insomma, ad alcuni sarebbe stato lasciato il privilegio di lucrare sull’incremento della rendita (la quale aumenta all’aumentare delle aree fabbricabili) e ad altri no.
La prima debolezza intrinseca della proposta sarebbe stata certamente riparata ricorrendo all’esempio della legge 167/1962 (una sorta di anticipazione parziale della legge urbanistica), e cioè mediante il controllo dei prezzi delle case costruite sui terreni divenuti pubblici. La seconda (cioè la disparità tra i nuovi insediamenti e la città esistente) avrebbe richiesto provvedimenti di carattere più generale in materia di diritto proprietario e di fiscalità pubblica: cioè il prelievo generalizzato di una parte almeno, ma consistente, del plusvalore determinato in relazione alla crescita e al miglioramento della città.
Le ragioni dell’etica e dell’economia
Se riflettiamo oggi sulla posizione di Fiorentino Sullo per aiutarci a ragionare sull’oggi e sul domani è necessario accennare a un’altra ragione della sua proposta: una ragione che parte dall’etica per prolungarsi nell’economia.
Nel difendere la sua proposta Sullo ripete che si deve incidere seriemente sugli alti costi dei suoli urbani, il che è possibile solo se si espropria, urbanizza e rivende le aree a chi ha bisogno del suolo per costruire. E prosegue: «Se milioni di cittadini ci guadagnano, c’è qualcuno che ci perde. E che strepita. Ma chi ci perde, perde arricchimenti iniqui. Non ciò che è suo, ma ciò che, per fortuite coincidenze, gli viene, con l’attuale sistema delle leggi, regalato dallà collettività».
Sullo è insomma pienamente consapevole di una realtà che era ben nota alla cultura liberale. Una realtà che voglio ricordare in questa sede.
Delle tre forme di reddito (salario, profitto, rendita) nelle quali si divide la torta della ricchezza nazionale, la terza, la rendita, è l’unica che non corrisponde ad alcuna logica d’interesse sociale e a nessun contributo del soggetto percettore all’attività economica. Se vogliamo rifarci alla logica dell’analisi liberale possiamo dire che il salario è il corrispettivo del lavoro, il profitto è il corrispettivo della capacità imprenditiva, e la rendita compensa unicamente il privilegio proprietario. Se vogliamo riferirci a una logica sostanziale, sappiamo che il salario paga la sussistenza e la riproduzione del lavoratore, essenziale per qualsivoglia processo produttivo; che il profitto costituisce, oltre alla remunerazione dell’attività imprenditoriale, il miglioramento – attraverso l’accumulazione - delle condizioni della produzione; che la rendita costituisce un mero prelievo della ricchezza prodotta, in nome di una posizione di potere.
Il riferimento di Sullo è costituito dalla dottrina liberale. Cita un testo pubblicato nel 1900 da Luigi Einaudi proprio ragionando sulla rendita determinata dall’edificabilità dei suoli:
«Il caso dei terreni edilizi [così Einaudi definisce i suoli edificabili, distinguendoli da quelli destinati agli usi agricoli] è invece molto diverso. Non esiste un vincolo indissolubile tra la proprietà del terreno ed il lavoro applicato alle costruzioni; anzi, il valore del terreno cresce per virtù propria, date le circostanze d’ambiente propizie, senza che su di esso si sia nulla edificato. Il proprietario del terreno nudo, sul quale mai non è stata fatta da lui alcuna spesa, può venderlo ad un prezzo incredibilmente alto all’imprenditore di case il quale ha intenzione di fabbricarvi sopra. La proprietà del suolo non è nient’affatto una condizione necessaria perché si eserciti l’industria edilizia» (Luigi Einaudi, in “La Riforma sociale”, anno VII, vol. X, p.779).
Il contesto
La vicenda della legge Sullo si aprì – come ho detto – all’inizio degli anni 60 e si concluse nel 1963. Pochi anni. Ma essa è nata, si è sviluppata ed è proseguita in un arco di tempo più ampio, che ne costituisce il contesto e al quale è bene richiamarsi, sia pure in modo necessariamente sintetico.
Nasce quando maturano tre condizioni.
1. Il consolidarsi dell’industria manifatturiera, che diviene competitiva con quelle estere;
2. La diffusa consapevolezza delle conseguenze territoriali e sociali di uno sviluppo capitalistico, lasciato interamente libero all’azione dei suoi animal spirits;
3. L’affermarsi di una democrazia di massa, che pretendeva l’esercizio dei diritti promessi dalla Costituzione.
Sono gli anni nei quali la DC sposta l’asse del suo potere, la programmazione economica diventa un tema centrale, alcuni poteri monopolistici vengono messi in discussione. “Modernizzazione” significa a quei tempi eliminare i lacci e lacciuoli della rendita urbana, perchè in tal modo le città sarebbero diventate più efficienti, le abitazioni – e in generale la vita delle famiglie – meno costose, di conseguenza la spinta salariale non avrebbe avuto nuovo alimento.
Si erano comprese molte cose. Ne era stata trascurata una: la potenza di quel “complesso edilizio” che Valentino Parlato, con un’analisi di un’acutezza raramente raggiunta dopo, descrisse (1970). Scrive Parlato:
«In questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta é l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando - per rafforzare i più solidi legami di interesse economico - il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, é naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”» (Valentino Parlato, Il complesso edilizio, 1970).
Il “complesso edilizio” non fu sconfitto. Sembrò averlo incrinato la poderosa spallata data nel biennio 1968-69 da un blocco alternativo di forze sociali, che andava dagli studenti, alle donne, ai lavoratori delle fabbriche e degli uffici. Quella spallata che culminò nel grande sciopero generale nazionale per la casa, i trasporti, l’urbanistica e il Mezzogiorno del 19 novembre 1969. Un mese dopo, il 12 dicembre dello stesso anno, cominciarono ad esplodere le bombe del terrorismo.
Gli anni successivi (tutto il corso degli anni 70) videro ancora avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte dell’una e dell’altra delle grandi correnti che percorrevano la società. Le consapevolezze che erano state acquisite agli inizi degli anni 60 – e in particolare la necessità di contenere fortemente la rendita fondiaria urbana – sembrava ancora viva. Lo testimoniano le prese di posizione singolari (se le rileggiamo oggi) di uno dei massimi esponenti del capitalismo italiano, Gianni Agnelli, padrone della Fiat e, poco dopo, presidente della Confindustria.
In un’intervista rilasciata all’Espresso Gianni Agnelli affermava:
«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire [...] Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» (Intervista rilasciata all'Espresso, novembre 1972).
Erano anni sui quali gli storici hanno cominciato a riflettere, abbandonando gli slogan unilaterali degli “anni di piombo”. Anni che conobbero – non solo sul terreno dell’urbanistica – grandi conquiste e grandi sconfitte. Il clima generale stava cambiando. In peggio. Già cavalcavano nel mondo globalizzato i quattro cavalieri dell’Apocalisse ritratti da David Harvey sulla copertina del suo libro più fortunato, la Breve storia del neoliberismo: Tatcher, Reagan padre, Pinochet, Deng Tsiao Ping. Stava iniziando l’epoca di quello che Giorgio Ruffolo chiama turbo-capitalismo.
In Italia, la “modernizzazione” del craxismo espresse la sua versione al pomodoro della strategia neoliberista, e il passaggio dalla pianificazione urbanistica all’urbanistica contrattata fu la sua ricaduta sul terreno della città. “Privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli” furono gli slogan vincenti, agitati su tutti i lati dello schieramento politico.
Che cosa è successo della rendita urbana in questo mutato contesto?
La rendita oggi
Ci aiuta a comprenderlo un saggio di Walter Tocci, oggi direttore del Centro per la riforma dello stato ma buon conoscitore dell’urbanistica grazie anche alla sua esperienza di amministratore al comune di Roma, dove è stato assessore ai trasporti e vicesindaco. É un saggio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Democrazia e diritto, la cui parte monografica è dedicata al “Trionfo della rendita urbana”.
L’autore ragione a lungo sul legame tra rendita urbana e rendita finanziaria, sull’evoluzione del connubio tra queste due realtà, sul dominio che esse sono venute a svolgere nella fase neoliberistica e sulla attuale crisi. In relazione a quel connubio la rendita urbana ha svolto in passato funzioni ed ha assunto caratteristiche diverse. Nella fase dell’espansione urbana ha prevalso la rendita
«prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo».
Più tardi, negli anni Ottanta, cambiò il verso della trasformazione. Si tornò a operare all’interno della città, utilizzando gli immobili liberati dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.).
«La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici».
Ed ecco il punto:
«La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».
All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase che Tocci definisce della “rendita pura”. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi. Tocci rileva che
«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria».
Il cambiamento è enorme, non solo in termini quantitativi. Cambia radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia.
A differenza di quanto accadeva prima, la rendita immobiliare non può più essere indicata (e combattuta) come un fattore di arretratezza.
«Anzi, oggi essa si trova a svolgere un ruolo di trascinamento dell'innovazione economica. D’altronde, come spesso accade, il nuovo contiene una rielaborazione dell'antico. Infatti, la novità della finanziarizzazione consiste nel ritrovare un collegamento con l’atto originario dell’appropriazione capitalistica, a lungo dissimulato dall’economia classica e consumato non a caso nel campo della proprietà immobiliare. L’accumulazione del capitalismo nasce infatti nel momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta […] Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso sulla produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un terreno, ma l’atteggiamento di fondo è il medesimo […] Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra l’economia e la politica. Il primato della rendita porta con sé un potere costituente. Per questo la forma capitalistica contemporanea è accompagnata da una formidabile verticalizzazione del potere in tutti i campi, nello Stato, nell’impresa, nella società».
“Il declino nascosto sotto il mattone”
Il predominio della rendita (la “rendita pura”) come segno della modernità. Ma è una modernità che va nella direzione del declino. Almeno per il nostro paese. Tocci sottolinea il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende (a partire dalle grandi e “moderne”: Fiat, Pirelli, Falk, Benetton) di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, l’imprenditività (se tale può ancora chiamarsi) dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano.
Gravi sono le responsabilità dei tecnici. In particolare gli urbanisti, che hanno accompagnato e “facilitato” la legittimazione della rendita. Scrive Tocci: «Quando il progetto urbanistico smarrisce il senso critico si riduce a celebrare il già fatto o a pianificare il nulla». Gravi anche le responsabilità degli imprenditori, e soprattutto dei politici in questa scelta di privilegiare la rendita anzicchè combatterla: incoraggiata da alcuni, utilizzata da altri, ignorata da chi aveva il dovere culturale di denunciarla.
Ma ai più è sfuggito un fatto. In Italia, quella che è una tendenza generale della fase attuale del capitalismo, ha assunto una forza e un’incidenza straordinaria per effetto di una iniziativa politica (quella del governo Berlusconi-Tremonti) che, in questo settore, ha dispiegato una strategia volta con grande efficacia a consolidare la base immobiliarista dell’economia e della società.
«Il funzionamento capovolto del mercato della rendita» (il valore dei suoli edificabili aumenta all’aumentare dell’offerta, a differenza da ciò che accade per altre merci) e l’introduzione del fondo immobiliare sono stati utilizzati e accompagnati da una serie di misure, tutte orientate nella medesima direzione. Per citare le principali, il superamento dell’equo canone e la liberalizzazione dei canoni di locazione, lo scudo fiscale, la dismissione dei patrimoni immobiliari pubblici, il condono edilizio, il piano-casa» A cui vanno aggiunte le innumerevoli eliminazioni dei controlli sulle trasformazioni aventi rilevanza urbanistica.
«L'insieme di questi provvedimenti –prosegue Tocci - configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra. Poi sul piano istituzionale, con un'inusuale consonanza tra l'intervento dello Stato e quello di Regioni, Province e Comuni, tranne poche e meritorie eccezioni. Neppure i media, prima della recente crisi, avevano mai raccontato i meccanismi più o meno occulti del fenomeno, lasciando quindi l'impressione di un ampio consenso dell'opinione pubblica».
Che fare?
La rendita immobiliare è ancora un avversario da battere. Non nel senso – ovviamente – di eliminarla, ma certo in quello di ridurne gli effetti negativi, operando nelle due direzioni storiche: trasferirne parte consistente (molto consistente, se il sogno di Henry George non è integralmente realizzabile) dal privato al pubblico; ridurne drasticamente la crescita con le politiche urbane mirate.
Ma è un avversario ancora più consistente che nel passato. Ciò rende evidente che la lotta contro la rendita non è questione tecnica, che possa essere affidata a questo o a quel pool di esperti. É innanzitutto una questione politica, culturale, morale. Occorre in primo luogo comprendere (occorre che tutti comprendano) che non invertire la tendenza comporta danni gravissimi per tutti e per tutto. Occorre denunciare, illustrare, dimostrare, argomentare. Questo è il primo compito dei tecnici, degli intellettuali.
Ma occorre al tempo stesso che la politica ri-assuma il proprio ruolo. Che non è quello di accompagnare l’economia data (illudendosi di cavalcarla), limitandosi a mitigarne gli effetti meno gradevoli. La politica deve tornare a dirigere l’economia: a definire per quali fini debbano essere impiegate le risorse scarse di cui il pianeta dispone.
TESI ALTERNATIVE ALLE TESI DA 7 A 12 E ALLA TESI 16
Premessa
Le tesi alternative qui allegate sostituiscono le tesi relative alla efficacia della pianificazione (dalla n. 7 alla n. 12) e le tesi relative al rapporto pubblico-privato.
Per quanto riguarda le prime (sostituite dalle tesi alternative dalla n. 6bis alla n. 12) esse erano stato già da me piu' volte annunciate nel corso finale dei lavori e costituiscono in parte una integrazione delle tesi licenziate dal Consiglio Direttivo Nazionale e in parte una impostazione nettamente diversa, sia per quanto riguarda la sistematica che per quanto riguarda i contenuti.
Lo sforzo di raggiungere chiarezza e sinteticità ha provocato forse qualche schematismo, ma credo che questo non ostacoli una fruttuosa discussione.
Per quanto riguarda l'ultimo gruppo di tesi (dalla n. 13 alla n. 20) esse in parte (tesi n. 16) costituiscono un ritorno e un rafforzamento della stesura che avevo inizialmente proposto, e che era stata modificata nel corso del lavoro di mediazione svolto nelle riunioni finali. Le modifiche alle altre tesi di questo gruppo costituiscono solo degli snellimenti e l'eliminazione di passaggi che risultano ripetitivi rispetto alle argomentazioni delle tesi alternative precedenti.
Tesi alternativa alla n. 6
Per individuare le caratteristiche che la pianificazione territoriale e urbana deve acquisire è necessario definire preliminarmente quali sono oggi, in Italia e in Europa gli obiettivi verso i quali la pianificazione, nell'ambito delle finalità generali del governo del territorio, deve tendere. Tali obiettivi consistono nel massimo risparmio delle risorse naturali e storiche sedimentate ed espresse nel territorio, e nel massimo miglioramento della qualità dell'ambiente nel quale si svolge la vita dell' uomo e della società.
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La dissipazione di risorse naturali è divenuta, a livello planetario, ragione di preoccupazione grave per la stessa sopravvivenza del genere umano. La degradazione, disgregazione, mercificazione del patrimonio culturale sedimentato sul territorio è divenuta, particolarmente in Italia, una delle forme più intollerabili di spreco di ricchezza comune della civiltà. L'ambiente urbano nel quale vive la grande maggioranza della popolazione italiana presenta crescenti caratteri di insopportabilità umana e sociale. Dalla consapevolezza di queste condizioni occorre partire anche per definire quali debbano essere, in una parte limitata del globo terracqueo, gli obiettivi dominanti che la pianificazione deve assumere e che devono condizionarne indirizzi, metodi, tempi.Il primo obiettivo è costituito dal massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e co sti elevati. Essenziali e vitali tra tali risorse sono ovviamente quellecostituite dai residui elementi di "naturalità": ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degra dato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggi bilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, a tutti i livelli, deve essere quindi quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" come so pra definita (a meno che non sia dimostrato in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che tale sottrazione è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie altrimenti non soddisfacibili), e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità".Di uguale rilievo si devono considerare le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'in treccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia (siano essi più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltrag gio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua) rappresenta parte sostanziale della civiltà cui apparteniamo. Indirizzo essenziale della pianificazione, a tutti i livelli, deve es sere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garan tire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le carat-teristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.Raggiungere l'obettivo suddetto in entrambe le sue componenti significa, in definitiva, tutelare due valori essenziali della civiltà e della sua sopravvivenza: l' integrità fisica e l'identità culturale del territorio. Esso allora già di per sè fornisce un contributo al raggiungimento dell'obbiettivo di un sostanziale miglioramento della qualità del l'ambiente della vita umana e sociale. Questo secondo obiettivo richiede però azioni specifiche, dirette a trasformare integralmente il volto delle gigantesche periferie realizzate nel corso dell'ultimo mezzo secolo nelle maggiori aree urbane, come nelle informi conurbazioni formatesi lungo le principali direttrici insediative e nei siti originariamente dotati di qualità naturale e paesaggistica devastati dalla speculazione e dall'abusivismo e resi anch'essi invivibili. Indirizzo della pianificazione e delle politiche territoriali e urbane, a ogni livello, deve essere quello di tendere alla umanizzazione e socializ zazione delle aree urbane, periurbane, suburbane e semiurba ne, mediante interventi di riqualificazione funzionale e di recupero urbano, edilizio, ambientale, estetico, culturale, sociale.
(La prima parte di ogni tesi, in grassetto, è l’enunciato; la seconda parte l’argomentazione)
Tesi alternativa alla n. 7
La pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa, non solo perchè deve applicarsi a una realtà che è essa stessa complessa, ma anche perchè si esplica necessariamente con il concorso dei diversi enti territoriali coinvolti nella formazione delle scelte. Ma la pianificazione dev'esser vista e gestita come un'attività unitaria: deve investire cioè in un'unica logica e in unico processo tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.
La pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa per più d'una ragione. In primo luogo perchè essa deve applicarsi, come strumento per la soluzione di determina ti problemi e per il raggiungimento di determinate finalità, a un territorio e a una società di cui la complessità è caratteristica sempre più marcata: illusorio sarebbe presumere di governare realtà siffatte con strumenti semplici e schematici, con risposte solo puntuali ed estemporanee, o con progetti e programmi limitati ad alcuni aspetti o setto ri o luoghi.Ma la pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa anche perchè essa, nell'assetto istituzionale ita liano, si esplica necessariamente come concorso dei diversi enti coinvolti nella formazione delle scelte: enti che devono potersi esprimere secondo modi e procedimenti tali da garantire la partecipazione degli interessi, di cui ciascuno di essi è portatore istituzionale, al processo di for mazione delle decisioni. L'adozione del metodo della pianificazione come criterio fondamentale di guida di tutte le azioni della pubblica amministrazione suscettibili di incidere sull'assetto del territorio ha anche il significato di garantire una partecipazione siffatta.La complessità tuttavia rischia di degenerare in complicazione, di provocare confusione e inefficienze, di vanificare infine la stessa attività di pianificazione, di rendere irraggiungibili i suoi obiettivi. Segni preoccupanti di que sta tendenza è il proliferare delle figure pianificatorie, il sovrapporsi di piani a tutti i livelli senza chiarezza sulle reciproche connessioni e gerarchie, la separatezza e, spesso, la contraddizione con le quale le esperienze di pia nificazione sono vissute. In questa situazione sarebbe sbagliato proporsi di riordina re i livelli di pianificazione (come pure è necessario) li-mitandosi a semplificare la congerie di piani esistenti. Ciò che è invece necessario è ritrovare una unitarietà di metodi, criteri e indirizzi per tutto il processo di pianificazione. Occorre cioè comprendere come deve svolgersi un' attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che investa in una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo: nazionale, regionale, provinciale e metropolitano, comu nale.
Tesi alternativa alla n. 8
Affinchè un'attività complessa e unitaria, quale la pianificazione deve essere, possa essere condotta con efficacia, è in primo luogo necessario chiarire in modo univoco e rigoroso quali sono gli elementi e gli aspetti territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende la possibilità di definire in modo convincente, da un lato, il contenuto degli atti di pianificazione a ciascun livello e, dall'altro lato, il potere che ciascun livello esercita.
L'efficacia del processo di pianificazione richiede che si chiarisca in modo univoco e rigoroso quali sono le competenze dei diversi livelli di governo. Il criterio oggi di fatto prevalente è quello di assicurare a ciascun livello di governo un ambito di "autonomia sorvegliata" all'interno di un determinato ritaglio territoriale, risolvendo i conflitti, inevitabili finchè la materia è"confusamente ordinata", con defatiganti procedure o con opachi scambi politici. Occorre invece, più produttivamente, partire dalla definizione di quali siano gli elementi e gli aspetti territoriali di competenza di ciascun livello di governo. Su questa base diviene anche possibile definire in modo convincente, da un lato, il contenuto dei piani ai differenti livelli e, dall'altro lato, il potere che ciascun livello di governo esercita, e quindi le conseguenti procedure.Per definire le competenze dei diversi livelli di governo (nel caso della Repubblica italiana, lo stato, le regioni, le provincie e le città metropolitane, i comuni), occorre assumere il criterio per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le determinazioni relative agli elementi e agli aspetti territoriali che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste. E' evidente che le determinazioni relative alla tutela dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio rispondono a interessi la cui titolarità è, oggi, dello Stato, ma che oggettivamente appartengono all'intera umanità presente e futura, tant'è che si va opportunamente assisten do a forme di intervento sovrastatuale o interstatuale. Le scelte relativa alle trasformazioni territoriali volte ad altre finalità, invece, possono riguardare interessi di aggregazioni comunitarie più o meno vaste, in relazione agli ambiti direttamente segnati da tali trasformazioni, oppure modificati dai loro effetti, singoli o cumulativi, nei loro assetti fisici o relazionali. Nella pratica della pianificazione, l'esercizio delle competenze proprie di ciascun livello di governo (e di piano) do vrà esprimersi in forme differenziate in ragione sia della natura e delle caratteristiche degli elementi e aspetti ter ritoriali considerati, sia della congruità delle "forme espressive" (localizzazioni precise, ambiti di localizzazione, soglie, ecc) con le specifiche competenze pertinenti a quel livello. Così, gli strumenti di pianificazione dei livelli di governo sovraordinati e di tipo "generale" dovranno definire pre cise localizzazioni o esatti tracciati per alcuni elementi (per es., un porto o una grande infrastruttura lineare), am biti, o direttrici, di localizzazione, da osservare nell' attività pianificatoria di livello sottordinato o di tipo attuativo per altri elementi (per es., la localizzazione di un aereoporto a livello nazionale, di una sede universitaria a livello regionale, di un istituto scolastico superiore a livello provinciale), quantità o soglie quantitative per altri elementi ancora, e in particolare per quelli influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella somma toria degli effetti che ne risultano.
Tesi aggiuntiva n. 8 bis
Le procedure che regolano i rapporti tra i diversi livelli di governo responsabili della pianificazione territoriale e urbana devono essere radicalmente riconsiderate, sulla base di pochi principi chiari e ragionevoli. Ogni livello di governo deve potersi esprimere sugli atti di pianificazione di competenza di ciascun altro livello, ma la decisione ultima spetta al livello di governo che ha competenza per quel determinato elemento o aspetto della struttura territoriale. Conseguentemente, ad ogni livello di governo deve essere riconosciuto un mero potere di controllo della conformità delle scelte di copetenza dei livelli sottordinati alle decisioni proprie e degli altri livelli sovraordinati.
Complicazione e burocratismi spesso inutili, incertezza degli esiti e dei tempi, deresponsabilizzazione dei soggetti: queste sono le regole che attualmente determinano, di fattoe nella maggioranza dei casi, le procedure attraverso le quali si concretizza il concorso dei diversi enti territoriali nella formazione degli atti di pianificazione. L'atteggiamento dei livelli di governo sopraordinati oscilla (spetto toccandoli entrambi) tra i due estremi, entrambi negativi, della rinuncia ad esercitare le proprie responsabilità istituzionali, e della più penetrante e ossessiva incidenza nelle decisioni proprie del livello sottordinato.Le procedure, che regolano il rapporto tra i differenti livelli di governo nella formazione degli atti della pianifi-cazione, devono essere radicalmente riconsiderate e riformulate, sulla base di principi chiari e ragionevoli che sosti tuiscano l'intera legislazione nazionale vigente in materia e inducano a rinnovare (semplificando, finalizzando e razio nalizzando) una legislazione regionale che è stata finora molto più ossequiosa della lettera della vecchia legislazio ne nazionale che attenta a enuclearne i principi e a innovarne i contenuti.Ogni livello di governo dovrebbe innanzitutto avere l'obbligo di esprimere le proprie scelte territoriali mediante un atto di pianificazione, ossia una serie di elaborati, rife riti a una definita base cartografica, che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. (E' il caso di affermare, a questo proposito, che una Regione che non abbia formato il proprio atto di pianificazione non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare un piano comunale).Gli enti territoriali elettivi di livello sottordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sovraordinato esprimendo osservazioni, cui dovrebbe essere sempre obbligatorio controdedurre motivatamente. Parimenti, gli enti di livello sovraordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sottordinato mediante pareri e osservazioni, ai quali dovrebbe essere ugualmente obbligatorio controdedurre motivatamente, ma che dovrebbero essere vincolanti solamente ove concernenti la tutela di interessi la cui competenza sia riconosciuta ai predetti enti di livello sovraordinato.E ove gli enti di livello sovraordinato abbiano provveduto ad esprimere tali interessi mediante gli strumenti di pianificazione di propria competenza, la vigenza degli strumenti di pianificazione di livello sottordinato dovrebbe essere soggetta soltato al controllo della loro conformità alle de terminazioni dei primi. Non dovrebbe infine essere previsto alcun controllo di merito, da parte degli enti di livello sovraordinato, sugli atti di pianificazione di tipo "attuativo", che vengano dichiarati, e siano, meramente esecutivi delle prescrizioni di strumenti di tipo "generale" già vigenti.
Tesi alternativa alla n. 9
Complessa per la realtà che esprime e per i soggetti che coinvolge, unitaria nello spazio nella capacità di configurare l'intero territorio come un sistema coerente, la piani ficazione territoriale e urbana deve essere concepita e praticata come un'attività continua nel tempo. Dalla generalizzazione della prassi distorcente delle varianti e delle deroghe è necessario passare a quella, adeguatamente formalizzata, dell'aggiornamento sistematico degli atti di pianificazione, per avvicinare i tempi delle decisioni sul ter ritorio ai tempi delle necessità sociali.
Si afferma spesso, e a ragione, che occorre passare dalla formazione di piani a un'attività continua, costante e sistematica di pianificazione. Questa affermazione non può in dicare solamente lo spostamento dell'accento da un atto (il piano) a un processo (la pianificazione), concependo e praticando però quest'ultimo come la mera successione di una serie di piani. L'efficacia del governo del territorio, e la possibilità di rispondere in tempi ragionevoli alle domande della società richiedono più profonde modificazioni nei modi di pianificare. Lo dimostra, del resto, la frequenza con la quale si impiega l'istituto della Variante. In molte città la sommatoria delle varianti (cui poi si aggiungono le concessioni in deroga autorizzate da leggi statali e regionali) ha pesantemente distorto le originarie scelte del PRG, ha reso incomprensibile la disciplina urbanistica ai cittadini, ha cancellato ogni possibilità di ottenere coerenza nell'assetto del territorio. Dietro l'impiego perverso della Variante, oltre agli evidenti interessi privatistici o di torbido scambio politico, si nasconde però anche un'esigenza reale: quella appunto di avvicinare i tempi delle decisioni ai tempi delle necessità sociali. Alcune esperienze compiute consentono di confermare che è possibile superare, senza negarlo, l'istituto del Programma pluriennale d'attuazione (travolto dalla deregulation negli anni in cui avrebbe dovuto invece consolidarsi). Che è possibile concepire e praticare la pianificazione come un insieme di scelte, tra loro coerenti, alcune formulate in relazione al lungo periodo (invarianti) e altre di carattere programmatico e di medio periodo (3-5 anni). Che è perciò possibile rivedere, periodicamente e sistematicamente, le scelte di piano, verificando ed eventualmente correggendo la parte di lungo periodo e proiettando di un altro periodo pluriennale la parte programmatica.Da un piano formato una volta per tutte, e variato "a macchie di leopardo" e alla fine (dopo 15 o 20 anni) rifatto ricominciando da capo, è insomma possibile e necessario pas sare a un'attività di pianificazione la quale preveda l'ag giornamento sistematico (p.es., ogni quinquennio) delle scelte sul territorio.
Tesi alternativa alla n . 10
E' necessario perseguire il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono o promuovono come indispensabile base del processo di pianifica zione. Le analisi effettuate dalle regioni, dalle province e dalle città metropolitane, dai comuni devono essere condotte secondo criteri, parametri, indirizzi coerenti, comparabili, integrabili. Quelle relative alle scale minori de vono poter essere sistematicamente verificate e integrate da quelle relative alle scale maggiori; le une e le altre devono costituire le maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenze costruita su di un'adeguata base cartografica, unitariamente concepita, sistematicamente aggiornata, multilateralmente utilizzata.
La necessaria unitarietà del processo di pianificazione (un unico processo, che si sviluppa articolandosi e integrandosi ai diversi livelli territoriali e di governo) rende indi spensabile ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo svolgono o promuovono come base per la redazione dei relativi atti di pianificazione.Le analisi che vengono condotte dalle regioni, dalle provin cie, dalle città metropolitane, dai comuni, sia sulla struttura fisica che su quella economico-sociale, non possono più esser condotte secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili nè integrabili.
Le analisi impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere si stematicamente verificate e integrate da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori. Le une e le altre devono costituire le maglie più larghe e più strette d'una medesi ma rete di conoscenza.
E' una rete di conoscenze che ha il suo primo elemento e la sua base di riferimento al territorio nel sistema cartogra fico, elemento primordiale d'ogni processo di pianificazione.
E' un danno grave per la capacità di governare con efficacia il territorio, e per lo stesso pubblico erario, che tutti gli enti (salve pochissime eccezioni) costruiscano la propria cartografia di base separatamente l'uno dall'altro. Certamente benemerita è l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali, ma la sua è un'attività monca se e finchè le regioni si disinteressano della cartografia alle scale mag giori, se e finchè gli enti locali non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.
La rete della conoscenza del territorio, in tutte le sue componenti tecniche e di livello (nella sua componente a ma glie più larghe e in quelle a maglie via via più fitte) deve essere aggiornata con periodicità e sistematicita. Un obiettivo da porre è quello di rendere sincroniche le cadenze dell'aggiornamento per i diversi enti territoriali, che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette a quelle campionarie) sia unitario, o quanto meno coordinato, non solo nella concezione ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione.
Tesi aggiuntiva n. 10 bis
Non solo nelle analisi, ma anche nella definizione degli indirizzi della pianificazione i diversi enti territoriali elettivi devono coordinare le loro azioni, finalizzandole al raggiungimento dei grandi obiettivi strategici che devo no caratterizzare i prossimi decenni, e la cui assunzione deve condizionare le scelte della pianificazione a tutti i livelli. I già enunciati obiettivi del massimo risparmio delle risorse territoriali in funzione delle esigenze dell'umanità di oggi e di domani, e il massimo possibile miglioramento della qualita della vita, non possono essere rinviati al 3° millennio, ma devono ispirare subito gli atti di politica territoriale e di pianificazione territoriale e urbana degli organi centrali dello Stato, delle regioni, delle province e delle città metropolitane, dei comuni.
La complessità e la drammatica urgenza degli obiettivi che devono essere assunti per la pianificazione territoriale e urbana, soprattutto se considerate nel contesto dei proces si di trasformazione del territorio che caratterizzano l'attuale fase storica, rendono essenziale il coordinamento degli impegni nei quali dovrebbe esprimersi l'azione di piani ficazione e, più in generale, le politiche territoriali di tutti gli enti territoriali elettivi, ciascuno secondo le proprie competenze e responsabilità. Come si è già argomentato, gli obiettivi della pianificazione consistono essenzialmente, e sinteticamente, nel massimo risparmio delle risorse (fisiche e culturali, naturali e storiche, organizzative ed estetiche) sedimentate nel territorio, e nel massimo miglioramento della qualità dell'ambiente di vita in termini igienici, funzionali, sociali edestetici. Mentre il secondo obiettivo assume priorità assoluta per le condizioni di vita della popolazione di oggi (la quale in grande maggioranza vive, lavora e si muove in ambienti urbani e territoriali caratterizzati dall'inquinamento, dall'assenza di ogni riconoscibile forma, dalla dequalifica zione funzionale e sociale), il primo obiettivo va persegui to ricordando che la società di oggi è responsabile del ter ritorio, e della risorsa che esso costituisce, nei confronti non solo di singoli gruppi sociali oggi presenti, ma del l'intera umanità di oggi e di domani. Ciascuno degli enti territoriali elettivi corresponsabili del governo del territorio ha una serie specifica e non dif feribile di compiti da svolgere e di responsabilità da assu mere, per raggiungere quegli obiettivi sui quali tutti sembrano concordare, ma che appaiono ben lungi dall'essere anche solo esser presi in seria considerazione.
Lo Stato, dopo anni e anni di colpevole e irresponsabile inerzia, provocata dalle forze che si sono succedute al governo e tollerate dalle stesse opposizioni, deve finalmente assumere le sue competenze istituzionali di indirizzo e coordinamento in materia di assetto territoriale e adottare per primo il rispetto degli obiettivi sopra richiamati nel-le politiche di settore più direttamente incidenti sul territorio, invertendo a tal fine, drasticamente, le tendenze in atto (basta pensare alla scandalosa politica nazionale dei trasporti).
Le Regioni, dopo aver per un ventennio deluso le aspettative di chi (a cominciare dai Costituenti) attribuiva loro competenze e responsabilità decisive nelle politiche territoriali, devono finalmente decidersi a completare la politi ca di ricognizione, di vincolo e di determinazione delle in varianti dettate dall'esigenza di tutelare l'integrità fisi ca e l'identità culturale del territorio, timidamente avvia ta con l'attuazione della legge 431/1985 e quasi ovunque vergognosamente interrotta, a pianificare il proprio terri-torio e a fornire agli enti locali indirizzi e, dove occorre, sostegni tecnici e finanziari. Esse non possono poi dimenticare o trascurare la responsabilità dell'esercizio del la funzione sostitutiva in caso di inadempienze.
Le province, le città metropolitane, i comuni ai quali ultimi fino a oggi è stata lasciata pressochè interamente, nel bene e nel male, la responsabilità della pianificazione devono finalizzare la formazione dei nuovi atti di pianificazione al risparmio di suolo, alla riorganizzazione funzionale dei sistemi insediativi, alla valorizzazione e riqualificazione dell'armatura urbana esistente, alla umanizzazione e socializzazione (con interventi di recupero urbano, edilizio, ambientale, estetico, culturale, sociale) dei quartieri realizzati, soprattutto nelle maggiori aree urbane (ma anche nelle bidonville del turismo di rapina e nelle aree devastate dall'abusivismo) nel corso dell'ultimo mezzo secolo.
Tesi alternativa alla n. 11
Ogni atto di pianificazione deve avere il proprio preliminare fondamento scientifico in un'analisi finalizzata della struttura fisica del territorio: più precisamente, in una lettura attenta delle risorse territoriali, in tutte le loro componenti. E per ciascuna delle componenti del terri torio (specifiche porzioni o classi di unità di spazio) la lettura deve consentire di individuare i gradi e i modi del la trasformabilità e della utilizzabilità.
Gli esiti della pianificazione sono in larga misura prede-terminati dalle analisi che vengono svolte e dal modo in cui lo sono. La scelta degli elementi della realtà che devo no esser letti e interpretati, e il modo di farlo, non sono mai neutrali rispetto agli esiti; a maggior ragione, a tali esiti devono essere strettamente finalizzati.Il primo fondamento scientifico di ogni atto di pianificazione (e del processo di pianificazione nel suo complesso) deve essere costituito da una lettura attenta delle risorse territoriali, individuate e classificate in tutte le loro componenti: sia quelle che costituiscono elementi della qua lità del territorio (prevalentemente costituite, nel nostro paese, dal prodotto del sapiente intreccio tra lavoro e cul tura da un lato, e le caratteristiche, i ritmi, le regole della natura dall'altro lato), sia quelle nelle quali si ma nifestano le varie forme di degrado che caratterizzano le periferie urbane e molte e crescenti porzioni del territorio extraurbano. Le risorse territoriali, le qualità e i disvalori dell'ambiente, devono essere visti e interpretati nel loro insieme e nei loro caratteri specifici, con i livelli di approfondi mento pertinenti ai diversi livelli di pianificazione. Dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa settecentesca, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante, dal corso d'acqua alla discarica abusiva, ogni elemento del territorio deve essere individuato e classificato in ragione del la qualità che storia e natura hanno in esso impresso, o delle devastazioni e degradazioni che hanno cancellato, totalmente o parzialmente, le qualità preesistenti. La lettura delle caratteristiche fisiche del territorio deve consentire di individuare, per ciascuna delle componenti o delle classi di componenti, quali sono i gradi, i modi, e insomma le regole della trasformabilità, sia fisica (cioè quali operazioni tecniche, secondo quali criteri, con quali specifiche finalità relative all'"oggetto" si possano o deb bano fare), sia funzionale (cioè quali siano le utilizzazio ni compatibili con le caratteristiche proprie di quell'"oggetto", porzione del territorio o classe di unità di spazio che sia). Deve poi consentire di definire quali priorità debbano essere seguite nelle trasformazioni (per impedire, ad esempio, che terreni agricoli vengano urbanizzati prima di quelli già sottratti al ciclo naturale), quali sono i costi necessari, quali i benefici ottenibili dalla trasformazione e i danni derivanti dall'inerzia o dall'incuria.Alcune esperienze e indicazioni utili per una lettura del territorio in tal modo finalizzata sono venute negli anni recenti, sviluppando antiche intuizioni della cultura urbanistica italiana. In particolare la legge 431/1985, la cosiddetta"legge Galasso",se da una parte è valsa a stimola re un'azione di salvaguardia attiva delle qualità del terri torio (malauguratamente condotta dalle Regioni e dagli orga ni centrali dello Stato, come l'INU ha più volte puntualmen te documentato e denunciato, in modo assolutamente inadegua to rispetto alle aspettative, alle esigenze e alle stesse potenzialità della legge), dall'altra parte è valsa a dimostrare, nelle più convincenti applicazioni, la concreta pos sibilità di operare nel modo suddetto. L'obiettivo che deve essere assunto oggi è quello di porre la lettura delle qualità del territorio e la definizione delle regole della trasformabilità alla base dei processi di pianificazione non solo in tutta la pianificazione regionale ma anche nella pianificazione territoriale e urbanistica ai livelli provinciale o metropolitano e comunale
Tesi aggiuntiva n. 11 bis
Ogni atto di pianificazione deve essere basato su una lettura altrettanto attenta, e sistematicamente aggiornata, della struttura economico-sociale del territorio, con particolare riferimento alla domanda sociale, cioè alle esigenze, ai fabbisogni, alle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, e alle risorse economiche disponibili e impiegabili.
Ogni atto di pianificazione deve essere basato su una lettura attenta e rigorosa delle componenti della domanda socia le che richiedono di operare trasformazioni territoriali. Su un'analisi, cioè, delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità, espresse o esprimibili da parte delle diverse componenti della realtà sociale ed economica, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per migliorarne la vivibilità o per ospitare funzioni nuove, oppure che richiedono trasferimento di funzioni non insediate corretta mente, oppure per rendere i siti nei quali sono insediate funzioni con essi compatibili più idonei alle funzioni ospi tate.Una lettura della domanda sociale (e, più in generale, dei diversi aspetti della struttura economico-sociale di cui la domanda sociale è l'espressione) non ha senso, in un pianificazione quale quella cui si fa riferimento, se non è fin dall'inizio predisposta per essere aggiornata con continui tà e sistematicità. Mentre infatti la struttura fisica del territorio ha una consistente inerzia e le sue trasformazioni operano su archi temporali lunghi, quella economico-sociale si modifica con grande velocità e le sue trasformazioni devono essere registrate e valutate in tempo reale. La progettazione di sistemi informativi, rigorosamente legati a una base territoriale restituita in modo omogeneo con i criteri di analisi della struttura fisica del territorio,e la sua messa in opera contestualmente alle prime fasi del processo di pianificazione, non sono dunque un lusso ma una necessità insopprimibile per la correttezza e l'efficacia del governo del territorio, e un modo per evitare gli attua li sprechi (d'energie, di tempo, di soldi) derivanti dalla ripetitività delle analisi, dalla loro non finalizzazione,dalla loro sostanziale casualità e dispersività. Nell'ambito di queste analisi, attenzione particolare deve esser posta alla individuazione, analitica o stimata, delle risorse economiche, pubbliche e private, attivabili per la realizzazione delle previsioni della pianificazione, con particolare riferimento a quelle adoperabili per realizzare o promuovere gli interventi programmabili nel medio periodoe quelli aventi priorità strategica.
Tesi aggiuntiva n. 11 ter
La pianificazione deve distinguere le scelte che, concernen do qualità e valori propri della struttura fisica del territorio, devono costituire le invarianti delle trasformazionida quelle che, esprimendo esigenze, realtà, priorità più di rettamente legate alla situazione economica, sociale e politica, sono suscettibili di mutamenti in tempi relativamente brevi. In tal modo la pianificazione, sistematicamente veri ficata nelle scelte invarianti e di lungo periodo e aggiornata nelle scelte programmatiche e di medio periodo, può costituire un quadro di coerenza dinamico, capace di adattarsi alle modificazioni conservando costantemente una coerenza complessiva.
Una lettura della struttura fisica del territorio, e in particolare delle sue qualità, quale quella i cui criteri si sono sopra esposti, consente di definire quali sono le gamme di trasformazioni (fisiche e funzionali) compatibili con una utilizzazione del territorio rispettosa dei suoi valori: ossia quali sono le invarianti che l'esigenza di tutelare l'integrità fisica e l'identita culturale del territorio pone alle trasformazioni territoriali e urbane.
Una lettura adeguata della struttura economico-sociale, e le opzioni politico-sociali espresse nelle sedi istituzionali, consentono di definire quali sono, all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione del territorio, lo operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.
La pianificazione, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (perchè le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo), ma deve anche indicare, tassativamente e precisamente, quali sono le trasformazioni operabili e/o prescritte nel breve periodo: nel periodo, cioè, per il quale le previ sioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse economiche sono certamente disponibili.
La pianificazione quindi, sistematicamente aggiornata e resa scorrevole, può finalmente costituire il quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale delle condizioni alle trasformazioni poste dalla risorsa territorio) che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più diretto e pro grammatico esplica la propria efficacia.
Tesi alternativa alla n. 12
La progettazione urbanistica e la progettazione edilizia sono entrambe ovviamente con ruoli diversi e diversa importanza momenti tecnici rilevanti del processo di pianificazione, con le cui scelte interagiscono.
Intendiamo per progettazione quall'insieme di tecniche capaci di prefigurare, e con ciò stesso di rendere facilmente comprensibile, un assetto fisico e funzionale totalmente o parzialmente diverso da quello attuale, esprimendo tale pos sibile assetto mediante la forma, o la simulazione, di un progetto. In tal senso, momento tecnico essenziale della pianificazio ne è il progetto urbanistico, il quale prefigura (in tuttala sua complessità e articolazione, in tutta la sua ricchezza di elementi e d'interazioni), l'assetto d'un organico spazio territoriale o urbano (d'un sistema ambientale, o d' un sistema insediativo o della realtà che entrambi li comprende) soggetto al processo di pianificazione. Il progetto urbanistico può anche costituire il momentodella simulazione dei possibili esiti di diverse scelte territoriali, anche alternative; costituisce un rilevante strumento di verifica o di avvicinamento alla formulazione o de finizione delle scelte della pianificazione generale. Ma anche il progetto edilizio, il quale prefigura l'assetto fisico e funzionale di una porzione limitata di spazio compresa all'interno di un più complesso ambito soggetto a pia nificazione, può costituire un utile momento di verifica a priori delle soluzioni di pianificazione generale configura bili o già configurate, e di approfondimento delle ipotesi normative formulate. Esso è poi lo strumento essenziale per la pianificazione attuativa, dove l'approfondimento e la traduzione in termini precisamente morfologici e funzionali è finalizzata a una rapida realizzazione dell'intervento. Sembra infatti inopportuno prefigurare (in termini prescrit tivi o con ridotte possibilità di scostamento dal "disegno planovolumetrico" o altro) configurazioni formali per parti della città e del territorio che saranno realizzate in un tempo non certo, e comunque non vicino.Sia il progetto urbanistico che il progetto edilizio sono quindi differenziatamente funzionali a gli atti di pianificazione. La loro elaborazione interagisce con le più complessive scelte della pianificazione e ne costituisce parte integrante.
Tesi alternativa alla n. 13
Sul principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana tutti, in teoria, si dichiarano d'accordo. Esso però è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, ad opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico.
Si contraddice il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull'organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell'ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianifi cazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri.
E' quel che è avvenuto o che si propone in numerosi casi re centi. Come a Firenze, dove il piano per l'urbanizzazione della piana a nord-ovest della città è stato redatto in fun zione degli interessi delle società già proprietarie (Fiat) o divenute proprietarie (Fondiaria) delle aree coinvolte.
Come a Napoli, dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del "Regno del possibile" propongono al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupe ro di quasi 70mila alloggi nel centro storico, inclusi gli oltre 5mila di proprietà dello stesso Comune da conferire in proprietà alla s.p.a.
Come a Roma, dove l'Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si è proposta come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasforma zione della città.
Come infine a Milano, dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree è divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale di cui si rinuncia program maticamente a verificare gli effetti sul contesto urbano e metropolitano. Con una rapidissima sequenza di varianti pun tuali si sono infatti autorizzati, e si stanno in molti casi realizzando, oltre 12 milioni di nuove strutture edilizie per il terziario (di cui solo 2 già previsti dal Prg vi gente): come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, come se fosse del tutto indif ferente la loro collocazione nella città, e come infine se non fosse del tutto evidente che il territorio comunale è saldato ed inserito in una agglomerazione a sua volta caotica e destrutturata.
E come in numerose altre città italiane, dove la prassi della cosiddetta "urbanistica contrattata" nasconde la sostanziale abdicazione del potere pubblico elettivo di fronte a nuovi intrecci di interessi economici, dove sono presenti, insieme, il capitale privato, pubblico e cooperativo, interessi industriali, finanziari, assicurativi e fondiari, com plessi multinazionali e aziende locali.
E si contraddice ugualmente il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando le decisioni sull'assetto del territorio, anzichè essere adottate dagli istituti rappresentativi della volontà popolare, sono prese da organismi che, pur essendo parte del sistema dei pubblici poteri, esprimono legittimamente solo interessi parziali (singoli ministeri e assessorati, aziende statali o parastatali e così via).
Una forma peculiare di contraddizione della titolarità pubblica della pianificazione è quella che va affermandosi nel Sud in riferimento alle modalità nuove dell'intervento stra ordinario nel Mezzogiorno (legge 64). Data l'impossibilità dagli enti locali, generalmente privi di adeguate strutture tecnico-operative, di predisporre in modo autonomo i proget ti esecutivi, sui quali chiedere i finanziamenti, sono le tecnostrutture aziendali o gli studi professionali ad esse collegati a produrre in proprio tali progetti decidendone essi contenuti e caratteri e ad offrirli agli enti locali dietro l'impegno di questi a ripagare i "promotori" con l' affidamento delle opere
Tesi alternativa alla n. 14
Affermare la titolarità pubblica della pianificazione non significa escludere la possibilità di rilevanti ruoli dei soggetti privati, e neppure attribuire un valore positivo a qualunque forma dell'intervento pubblico. Oggi, anzi, è necessario denunciare con chiarezza una forma particolare, edestremamente grave, di svuotamento della pianificazione compiuto dalla mano pubblica con l'alibi della "straordinarietà".
Negli ultimi anni la straordinarietà di eventi spesso imprevedibili (come i terremoti), altre volte prevedibili o addi rittura programmati (come i Mondiali di calcio), è stata utilizzata come occasione per introdurre, e via via generalizzare, procedure, indirizzi, poteri assolutamente alterna tivi rispetto a quelli della pianificazione.
Ogni problema, locale o generale, divenuto insostenibile per la lunga inerzia dei poteri istituzionalmente competenti, viene artificiosamente presentato come emergenza cui far fronte oggi con interventi speciali, il cui primo connotato sia la facoltà di non rispettare i piani urbanistici. E si può fondatamente individuare in tale prassi la matrice di una pericolosa legittimazione di poteri pubblici speciali non a caso intestati a singoli fondamentalmente intesi come potestà di deroga. Mentre la deroga, invocata e ottenuta oggi per questa o quell'altra situazione particolare ed emergente,viene poi estesa e tendenzialmente generalizza ta fino a diventare deregulation e cioè (nell'accezione i taliana del termine)deroga da qualsiasi regola, sregolatezza.
Riaffermare la pianificazione come metodo di governo del territorio implica anche la ricerca di un rinnovamento delle forme e dei procedimenti che consenta di raggiungere migliori livelli di efficacia, operatività e verificabilità degli interventi. In questa logica, va perseguita l'individuazione accurata e scientificamente fondata della aree a rischio, nelle quali rendere sistematica la prevenzione delle calamità come con tenuto specifico della pianificazione tanto in termini di riduzione del pericolo quanto ai fini degli indirizzi strutturali di riorganizzazione e riqualificazione insediativa.
Tesi alternativa alla n. 15
La titolarità pubblica della pianificazione, per poter essere esercitata coerentemente con le finalità generali precedentemente richiamate, ha bisogno di alcune condizioni indispensabili. Molte di queste riguardano la definizione di un rapporto corretto tra le diverse articolazioni del potere pubblico e soprattutto tra poteri pubblici e soggetti privati, attraverso un nuovo sistema di regole e di comportamenti relativi agli aspetti economici, istituzionali, etici e professionali.
Dichiarare la titolarità pubblica della pianificazione resta una mera posizione di principio, o un’affermazione accademica, se non è in grado di indicare e determinare (a seconda degli specifici ruoli) quali sono le condizioni indispensabili per il suo esercizio.
Tali condizioni riguardano diversi e fondamentali aspetti della vita e dell'organizzazione della società: quello economico (e in primo luogo la questione del regime degli immobili), quello istituzionale Dove il riordino del sistema amministrativo è una componente rilevante ma non esclusiva di un più ampio complesso di question) quello etico (in cui è necessaria una riflessione critica soprattutto sul rapporto tra momento politico-decisionale e momento tecnico-culturale), e infine su quello professionale (dove si ritiene indispensabile ridefinire il ruolo delle professionalità coinvolte nel processo di pianificazione).
Su questi argomenti l'Inu avverte in modo particolare la necessità di ampliare e qualificare il confronto con altre dimensioni, competenze e saperi presenti nella cultura e nella società italiane, nell consapevolezza che si tratta di nodi che hanno una portata ben più ampia di quella che può essere dominata da uno specifico istituto culturale.
Tesi alternativa alla n. 16
La distribuzione differenziata ai soggetti proprietari dei vantaggi economici della valorizzazione immobiliare conseguente ai piani non può nè deve essere obiettivo di una pianificazione che sia nell'interesse generale. La pianificazione deve farsi carico della concreta realizzabilità delle scelte previste, tenendo conto dell'ambiente economico complessivo e non delle convenienze di questo o di quell'altro specifico soggetto privato. I capitali d'investimento e le capacità imprenditive delle aziende a capitale priva to, pubblico e cooperativo devono trovare nell'attuazione delle scelte della pianificazione, e nella certezza e chiarezza da esse determinate, il campo del loro intervento.
E' noto, oltre che evidente, che il ruolo degli interessi e conomici è determinante nelle trasformazioni territoriali. Il modo in cui vengono definite le regole del rapporto tra scelte sul territorio e concreti interessi economici è perciò essenziale ai fini della qualità (formale, funzionale, sociale) dell'assetto territoriale e urbano. Oggi, gli interessi economici della proprietà, immobiliare e finanziaria, e dell'impresa, sono sempre più spesso i promotori di scelte di localizzazione, urbanizzazione, realizzazione e gestione di interventi complessi i quali (come è attestato dagli esempi già citati) prescindono pressochè totalmente sia dal corretto ruolo dei poteri pubblici elettivi, cui viene chiesto di fornire una mera copertura formale, sia dei metodi e delle procedure della pianificazione, e quindi della valutazione degli effetti che le scelte producono su ambiti territoriali vasti e della trasparenza delprocesso di formazione delle decisioni.
Questo modo distorto di praticare il rapporto tra poteri istituzionali e poteri economici tende a generalizzarsi sianella prassi della cosiddetta "urbanistica contrattata" sia in un uso improprio dell'istituto della concessione, sempre più impiegato come delega piena, indiscriminata e incontrol lata di poteri pubblici a soggetti privati. Esso deriva, e comunque così viene giustificato, come un effetto dell'inca pacità di molte istituzioni pubbliche ad esercitare con efficacia le loro competenze di pianificazione e programmazione. Per combatterlo, e instaurare un rapporto corretto con gli interessi economici, occorre ricondurre questi ultimi al loro giusto ruolo di strumenti di un interesse generale definito dagli enti territoriali elettivi mediante la pianificazione del territorio.
A questo fine è necessario riprendere la classica distinzio ne (tuttora valida nonostante il più complesso carattere dei rapporti tra le diverse categorie d'interessi) tra le figure economiche legate alla produzione, alle attività im-prenditoriali e alla formazione di profitto, e le figure economiche legate alle attività immobiliari e alla formazio ne di rendita. Queste due figure economiche avevano comin ciato a distinguersi anche nei concreti comportamenti negli anni, e nelle situazioni territoriali, in cui la mano pubblica aveva esercitato una moderna politica delle aree. La massimizzazione delle aree acquisite dai comuni con i pur imperfetti strumenti disponibili (in particolare le leggi 167/1962 e 865/1971) e la cessione alle imprese costruttrici delle aree urbanizzate avevano consentito di incrinare il blocco tra proprietà e impresa, tra rendita e profitto. Uno dei risultati più gravi della fase del cosiddetto riflusso urbanistico, e del deperimento o dell'abbandono degli strumenti legislativi disponibili, è stato proprio la ricostituzione di quel blocco e la ripresa di processi di trasformazione immobiliare guidati da interessi speculativi.
Finchè non sarà varata una riforma del regime degli immobili capace di risolvere radicalmente il problema, è necessario che almeno gli interventi strategici nelle aree urbane avvengano secondo il modello dell'acquisizione preliminare degli immobili da parte dei comuni, della loro cessione a-gli utilizzatori, e del convenzionamento degli esiti economici per evitare che le rendite si ricostituiscano sugli immobili trasformati.
Ragioniamo sulla rendita urbana
contributi di Edoardo Salzano
0. Introduzione
1. La rendita
2. Rendita e potere
Premessa
Quest’anno e il prossimo alla Scuola di eddyburg si parlerà di economia. In modo un po’ diverso da quello che adopera il mainstream urbanistico.
Quest’anno parleremo di rendita, l’anno prossimo di sviluppo. Si tratta, in entrambi i casi, di termini che hanno pesato e pesano molto sulla città e sulla buona urbanistica. Nelle cinque precedenti sessioni della scuola abbiamo ragionato del peso che “rendita” e “sviluppo” hanno avuto per il consumo di suolo (2005), per il paesaggio (2006), per la città pubblica (2007), per la vivibilità (2008), per lo spazio pubblico (2009). Nella sesta e nella settima andremo al cuore della questione.
In questi quattro giorni ci interrogheremo sui meccanismi che provocano la rendita (in particolare quella urbana) e la sua appropriazione privata; sull’evoluzione storica del peso della rendita urbana e sul suo significato odierno; sui modi e gli strumenti capaci di ridurne gli effetti negativi e utilizzarla “a fin di bene”. E l’anno prossimo ragioneremo analogamente su quell’altro termine così spesso presente nell’urbanistica odierna, e nelle sue mistificazioni: “sviluppo”.
Parleremo della rendita (e dello sviluppo) criticamente, come è d’uso in questa scuola. E ne parleremo da urbanisti e da cittadini, non da economisti: anche se valorosi economisti ci aiuteranno a non dire troppe sciocchezze dal punto di vista della loro scienza, e soprattutto ad approfondire alcune prospettive di lavoro.
Per cominciare, con una breve premessa, cercheremo di raccontare in che modo vediamo il mondo dell’economia partendo da una visione dell’uomo. Anche perchè ci muoviamo in un terreno - quello dell’economia - che, negli ultimi decenni è stato poco frequentato dall’urbanistica. A differenza di quanto succedeva mezzo secolo fa, l’urbanistica delle università e delle associazioni, come quella delle amministrazioni, si è fortemente tecnicizzata: si è separata dagli altri saperi, di cui ha utilizzato quasi esclusivamente le technicalities, gli aspetti più biecamente strumentali e tecnologici. Questo ci impone di prendere l’argomento un po’ alla larga.
I saperi
In un mondo abitato da una società giusta i diversi saperi, che concorrono allo sviluppo dell’uomo, dovrebbero essere in equilibrio tra loro e tutti finalizzati, appunto, al miglioramento della condizione umana: la filosofia e l’economia, l’arte e il diritto, la politica e la fisica – e via enumerando. Ciascuno dei saperi corrisponde infatti a un aspetto dell’uomo: una dimensione della sua intelligenza e della sua attività, volte a comprendere e a governare il mondo che lo circonda.
Secondo il buonsenso (e secondo gli studiosi più attenti[1]) oggi non c’è affatto un equilibrio tra i saperi. Uno di essi, la cui formazione si è consolidata nel corso degli ultimi 2-3 secoli, domina oggi sugli altri. Si tratta dell’economia, cui sono di fatto asservite tutte le altre dimensioni. Asservite in un duplice senso: che hanno minor peso sociale, minore considerazione, minore importanza nell’assunzione delle decisioni; nel senso che gli altri saperi sono ridotti al sostegno strumentale dell’economia.
Per di più, negli ultimi decenni la scienza economica ha smarrito, o ha fortemente ridotto, la sua capacità critica nei confronti della realtà. Non tutta la scienza economica, ma certamente quella dominante (l’economia mainstream) è ancora tutta racchiusa all’interno di questo sistema economico dato (il sistema capitalistico, così come si è venuto conformando nel XVIII e XIX secolo e come, da allora, si è venuto a modificare e reincarnare). Non ne critica i dati di fondo, così come l’analisi scientifica li ha individuati del XIX e nel XX secolo, ma analizza il funzionamento nei suoi apparati tecnici nell’impegno a lubrificarne i meccanismi.
Di conseguenza, si può affermare che si è perso un elemento decisivo, anzi basilare, del ragionamento dell’economia: la consapevolezza del suo ruolo ai fini dello sviluppo dell’uomo, intendo il termine sviluppo nel senso di miglioramento della sua condizione esistenziale e accrescimento delle sue capacità di conoscere e governare il mondo.
Il bisogno, il lavoro
Due concetti secondo me essenziali per riannodare correttamente l’economia all’uomo (e alle sue più generali finalità) sono costituiti dal bisogno e dal lavoro. Riporto qui una spiegazione abbastanza chiara di questi due termini, riprendendo alcune formulazioni di Claudio Napoleoni.
«I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici è una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, così come essa si presenta in ogni momento dato. […] Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari di un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore. […] Questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacchè è il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni»[2].
E se l’uomo è riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli cioè che dipendono dalla sua vita animale, i bisogni della sussistenza, ecco allora che
«vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più»[3].
Il consumo è l’attività economica finalizzata alla soddisfazione del bisogno, la produzione ha a sua volta la sua finalità nel consumo. Lo strumento mediante il quale l’uomo produce è il lavoro, altra dimensione essenziale del processo economico e del progresso dell’uomo. Seguendo anche qui la definizione di Napoleoni, il lavoro
«è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine. I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo. Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari, senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi di servire per fini superiori. In questo processo naturale di sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed è il lavoro arricchito che consente fini più alti»[4].
Accanto a queste definizioni vorrei aggiungere quelle sul lavoro di Karl Marx, che troverete anche nel Glossario di eddyburg:
«Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere»[5].
«In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita»[6].
In altri termini, il lavoro è lo strumento mediante il quale l’uomo è in grado di comprendere il mondo (cioè tutto ciò che è fuori di sé) e di governarlo (cioè di utilizzarlo ai fini propri e della propria specie.
Il sistema capitalistico
L’analisi di Marx ha avuto un lungo periodo d’oblio. Il suo metodo d’analisi e i fondamenti della sua descrizione del capitalismo sono riemersi negli ultimissimi anni, poiché sono stati considerata da molti come quelli da cui si poteva partire per interpretare in modo corretto la crisi nella quale è precipitato (ancor oggi sembra senza via d’uscita) il sistema capitalistico. Quest’ultimo non è solo un sistema di produzione: è un insieme di meccanismi e strumenti, di valori e di principi che condizione l’intera vita della società. É, al tempo stesso, una ideologia[7] e un dispositivo[8].
Se lo guardiamo criticamente e nel suo sviluppo storico, ha avuto grandissimi meriti e demeriti. Ha reso possibile uno sviluppo incredibile della produzione di beni, materiali e immateriali, utilizzabili per la sussistenza, quindi ha liberato potenzialmente l’umanità intera dalla fame e dalla malattia. Grazie alla dialettica sociale implicita nel conflitto tra capitale e lavoro ha consentito di riversare gran parte dei suoi benefici a strati amplissimi della popolazione (quasi alla totalità nelle regioni direttamente legate ai suoi meccanismi produttivi).
Ricco di elementi positivi, ma almeno altrettanto più ricco di quelli negativi. Tra questi vorrei sottolinearne due costitutivi (che cioè sono emersi ben prima della crisi attuale, e prima ancora che la consapevolezza dei limiti del nostro pianeta facesse apparire quello ecologico). Essi riguardano appunto il bisogno dell’uomo e il suo lavoro.
Nell’analisi marxiana il proprietario dei mezzi di produzione (il capitale) compra la forza lavoro, pagandola un prezzo inferiore al suo valore. Il profitto (cioè il guadagno dell’imprenditore in quanto tale) corrisponde alla differenza tra il valore del lavoro e il suo prezzo, cioè è il risultato dello sfruttamento del lavoro. Il punto essenziale ai fini del nostro ragionamento è il seguente. Riducendo il lavoro a merce, e con questo a mero strumento della produzione del plusvalore (del profitto), il capitalismo interrompe (per dirla ancora con Napoleoni) quel «processo naturale di sviluppo» dell’uomo che nasce dalla stretta interrelazione dinamica tra fini (bisogni) e mezzi (lavoro).
«Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso la produzione occorrente per soddisfare i bisogni di sussistenza di un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto»[9].
Il lavoro è “alienato”, ossia ordinato a fini diversi da quelli che naturalmente (secondo una determinata antropologia) sono suoi propri. E mano a mano che si è riusciti a soddisfare in modo ampio (all’interno dei mercati rilevanti per il sistema) quei determinati bisogni, ci si è unicamente adoperati a soddisfarli in modi sempre più complicati, ridondanti, “opulenti”.Questa doppia riduzione del bisogno e del lavoro ha la sua radice nel fatto che il sistema economico capitalistico è finalizzato alla massimizzazione del profitto ottenibile dai proprietari dei mezzi di produzione mediante il processo di trasformazione delle merci. Il consumo (e quindi il soddisfacimento del bisogno) è stato considerato come una variabile dipendente: consumare perché si possa produrre sempre di più; e consumare quelle determinate merci che il sistema è in grado di comprendere, quindi di produrre.
La scienza economica
Una definizione di scienza economica che mi sembra abbastanza ampia da abbracciare sia una visione generale dell’economia come attività umana che l’economia data (quella cioè all’interno del sistema capitalistico) è quella dell’economista inglese Lionel Robbins:
«La scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i propri bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi» [10].
Questa definizione ci fa comprendere che ciascuno di noi fa economia (è “economista”) ogni volta che si pone il problema di decidere a quali fini destinare risorse scarse: se impiegare una quota del suo tempo e una quota del suo reddito per andare alla scuola di eddyburg, o per passare tre giorni al mare, oppure per comprare dieci libri, cinque CD e una bottiglia di whiskey e stare a casa a leggere, sentire musica e bere. Così come fa politica (è “politico”) ciascuno di noi ogni volta che incontra altri e discute con loro come fare per risolvere un problema di carattere generale, che con altri condivide.
Naturalmente come tutti i saperi (e tutte le dimensioni dell’uomo cui i saperi corrispondono) anche l’economia ha le sue parole chiave, i suoi concetti e principi, le sue regole. Questi cambiano tutti a secondo delle diverse fasi della storia del mondo e delle civiltà che convivono e si susseguono. Quelli che adoperiamo oggi si sono sviluppati nell’ambito della nascita e dello sviluppo del sistema capitalistico e dell’analisi di esso. É a essi quindi che mi sono riferito e continuerò a riferirmi, pur tenendo presente che sarebbe un errore grave ritenere che questo sistema sia l’unico possibile.
Beni economici; valore d’uso e valore di scambio; bene e merce
Bene economico è qualsiasi cosa, materiale o immateriale, che sia idonea a soddisfare qualche bisogno e che sia disponibile solo in quantità limitata, ossia sia utile e scarsa (p. 9). Osserviamo che l’utilità può assumere caratteristiche diverse: può essere reale o percepita, può essere tale per uno specifico uomo oppure per una moltitudine, può essere effettiva oppure indotta. E osserviamo che la scarsità (cioè il fatto che quel bene sia disponibile in quantità inferiore a quanto sarebbe richiesto per soddisfare la totalità dei bisogni) può dipendere dalle caratteristiche proprie del bene, oppure dal fatto che esso è reso artificiosamente disponibile in quantità limitata.
Ogni bene può essere considerato in due modi:
- a seconda dell’utilità, ai fini della soddisfazione di un bisogno, che ne può ricavare un determinato soggetto, oppure
- a seconda del vantaggio che ne può ricavare il suo possessore dall’atto di scambiarlo con un altro soggetto.
Prescindendo dalla discussione su che cosa debba intendersi per valore (come esso si formi, da che cosa derivi ecc.) limitiamoci ad annotare che, a seconda di quei due modi, l’economia classica parla di valore d’uso e valore di scambio. Il primo è quella che deriva dall’utilità che ha quel bene, per la sua specifica corrispondenza a un determinato bisogno di un determinato soggetto; il secondo alla capacità di ottenere, in sostituzione di quel determinato bene, un altro qualsiasi bene.
Da questa fondamentale distinzione discende che il valore d’uso è legato ai concetti di individualità (del bene e del soggetto), di specificità, di bisogno, mentre il valore di scambio ai concetti di generalità, di fungibilità, di sostituibilità. Il valore d’uso è una caratteristica propria di quel determinato bene. Il valore di scambio è una caratteristica che accomuna tutti i beni oggetto di valutazione economica. In teoria nessun valore d’uso è riconducibile a un altro, mentre ogni valore di scambio è riconducibile (e riducibile) a moneta. Marx la definisce come l’”equivalente universale” di ogni valore di scambio.
Possono esserci beni che hanno valore d’uso ma non valore di scambio. In generale si tratta di beni che non posseggono la seconda caratteristica attribuita dl bene economico dalla definizione che ne abbiamo dato, cioè la scarsità: così l’aria ha certamente valore d’uso (è utile per un irrinunciabile bisogno di ogni uomo) ma non ha valore di scambio perché è presente in misura superiore al bisogno. Ed è aperta la lotta per conservare in questa condizione anche l’acqua, cui si vuole invece attribuire valore di scambio.
In eddyburg e nella sua scuola abbiamo spesso sottolineato la rilevanza della distinzione tra bene e merce. Abbiamo detto che si tratta di termini che si riferiscono ai medesimi elementi, ma li vedono da punti di vista diversi. Se considero, ad esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne traggo, quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto definirlo merce. Il bene è destinato all’uso, la merce allo scambio. É in relazione a questa distinzione che gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti come beni o come merci. Naturalmente, ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, l’informazione sono certamente beni, ma non sono merci.
La scienza economica ha conservato la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e continua a parlare di entrambe le forme. Fino a qualche tempo fa si sosteneva che in ogni bene deve essere comunque presente un valore d’uso, altrimenti non sarebbe oggetto di scambio e quindi non avrebbe il valore corrispondente a questa virtualità. La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia potrebbe portare a dubitare di questa affermazione. A meno che non si voglia considerare valore d’uso quello derivante dal possesso di un maggior potere. Disporre di un elevatissimo valore di scambio di qualcosa che dà potere (come una massa monetaria) potrebbe insomma essere considerato un bisogno. Certamente non nell’ambito di quei “bisogni umani” cui mi sono finora riferito.
Produzione, consumo
Produzione e consumo sono due parole importanti nel linguaggio (e nel procedimento) dell’economia.
«Il consumo è l’uso dei beni economici allo scopo di soddisfare direttamente certi bisogni […] La produzione è il processo mediante il quale il lavoro fa uso di beni economici allo scopo di ottenere con essi altri beni, che o sono beni di consumo o sono beni che, a loro volta, servono a ottenerne altri, lungo una catena che, prima o poi, mette capo a certi beni di consumo»[11].
Ci si può domandare se nel processo economico dato comandi il consumo o comandi la produzione. In linea teorica comanda il consumo, poiché non esiste produzione che non sia finalizzata a un determinato consumo. Ma l’analisi ha rivelato da tempo che in realtà gran parte dei consumi sono indotti dalla produzione. Chi controlla la produzione ha i mezzi per convincere gli uomini a sentire come propri determinati bisogni, o determinati modi di soddisfare bisogni preesistenti. A partire dallo studio di Vance Packard[12] è stato dimostrato che un impegno sempre maggiore è attribuito dai gestori della produzione a convincere il consumatore che ha bisogno di consumare (quindi comprare) determinati prodotti o servizi. L’induzione del consumo ha caratterizzato sempre di più la società moderna, nella quale il rapporto tra bisogni > consumo > produzione si è progressivamente allontanato da quello naturale, cui mi sono riferito all’inizio di questo scritto[13].
Napoleoni osserva che nel sistema capitalistico
«il consumo, anziché essere il fine del processo, è soltanto un vincolo; esso è (si potrebbe dire correttamente) un costo che il sistema deve pagare, perché qualunque sistema, comunque configurato, deve assicurare la riproduzione dei suoi membri. Ma una volta pagato questo costo, una volta osservato questo vincolo, il sistema procede all’espansione della ricchezza come obiettivo avente senso in se stesso»[14]
La riduzione dei bisogni a quelli della sussistenza, l’accumulazione del potere nelle mani dei gestori della produzione, hanno decisamente radicato il bastone del comando nelle mani della produzione e dei suoi gestori. Sono questi oramai che costruiscono (progettano) il consumo che serve. Foggiano il consumatore a immagine e somiglianza del potenziale acquirente dei prodotti che, sempre più abbondati e sempre più superflui, invaderanno il pianeta e le sue discariche.
1.1 Definizioni generali
Reddito: profitto, salario, rendita
Il reddito è il flusso di ricchezza che, in un determinato tempo (un giorno, un mese, un anno…), raggiunge un determinato soggetto. Nel sistema economico-sociale capitalistico le figure sociali sono tre: i capitalisti, i lavoratori, i proprietari fondiari Questi ricevono quote del reddito sotto forma – rispettivamente – di profitto, salario, rendita[15].
La rendita è la quota del reddito che è percepita dal proprietario fondiario per aver messo a disposizione del processo produttivo il terreno sul quale si è svolta l’attività. Il salario è il prezzo della forza lavoro: cioè è la fetta del reddito totale che viene percepita dal lavoratore per il fatto che esso mette a disposizione del capitalista la sua forza lavoro per un determinato tempo. Il profitto (in termini molto schematici) è il guadagno del gestore dell’attività produttiva: è la quota del reddito totale percepita dal capitalista, come differenza tra il prezzo che ottiene in cambio delle merci prodotte e ciò che ha dovuto pagare per comprare le merci adoperate nel processo produttivo (ivi comprese non solo le materie prime e i salari, ma anche i mezzi di produzione: capannoni, macchinari ecc.), nonché la rendita che ha dovuto pagare per ottenere lo spazio necessario alla produzione.
Come è facile comprendere la rendita ha una fondamentale differenza rispetto alle altre forme di reddito: ad essa non corrisponde nessuna attività (né quella lavorativa vera e propria = salario, né quella imprenditiva = profitto) ma solo la proprietà (anzi, il possesso) di un bene scarso e utile per lo svolgimento del processo produttivo. Perciò gli economisti classici attribuiscono alla rendita l’aggettivo di “parassitaria”. Questo non è un attributo che distingue un particolare tipo di rendita da un’altro, ma è un attributo generale della rendita.
É interessante domandarsi in che modo le tre figure sociali del sistema capitalistico impiegano la quota di reddito che spetta a ciascuno di essi. Il lavoratore impiegherà il salario per i bisogni della sussistenza (coprirsi, alimentarsi, procreare, riposarsi, comunicare con gli altri, apprendere, ricrearsi); la sua ambizione sarà di soddisfarli nel modo più completo e qualificato possibile, e successivamente di soddisfare nuovi bisogni che dal soddisfacimento di quelli elementari saranno scaturiti. Il capitalista dovrà impiegare il profitto primariamente per resistere alla concorrenza con gli altri capitalisti, e dunque dovrà investire nel miglioramento del suo apparato produttivo, nell’acquisizione di nuovi mercati, nella riduzione dei costi di produzione, nel miglioramento del prodotto, e nella ricerca finalizzata a questi obiettivi. Il rentier (percettore di rendita) sarà libero di spendere il suo reddito in qualsiasi forma lo desideri.
Il conflitto che necessariamente sorge tra le classi corrispondenti alle diverse figure sociali riguarda la ripartizione delle risorse tra le tre forme di reddito. Si tratta della matrice della “lotta di classe”, che la cultura revisionista ha preteso di cancellare dal vocabolario politico, come se fosse un’invenzione e non il portato inevitabile del sistema economico-sociale.
Rendita fondiaria agraria
Il concetto di rendita è stato analizzato inizialmente in riferimento alla rendita agraria: ossia al prezzo che il proprietario di un terreno poteva ottenere da un imprenditore che volesse usare quel terreno per coltivarlo e venderne i prodotti. Poi si è esteso al reddito proveniente da altre posizioni proprietarie che consentivano di agevolare od ostacolare determinati processi produttivi per la particolare posizione (in senso sia concreto che astratto) che quella proprietà ha in relazione al processo produttivo.
La rendita fondiaria agraria è la forma classica della rendita. È il reddito percepito dal proprietario fondiario (proprietario di terreno) in conseguenza del fatto che egli è proprietario di un bene (la terra) destinabile alla coltivazione o al pascolo.
La rendita fondiaria agraria consente di comprendere facilmente il meccanismo elementare della rendita. Supponiamo distinte le figure del proprietario terriero e del capitalista produttore agricolo. Se la terra complessivamente coltivabile in una determinata area è inferiore a quella che sarebbe necessario coltivare per produrre beni agricoli in quantità tale da soddisfare la domanda, è evidente che una parte di quelli che sarebbero disponibili a diventare produttori agricoli (e avessero i mezzi necessari per diventarlo) non possono invece diventarlo. Il proprietario terriero allora, in virtù del privilegio di essere proprietario di un bene scarso, ha la possibilità di far pagare un prezzo al produttore che voglia utilizzare il suo terreno.
Rendita assoluta e rendita differenziale
Fin qui ci siamo riferiti a beni disponibili in quantità scarse e alla rendita come forma di reddito percepibile per la scarsità generale di quel bene. Questo tipo di rendita è quella che si definisce “rendita assoluta”, e cioè - nel caso della rendita fondiaria - la rendita che sorge nella misura in cui la terra disponibile complessivamente nell’ambito di una determinata area economica è scarsa rispetto al fabbisogno.
Ma esiste anche un’altra forma di rendita, che generalmente si sovrappone e si aggiunge alla prima: è la “rendita differenziale”. Questa deriva dal fatto che, se la terra è generalmente scarsa, e quindi la proprietà di essa rende possibile la percezione di una rendita, esistono tuttavia differenze tra i vari tipi di terra in relazione all’uso che se ne vuole fare. La terra può essere più o meno fertile, più o meno vicina al mercato dei prodotti o ai nodi di trasporto, più o meno soggetta a calamità naturali. Esiste quindi una rendita differenziale, o relativa, che è la quota di reddito che il proprietario percepisce per il fatto che la sua terra, il suo fondo, è più fertile o più sicuro o meglio collocato rispetto agli altri.
In definitiva e riepilogando, ogni bene scarso dà luogo a un reddito, percepibile dal proprietario in quanto tale, il quale nella generalità dei casi è costituito da due parti: una parte. che c’è in ogni rendita, è la rendita assoluta e dipende dalla scarsità generale di quel bene; un’altra parte, che c’è solo in corrispondenza di un sottoinsieme di beni, è la rendita differenziale o relativa, e dipende dalla maggiore appetibilità, o utilizzabilità, di quel particolare bene rispetto ad altri della stessa categoria. È evidente che la rendita totale, cioè la rendita complessiva che il proprietario di un determinato bene percepisce per il fatto d’essere proprietario di un bene scarso, coincide con la rendita assoluta nel caso dei beni meno appetibili (per esempio, la terra meno fertile e più lontana).
1.2 La rendita urbana
che cos’è e come funziona
Che cos’è la rendita urbana
Alla rendita fondiaria agraria si sogliono assimilare altre forme di reddito derivanti dalla proprietà di beni scarsi. Alcune derivano dalla proprietà di altre risorse naturali (le miniere, le acque); altre derivano della proprietà di beni la cui scarsità è artificiale, ossia è provocata. Quando si tratta di beni resi artificiosamente disponibili in quantità più limitata di quella della domanda, molti autori ritengono più corretto parlare di “quasi rendita”, o di “guadagno differenziale”, o di “sovrapprofitto di monopolio”. Ma non c’è, in sede scientifica, alcuna controversia sull’assimilabilità alla rendita fondiaria di una particolare forma di rendita, che soprattutto ci interessa in questa sede: la “rendita fondiaria urbana”.
La rendita fondiaria urbana è il reddito che deriva dalla proprietà del suolo in relazione non suo uso agricolo, ma all’uso edilizio urbano. Suolo agricolo e suolo urbano sono entrambi beni scarsi, ma la loro scarsità è di natura e grado notevolmente differenti. Al limite, praticamente ogni suolo può essere destinato a un uso agricolo; l’utilizzabilità di un suolo a fini agricoli è sostanzialmente un connotato naturale del terreno.
Viceversa, mentre vediamo empiricamente che i suoli urbani sono una porzione limitata, più sostanzialmente osserviamo che essi sono quelli nei quali è avvenuto un processo storico di urbanizzazione: non nel senso che ogni suolo sul quale sia percepibile rendita fondiaria urbana sia stato concretamente investito da un processo di urbanizzazione in senso stretto, sia cioè dotato di strade, fogne, luce ecc., ma nel senso che ognuno di tali suoli è stato posto dalla storia in una collocazione tale da poter essere utilizzato a fini edilizi, e cioè concretamene urbanizzato.
Si può dire che ogni terreno è utilizzabile fini agricoli o silvo-pastorali con un investimento modesto, e al limite nullo; viceversa, sono utilizzabili a fini edilizi (urbani) solo i suoli i quali, con un più o meno modesto investimento di opere di urbanizzazione dirette, può essere collegato all’insieme dell’organizzazione urbana del territorio, ossia a quell’insieme di manufatti - prodotto storico della società - che consentono lo svolgimento delle varie attività della vita sociale.
La scarsità del bene “suolo urbano” non è quindi una scarsità naturale in senso proprio (come quello del suolo in generale), ma una scarsità che deriva dal fatto che solo un numero limitato di suoli è storicamente dotato di quei requisiti che ne rendono possibile, nell’immediato o mediatamente, una utilizzazione edilizia-urbana.
Rendita urbana assoluta, r. u. differenziale
Anche nel caso della rendita fondiaria urbana si può distinguere la componente assoluta dalla componente differenziale. La rendita fondiaria urbana assoluta è quella che deriva al terreno dal fatto che esso è edificabile, (o più esattamente, del fatto che per quel terreno l’utilizzazione edificatoria è conveniente rispetto all’utilizzazione agricola). La rendita differenziale è invece quella che deriva dal fatto che un particolare terreno presenta - ai fini della utilizzazione edilizia - vantaggi e requisiti che lo rendono più appetibile di altri.
La scarsità del terreno urbano è quindi una scarsità manovrabile. Più precisamente, è manovrabile sia la scarsità assoluta del terreno urbano (e quindi il differenziale tra la rendita fondiaria assoluta e la rendita urbana, che è molto elevato) sia la scarsità di terreni caratterizzati da determinati requisiti (quindi la rendita differenziale). E poiché il grado della scarsità influenza la rendita, anche i livelli della rendita sono manovrabili.
Rendita fondiaria urbana e intervento pubblico
Già da queste rapidissime annotazioni si comprende il ruolo che svolge l’intervento pubblico nell’influire sulla rendita fondiaria urbana. Infatti l’intervento pubblico:
a) con i piani urbanistici e, più in generale, con le politiche urbane (repressione dell’abisivismo, controllo dello sprawl, realizzazione delle opere di urbanizzazione ecc.) determina quali e quante aree sono potenzialmente edificabili, e quindi determina il passaggio dalla rendita fondiaria agraria alla rendita fondiaria urbana assoluta;
b) con la realizzazione delle opere di urbanizzazione, con l’inserimento delle aree nei programmi urbanistici e con il rilascio delle concessioni edilizie, rende le aree concretamente edificabili, e quindi incide in un primo modo sulla rendita fondiaria urbana differenziale;
c) con la quantità e la qualità delle opere di urbanizzazione e dei servizi, con la determinazione delle qualità edilizie e urbanistiche delle varie parti degli insediamenti (altezze, distacchi, densità ecc. ) accresce o diminuisce l’appetibilità relativa delle varie aree edificabili, e quindi incide sulla rendita urbana differenziale.
Rapporti tra estensione delle aree urbanizzabili
e livello complessivo della rendita.
Il rapporto tra grado di scarsità e livello della rendita è - nel campo della rendita fondiaria urbana – molo diverso da quanto sia in altri campi. In linea generale, maggiore è la disponibilità di un bene (cioè minore è la sua scarsità) minore è il livello della rendita assoluta. Questo per i beni che sono, in larga misura, fungibili, ossia per i beni nei quali la rendita assoluta è una parte consistente della rendita totale (es., il grano può essere di qualità migliore o peggiore, ma le differenze tra i prezzi del grano migliore e del grano peggiore sono modeste rispetto al prezzo medio; un aumento delle produzione di grano diminuisce quindi i prezzi).
Ma i terreni urbani hanno due caratteristiche. La prima è che la rendita urbana assoluta è molto più elevata della rendita agraria, anche quando questa assume valori elevati. La seconda è a che la rendita differenziale è molto più consistente delle rendita assoluta, e che - nell’attuale situazione delle grandi e medie città - le differenze delle qualità dei terreni sono notevolissime. Si può dire, al limite, che ogni terreno ha una sua qualità differente da tutte le altre.
In una situazione di questo tipo, l’immissione nel mercato di una consistente quantità di nuove aree edificabili determina un innalzamento generale del valore (e quindi della rendita) in tutte le aree che erano già riconosciute edificabili. Questa considerazione è particolarmente importante per valutare sia gli effetti della urbanizzazione abusiva e dello sprawl urbano sia per il dimensionamento dei piani regolatori e i suoi effetti sulla rendita.
Una dimostrazione molto efficace del rapporto tra valore della rendita ed estensione della città fu elaborata dall’economista Siro Lombardini in un suo lavoro sulla riforma urbanistica nel 1963[16]. In sintesi, possiamo immaginare l’andamento dei valori della rendita come una curva crescente a seconda che dalla “periferia” ci si avvicina al “centro” (intendendo per “centro” il luogo che ha ma maggiore appetibilità, e quindi il valore della rendita più alto, e per “periferia” il contrario). Ora il valore del punto più periferico (per definizione: rendita urbana assoluta) è comunque molto più alto di quello della rendita agraria.
Se inseriamo nell’ambito urbano un’ulteriore area, questa sarà meno appetibile della precedente, la quale presenterà a questo punto un valore più alto: Ma quella che giò era più vicina al “centro” conserverà la differenza con la precedente, quindi assumerà un valore più alto di quello che aveva prima. Via via, tutta la curva dei valori della rendita subirà una traslazione verso l’alto. Il valore complessivo della rendita in quel contesto avrà subito un aumento generale.
Rendita immobiliare; altre rendite connesse alla città
Quando si parla di rendita urbana ci si riferisce generalmente alla rendita fondiaria: ossia alla rendita derivante dalla proprietà di un fondo, di un terreno potenzialmente o effettivamente edificabile. Esiste peraltro - ed è distinta dalla rendita fondiaria - un’altra forma di rendita urbana, ed è la rendita edilizia. Per comprendere questa distinzione basterà fare una ipotesi del tutto teorica: l’ipotesi, cioè, di un assetto del regime proprietario tale che le aree edificabili non siano di proprietà privata, ma siano espropriate dalla mano pubblica e cedute in uso a chi voglia utilizzarle a un prezzo uguale a zero. In questo caso, evidentemente, non c’è più rendita fondiaria urbana. (Più precisamente si dovrebbe dire che il proprietario, in questo caso pubblico, rinuncia alla rendita che le logica del sistema gli consentirebbe di percepire).
Ma chi ha ricevuto in uso il terreno può costruirvi a utilizzare il costruito a suo piacimento. Ci troveremo perciò di fronte a questa situazione: avremo una nuova categoria di beni - anch’essi scarsi e anch’essi in appartenenza a qualcuno a titolo proprietario. Anche qui, dunque, avremo un meccanismo di rendita: con una componente assoluta, dipendente dalla scarsità generale di edifici rispetto al fabbisogno, e una rendita differenziale, nella quale entrano quelle stesse componenti di differenziazione qualitativa e d’uso tra i vari edifici che avevamo già visto nel caso dei terreni urbani.
Possiamo dire che, nel corso del processo di urbanizzazione ed edificazione, la rendita fondiaria viene trasformata in rendita edilizia. L’insieme dell’una e dell’altra la chiameremo “rendita immobiliare”, la quale comprende quindi sia la rendita fondiaria urbana che la rendita edilizia.
La rendita immobiliare non è l’unica forma di rendita offerta dalla città (e, più in generale, dal territorio urbanizzato) ai privilegiati che si trovino un una posizione tale da poter esigere una forma di pedaggio.
Pensiamo alla gestione dei servizi urbani, per loro natura tendenzialmente monopolistici (trasporti, acqua, elettricità, gas, informazioni). Pensiamo alla realizzazione delle opere pubbliche (controllo degli appalti e relativi sovraprofitti).
1.3. Gli effetti della rendita
Gli effetti sul sistema economico-sociale
Se teniamo presente che il reddito totale prodotto in un determinato periodo è un dato, e che esso va distribuito tra tre soggetti (tra tre figure economiche) è evidente che maggiore è la quota che va alla rendita, minore è quella che dovranno dividersi profitti e salari (cioè capitalisti e lavoratori). Le conseguenze di una crescita eccessiva della rendita in generale (compresa la rendita immobiliare) sono una riduzione dei salari e/o una riduzione dei profitti. Nel primo caso peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori (quindi della grande maggioranza degli abitanti), nel secondo caso si riduce l’attività di ricerca e di progresso della produzione, quindi perde competitività l’area dove questo avviene. Lo avevano compreso bene i protagonisti del “capitalismo avanzato” in Italia negli anni Sessanta e Settata del secolo scorso, quando scesero in campo a favore di una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita immobiliare.
Nell'autunno del 1972 poi - con una intervista al settimanale Espresso che fece clamore, e successivamente in una conferenza-stampa organizzata all'inaugurazione del Salone internazionale dell'auto e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'agone, nel quadro dell'iniziativa da essi stessi promossa per provocare un mutamento di linea e di scenario al vertice della Confindustria (Gianni Agnelli venne poi eletto presidente dell'organizzazione il 30 maggio 1974). Afferma Agnelli:
«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» [17].
L'iniziativa degli Agnelli suscitò larga eco sui giornali e nella stampa; provocò scompiglio ai vertici dell'organizzazione degli industriali. Essa era certamente mossa da motivi anche strumentali; ma è certo che si collocava in una atmosfera più che pronta a recepirla, come è altrettanto certo che a rileggere oggi alcune delle formulazioni e motivazioni di allora, sembra quasi di esser discesi su di un altro pianeta. Scrive ad esempio nel 1973 un giornale molto vicino agli industriali, pur dimostrando un certo stupore:
«I Giovani Industriali credono di avere le carte in regola e parlano con estrema chiarezza. Per loro, ad esempio, non c'è alcun dubbio che per salvare il profitto, inteso come giusta remunerazione dell'attività imprenditoriale e come misura dell'efficienza produttiva, occorre mollare e gettare in mare le rendite parassitarie e speculative ed anche, al, limite, le classi ad esse più tradizionalmente abbarbicate. (...) Requiem per la rendita fondiaria potrebbe ben intitolarsi la relazione presentata dal prof. Bastianini, assistente al Politecnico di Torino e - mi dicono - liberale. Egli ha in effetti difeso il "diritto di superficie" ("concessione a tempo" l'ha chiamato, definendola anche "una scelta di civiltà che dobbiamo compiere a favore delle generazioni future") contro il diritto di proprietà. Bastianini ha anche compiuto una stima del costo globale della rendita urbana in Italia rilevando che, nel 1972, in rapporto ad un valore aggiunto nel settore delle abitazioni risultato pari a 3,037 miliardi di lire, la quota pagata alla rendita è stata di 750-800 miliardi» [18].
In quegli anni il capitalismo industriale italiano tentava anche altre strade. In collaborazione con l’industria di stato (IRI) e con le cooperative si proponeva come promotore, pianificatore e gestore di interventi urbani complessi (“Sistemi urbani”) nei quali la posta economica in gioco era, oltre al profitto, l’insieme delle rendite urbane[19]. La scelta di privilegiare nettamente la rendita avvenne più tardi. Ma di questo parleremo più avanti, e se ne tratterà più ampiamente nella giornata di domani.
La rendita e la città
C’è un’intera letteratura sugli effetti della rendita (anzi, dell’appropriazione privata della crescente rendita immobiliare) sulla città, sia nella capacità di governarla a fini diversi da quello dell’ulteriore accrescimento della rendita, sia nella sua vivibilità (in termini di funzionalità, equità, bellezza).
Mi limiterò a citare pochi brani di Hans Bernoulli. La critica dell’autore di La città e il suolo urbano parte dal racconto di ciò che avvenne quando – nello sfaldarsi della civiltà medievale e nell’arretrare dal diritto comune al diritto individuale – vennero aboliti i vincoli, dominicali e regolamentari, sui terreni urbani: quando il suolo urbano fu suddiviso, e da bene divenne merce.
«Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune. […] Il monopolio del suolo passò alla proprietà privata e la proprietà privata divenne un bene commerciabile»[20].
Il suolo urbano non fu più la base della casa della società, il fondamento del suo ordine e della sua bellezza: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo.
«La terra, sfuggita di mano alla comunità quasi per errore e ora proprietà di contadini avveduti e cittadini oculati, era destinata a divenire in breve un vero e proprio oggetto di speculazione. […] La città si trovò quindi ad una svolta: il diritto fondiario di proprietà influì sulla sua struttura e sulle sue costruzioni. L’età moderna, risvegliatasi all’improvviso in piena industrializzazione offriva al proprietario quasi illimitate possibilità di speculazione sul proprio terreno. Ognuno poteva vendere il proprio terreno al più alto prezzo raggiungibile sul mercato. […] Questa speculazione venne metodicamente condotta dalle società fondiarie. La massima rendita si ottiene col massimo sfruttamento del suolo; quindi, in ragione della possibilità di costruire su un dato lotto cinque piani piuttosto che tre, oppure tre quarti dell'area piuttosto che un quarto. determina diversità notevoli di rendita e quindi diversità notevoli del prezzo di vendita del lotto. Come la speculazione sui terreni aveva ottenuto un frazionamento tale da moltiplicare gli angoli fabbricativi, cosi è riuscita ad ottenere un progressivo aumento delle altezze di fabbricazione» [21].
Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero, ora invece non è più così. Dopo la privatizzazione del suolo urbano accade che
«quando la città, per una miglioria che deve servire a tutti, per esempio un nuovo parco, un campo sportivo, una caserma per pompieri, un cimitero, deve rivolgersi al proprietario privato del terreno o dell’edificio, questi si mette sorridendo a disposizione della comunità, ma dà gentilmente a comprendere che l’affare sarà un po' costoso. Comincia un contrattare, un mercanteggiare che non ha mai fine; tanto più l’area conviene per lo scopo che la città prefigge, tanto più si eleva il prezzo che il proprietà richiede. Spesso il rappresentante del Comune se ne deve andare scuotendo deluso le spalle. La ricerca del terre per molti edifici pubblici diventa spesso una faccenda dolorosa, poiché con ritagli casuali di terreno non si possono costruire né un teatro, né un museo, né un municipio […] E per questa ragione che le nostre città difettano di ampie località libere per il riposo delle persone anziane e di ampi campi di gioco per i bambini. L'alto prezzo delle aree spaventa tutti»[22].
2.1. Il ruolo della politica
Rendita e governo del territorio
La necessità di sottrarre le decisioni sull’organizzazione del territorio allo spontaneismo concorrenziale proprio del sistema economico-sociale del capitalismo è nato agli albori dell’affermazione storica di quel sistema. Le leggi che consentivano di costruire strade, ferrovie e canali vincendo gli ostacoli e riducendo le pretese economiche dei proprietari fondiari nascono in Europa già alla fine del XVIII secolo. Il piano regolatore di New York (1811) può essere considerato il primo dell’età contemporanea. Il prelievo fiscale del plusvalore fondiario (cioè dell’aumento della rendita provocato dalle opere di urbanizzazione) fu uno degli strumenti impiegati dalle borghesia ottocentesche per pagare gli investimenti pubblici.
In Italia le prime leggi che aiutano a contenere gli effetti dell’appropriazione privata delle crescenti rendite urbane sono tra le prime approvate nel quadro dell’unità nazionale. Domani Piero Bevilacqua e Vezio De Lucia ve ne parleranno in un quadro storico. Qui vogliamo parlarvi dei principali strumenti adoperati.
Se li esaminiamo con attenzione vediamo che sono tutti ispirati ad alcuni principi. Ne voglio sottolineare due.
1) L’esigenza di regolare con l’autorità pubblica l’urbanizzazione (pianificazione delle città, realizzazione delle reti di trasporti e altre infrastrutture ecc.) deve comporsi con la tutela della proprietà privata ma, in caso di contrasto, la prima esigenza deve prevalere anche autoritativamente, compensando il proprietario con un indennizzo.
2) Il gradiente di valore che ha un terreno quando da agricolo diventa urbano (quando è compreso in un ambito di edificabilità, oppure quando è reso più facilmente collegato alla rete delle città mediante le infrastrutture di trasporto), è il risultato di decisioni e investimenti pubblici.
Da questi principi derivano alcune conseguenze.
1) Tra gli strumenti dell’azione pubblica deve essere prevista l’espropriazione, come mezzo per vincere la volontà dei proprietari che ostacolano l’acquisizione delle aree necessarie per gli interventi pubblici. Questi possono prevalere sugli interessi privati solo se sono correttamente motivati con un interesse pubblico.
2) Al proprietario deve essere riconosciuto un’indennità che compensi la riduzione di valore derivante dalla mutilazione della sua proprietà, e cioè dal minor reddito che potrà percepire rispetto alla precedente utilizzazione (in generale agricola).
3) Dal reddito del proprietario può essere prelevato, in tutto o in parte, il maggior valore che la sua proprietà (o la parte residua di essa) ottiene grazie alla decisione o all’investimento pubblico.
Naturalmente, accanto a questi principi e alle pratiche conseguenti si affiancano tesi più determinate, che portano a maggiore coerenza il principio dell’appartenenza pubblica del gradiente della rendita urbana e quello del carattere parassitario della rendita, e quindi del danno allo sviluppo capitalistico (allo sviluppo della ricchezza nazionale) determinato dall’appropriazione privata della rendita fondiaria. É, quest’ultimo, il caso di un singolare pensatore nordamericano, Henry George[23], le cui teorie ebbero largo influsso sia negli USA che in Europa e ispirarono protagonisti del dibattito urbanistico europeo come Hans Bernoulli.
I tentativi, nel corso della storia
La politica italiana ha vissuto diverse fasi nel rapporto con la rendita urbana. Domani se ne parlerà a lungo. Oggi vogliamo solo accennarvi, per collocare in un quadro comprensibile l’ultima parte di questo intervento, nel quale si cercherà di comprendere ciò che sta succedendo oggi, ed è molto diverso da tutto quello che è stato prima.
I principi ora illustrati, e le conseguenti pratiche, sono quelle che i Parlamenti e i Governi italiani hanno sostanzialmente seguito nelle fasi della formazione e del consolidamento dello stato prefascista, con oscillazioni non molto sensibili tra il periodo costitutivo del nuovo stato (Destra storica), sia in quelli successivi (Sinistra storica e periodo giolittiano). Rispetto ad altri stati si può dire che in Italia abbia prevalso un potere forte della proprietà (rendita) rispetto all’impresa (profitto), in virtù sia della debole presenza del potere statale e dell’amministrazione pubblica (a differenza della Gran Bretagna e della Francia), sia dalla forza conservata dalla proprietà feudale nel processo di unificazione (a differenza che negli altri paesi del centro e nord Europa) grazie al compromesso storico con la borghesia industriale.
Come scrive Luigi Scano
«non pare illegittimo riconoscere nel legislatore del 1865, operante in un contesto, culturale e giuridico, ma anche, e soprattutto, sociale ed economico, tale da motivare, se non da giustificare, il riferimento ai valori di mercato per la determinazione delle indennità espropriative, l'embrionale coscienza di un concetto che fu poi chiaramente espresso nel Parlamento Italiano nel 1907, discutendosi la legge Giolitti: il concetto per cui non è ammissibile riconoscere ai proprietari dei beni immobili gli aumenti di valore del bene che non sono prodotti né dal capitale né dal lavoro del proprietario, ma che sono dovuti al capitale e al lavoro della collettività»[24].
Le legge Giolitti del 11 luglio1907, n. 502 “Provvedimenti per la città di Roma” prescrive che per le aree fabbricabili comprese nel perimetro del nuovo piano regolatore il comune è autorizzato a espropriare «a un prezzo corrispondente al valore dichiarata dal proprietario delle aree agii effetti della tassa sulle aree stesse», tassa che a sua volta colpisce quella parte di valore capitale che ecceda ciò ch'è rappresentato dalla rendita della coltura agraria colpita da imposta fondiaria»;[25]
Una fase particolare e molto poco studiata a questo proposito è quella fascista, nella quale la prevalenza del potere pubblico statale sulla proprietà fondiaria diede luogo come vedremo domattina, a pratiche largamente basate sull’espropriazione con indennità di moderata entità, e a una legge urbanistica notevolmente avanzata.
Una fase di grande rilievo fu quella degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso in cui, se non si giunse a provvedimenti radicali e completi di riforma del settore, si approdo a soluzioni che rendevano in larga misura indipendenti dal prevalere degli interessi dei proprietari e dal peso economico della rendita urbana sia la realizzazione di opere pubbliche di notevole entità e diffusione (non solo infrastrutture, ma “standard urbanistici”, sia la realizzazione di nuove urbanizzazioni residenziali, industriali e commerciali. Anche di questo si parlerà domani e dopo domani.
2.2 La rendita oggi
La rendita nell’età del neoliberalismo e della globalizzazione
La riflessione della Scuola di edddyburg sui cambiamenti intervenuti, nella città e nei principi e strumenti del suo governo, nella fase della globalizzazione - o del turbocapitalismo, o del neoliberismo – sono aperte da tempo. Un recente scritto di Walter Tocci affronta proprio il tema di questa sessione della Scuola riferendolo alla fase attuale della società[26]. L’autore parte dalla considerazione che con la crisi che, a partire dagli USA, ha scosso il mondo:
«Sono cadute insieme le due forme di rendita, quella finanziaria e quella immobiliare, come erano cresciute insieme nel decennio passato, rivelando un indissolubile legame strutturale e, forse più, una medesima visione del mondo. La condivisione di ascesa e declino mette in luce la natura anfibia di questa economia di carta e di mattone, capace di librarsi su quanto di più etereo e, d’altro canto, saldamente ancorata a quanto di più solido»[27].
«L’immobiliare – continua Tocci - è stato il proseguimento della finanziarizzazione con altri mezzi e mai il rapporto era stato così organico tra questi due modi di formazione della ricchezza. Da questa totalità discende una forte capacità di organizzare la società e di modificare lo spazio. Così, la rendita, a dispetto della scarsa attenzione ricevuta dalla pubblicistica corrente, è stata una forza che ha agito in profondità modellando le strutture produttive, gli assetti territoriali, l'immaginario collettivo e i comportamenti dei diversi attori politici, tecnici ed economici».
La rendita urbana ha svolto in passato due funzioni ed ha assunto due caratteristiche diverse, che Tocci definisce rispettivamente della rendita marginale e della rendita differenziale[28].
«Nella fase di espansione urbana che va dalla ricostruzione del dopoguerra fino agli anni settanta ha prevalso la rendita marginale prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo».
Più tardi, negli anni Ottanta, con la “rivoluzione terziaria” cambiò il verso della trasformazione.
«Si tornò a operare all’interno della città per rispondere ai bisogni localizzativi e di prestigio delle nuove funzioni terziarie, utilizzando gli immobili liberati nel contempo dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.). Prevalse quindi la cosiddetta rendita differenziale, termine […] che indica la valorizzazione di immobili interni alla città, dotati di vantaggi posizionali diversi tra loro e comunque superiori a quelli marginali. La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici».
Ed ecco il punto:
«La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».
All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase della “rendita pura”. Conviene soffermarvisi.
La fase della “rendita pura”
Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi.
Tocci rileva che
«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria».
Il “fondo immobiliare” è in sostanza la forma nuova, istituzionalizzata, del “blocco edilizio” analizzato da Valentino Parlato nel 1970 [29]
Passione civile, consapevolezza del valore del bene comune costituito dal paesaggio, rispetto della Costituzione e delle priorità che essa stabilisce: questi sono i presupposti del recentissimo Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica di Italia Nostra, curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, vicedirettori di questo sito oltre che consiglieri nazionali dell’associazione. Sarà utile ragionare sui moltissimi spunti che ne emergono, ma voglio subito sottolinearne alcuni elementi.
Il rapporto colma un vuoto informativo e di analisi che risale almeno alla fine degli anni Ottanta: dalla legge Galasso in poi, infatti, nulla è stato fatto da chi avrebbe dovuto per verificare gli esiti di quella legge in termini di efficacia del governo del territorio; e nulla, a maggior ragione, si conosce, a quasi tre anni dall’approvazione del Codice dei beni culturali sull’efficacia del nostro sistema della tutela del paesaggio.
Esso costituisce il primo organico tentativo di uscire da questa situazione di omertà informativa. Questo obiettivo di per sè, oltre a costituire un sicuro pregio di questa iniziativa, evidenzia quella che rimane una delle tragiche carenze del nostro apparato normativo. Le leggi spesso sono eccellenti, come del resto lo stesso Codice, sotto il profilo della costruzione giuridica, ma incapace di presidiare la propria efficacia attraverso i necessari strumenti: tra questi, un sistema di monitoraggi indipendenti. A chi ricorda il passato, lo stesso avvenne per la legge dell’equo canone, che completò nel 1978 il disegno dell’intervento pubblico nel settore della casa, e che avrebbe dovuto essere sottoposto a una verifica annuale da parte del governo e del parlamento nazionali.
“Elusione” è il termine che meglio di ogni altro sintetizza la vicenda della pianificazione paesaggistica in Italia. Salvo rarissime eccezioni (il rapporto non ne enumera più di due) le regioni o non si sono dotate affatto di piani paesaggistici, oppure si sono limitate a piani a carattere prevalentemente descrittivo, rinunciando alle proprie competenze di programmazione su area vasta per demandarle ai livelli amministrativi inferiori, praticamente senza controlli. Anche quelle (Emilia Romagna, Marche, Umbria) che si erano dotate, in adeguamento alla Galasso, di una pianificazione efficace e prescrittiva, ne hanno via via “ammorbidito” l’impianto, talora fino a stravolgerlo.
Né le cose sono andate meglio per quanto riguarda l’altro attore coinvolto, lo Stato. Questo, attraverso il Ministero beni culturali, era chiamato dal Codice a un rilancio della pianificazione che, per la prima volta nella storia legislativa italiana, coinvolgeva direttamente nel governo del territorio i rappresentanti della tutela. Eppure, come il rapporto testimonia, è questo attore che sta sostanzialmente affossando l’operazione di copianificazione. Ciò accade sia per un’intrinseca debolezza politica e culturale del ministero, certamente non adeguato a svolgere i compiti cui lo chiamava il Codice, ma soprattutto perchè (come testimoniano gli ultimi documenti ufficiali richiamati nel rapporto) è stata dichiaratamente ribaltata la gerarchia costituzionale sancita dall’art. 9, che proclamava la prevalenza delle ragioni delle tutela del patrimonio culturale e del paesaggio su qualsiasi altra: ha prevalso invece il “contemperamento” di tali ragioni con quelle dello “sviluppo”, e di quel particolare “sviluppo” teso alla devastazione del territorio..
Il guaio è che su questa di elusione eversiva, i cui passaggi sono lucidamente indicati nel rapporto, Stato e regioni stanno trovando una convergenza viziosa che mina la pianificazione del paesaggio in Italia non solo nei tempi e nei metodi, ma negli stessi contenuti.
Il documento di Italia nostra non è solo una denuncia pessimistica: come affermano gli autori, indicando alcuni percorsi sui quali lavorare, “la vicenda della copianificazione paesaggistica non può essere abbandonata nel novero delle battaglie perdute”. Anche perché la devastazione raggiunge livelli incredibili. Mentre rileggo queste pagine, giungono le notizie di una vera e propria guerra in Campania. Drammatiche, ancor più delle immagini degli scontri, le dichiarazioni delle popolazioni di Terzigno e dei paesi vicini: “Essere civili non serve”. A quei cittadini che lottano per preservare il loro territorio, sconvolto anche perchè Stato ed enti locali assieme hanno, per primi, tradito l’art. 9 della Costituzione, si rivolge innanzi tutto l’appello contenuto in questo primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica: sasso di civiltà lanciato contro l’illegalità che ci governa.
Il mio compito in questa giornata è delineare un “ritratto” di Luigi Scano, l’uomo del quale ci proponiamo di utilizzare l’insegnamento e di proseguire l’azione anche utilizzando le carte che ci ha lasciato, e che mi sembra trovino la sede ideale qui, nella bella Casa della memoria e della storia dell’”Istituto veneto della storia della resistenza e della città contemporanea”, dove Mario Isnenghi e Marco Borghi, presidente e direttore dell’Iveser, li hanno accolti scongiurandone la dispersione.
Per cercare alcuni lineamenti della sua persona non affidandomi solo ai miei ricordi, ho riletto ciò che è stato detto e scritto su Gigi, dopo la sua morte, e che è raccolto in eddyburg. Parto da un pensiero di Montesquieu, che credo proprio Gigi mi abbia segnalato: «La virtù politica è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua dell'interesse pubblico agli interessi propri». Con questa frase ricordammo Gigi su eddyburg, all’indomani della sua scomparsa.
Antonio Casellati, lo stesso triste giorno, nell’esprimere la sua commozione affermava che quella di Gigi era stata «una vita per la politica intesa nel suo significato più puro, dedicata disinteressatamente alla polis come servizio laico alla comunità civile».
Anche Vezio De Lucia, nella breve orazione che la commozione gli impedì di esporre al funerale, ricordava la «sua prepotente passione politica», tradottasi nella «collaborazione alle associazioni culturali, ai movimenti, a Italia nostra, al No Mose, al comitato di Fiesole», e sottolineava come Scano fosse «disposto a ogni rinuncia, sacrificando all’interesse pubblico le proprie più elementari necessità» e commentava: «è morto povero».
Anna Renzini, nell’incontro nell’aula consiliare del Comune di Venezia dedicato al ricordo di Gigi poche settimane dopo la sua morte, riferendosi alla scomparsa dalla politica della «dimensione della scelta e dell’impegno», per ridursi alla frivolezza e all’indecenza, sospettava che «l’allontanarsi di Gigi, ma non solo di Gigi, dalla politica abbia probabilmente a che fare con qualcosa del genere». E poiché per Gigi «la politica e la vita in qualche modo coincidevano», si chiedeva «se qualcosa del genere non abbia a che fare con il progressivo allontanamento di Gigi anche dalla vita».
In ciascuno di noi c’è una dimensione che – nei casi migliori - non prevarica sulle altre, non le schiaccia e le annulla, ma le guida e ispira. Questa era per Gigi la politica.
Una dimensione politica molto distante da quella che oggi prevale. Basata, in Gigi, sulla verità, non sul successo. Sulla visione ampia, non sulla miopia. Sulla ragione, non sull’emozione. Sul sacrificio personale, non sulla gratificazione.
Era ovviamente consapevole che la politica doveva condurre a risultati concreti; di conseguenza aborriva una politica affidata ai “profeti disarmati”, ma sapeva che i compromessi necessari non possono negare i principi per i quali si combatte né appannarli. Così come sapeva che le conquiste parziali che si raggiungevano dovevano essere viste e gestite non come traguardi sui quali arrestarsi, ma come tappe in un percorso. Una visione riformatrice, potremmo dire, e non “riformista”.
Esemplare a questo proposito fu il primo “compromesso” sul quale ci incontrammo. Si trattava dell’approvazione dei cosiddetti “piani particolareggiato” della città storica di Venezia. Erano piani estremamente difettosi e pieni di errori, che peraltro si volevano a ogni costo approvare (correva l’anno 1974), perché solo con la loro approvazione si sarebbero potuti ottenere i finanziamenti della legge speciale di Venezia e avviare così il risanamento della città. Il suo partito, il PRI, era nettamente contrario, per ottime ragioni. E infatti, nel passaggio da una maggioranza di centro a una maggioranza di sinistra il PRI, che apparteneva a quest’area, si pose all’opposizione. Ma Gigi – che di quel partito era un leader e il rappresentante in Comune - lavorò tenacemente alle controdeduzioni che avrebbero dovuto concludere l’iter di quei piani e ne approvò il risultato.
In effetti non solo si era riusciti a introdurre modifiche significative, che cancellavano numerosi errori, ma si erano poste alcune premesse par la formazione di uno strumento di pianificazione più maturo ed efficace, si era cominciato a definirne criteri, metodi e strumenti.
Si era insomma iniziato il percorso della formazione di quel piano regolatore della città storica di Venezia, definitivamente approvato nel 1990, di cui a Gigi e a Edgarda Feletti spetta la parte largamente più consistente di paternità. Quel piano che fu il coronamento del pluridecennale lavoro di Gigi per la città storica di Venezia, e insieme un robusto contributo all’innovazione della pianificazione urbanistica. Ma su questo si tornerà più avanti.
L’altra dimensione che dominava negli interessi, nell’azione e nelle competenze di Gigi era del resto l’urbanistica. Credo che la passione per questo campo venisse a Gigi dalla consapevolezza dell’importanza del territorio e della sua organizzazione nella vita degli uomini e della società, dalla constatazione dei danni che al territorio e alle sue qualità apportavano le azioni sconsiderate degli uomini, dalla necessità di un governo del territorio che avesse nella pianificazione urbanistica il suo strumento essenziale.
Attenzione per il territorio, per la sua consistenza e forma fisica, la sua natura di habitat dell’uomo, in ragione della ricchezza che esso nasconde e rivela, dei rischi e i guasti che lo minacciano; e insieme attenzione per le istituzioni, per la capacità degli uomini di foggiare e utilizzare gli strumenti mediante quali il territorio e la società che lo abita vengono governati. Quindi, di nuovo, rinvio alla politica.
La sua formazione giuridica era il trait d‘union pratico tra quelle due competenze: la politica e l’urbanistica. Le regole, che il diritto aiuta a formulare, sono infatti il modo nel quale l’urbanistica diventa efficace in un mondo – quale quello che viviamo - dominato dalla dialettica tra il privatismo proprietario e l’interesse comune, nella quale il primo è divenuto di gran lunga prevalente. E la formazione e gestione delle regole sono amministrate dalla politica.
Un politico davvero singolare, Gigi Scano, se lo confrontiamo con quelli di adesso. Un politico che studia, che approfondisce le questioni nelle quali è chiamato a operare. Mi veniva di pensare a Gigi e a quelli che erano politici come lui quando, qualche giorno fa, ho letto (e ho riportato su eddyburg) questa frase di Achille Occhetto: «Quello che rimpiango più di tutto del PCI è l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare …». Altri tempi
Gigi offriva le sue competenze a chi prometteva di utilizzarle: e moltissimi sono quelli che – come amministratori o come legislatori, ai vari livelli del governo della Repubblica - le hanno utilizzate. Questa sua disponibilità al servizio pubblico gli procurò anche battute che, sebbene non gli abbiano nuociuto, lo infastidivano. Come quando Massimo Cacciari, riferendosi alla sua continua attività di sostegno culturale al governo cittadino egemonizzato da Gianni Pellicani, definiva il piccolo partito di Gigi, il PRI veneziano, «il centro studio del PCI». Come gli procurò qualche fastidio qualcuno che tentò di ostacolare la sua collaborazione a un comune col pretesto che non era laureato – come non lo erano, del resto, Benedetto Croce, Carlo Scarpa e Claudio Napoleoni, ciascuno dei quali eccellente nel suo ambito molto più di molti accademici. E devo ricordare che se non giunse alla laurea fu perché lo inducemmo (io per primo) a utilizzare la sua splendida tesi di laurea, già pronta per la discussione, per farne un libro su Venezia da “spendere”in una campagna elettorale che speravamo intelligente.
Se la politica e l’urbanistica erano i fuochi della sua azione, la sua attenzione si estendeva a numerosi campi dai quali i suoi interessi principali traevano alimento: come – oltre al diritto – la filosofia, l’economia, la storia. La storia soprattutto. Direi che la sua attenzione al territorio – il suo amore per il territorio e le città – aveva nella storia la sua radice.
Era dalla ricerca del modo in cui la collaborazione tra natura e storia aveva foggiato i beni del paesaggio, della cultura, della città che Gigi cercava di trarre le regole – e i criteri, gli indirizzi, i metodi – che consentissero di trasformare conservando.
Questo vale soprattutto (ma non esclusivamente) per gli ambiti principali della sua attenzione: la città storica e la Laguna. Per quest’ultima (di cui parlerà più diffusamente Flavio Cogo) aveva esplorato a fondo i modi tecnici, amministrativi e politici, mediante i quali la Serenissima aveva assicurato la sopravvivenza dell’equilibrio tra natura e storia che il bacino lagunare rappresenta. E si deve a lui il recupero, nella legge speciale per Venezia del 1984, ancor oggi vigente, dei famosi tre requisiti che ieri la Repubblica Serenissima (oggi, ma solo a chiacchiere, la Repubblica italiana) si impegnavano ad assicurare a ogni intervento in Laguna: sperimentalità, gradualità, reversibilità.
Per la città storica Gigi contribuì moltissimo a mettere a punto un procedimento di pianificazione che consentisse, appunto, di partire dalla lettura della formazione storica dell’edilizia veneziana (e di qualunque altra area geografica in qualche modo segnata dalla storia) per individuare regole capaci di guidare le trasformazioni lasciando intatta l’essenza del messaggio del passato: le regole capaci di consentire alla società, oggi diversa da quella di ieri, di conservare trasformando, evitando sia l’imbalsamazione delle forme sia la distruzione della memoria.
La strada che percorremmo insieme partiva – soprattutto grazie all’apporto decisivo di Gigi e di Edgarda Feletti – dall’elaborazione di una scuola di pensiero che aveva in Saverio Muratori il suo maestro, e negli studi su Venezia anche di Gianfranco Caniggia e Paolo Maretto alcuni dei suoi più rilevanti prosecutori. Era una linea di ricerca che permise di giungere, nel 1990 e nel succedersi di più d’una giunta e una maggioranza, a un piano urbanistico che avrebbe consentito di guidare e controllare le trasformazioni della città con rigore e flessibilità, solo che fosse stato gestito da una intelligente volontà politica. Questa purtroppo mancò – come del resto in tutto il paese – quando, incapaci di utilizzare le regole nelle loro potenzialità di governare con rigore e flessibilità, si preferì abbatterle.
In realtà, l’applicazione di quel metodo alle trasformazioni fisiche e funzionali dell’edilizia storica aveva un difetto notevole per i politici d’oggi: evitava la discrezionalità delle decisioni. Stabiliva con precisione quali elementi dell’edilizia storica dovevano essere conservati e quali trasformati, e a quali condizioni. Consentiva – nell’ambito delle invarianti – modifiche anche consistenti, ma non le affidava alla discrezionalità dell’ufficio o dell’assessore, poiché imponeva invece una procedura trasparente. Per la discrezionalità del politico di turno esprimeva insomma un lacciuolo del quale era meglio liberarsi. E infatti, se ne liberarono.
Al modo in cui questo avvenne rinvio, chi voglia approfondire la questione, all’ultimo ponderoso scritto di Gigi, in appendice al suo libro Venezia: Terra e acqua. Oppure allo scritto che Edgarda Feletti, impossibilitata per un improvviso malore a raggiungerci oggi, ha promesso di inviarmi, e che pubblicherò in eddyburg. Oppure ancora, per comprendere e verificare in modo ancora più compiuto, allo studio sulle carte del Fondo Luigi Scano che è depositato qui, nella Casa della memoria e della storia.
Quel piano della città storica - avviato alla fine degli anni 70, adottato nel 1990 e demolito negli anni successivi - fu la matrice (una delle matrici) di un’innovazione a mio parere di grande rilevanza nei metodi di pianificazione in Italia. Fu infatti in quel piano che iniziammo a sperimentare due innovazioni che da allora trovarono applicazione (per la verità, spesso approssimativa e a volte distorta) in molte successive applicazioni, sia legislative che amministrative. Mi riferisco alle “invarianti strutturali” e alla distinzione tra “componente strutturale” e “componente operativa” della pianificazione.
Con la prima espressione si indica il fatto che, nell’ambito delle scelte territoriali finalizzate prioritariamente alla tutela delle qualità ambientali, culturali e paesaggistiche, non si procede a un vincolo generalizzato, da superare mediante un procedimento di solito aperto al compromesso discrezionale, ma si individua con la massima precisione possibile quali elementi devono essere conservati, e quali invece possono essere trasformati e secondo quali regole.
Con la seconda espressione si stabilisce una differenza tra una componente del piano che contiene le scelte fondamentali, valide nel lungo e nel lunghissimo periodo, riguardanti le invarianti strutturali e le scelte strategiche (intendendo la strategia come il lungo periodo), mentre le seconde, che non possono contraddire le prime, ne costituiscono in qualche modo l’attuazione e l’elemento di flessibilità.
Nel ricordare Gigi Scano nei giorni immediatamente successivi alla sua scomparsa Massimo Cacciari ricordava come i temi delle battaglie di Gigi costituissero ancora problemi irrisolti per la città. Il fatto è che per ciascuno di quei temi c’era non solo l’analisi e – dove necessario – la denuncia e la protesta, ma anche la proposta. Il più delle volte le sue proposte non sono state accolte. Ecco alcuni, di quei temi.
Il rapporto tra Venezia, la Laguna, l’area intercomunale gravitante su l’una e sull’altra. Gigi (lo ricorderanno certamente Toni Casellati e Cino Casson nel loro intervento) fu tra i propugnatori della dimensione dell’area vasta come nuova entità di governo di quella che fu poi chiamata “città metropolitana”. La prima sperimentazione di un governo esteso a quest’area fu il piano comprensoriale, previsto dalla legge speciale del 1973, al quale lavorò prima con Vezio De Lucia, e poi formulando una robusta osservazione integrativa presentata dal comune di Venezia. Ma il piano non fu mai definitivamente approvato, per colpa del boicottaggio della Regione, che pure del consiglio di comprensorio faceva parte (ma ne era anche il controllore).
Quell’esperienza influì sulla più matura formulazione del problema dell’area vasta nella legge 142 del 1985, in cui fu essenziale il contributo dei parlamentari veneti Lucio Strumendo e Adriana Vigneri. Ma in nessuna regione d’Italia le “nuove ragioni” della politica consentirono di avviare la formazione delle “città metropolitane”, strumento essenziale per il governo dei fenomeni che si verificano e si controllano solo sull’area vasta (la mobilità, il consumo di suolo, l’ambiente naturale, i servizi sovralocali, la politica della casa).
Il turismo divoratore della bellezza e della società. La forma del turismo che sta divorando Venezia (come molti altri luoghi belli d’Italia e del mondo) ha rivelato la sua natura nefasta da alcuni decenni. Ed è almeno dal 1990 che Gigi fu tra quelli che avviarono un ragionamento propositivo sul tema. Fu dopo l’esperienza del tentativodi far svolgere a Venezia l’Expo 2000 - fallito grazie al movimento di quegli anni - che Gigi elaborò quel metodo che definì “governo programmato dell’offerta turistica”; un approccio al problema che avrebbe consentito non solo di contenere l’entità dei flussi turistici, ma soprattutto di indirizzarlo (con un mix sapiente di politiche nei vari settori) verso le forme di visita dalla città indirizzate a conoscerla e a goderla nelle sue qualità e nel suo insegnamento, scoraggiando quelle che si riducono a “mordere e fuggire”.
Del resto, le stesse norme di controllo delle destinazioni d’uso residenziali e commerciali del piano regolatore del 1990 erano indirizzate a tutelare le residenze e il commercio quotidiano dall’invasione barbarica del turismo mordi e fuggi. Furono le prime regole a essere smantellate.
Antonio Casellati e Cino Casson ci parleranno del ruolo di Gigi e del “suo” PRI nella politica veneziana; Vezio De Lucia ci illustrerà più ampiamente il ruolo che Gigi svolse come urbanista a livello nazionale; Alessandra Bonesini racconterà del fondo costituito dalle sue carte – il cui deposito in questa sede è la ragione primaria di questo incontro; Flavio Cogo del rapporto di Gigi con la Laguna e con i movimenti che la difendono oggi. Io vorrei concludere tornando per un attimo su quei due fuochi del lavoro di Gigi (la politica e l’urbanistica) dai quali sono partito.
Il nesso tra questi due fuochi – quelle due dimensioni – è strettissimo. Afferma Francesco Indovina che «il piano è un atto politico tecnicamente assistito»; dice Leonardo Benevolo che «l’urbanistica è una parte della politica». Ciò rende facile a chi abbia entrambe le passioni di passare dall’una all’altra: come è accaduto a Gigi, il quale è stato per molti anni essenzialmente un uomo della politica (senza mai perdere le sue competenze e capacità di urbanista) e si è dedicato in altri anni quasi esclusivamente all’attività di urbanista (senza mai perdere lo sguardo politico sulla realtà). A questo punto mi pongo due domande.
La prima: esiste un’autonomia dell’urbanista dal politico, quando queste due figure sono distinte? E se c’è, dove risiede? De Lucia, proprio parlando di Gigi, dà la sua risposta, che condivido:
«L’unica garanzia, per evitare il naufragio sugli scogli dell’eccesso di disponibilità oppure su quelli opposti della malintesa autonomia, sta nell’essere portatori e garanti di una propria concezione etica, estetica e culturale, politica, se si vuole […]. Una condizione rara […] che si realizza solo quando la committenza pubblica è animata dalle stesse concezioni dei tecnici chiamati a collaborare».
La seconda domanda, conclusiva di questo mio intervento. Se il legame tra urbanistica e politica è così stretto, che cosa fa l’urbanista quando – come oggi – la politica è in crisi, oppure quando la committenza pubblica è animata da concezioni diverse? Ed ecco la mia risposta. La politica non si riduce a quella delle formazioni politiche della Seconda Repubblica né a ciò che oggi le istituzioni sono diventate. Aver disgregato la dimensione partito, aver lasciato deperire le istituzioni, sono stati perdite gravi.
Ma la politica come dimensione della vita dell’uomo non è scomparsa. Essa (per citare una frase di don Lorenzo Milani) è là dove più persone riconoscono che i loro problemi sono anche i problemi degli altri, e s’incontrano e lavorano insieme per affrontarli e risolverli insieme.
Qui è la politica oggi, e qui Gigi l’ha incontrata di nuovo quando ha contribuito al nascere e al crescere di movimenti, associazioni, comitati – come quelli per la Laguna e per Venezia, con i quali avremmo dovuto ragionare oggi pomeriggio per comprendere meglio che cosa fare oggi, qui a Venezia, per proseguire la lotta di Gigi. Ci incontreremo con loro, per proseguire i discorsi iniziati oggi, in una prossima occasione, in questa bellissima sede.
Di seguito l’indice del saggio e il testo del terzo capitolo. In calce è scaricabile il testo integrale in formato .pdf
INDICE
1. Ieri. Nasce il “diritto alla città” nell’Italia post-fascista
Il dopoguerra
L’Italia alle soglie degli anni 60
Lotte sociali e disastri territoriali
Un biennio decisivo: 1968-1969
Quale idea di città
2. Oggi. Forma e sostanza della città del neoliberalismo
Il contesto, nel mondo e in Italia
La città del neoliberalismo
Le piazze e gli spazi pubblici
Lo spazio pubblico e la democrazia
3. Domani. Una nuova ideologia: La città come bene comune
La speranza dei movimenti
Città come bene comune
Quali soggetti nella “città globale”
Riconquistare la storia e lo spazio pubblico
Il compito dell’urbanista
3. DOMANI
UNA NUOVA IDEOLOGIA: LA CITTÀ COME BENE COMUNE
La speranza dei movimenti
Come riprendere oggi un cammino che consenta di restituire al popolo qualcosa che abbia la dignità di essere definito “diritto alla città”? E quale idea di città, esprimibile in una frase semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti di quel “diritto”? Questa è l’ultima parte – la più difficile – del mio intervento.
Partiamo dalle cose. Se si conviene che l’idea di città proposta e praticata dal neoliberismo sia insoddisfacente, che l’ideologia che la sorregge debba essere contrastata e sostituita, che per l’habitat dell’uomo (perché a questo ci riferiamo quando parliamo di “città” al di là degli esempi consegnatici dalla storia) debba essere individuato un diverso futuro, allora dobbiamo riferirci a ciò che resiste alle attuali tendenze e cerca di opporsi e di proporre delle alternative. Guardando alla società possiamo dire che il punto di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, che esprimono sofferenze individuali che però appartengono a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta). “Dentro queste nuove esperienze – ha scritto un uomo che viene dalla letteratura e dalla politica e che si è immerso nel movimento ambientalista - circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili” .
Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti. Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità. La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche. Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro. La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale. La privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.
Questi temi toccano direttamente l’esperienza di vita dei cittadini. Meno direttamente la toccano altri temi, che pure hanno sollecitato un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva. Mi riferisco al movimento che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo. Il consumo di suolo è molto esteso in Italia. Esso è considerato particolarmente grave perchè in Italia, a differenza che in altri paesi europei, le aree pianeggianti e di fondo valle (che sono quelle più interessate dalla trasformazione in cemento e asfalto) sono una porzione molto limitata del territorio nazionale, perché il territorio è ricchissimo di testimonianze storiche disperse per ogni doive, e perché sono del tutto assenti politiche governative e regionali tendenti a contrastarlo. Fino a pochi anni fa la stessa cultura accademica ignorava il fenomeno e la sua entità. Oggi, a parole, il consumo di suolo è criticato da tutti, ma solo un ampio movimento popolare ha intrapreso una lotta conseguente .
E insieme a questi temi, direttamente legati al territorio e ai beni comuni materiali, quelli dei diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.
Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana, nelle colline tra Firenze e Bologna, quando disse che aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» . É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi l’habitat dell’uomo è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione.
C’è un concetto allora, al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città (e per estensione l’intero habitat dell’uomo) sia considerato un bene comune. Ma su questa parole converrà soffermarsi.
Città come bene comune
Per comprendere il significato dell’espressione “città bene comune” è utile riflettere su ciascuna delle tre parole che la compongono.
Città
Nell’esperienza europea (ma probabilmente nell’esperienza storica di tutte le civiltà del mondo) la città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città non è un aggregato di case, è la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
Bene
Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Un bene, invece, è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Il termine “comune” presenta peraltro una possibile declinazione negativa, più esplicito nel termine derivato “comunità”. Una comunità è una figura sociale che include (i membri di quell’organismo comune) ma contemporaneamente esclude (gli altri). Né questa declinazione può essere risolta sostituendo a “comune” il termine “collettivo”. É opportuno allora precisare il termine comune” (e “comunità”) con una ulteriore precisazione. Nell’esperienza della vita contemporanea ogni persona appartiene, di fatto, a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera quotidianamente. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo, cittadino del mondo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
Quali soggetti nella “città globale”
Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.
Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.
É probabile che questo obiettivo non sia mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni. Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più.
La tendenza generale sembra infatti quella di un’accentuazione di tutti gli squilibri tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Tra i due estremi dell’opulenza e della miseria aumenta la casistica delle differenze con una forte propensione al moltiplicarsi di enclaves e recinti, ciascuno dei quali racchiude gruppi sociali diversamente dotati di accesso ai beni ma ugualmente rinchiusi nella loro incapacità di comunicare con gli altri in termini di comprensione, condivisione, cooperazione.
Essi sono però uniti da un comune destino costituito da due elementi. Da un lato, dal fatto di appartenere tutti al medesimo pianeta, le cui risorse appaiono sempre più limitate, e sono contese tra utilizzazioni alternative, dove prevalgono quelle che privatizzano e commercializzano i beni comuni. Dall’altro lato, dal fatto di appartenere a un habitat (e a un’economia) nel quale la tradizionale dimensione del “locale” è sempre più integrata da una dimensione “globale”, che lega tra loro i diversi “locali” in un sistema sempre più governato da attori lontani e irraggiungibili: da un pugno di uomini dotati di poteri invincibili.
L’habitat dell’uomo appare insomma sempre più caratterizzato dalla integrazione di differenti luoghi, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie peculiarità, i propri conflitti, ma tutti legati tra loro dall’essere funzionali a un unico processo di sfruttamento economico e a un unico sistema territoriale. Un sistema territoriale che Saskia Sassen ha definito “città globale” , del quale due elementi essenziali garantiscono la sopravvivenza e la funzionalità. Da un lato, “l’infrastruttura globale”, cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere. Dall’altro lato, i flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.
Tra gli uni e gli altri, tra gli abitanti della “infrastruttura globale” e quelli del “pianeta degli slums ”, vive e consuma la massa del “terzo strato”: di quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla cultura dei padroni, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi anche loro al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo una promozione o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione nei confronti della moltitudine dei più deboli e più sfruttati, dai quali è sempre possibile aspettare l’insorgenza.
Se questa rappresentazione della città di domani (che è già presente tra noi) è condivisibile, allora il concetto di “diritto alla città”, così com’è stato elaborato nel corso del secolo scorso, richiede oggi un impegno del tutto particolare, poiché sollecita ad affrontare la questione nel quadro della globalità che oggi la caratterizza. Oggi non è più sufficiente perseguire l’equità all’interno di una delle numerose “città”, o tipi di città, della tradizione, ma occorre cercarla nell’insieme dell’habitat dell’uomo, rompere le barriere tra i diversi strati che lo compongono la “città globale. E il tentativo di perseguire l’equità a questo livello non potrà condurre a risultati soddisfacenti se non si terrà conto, insieme a ciò che unisce, anche di ciò che divide: della grande diversità delle condizioni culturali e materiali tra le varie realtà locali che compongono il “globale”.
Non è insomma in un archetipo della vita urbana che si potranno trovare i riferimenti esclusivi di un nuovo paradigma, ma solo nell’attenta ricerca di ciò che – all’interno di tutte le storie, le culture, le tradizioni che hanno caratterizzato i popoli e i luoghi del mondo – costituisce un insegnamento da applicare per costruire, utilizzando le rovine delle vecchie, una nuova città pienamente umana.
Riconquistare la storia e lo spazio pubblico
La città della tradizione non è ancora scomparsa. Sul terreno non sono rimaste solo rovine. C’è anche vita, speranza, e quindi germi di un possibile futuro. Ne ho indicati i segni nelle tensioni sociali che nascono un po’ dappertutto per resistere alla dilapidazione del beni comuni, nelle vertenze aperte per difendere lo spazio e gli spazi pubblici che la globalizzazione neoliberista sta divorando, nei tentativi di ricostruire una nuova socialità – e una nuova politica – dal basso. É da qui bisogna partire.
Beni e valori comuni, spazi e spazio pubblico, funzioni collettive: questo è il punto di partenza segnalato da ciò che si muove nella società. Ed è questo, in definitiva, che la storia ci indica.
Se si vuole costruire un futuro diverso dal presente è dalla storia che bisogna partire. “Historia magistra vitae”, la storia è maestra della vita. Proprio per questo quei poteri che vogliono che le cose rimangano come sono hanno tentato di cancellare la storia (la consapevolezza del nostro passato, delle radici di ciò che siamo e quindi dei germi di ciò che saremo) dalla nostra memoria. Recuperare la memoria, recuperare la storia: questo è ciò che è innanzitutto necessario per contrastare chi vuole appiattire l’uomo sul suo presente, per inculcargli la convinzione che nulla è modificabile, perché tutto ciò che è stato è quello che sarà, ed è tutto già cristallizzato in un presente immodificabile.
La storia – e le lotte di oggi – ci danno un’indicazione precisa: partire dalla difesa e dalla riconquista dello spazio pubblico. In tutti i suoi aspetti. Poiché è spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico le aree destinate alle funzioni collettive, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane e la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.
Il compito dell’urbanista
Per un urbanista l’obiettivo della difesa e riconquista dello spazio pubblico pone una molteplicità d’impegni. Il primo , nella situazione di oggi, è quello della difesa del metodo e dello strumento della pianificazione in quanto tale. Senza una visione olistica e di lungo periodo del territorio e delle sue trasformazioni non è possibile realizzare una città equa e umana: non è possibile garantire un futuro nel quale il diritto alla città sia realizzato.
Non basta però una qualsiasi pianificazione. É necessaria una pianificazione che abbia come suoi obiettivi non il privilegio degli interessi immobiliari, né la crescente “valorizzazione economica” del territorio, né lo “sviluppo dell’urbanizzazione” indipendentemente dalle sue finalità, ma il benessere delle popolazioni presenti e future in termini di salute, di accesso alle risorse e a tutti i beni comuni sia naturali che storici. Una pianificazione che assuma tra i suoi compiti principali (se vogliamo contrastare ciò di più negativo oggi accade) il contrasto al consumo di suolo e delle altre risorse naturali limitate, e il soddisfacimento, nell’organizzazione della città e del territorio, delle esigenze collettive dell’abitazione, dei servizi, della mobilità in condizioni di equità per tutti gli abitanti. Una pianificazione che abbia al suo centro la ricerca dell’equità nella dotazione dei servizi , nella libertà dell’uso e dell’accesso agli spazi della vita e delle funzioni collettive indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, economiche, della razionalità nella disposizione delle cose sul territorio, della bellezza nella definizione dei nuovi paesaggi e nella conservazione di quelli esistenti.
Si tratta allora per gli urbanisti – almeno in Italia - di cambiare molto rispetto alle attuali tendenze culturali. Più che tecnici al servizio degli interessi attuali e futuri della maggioranza della popolazione gli urbanisti sono oggi ridotti alla condizione di “facilitatori” degli interessi immobiliari, di “negoziatori” tra le aspettative dei proprietari e utilizzatori di aree da “sviluppare” con l’urbanizzazione indipendentemente dalle priorità sociali, di operatori abili a “perequare” gli interessi dei proprietari immobiliari e del tutto indifferenti alle ben più gravi sperequazioni tra persone, gruppi sociali e classi che abitano la città.
Ma pianificazione significa anche partecipazione dei cittadini al governo del territorio, alle decisioni che concorrono a realizzare le condizioni della vita futura. Perciò lavorare in questa direzione significa anche impegnarsi nel tentativo di espandere le democrazia (la capacità e possibilità di tutti di concorrere alla costruzione del bene comune) al di là dei limiti della democrazia rappresentativa e dell’istituto della delega permanente. Significa allora dare a tutti la possibilità concreta di essere liberi di partecipare alla vita pubblica, rendendo indipendente la libertà dalla proprietà . Significa perciò anche costruire una nuova economia, nella quale il lavoro non sia alienazione (nel senso di ordinamento ad altro da sé) e riduzione dell’attività dell’uomo a merce, ma sia “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” . Ma qui si apre un discorso che andrebbe ben al di là del tema di questo contributo, e di questo stesso fascicolo.
Per Edoardo Salzano bisogna ripartire dalla politica per rilanciare la disciplina. Sfruttando il disagio diffuso
La crisi dell’urbanistica/1
box introduttivo
Cominciamo con questo numero una serie di interviste ad alcuni grandi protagonisti dell’urbanistica italiana per sondare le cause della sua crisi, che oggi sembra irreversibile. Nelle città le trasformazioni sono dettate quasi esclusivamente dall’iniziativa privata, con le amministrazioni chiamate soprattutto a certificare scelte guidate dalla rendita fondiaria. Anche gli strumenti della pianificazione, pur modificati nel corso degli ultimi vent’anni, non riescono ad arginare il fenomeno: fra le loro maglie larghissime riescono a passare le iniziative più spregiudicate, quando addirittura non sono costruiti ad hoc per spianare la strada ai proprietari, come il pgt di Milano (vedi Costruire n. 321). In questa situazione ha ancora senso, oggi, parlare di urbanistica? Esistono margini di recupero per la disciplina? Le nostre città hanno un futuro sostenibile?
Fulvio Bertamini. Edoardo Salzano, classe 1930, continua a lavorare, scrivere, insegnare con l’energia di un ragazzo. Di formazione ingegneristica, considerato da tempo l’esponente di spicco dell’ala più radicale dell’urbanistica italiana, è stato amministratore pubblico, ha presieduto l’Inu, Istituto nazionale di urbanistica, firmato molti prg, diretto riviste – fondando Urbanistica informazioni – ed esercitato una intensissima attività pubblicistica. Polemista acuto, autore di molti libri (il più recente è “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”, vedi box), ha creduto molto presto nelle potenzialità della rete. Oggi il suo sito (eddyburg.it) è uno dei più ricchi di spunti e informazioni in materia.
Salzano, è corretto dire che il metodo della pianificazione, e con lei l’urbanistica tutta, sta agonizzando, oggi, in Italia?
Come disse un po’ di anni fa Leonardo Benevolo, l’urbanistica è parte della politica, non è un mestiere tout-court. È l’arte di governare le trasformazioni della città.
Non è solo un fatto tecnico, dunque.
La tecnica è solo un aspetto della disciplina. L’urbanistica è il progetto di formazione e trasformazione della città che esprime la società nel suo complesso, non ha a che fare con i singoli individui, anche se poi sono loro a fruirne. Partendo da questa asserzione, diventa facile rispondere alla sua domanda: l’urbanistica è in crisi perché è in crisi la politica, che non è più espressione della società, ma di vari individualismi, lobby, separatezze. Questa urbanistica non serve più perché non serve più questa politica. Se poi mi chiede perché in Italia la politica sia diventata tutto questo e sia stato abbandonato il metodo della pianificazione, il ragionamento si fa più complesso.
Facciamolo pure.
Secondo me le ragioni principali sono due. Anzitutto, in Italia la borghesia non ha mai compiutamente vinto e quindi non si è mai data alcuni strumenti essenziali, che le borghesie di tutto il mondo hanno inventato: a cominciare da una solida amministrazione pubblica. Perché la borghesia intelligente sa che il capitalismo funziona bene se c’è un governo pubblico a risolvere i problemi che il mercato non sa risolvere. E fra questi c’è il governo del territorio. La pianificazione, per me, nasce a New York nel 1811, con il piano regolatore che ha dato forma a Manhattan, con un disegno ancora attuale. In Italia, viceversa, non c’è mai stata una borghesia capitalistica seria, vincente. Come conseguenza, questa classe, sviluppatasi essenzialmente nel Nord – e questo è il secondo aspetto da tenere in considerazione – per arrivare al potere ha dovuto fare un patto con l’ancien régime, cioè con i latifondisti del Sud. L’accordo ha consentito alla rendita fondiaria di conservare un peso straordinario, dominante. Il territorio, nel nostro paese, non è il luogo dove costruire la migliore città possibile, ma è uno strumento per fare quattrini. Secondo me è molto significativo che durante l’età delle riforme in Italia, ovvero negli anni Sessanta e Settanta, la borghesia capitalistica, con Agnelli leader di Confindustria, sparasse contro la rendita, favorendo quel processo di innovazione che stava per tagliare le unghie alla rendita, contenendone il peso nella costruzione della città. Purtroppo è stato un momento, durato circa vent’anni; poi hanno prevalso altre logiche. Che non sono un’esclusiva italiana, sia chiaro: è il fenomeno che Richard Sennett ha definito come il declino dell’uomo pubblico, ovvero la riduzione nelle stesse psicologie personali della componente sociale, aperta all’esterno, e il predominio di quella individualistica. In Italia, però, questo aspetto ha raggiunto il parossismo e il tracciato politico che dal Doroteismo porta a Craxi e a Berlusconi è l’espressione limpida di questo percorso.
Non c’è speranza, dunque, per la pianificazione?
Bisogna intendersi. Quando parliamo di pianificazione intendiamo una prassi sviluppata dall’autorità pubblica, che ha come obiettivo un interesse generale. E pensiamo a una pianificazione nella democrazia, trasparente. Persino il fascismo dovette introdurre le osservazioni al piano regolatore, quando inventò questo strumento. Questa pianificazione oggi è scomparsa. Ma una strategia sull’uso del territorio esiste ed è chiarissima: le grandi opere pubbliche da un lato, il piano casa di Berlusconi dall’altro, e ognuno faccia quello che vuole, perché ognuno è padrone a casa sua. Sotto questo aspetto, esiste una pianificazione, un disegno preordinato.
Ma non olistico. Non si valuta il territorio nel suo complesso.
Certo. Però il territorio è una realtà sistemica e non può essere gestito a spizzichi e bocconi, perseguendo via via gli interessi degli appaltatori, dei proprietari dei terreni, della finanza – legale e illegale, espressione della malavita organizzata – che non sa dove investire. Perché in questo modo, prima o poi, si ribella e si sfascia. Certo, nel frattempo chi doveva fare quattrini, li ha fatti. Se ne frega.
Diciamo, con un eufemismo, che l’esito non preoccupa.
Infatti, non è un tema all’attenzione. Da vecchio comunista italiano, però, mi fa paura concludere un’analisi negativa senza individuare un punto da cui ripartire. La nostra situazione, oggi, è inumana – pensiamo alle condizioni in cui versano le nostre città – dunque provoca disagio, genera dissenso, ribellione. Questo è il punto da cui si può ripartire. Se mi guardo intorno non vedo forze politiche in grado di comprendere questa situazione. Però esistono, dispersi sul territorio, molti gruppi e associazioni che, mossi dai moventi più diversi, dall’inceneritore che inquina al parco assaltato dalla speculazione, dalla scuola privatizzata all’acqua svenduta, si orientano nuovamente verso interessi comuni. Per ora si ragiona ancora seguendo interessi particolari, che difficilmente riescono a comunicare fra loro. Ma è una prospettiva sulla quale conviene spendersi. Una speranza, insomma, c’è.
Anche l’architetto sloveno Marjetica Potrč svolge un’analisi di questo tipo (“Marjetica Potrč. Fragment worlds”, Actar/Fondazione Antonio Ratti). Le comunità si aggregano sempre più secondo piccoli gruppi molto sensibili alle tematiche territoriali, in grado però, grazie alla tecnologia informatica, di restare in contatto con il resto del mondo. Questo vale per alcune tribù del Mato Grosso come per il puzzle etnico balcanico. Anche partendo dal locale è possibile un’azione comune.
Sono d’accordo. Supporto la sua riflessione con la mia esperienza personale. In Veneto stiamo costituendo una rete di associazioni e comitati che si battono per la difesa del territorio. Siamo partiti da un’analisi critica del piano territoriale di coordinamento provinciale di Venezia, quindi abbiamo valutato l’analogo piano della Regione Veneto, creando un gruppo multidisciplinare formato da esperti – urbanisti ma anche trasportisti, agronomi, naturalisti eccetera – e rappresentanti dei diversi comitati, che ha elaborato un documento, diventato materia di discussione in alcune centinaia di incontri svoltisi un po’ ovunque. Su questo testo abbiamo raccolto l’adesione di 150 comitati e associazioni e siamo riusciti a far presentare 15 mila osservazioni al piano regionale. Esperienze come questa non sono episodiche: si veda la raccolta di firme contro la privatizzazione dell’acqua in tutta Italia, un episodio grandioso. O il movimento “Stop al consumo di suolo”, che ha lanciato questo tema e raggiunto alcune migliaia di associazioni e gruppi.
Però manca una forza in grado di coagulare e dare un respiro più ampio a queste iniziative.
Sono tutti punti di vista parziali, certo. Del resto, è difficilissimo: tutto è sempre basato sul volontarismo e sulle risorse personali, che purtroppo sono scarse.
Lei ha spostato l’analisi su un piano politico. I suoi colleghi, invece, la confinano spesso all’aspetto tecnico. Scendendo a questo livello, condivide la critica al vecchio prg? E cosa pensa dello sdoppiamento di questo strumento, proposto dall’Inu a Bologna nel 1995 e adottato da molte leggi urbanistiche regionali?
Io sono fra i responsabili dell’idea di articolare in due parti, una strutturale e l’altra operativa, il prg. Cominciammo a operare in questa direzione a Venezia con il piano del centro storico, nei primi anni Ottanta, poi abbiamo applicato questa sperimentazione prima a Carpi, quindi in un paio di proposte di leggi urbanistiche per l’Emilia Romagna e il Lazio. L’idea di fondo è che esistono scelte sul territorio che hanno carattere di invarianza, cioè che è sensato non siano modificate a tempo indeterminato – le opzioni strategiche e di tutela ambientale o storico-monumentale – e ce ne sono altre legate alla contingenza: alla maggioranza che ha vinto le elezioni, agli equilibri sociali eccetera. Allora, è corretto separare questi due livelli e al primo dare un carattere più rigido, all’altro più elastico. Naturalmente, anche le scelte di lungo periodo devono essere precise, vincolanti, non possono limitarsi a dichiarazioni di buona volontà, a costituire disegni indeterminati nel tempo e nello spazio. Invece ha preso piede un’altra distinzione, cioè un altro piano, articolato in un documento sì abbastanza rigido, ma che in genere presenta maglie larghissime e non decide nulla, e uno operativo, appannaggio però solo del sindaco. Comunque, tutto questo è superato, ormai. Perché le decisioni maturano fuori del piano regolatore.
Cosa è accaduto?
In Italia a un certo punto le forze politiche – compreso il centrosinistra – hanno scelto la governabilità a scapito della democrazia. Una volta i piani regolatori erano discussi dai consigli eletti – comunale, provinciale o regionale – e approvati in quelle sedi. Tutti erano ugualmente responsabili e informati. L’opposizione poteva esercitarsi. Oggi le decisioni sono sempre più esclusiva del sindaco o del presidente della Regione, che non a caso si fa chiamare governatore. Addirittura si ricorre ai commissari, che concentrano poteri extra legem, se non addirittura contra legem, perché in genere non sono tenuti al rispetto delle norme.
Come dimostra il caso della Protezione civile. Ma quanto ha pesato nella crisi dell’urbanistica l’assenza storica di alcune leggi fondamentali, da una normativa sul regime dei suoli alla riforma della legge quadro, la 1150/42?
Non molto. Manca davvero una sola legge: quella che avrebbe dovuto comprimere la rendita. In interi continenti la proprietà della terra non è privata, come nella tradizione africana precolonialista. Perfino nel Regno Unito, durante le operazioni di development urbano, il consenso del proprietario è richiesto, ma non è certo il primo a decidere. In Italia, invece, la rendita ha ancora un peso determinante. Si era andati vicino alla soluzione del problema negli anni Settanta. Già lo Stato liberale aveva decretato che l’indennità espropriativa non compensava il maggior valore derivante dall’investimento dell’opera pubblica realizzata. Anche la legge urbanistica fascista del 1942 sosteneva la mancata compensazione dei benefici ottenuti dal prg. In materia espropriativa, insomma, erano stati raggiunti risultati apprezzabili. Non altrettanto per quanto riguarda la discriminazione fra chi poteva costruire, quindi godere della rendita piena sul proprio terreno, e chi invece aveva subito l’esproprio. La legge Bucalossi (10/77) tentò di risolvere il problema, trasformando la licenza edilizia – che libera un diritto già presente nella proprietà – in concessione, che va pagata a un prezzo equivalente al beneficio derivante. Questa operazione, purtroppo, non è mai andata in porto, perché il costo della concessione è sempre stato simbolico. Il nodo è complesso da risolvere. Ma può essere affrontato.
Anche oggi?
Non ci siamo riusciti negli anni Settanta, figuriamoci oggi. Si consideri che le prime bombe fasciste sono scoppiate dopo l’avvio della discussione sulle leggi sulla casa e lo sciopero generale del 1969. La nostra disciplina non si confronta con problemi lievi, evidentemente. Allora, che gli urbanisti la smettano di piangere: ben più dell’urbanistica, è fallita la politica. E da lì bisogna ricominciare.
Che ne pensa della città della paura, in rapida espansione anche in Italia (vedi Costruire nn. 293, 306 e 313), dalle gated community, i quartieri cintati esclusivi per ricchi, al fiorire delle telecamere, dalla soppressione progressiva degli spazi pubblici alla limitazione di alcuni elementi di arredo urbano molto democratici, come le panchine? È preoccupato da questo trend?
Certo. La città pubblica continua a cedere spazi alla città privata. Sono tendenze molto evidenti negli Usa, dove in alcuni mall puoi acquistare magliette politicamente orientate ma non puoi esibirle, o non puoi stare seduto per più di 15 minuti su una panchina perché tu sei lì per acquistare, non per riposare. Un altro aspetto di questo fenomeno sono i ghetti, per i poveri e per i ricchi, la città da cui ti proteggi e la città protetta: due facce della stessa medaglia. La città si sta muovendo lungo queste linee, il tema sarà assolutamente centrale nel futuro prossimo, non ci sono dubbi.
Lei si batte contro il consumo di suolo, dunque lo sprawl. Favorevole allora alla densificazione urbana?
Sono sì contro lo sprawl, ma anche contro i grattacieli. I due aspetti sono posti spesso in contraddizione: costruiamo torri per contenere il consumo di suolo. Ma è una tesi che rifiuto. Un tempo la cultura urbanistica aveva imparato – e insegnava – che per costruire una città non bastano case, uffici, fabbriche. Ogni metro quadrato di residenza, ufficio, produttivo si deve portare dietro un certo numero di metri quadrati di scuole, mense, ospedali. Cioè di standard urbanistici. Se costruisci un grattacielo, dovresti realizzare contestualmente una determinata quantità di spazi pubblici, che sono fissati per legge. Questo oggi non avviene.
Nella crisi dell’urbanistica c’è dunque anche un problema di formazione? Cattivi allievi da cattivi maestri?
Io seguo poco, ormai, quanto accade negli atenei. Da quel che capisco, soprattutto ascoltando gli studenti che approdano alla scuola di Eddyburg, mi pare che l’università si sia terribilmente tecnicizzata. Anziché addestrare in primo luogo a una lettura critica della realtà tende a formare facilitatori, cioè specialisti che hanno il compito di semplificare le operazioni immobiliari. Del resto, l’università è strozzata: per sopravvivere deve fare quattrini, dunque deve mantenere buoni rapporti con chi li ha. La tendenza alla privatizzazione dell’insegnamento accademico presenta anche questi risvolti. Si pensi alla sempre più netta prevalenza del linguaggio aziendalistico: l’università è stata costretta a trasformarsi in impresa, a fare utili e reinvestirli. Per questo l’attività di ricerca, che nessuno paga, viene progressivamente abbandonata.
box libro
L’Italia di Salzano
Una galoppata lunga 80 anni, dalle origini familiari napoletane – suo nonno era il generale Armando Diaz, duca della Vittoria nella Prima guerra mondiale, l’uomo di Vittorio Veneto – al suo trasferimento a Roma, dalla scoperta dell’urbanistica (“Mi piaceva il forte intreccio fra dimensione tecnica e professionale e quella sociale e politica”) alla scelta politica di campo con il Pci, alle multiformi esperienze professionali: il centro studi della Gescal, il lavoro al ministero dei Lavori pubblici, i piani urbanistici, cui si affiancavano l’attività politica strictu sensu (in consiglio comunale a Roma, in giunta comunale a Venezia), l’impegno all’interno dell’Inu, dalla presidenza alla clamorosa rottura e alla diaspora, l’insegnamento all’Università Iuav di Venezia. Nelle “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto” di Edoardo Salzano c’è tutto questo e molto altro della vicenda umana e professionale di uno degli esponenti di spicco della cultura urbanistica italiana del dopoguerra. Il libro ha valore di testimonianza storica sanamente partigiana: nelle sue pagine è possibile ripercorrere le tappe esaltanti e tragiche della nostra politica, ma soprattutto è possibile apprezzare lo spirito indomito e la passione civile di Salzano, che traspare evidente anche dalla prosa, secca, efficace, incalzante. Un testo per tutti i palati, particolarmente consigliato agli spiriti libertari.
Edoardo Salzano
Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto
Corte del Fontego, Venezia, 2010
240 pagine, 20 euro
La voce critica di Eddyburg, Piano Casa, Housing sociale e progetti delle Archistar. - L'urbanistica democratica, gli abitanti hanno diritto a vivere in città possibili
Edoardo Salzano, professione urbanista. Una vita da intellettuale comunista, un cattolico laico che vive la politica come attivazione morale e che ha difeso, come amministratore, l’urbanistica dall’assalto di una politica senza più etica. Dal 2003, dopo aver redatto piani regolatori in tutta Italia e dopo aver insegnato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia per oltre due decenni, Salzano dedica la sua vita alla divulgazione di un’urbanistica del piano, soprattutto attraverso eddyburg.it, dove vengono lanciate anche campagne contro lo sfruttamento del suolo e il consumo dello spazio pubblico. Oggi, dopo il significativo contributo del 2007 con la pubblicazione di Ma dove vivi? La città raccontata - Editore Corte del Fontego, 2007 - ottuagenario ci lascia le sue Memorie di un Urbanista - Editore Corte del Fontego, 2010 - per ricominciare con nuovo slancio l’impegno della vita, è stato appena eletto presidente della Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto.
Lo hanno spesso etichettato quale illuminista giacobino insomma un ispiratore, in urbanistica, del Regime del Terrore - ma per dirla con Michel Foucault - Il terrore non esiste solo quando alcune persone comandano altre e le fanno tremare, ma regna quando anche coloro che comandano tremano, perché sanno di essere presi a loro volta, come quelli su cui esercitano il potere, nel sistema generale dell’obbedienza. A questo proposito vi invitiamo a leggere un illuminante articolo del 1992 Affari & Urbanistica. Gli strumenti urbanistici di Tangentopoli che ci racconta una storia attualissima dell’urbanistica italiana, un attraversamento guidato nell’Italia da prima delle “mani sulla città” allo “svillettamento” padano; dalla proposta di legge Sullo ( il disegno di legge Sullo è pronto nel giugno 1962) all’urbanistica contrattata; dall’idea di piano agli immobiliaristi, al pari del suo ultimo saggio Memorie di un Urbanista.
Ma chi è Edoardo Salzano, è un uomo che pensa il mestiere dell’urbanista come quello del diplomatico, non ammette l’esistenza di interessi privati. Ha un’idea precisa: la città, le decisioni sulle trasformazioni territoriali vanno sottoposte a processi decisionali pubblici. La stessa idea della pianificazione urbanistica è evaporata. Se l’ambiente continua a essere propizio al maturare di una nuova Tangentopoli e al suo rapido diffondersi, artificialmente costruito mediante la delegittimazione dell’urbanistica, lo svuotamento della pianificazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria. Occorre in primo luogo - il vulnus del pensiero di Salzano - che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo generale che la pubblica amministrazione adotti, a tutti i livelli (comunale, provinciale e metropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli interventi sul territorio, secondo procedure trasparenti.
Professor Salzano che cos’è oggi la città? Che cosa sta diventando?
«Intanto bisognerebbe chiedersi che cos’è la città, perché ci sono diversi punti di vista possibili e varie definizioni. La città come nelle statistiche internazionali può essere un certo aggregato di popolazione, applicazioni, attività, quindi, è città tutto quello che supera una certa densità, intensità di relazioni interne, rispetto alle relazioni con l’esterno, che supera un aggregato di case, di abitanti e di negozi. Oppure città può essere qualcosa di diverso, cioè quello che la civiltà europea ha inventato e poi costruito. Una città come un organismo che funziona unitariamente, che di per sé è un oggetto dinamico ma concluso, che ha una struttura riconoscibile e distinguibile da un’altra nell’ambito della quale valgono determinate regole di convivenza, di accoglienza, di organizzazione dello spazio, di un primato del collettivo sull’individuale, organizzazione finalizzata agli interessi comuni di tutti gli abitanti. È città Babilonia ed è città Atene, Creta, Edimburgo. Ma sono la stessa cosa? Secondo me no. C’è una città della tradizione europea il cui significato più profondo è la piazza come luogo aperto al pubblico. Tutti si incontrano, tutti hanno parità di diritti. E c’è poi appunto la città che si espande sul territorio senza distinzioni. Questo è un modello che ormai raccoglie più della metà degli abitanti del pianeta ed è una città destinata a trionfare. Se intendiamo città quella che c’è nella tradizione europea, quella è una città a rischio per una serie di eventi complessi che non incominciano ieri, ma che in molti anni e in molti decenni hanno avuto una forte accelerazione».
Chi e cosa minacciano la città? Quale potrebbe essere un’esplosione di conflitti
«Privatizzazione, prevalenza degli interessi individuali sugli interessi comuni, prevalenza della sicurezza sull’accoglienza, prevalenza dell’artificiale sul naturale. Anche se la natura è conservata e protetta là dove serve a chi può permettersela e per il resto chi se ne frega.
Il rischio è la sostituzione del cliente al cittadino, dello spazio privato allo spazio pubblico, la sostituzione del luogo dove si entra solo per comprare alla piazza, al luogo aperto a tutti».
Un innovatore straordinariamente attuale come Gio Ponti, che ha sempre lavorato nel cuore dell’industria, diceva che da sempre un urbanista, un architetto, un artista, un medico, fa la politica del suo re, del suo committente, fa un’attività che è sempre monumentale, ma sta nel ruolo nell’essenza dell’intellettuale d’oggi e quindi sta nella perdita di senso dell’architetto, che si è dimenticato che cos’è, dell’urbanista, del sociologo… Perché lei parla spesso di pianificazione della città come se fosse un optional, della perdita di senso di opere, che senso non ne hanno e di grande monumentalità. Ma insomma gli architetti tendono a “fare”, come Giò Pomodoro, opere autoreferenziate… Qual’è il modello? Intellettuali come Branzi, Deganello ed altri ancora, dicono che non si può più ragionare su contestualizzare architettura e urbanistica, bisogna fare altro. Lei cosa ne pensa?
«Secondo me la città non la fa né l’architetto né l’urbanista. La città la fa il committente, il potere politico. Il potere politico è cambiato, non è più la democrazia ma è quello economico. Non è più la politica ma l’economia. Il potere non è più il tao master, non è più il sindaco, il consiglio municipale, non c’è più la polis. Esclusivamente, almeno nel nostro Paese, ma poi è un processo generale, c’è la sostituzione degli interessi immobiliari, se parliamo di città, sugli interessi dello stare insieme in cui l’eletto è il custode e garante. Chi è il committente? Io ho sempre ritenuto che il piano urbanistico non è il figlio del professionista che aiuta a realizzarlo. Mi sono sempre opposto quando si è parlato di piano Salzano o che so io. Ho sempre lavorato dentro le amministrazioni, ho sempre collaborato con le amministrazioni e ho sempre sostenuto che il piano è il prodotto dell’amministrazione. Oggi per occuparsi della pianificazione seriamente bisogna avere uno sguardo lungo. Quando io ho cominciato a lavorare il sindaco trionfava se alla fine del suo mandato aveva portato all’adozione un piano regolatore generale e quest’ultimo aveva coinvolto l’interesse dei cittadini. I cittadini erano soddisfatti se era raggiunto questo obiettivo. Oggi se il sindaco non ha costruito il giardinetto pubblico o non ha affidato all’archistar il grattacielo o il ponte di turno non è soddisfatto. Questo è quello che si rivende ai cittadini come risultato. Quindi è cambiata l’ottica, il punto di vista, lo sguardo del committente e lo stesso committente».
Mi conceda una puntualizzazione. Lei vive nella più bella città del mondo. Ha come sindaco il filosofo Massimo Cacciari - dopo le elezioni del 28/29 marzo, il nuovo sindaco della città è Giorgio Orsoni - Come ha disattuato i suoi principi questo sindaco?
«Nella cronaca spicciola bisogna per forza entrare, perché non è certo storia aver disattivato il piano regolatore precedente del centro storico che tutelava, rispetto ai cardini di destinazione d’uso, la residenza e impediva che diventasse solo luogo di alberghi o pizzerie e avere scelto di fare soluzioni che premiassero gli interessi immobiliari qua e là nel territorio».
Ma a quale scopo? Per salvaguardare quali interessi?
«In termini di dubbio socratico le dico che l’interesse è stato fatto. Si confonde nello sviluppo economico l’aumento dell’attività delle imprese, qualunque esse siano. Si confondono nello sviluppo economico e in quello del PIL. Per cui, se io incominciassi a costruire e poi demolisco, il PIL aumenta a sua volta, mentre le costruzioni aumentano le demolizioni. Il gioco sta qui, aver confuso lo sviluppo economico, per esempio, con la massa di turisti che arriva a Venezia. Venezia soffre di un eccesso di turisti, non di una carenza. Venezia è distrutta dalla massa di turisti, turismo usa e getta, turismo che distrugge senza lasciare niente alla città. La politica delle ultime giunte è stata quella di sfavorire l’aumento del turismo e della commercializzazione ulteriore della città al di là di ogni limite. Una politica promossa o tollerata dal sindaco. Il mio amico, ex sindaco di Grosseto tanti anni fa, quando gli chiedevo: Ma tu da che famiglia vieni, che cultura hai alle spalle, mi diceva: Il mì babbo faceva il ciabattino a Gavorrano, il paese dei minatori. Il suo babbo faceva il ciabattino, non era un filosofo lui, eppure era un buon amministratore della città, perché sapeva che le scommesse sul territorio si vincono sulla scadenza, non si vincono col Ponte di Calatrava Po, si vincono in un centro storico, restaurando, conservando i cittadini che ci sono nati, stimolando le attività economiche compatibili con quel sito, non inventando opere di architettura moderna quando c’è da mettere in valore l’architettura e l’urbanistica tradizionale, queste sono le scelte giuste».
Pianificare il futuro non dà alcun riscontro dal punto di vista elettorale?
«Beh guardi le trasformazioni sul territorio sono così, gli effetti si vedono solo dopo».
Allora come si costruisce il consenso?
«Una volta non era complicato. Perché una volta lo si otteneva il consenso? Perché Rubes Triva - sindaco di Modena dal 1962 al 1973 - vinceva le elezioni a Modena sempre su questa linea. Perché? Domandiamocelo. Perché una volta si era capaci di interessare i cittadini su scelte di lungo periodo. Si sapeva che le scelte modificavano la realtà nel lungo periodo. Se io ho una malattia e vado dal medico e il medico mi dice che può guarirmi in tre minuti, è un cialtrone. Io lo so, e quindi mi assoggetto a cure lunghe, in caso di certe malattie, non del raffreddore ovviamente. Se io voglio piantare un frutteto, so bene che il risultato non lo avrò la stagione prossima, ma quando gli alberi avranno le radici, si saranno acclimatati e saranno cresciuti. E così sono le trasformazione della città, agiscono nel territorio in generale, agiscono nel lungo periodo».
Grandi opere, “un’emergenza del Paese”, Expo 2015. Ora Milano avrà un sito dell’Expo, i nostri architetti italiani, uniti, lei direbbe, dagli interessi immobiliari, stanno per mettere in piedi un grande Barnum, che come direbbe Gae Aulenti, diventerà un luna park nel 2016. Altri vorrebbero invece che questa grande opportunità si sviluppasse con l’ampliamento di siti già esistenti e una diffusione sul territorio. Cosa ne pensa?
«Ma cos’è un’Expo secondo lei? Io ho seguito tanti anni fa la vicenda del tentativo di fare un’Expo a Venezia e ho continuato a riflettere. Che cos’era quando gli Expo sono nati alla fine del XIX secolo e gli inizi del XX? Si capisce nella logica dell’epoca nelle magnifiche sorti progressive».
Gli anni ‘30?
«Sì, ma anche prima. Interi quartieri a Roma sono stati costruiti con le esposizioni internazionali. Quando la città è in espansione, quando si credeva nel progresso continuo della scienza l’Expo era un’occasione per esibire i progressi della scienza e della tecnica e cogliere l’occasione per trasformare le città. Ora mi pare che la proposta iniziale di costruire l’Expo milanese sul rapporto con l’ambiente era sensata, ma mi sembra che le strade che si percorrono adesso sono radicalmente diverse».
«Senta io riesco ad essere patriota di nessuna città. Io le città le cerco forse per il mio mestiere o forse perché non sono particolarmente affezionato a nessuna, le vivo tutte insieme. Quindi che una città lotti per assorbire il maggior numero di interessi, di risorse e così via, mi fa subito venire in mente che la concorrenza non è amica delle città. Amica delle città è la collaborazione, vuoi questi episodi, vuoi l’Expo, vuoi le Olimpiadi, per cui ogni città cerca di strappare, alle altre, risorse, investimenti e ricchezza. Mi sembra un episodio che ricorda il cannibalismo».
Dopo il “Piano Fanfani” del ‘49 e la Legge 167 sull’edilizia economica e popolare del ‘62, oggi il Piano Casa.
«Beh! Più che un Piano Casa è un tentativo di stimolare la volontà di diventare un po’ più ricchi, allargando un po’ la casa che si ha, da parte di molti italiani, è un bricolage. Io ho conosciuto il Piano Casa, ho conosciuto la Legge 367, ho conosciuto la politica della casa messa appunto in Italia, secondo me la più avanzata nel mondo come quella che c’era negli anni ‘60 e ‘70 e, se devo confrontarlo con quello, mi sembra che tutto sia fuorché un piano casa. Un Piano Casa premia chi la casa non ce l’ha, chi non la trova o chi deve pagare gli affitti, a questo servirebbe un Piano Casa. Questo è tutt’altro, premia chi la casa ce l’ha già».
In Lombardia stanno partendo, con iniziative tra Fondazioni e Enti pubblici, molte iniziative di Housing sociale
«Non riesco a capire cosa sia l’Housing sociale. Secondo me era quello che si sosteneva quando si otteneva l’area a prezzo di appezzamento agricolo, si costruiva con investimenti pubblici o attivati dal contributo pubblico, quando le case rimanevano di proprietà di Enti che lo davano in affitto a condizioni più ragionevoli a chi ne aveva bisogno. L’Housing sociale che invece non chiamerei Housing sociale è un meccanismo che impiega risorse pubbliche per aiutare ad accedere ad un mercato largamente alimentato dall’industria immobiliare».
La rendita immobiliare non è in discussione, con la crisi la contro tendenza è quella dell’accorpamento della proprietà immobiliare. Il nostro Paese ha la vocazione all’investimento nel mattone, dal dopoguerra ad oggi la proprietà è un fenomeno diffuso e popolare. I giovani della generazione dei mille euro, domani potranno mai averla una casa di proprietà?
«Io abito in una casa in affitto e spero che la mia padrona mi lasci a un prezzo ragionevole il più a lungo possibile. Non vedo il bisogno di abitare in una casa di mia proprietà, ma questa può essere una discussione del tutto personale. Quello che dico è che oggi, io rimango legato ai vecchi principi dell’economia liberale, quella di Luigi Einaudi per intenderci, secondo la quale nelle tre componenti: reddito, salario, profitto e rendita, quest’ultima è la componente parassitaria. La rendita immobiliare, la rendita urbana, è una rendita che nasce per effetto degli investimenti e delle decisioni, è una scelta della collettività il cui frutto va al proprietario, una cosa distruggente per l’economia. In effetti l’economia italiana è pesantemente chiamata da questa condizione».
Professore se si mette nei panni di un cittadino di una classe che oggi non esiste più, diciamo un piccolo borghese, se riesce a metter via dei risparmi penserà di farlo nel mattone, non ha altri luoghi. Quindi il concetto di rendita diventa sempre più diffuso. Penserà di comprare una casa per i figli, una seconda casa per sè, non li metterà né in borsa né in Bot né in altro.
«Questa è la ragione per cui il degrado dell’Italia è cominciato molti anni fa. È cominciato precisamente, riesco anche a stabilirne la data, agli inizi degli anni ‘70: i due fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, entrambi a poca distanza di tempo, dichiararono che la rendita urbana era un elemento negativo che andava contrastato. Dico loro, perché erano la grande industria italiana, l’industria moderna, avanzata, l’industria a livello europeo e Gianni Agnelli pochi mesi dopo questa dichiarazione diventò Presidente di Confindustria. Quando da questa decisione passarono a investire negli immobili anziché investire nello sviluppo dell’industria, in quel momento cominciò il declino dell’Italia. Declino della capacità innovativa, della ricerca del profitto, dell’accumulazione, cioè del reinvestimento nel processo produttivo».
Lei sta dicendo sostanzialmente che non esiste più il capitalismo perché non ci sono più i capitalisti?
«Forse in Italia non sono mai esistiti. L’Italia, per esempio, ha avuto un capitalismo assistito, come si trova un po’ in tutti i Paesi. Dalla crisi del ‘29 come si è usciti? Con la Seconda Guerra Mondiale. Non si è mica usciti solo con le politiche. Si è usciti quando le commesse belliche hanno optato all’industria e quest’ultima si è rimessa in pied»i.
Lei ha sempre scritto che la polis è delle esigenze comuni e della cittadinanza, questa domanda era anche rivolta, pensi al cittadino che ha messo via faticosamente degli euro, non che li ha nascosti in un’economia sommersa, se non li mette nel mattone dove li mette? Li perde?
«E chi glieli toglie questi?»
Questo ragionamento glielo sto ponendo perché questo comportamento, visto che l’economia è comportamentale e legata a delle logiche assolutamente psicologiche e non a degli schemi econometrici, è diventato diffuso. Quindi lei lo ritiene complessivamente la risultante del degrado di oggi?
«Certo, è il motore del degrado prossimo venturo».
Ma il senso di conservazione del risparmio è connaturato
«Nei Paesi giovani, moderni, che stanno a guardare avanti, si investe con rischio. E si sa che il capitalismo è rischio».
Come può un cittadino medio che non ha una cultura economica fare un rischio calcolato? Dopo gli scandali borsistici e bancari degli anni ‘80 e ‘90, le famiglie tendono a far confluire nel mattone i loro risparmi e vedono nella rendita l’unica possibilità. Questo è il motore del parassitismo, ma non c’è altra scelta.
«Non c’è altra scelta perché non si vuole scegliere. Io penso che la politica non dovrebbe soltanto seguire, ma dovrebbe anche guidare. Almeno una volta, quando io l’ho conosciuta, era così la politica. Oggi la politica guida nella direzione del mantenimento del consenso ai costi più facili».
Quindi la politica è panem et circenses?
«Assolutamente sì. Stimolare gli interessi più deboli, più modesti, voglio usare termini diversi. Per gli italiani: la pancia, al massimo, l’interesse immediato e credere al futuro».
Se è vero che abbiamo perso la visione della città greca, dell’urbs, della civitas… Su quella base antica come facciamo il nuovo? Non facendolo?
«Quella fase là è andata avanti fino agli anni ‘70 nel nostro Paese e nel resto del mondo. Non è mica una fase così lontana dai grandi quartieri costruiti in Emilia Romagna, dai parchi urbani. Poi questo processo è stato troncato».
Si tratta solo di aspettare?
«No, si tratta di riguardare criticamente il passato. Di ricordare che gli anni ‘70 sono stati gli anni di conflitto grave, nel quale il riformismo vero è stato bloccato dalle bombe, e che là è cominciato il declino».
Quindi oggi siamo in un periodo di basso impero?
«Bisogna attendere o che arrivino i nuovi barbari, oppure che gli italiani ricomincino a pensare, cosa che io vedo sempre più difficile, ma che non si può mai escludere».
Dove ci porterà questa crisi economica?
«La crisi economica è già gravissima. Noi la misuriamo con gli indici di borsa, ma se la misuriamo con quelli che perdono il lavoro, l’unità di misura è molto più grave. Non è ancora arrivata a compimento perché ancora la si sta digerendo, perché ancora i disoccupati, in parte, possono contare su una rete di assistenza familiare e parafamiliare diffusa, ma cominciano i suicidi, insomma».
A questo proposito abbiamo intervistato lo psichiatra Josè Mannu che asserisce –“ il brutto è il punto fondamentale anche di questo nuovo modo di costruire, per cui queste case moderne, di stampo lecorbusiano, piccole, anguste, prive di habitat sociale, portano al suicidio”. Stiamo dunque vivendo un periodo di lunga depressione
«Io dubito molto di questi studi, in Italia non si studia mai seriamente, non si approfondiscono mai le questioni, perché per approfondire questo tipo di problemi bisognerebbe compiere degli studi omogenei per un arco molto lungo, di anni, e nessuno lo fa. La ricerca non è mai stata pagata in Italia, quindi dubito fortemente di questi studi».
Nel senso che è pagata la ricerca pagata, cioè la ricerca condiscendente dice?
«Non so neanche se quella sia pagata, in Italia si improvvisa. Siamo dei grandi commedianti».
Io ho scritto dell’assenza degli intellettuali, oggi sembrano scomparsi, tra poco intervisterò Pierluigi Battista, che parla di conformismo. I nostri grandi architetti, da Gregotti a Portoghesi, a Botta, che non sono neanche nostri, oppure Zucchi, non si definiscono delle archistar. Ma chi sono le archistar veramente, perché nessuno dice di esserlo.
«Io tra tutti quelli che lei ha citato, l’unico per il quale ho un grande rispetto culturale, perché considero un intellettuale, serio, molto più bravo quando scrive, devo dire, che quando commenta, è Vittorio Gregotti, gli altri secondo me… si guardano troppo l’ombelico, si sentono artisti prima che collaboratori alla costruzione della città. Una cosa terribile, perché la città fatta di singoli episodi in ognuno dei quali tende ad affermarsi la volontà di rappresentazione di se stesso, l’architetto, è una città orribile. Basta guardare i tre grattacieli milanesi. Lo zoppo, lo sciancato e lo storto - I progetti di Zaha Hadid, Daniel Liebeskind e Arata Isozaki per CityLife».
Se ne parla sempre più, che cos’è la cultura dell’abitare secondo lei?
«Dei libri di architettura, quello che forse mi è piaciuto di più è la raccolta di lezioni di un mio vecchio amico, Carlo Melograni, bravissimo architetto che è stato preside alla Facoltà di Architettura Roma 3. Ha scritto un libro in cui ha raccolto le sue lezioni molto belle. Il titolo che ha dato è: Progettare per chi va in tram - Editore Bruno Mondadori, 2004 . A me, l’architettura che piace e il progetto di architettura che piace è quello pronto a soddisfare le esigenze dei cittadini e, nel far questo, contribuisce alla costruzione della città».
Condividiamo l’appunto mosso a Salzano da parte di Paolo Cacciari (fratello “cattivo” - dal titolo degli articoli di Gian Anronio Stella - di Massimo e autore di Pensare la decrescita - Editore Intra Moenia, 2006) di continuare ad affidare l’idea del pubblico, dei beni comuni e dell’interesse generale alle istituzioni statali come se fossero il luogo della sovranità democratica. Non è solo l’urbanistica pubblica ad essere regredita - sempre secondo Paolo Cacciari - è la stessa democrazia ad essere stata declassata al ruolo ancellare del mercato. Allora per uscire dalla demoralizzazione, bisognerebbe ripartire da un “oltre”, da quella “benedetta irrequietezza” (penso all’ultimo libro di Paul Hawken, Incontenibile moltitudine - Edizioni Ambiente, 2009) che serpeggia appena sotto la crosta della rappresentazione che politica e mezzi di comunicazione di massa (oramai sono la stessa cosa) forniscono della società. Bisognerebbe pensare anche per l’urbanistica ad una “urbanistica scalza”, post-normale, disegnata direttamente dalle popolazioni, senza mediazioni. Salzano dice quale potrebbe essere il punto di partenza e di arrivo: “zero consumo di suolo”. Una specie di negazione dell’urbanistica main-stream al servizio della valorizzazione fondiaria dei suoli. Una urbanistica, all’opposto, al servizio delle politiche di riconversione generale degli apparati tecno-produttivi, della megamacchina termo-industriale, in chiave della sostenibilità ambientale e sociale. Una urbanistica che prende in cura le risorse naturali, studia i bilanci dei flussi di materia e di energia impiegati nel “metabolismo sociale”, rispetta e fa rispettare i cicli biologici della vita sulla terra.
Come scrive Salzano, quindi, una urbanistica non solo trans-disciplinare, ma democratica, nel senso che pone al centro della disciplina il diritto degli abitanti (di tutti i residenti, presenti e futuri) a vivere in città salubri, ordinate, di qualità.
Milano, 9 aprile 2010
Giovanni Pivetta
HOUSE, LIVING AND BUSINESS
Qui il testo originale nel sito House living and business
I due fenomeni su cui ragioniamo oggi sembrano agli antipodi. Da una parte, la città che si sparpaglia sul territorio, l'edilizia che dilaga come un blob. Dall'altro lato la città che s'intensifica sul suo stesso suolo, l'edilizia che si erge con i suoi grattacieli. In realtà due facce della stessa medaglia. Non esprimono ciò che la città a sempre tentato di essere: un equilibrio tra momento pubblico e momento privato della vita sociale. Sono entrambi testimonianze della sopraffazione del privato sul pubblico, del particolare sul generale, dell’individuale sul collettivo.
Consumo insensato di suolo e accrescimento irragionevole delle altezze degli edifici sono entrambi il prodotto della stessa regola perversa, e sono entrambi in contraddizione con il più corretto e consolidato (fino a ieri) pensiero urbanistico.
Nella prima parte del mio intervento dirò alcune cose sul primo aspetto (la regola perversa), nella seconda parte vi darò qualche spunto sul secondo (il corretto pensiero urbanistico).
La regola perversa
Ci sono vari modi di leggere la formazione e trasformazione della città nella storia. La lettura che a me sembra più convincente è quella che racconta la città come la progressiva invenzione, e il costante arricchimento, di luoghi e funzioni che integrassero la vita privata con elementi di vita collettiva.
Dallo stesso processo di formazione della polis e dell’urbs attorno ai luoghi dello scambio, del dibattito e della politica, via via fino alla città del capitalismo maturo e del welfare state, la città ha visto costantemente il suo successo – come habitat dell’uomo – nella stretta integrazione tra il privato e il pubblico. Via via che crescevano le esigenze dell’homosocialis, e che queste potevano essere soddisfatte più efficacemente e compiutamente con momenti di vita pubblica, l’equilibrio vedeva una più stretta integrazione tra le une e le altre. Le nostre piazze sono solo il germe degli spazi pubblici, che via via si sono arricchiti.
Ciò ha sempre richiesto una forte presenza degli interessi pubblici nel governo e nella costruzione della città. Presenza pubblica come regolamentazione dei modi di crescita e di trasformazione della città (la pianificazione urbanistica),
presenza pubblica come realizzazione delle crescenti categorie di spazi per la vita comune.
Ad un certo punto questa storia si è interrotta e rovesciata. La cultura e la politica hanno compiuto due errori giganteschi. Per meglio dire, hanno deciso di fare due scelte perverse.Da una parte, si è deciso di lasciare il mercato come il solo arbitro del soddisfacimento dei bisogni individuali che storicamente hanno cercato e trovato risposte collettive. Se guardiamo alla storia italiana degli ultimi trent’anni vediamo segni crescenti di questa perversione, che ha invaso via via tutti i campi della vita dei nostri tempi.Dall’altra parte, e in coerenza con questa prima scelta, si è assunta la formazione, la crescita e l'appropriazione privata della rendita immobiliare urbana (e di tutte le rendite monopolistiche) come un fattore di sviluppo. Si è contraddetto così l’insegnamento del liberalismo classico, che vedeva nella rendita fondiaria (e in generale nelle rendite di posizione) come la componente parassitaria del reddito, che doveva essere contrastata per evitare che attraverso la sua crescita incontrollata venissero depressi il salario e il profitto, e peggiorata la condizione della città.
Lo sprawl urbano e l’erezione dei grattacieli sono entrambi i prodotti di queste scelte.
Affidare al mercato la soluzione di problemi come quello della casa, incoraggiare il “libero gioco” della rendita immobiliare, e abbandonare la regolamentazione urbanistica, ha costretto chi cercava un alloggio ad un prezzo rapportato alla propria capacità di spesa a raggiungere le zone più marginali (e i margini della città si dilatano sempre più), ha costretto ad alimentare lo sprawl, lo “sguaiato sbragarsi della città sulla campagna”. E quando l’offerta di alloggi si rivela eccessiva rispetto alla domanda solvibile, aver ottenuto l’edificabilità di un terreno agricolo consente comunque di accrescere in modo consistente il valore del patrimonio. In questa stessa logica lavora la disseminazione delle attività produttive, di quelle legate alla crescente viabilità, all’espulsione di funzioni dalla città: la logica della “valorizzazione immobiliare”, che trasforma un terreno naturale in un terreno fabbricabile.
Identica è la logica che provoca la “grattacielizzazione” della città consolidata. Riempire le aree centrali (dove i valori della rendita sono già i più alti) significa moltiplicare il valore di mercato di quell’immobile. Non importa domandarsi se per quell’area esistono funzioni più necessarie agli abitanti, alla salute, alla vita sociale. Non importa calcolare se quelle eventuali funzioni, che dovrebbero insediarsi là, potrebbero più convenientemente per il funzionamento del territorio essere localizzate altrove. Quello che conta, è rendere massima – senza fatica, senza lavoro nè spirito imprenditivo, né tampoco rischio – l’investimento finanziario e l’investimento di autorità.
Il corretto pensiero urbanistico
Brevemente sul secondo punto del mio intervento: che cosa ci dice il corretto pensiero urbanistico.
Voglio precisare innanzitutto che quando parlo di “Pensiero” non parlo solo di solo di teoria, ma anche di pensiero tradotto in atto, di pratiche che sono state effettuate e hanno cambiato il territorio e la vita degli uomini. Magari più in Europa che in Italia, ma anche in Italia. E quando parlo di “Urbanistico” non parlo solo degli urbanisti patentati e della cultura urbanistica, ma della società e della politica.
Ho accennato alla lunga storia della formazione della città come “casa della società”, fondata sugli elementi della vita collettiva (gli spazi pubblici, i consumi pubblici), sempre più ricca di elementi della vita collettiva via via che la “modernità” (lo sviluppo capitalistico) rende più complessa la vita, più ampia la gamma delle esigenze, più larga la platea dei cittadini con diritti.
Nel Novecento si è consolidato un modo di pensare e organizzare la città che in Italia ha avuto la sua affermazione soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Un modo basato sullo stretto intreccio tra elementi della vita individuale ed elementi della vita collettiva.La città è stata considerata e progettata (e in parte costruita) in modo alternativo a quello praticato dalla speculazione. Questa vede la città, e ha costruito ampie e soffocanti periferie, come un insieme di edifici d'abitazione collegati da una serie di strade. La corretta cultura urbanistica ha concepito, progettato e a volte anche costruito la città come un insieme di abitazioni, servizi, verde, spazi privati e spazi pubblici, organizzati in unità di dimensioni discrete, associate tra loro in insiemi di dimensioni scalarmente crescenti.
E quando parlo di “corretta cultura urbanistica” mi riferisco a momenti, episodi e istituzioni come la Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna, come la rivista Urbanistica di Giovanni Astengo, come l’Istituto nazionale di urbanistica dei tempi di Adriano Olivetti e di Camillo Ripamonti, come i sindaci Rubes Triva a Modena e Renato Pollini a Grosseto e molti altri, mi riferisco ad eventi come quelli della campagna dell’Udi per la programmazione dei servizi sociali nei piani regolatori dei primi anni Sessanta, e quello memorabile dello sciopero generale nazionale del 19 novembre 1969.
E mi riferisco a leggi come la 167 del 1962, capofila di una serie di eventi legislativi oggi dimenticati e contraddetti, che avviò alla realizzazione di quartieri nei quali si soddisfacevano insieme i principi dalla “casa come servizio sociale” e come “diritto alla città”. Quartieri concepiti perciò come luoghi nei quali tutti gli abitanti hanno diritto a vivere in alloggi dal prezzo commisurato alla loro capacità di spesa, senza recinti tra proprietari e non proprietari, tra ricchi e poveri e così via; con una stretta integrazione tra le ragioni della vita private e quelle della vita collettiva: le scuole e il verde, la ricreazione e l’incontro, lo sport e la cultura, la possibilità di muoversi e quella di godere di una natura non contaminata.
Tra gli strumenti per ottenere una città siffatta essenziale sembrò allora, e lo rimane ancora oggi, quello degli “standard urbanistici”. Cioè la presenza, in stretta relazione fisica e funzionale con le unità abitative (le case, gli alloggi), di spazi liberi e costruiti in misura e localizzazione adeguata per tutte le funzioni comuni, collettive, pubbliche: quelle che ho appena elencato.
Gli standard urbanistici furono conquistati con una dura battaglia, che fu il coronamento, e il frutto, di tutti gli eventi, le persone, le istituzioni che ho sopra ricordato. Quello che allora si rivendicò e, almeno in parte, si raggiunse si chiamava “diritto alla città”. Che è il diritto a concorrere alle decisioni mediante le quali si formula il progetto della città di domani, ed è insieme il diritto, per tutti gli abitanti, di fruire di aree e attrezzature per il verde e la scuola, l’incontro e lo scambio, la cultura e lo sport, in prossimità del luogo dove abitano e in modo facilmente raggiungibile anche per i deboli. Non è quello di vivere all’ombra dei grattacieli o nelle lande di un insediamento sguaiatamente sbracato sul territorio, né quello di subire le scelte di poteri interessati unicamente all’incremento di patrimoni privati, o di istituzioni troppo sensibili a questi poteri.
Di quale città parliamo
Dobbiamo precisare innanzitutto che cosa intendiamo per “città”, l’oggetto attorno al quale ragioniamo in questa giornata.
Possiamo intendere per “città” quella realtà cui si riferiscono le statistiche internazionali, quando affermano che la grande maggioranza della popolazione del nostro pianeta vive ormai in condizione urbana. Possiamo intendere quindi per “città” ogni agglomerazione di popolazione in spazi relativamente limitati, ciascuno dei quali caratterizzato da alte densità, fitte relazioni tra le persone e le attività, prevalenza di artificialità nei materiali presenti, alto livello di trasformazione rispetto al dato naturale.
Possiamo intendere invece per “città” quella particolare forma dell’habitat dell’uomo che si è manifestata nella vicenda storica della civiltà europea, che ha la sua matrice nella polis greca e nell’urbs romana, che ha conosciuto il suo massimo significato nella città del Medioevo e il suo massimo splendore in quella del Rinascimento, il suo sviluppo più esteso e la sua affermazione piena nella città della borghesia capitalistica, e il suo momento estremo nella città dell’egemonia operaia.
La città delle statistiche mondiali sembra tutt’altro che in declino. Non è certo priva di aspetti critici - e ad essi accenneremo più avanti - ma essi sembrano a prima vista quelli tipici di una fase di tumultuosa e disordinata crescita. Ci riferiamo perciò, nel ragionare sulla crisi o morte della città, a quella europea, così come la storia l’ha inventata e trasformata.
Mi domanderò allora innanzitutto che cosa (quali valori, principi, qualità) caratterizzino la città europea, per interrogarmi poi se essi stiano attraversando una fase di declino o di scomparsa, e se ad essi si possa – e a quali condizioni – ritornare. Ovviamente, mutandi mutandis.
La distinzione da cui sono partito riecheggia in qualche modo quella di Carlo Cattaneo. Nel suo celebre testo Cattaneo distingue le città vere e proprie dalle “Babilonie”:
[…] quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii basterebbe a fondere nell'India decrepita un principio di nuova vita [1].
Ciò che infatti in primo luogo caratterizza la città è la presenza in essa di ciò che Cattaneo definisce “ordine municipale”, “diritto”, “dignità”. Luogo dei liberi e degli uguali quindi, dove l’assegnazione degli attributi di “libero” ed “eguale” ai membri delle diverse classi sociali caratterizza differentemente i regimi che via via si sono succeduti, dall’antichità al sistema capitalistico-borghese.
Diritto, dignità, ordine municipale: termini che ci riconducono alla società, come comunità che costruisce la città in relazione ai suoi bisogni e che in essa vive, e alla politica, nel senso più ampio del termine, come governo che garantisce a tutti i cittadini (ai liberi e agli eguali) diritto, dignità, ordine. Ritroviamo così, nell’antico scritto del Cattaneo, due delle tre facce, dei tre aspetti che caratterizzano la città: civitas, la società; polis, la politica; urbs, lo spazio fisico.
La città come spazio fisico
Lo spazio fisico è quello che più direttamente appartiene alla cultura degli urbanisti italiani. Questa cultura nasce infatti – a differenza che in altri paesi – dalle discipline dell’architettura e dell’ingegneria civile: molto attenta al fisico, al costruito e al costruire, al “tecnico”. Essa consente di cogliere, di quella realtà complessa che è la città, aspetti importanti, ma tutt’altro che esclusivi. La città, l’habitat del’uomo, è una realtà così complessa che rende indispensabile, per comprenderla e per governarla efficacemente, un approccio multidisciplinare.
Tanto più complessa essa è diventata negli ultimi secoli, in cui tra l’altro si è dissolto il confine tra città e territorio, tra urbano ed extraurbano e l’habitat dell’uomo si esteso all’insieme dei vasti spazi del pianeta, tutti in qualche modo coinvolti nella vita e nelle atttività della civiltà urbana.
Lo sguardo dell’urbanista, nonostante i suoi limiti disciplinari, è in grado di cogliere meglio di altri uno dei principali aspetti della città europea: l’elemento che – forse più d’ogni altro – la caratterizza. Mi riferisco agli spazi pubblici, che della città quale la intendo costituiscono certamente l’espressione più originale e – meglio di qualsiasi altra – ne esprimono l’essenza.
Gli spazi pubblici nella storia della città europea
Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, il ruolo delle piazze è stato decisivo: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un allarme, una festa, un giudizio.
Tutti i cittadini possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E fin dalla piazza primigenia – il mercato – esse sono il luogo dell’incontro con lo straniero: sono la cerniera tra il dentro e il fuori, il luogo dove la città – tramite l’incontro con il “diverso” – si apre al mondo, lo conosce e ne diviene parte: esce dell’idiotismo della comunità ristretta.
Dove la città è organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere ha la sua piazza, ma sono tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del sistema di piazze) cittadine.
Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.
Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. Più tardi, nella città del capitalismo, le fabbriche diventano i luoghi della socializzazione dei lavoratori. Gli spazi comuni della città restano il luogo della socializzazione di tutti, ma si accentua fortemente la specializzazione sociale delle varie parti della città. Qui i quartieri e il luogo del comando, della ricchezza, dei valori (economici, politici, religiosi) della città, là i quartieri via via più estesi, e gli spazi comuni via via più angusti, dei proletari. La città si frammenta in “zone”, caratterizzate da valori economici, da qualità urbana, da condizioni sociali fortemente differenziate.
Poco più tardi, nel XIX e XX secolo, dalla solidarietà di fabbrica nasce il movimento di emancipazione del lavoro, che via via si estende a tutta la città. Il governo della città non è più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci, nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso.
L’emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. Al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell’ufficio, nasce una forte e vittoriosa tensione per ottenere spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini
Nella città moderna anche l’abitazione - anche le parti della città destinate all’uso privato - diventa un problema che non può essere abbandonato alle soluzioni individuali. C’è (c’è sempre stata) l’esigenza di assicurare all’insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso da un’accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia. Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e servizi. L’aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita) va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni.
Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan “la casa come servizio sociale”. Con questa parola d’ordine non si chiede che l’abitazione venga offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.
La città del welfare in Italia
Gli storici cominciano a riflettere sui decenni 60 e 70 del XX secolo. In Italia ebbero, per più d’un aspetto, un carattere diverso che altrove. Furono anni di notevoli cambiamenti e di grandi progressi, e anche di fortissime tensioni. Dal punto di vista di un urbanista devo dire che in quegli anni si raggiunsero traguardi insospettabili, non solo sul terreno delle conquiste legislative.
Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1968 si ottenne in Italia quello che già era consolidato patrimonio amministrativo in altri stati europei, cioè la generalizzazione della pianificazione urbanistica, il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio, l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici. Con le leggi per la casa del 1962, 1967, 1971, 1977 e 1978 si ottenne la possibilità di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo, di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città, di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
Questi risultati furono raggiunti per il concorrere di molti attori. Un ruolo rilevante svolse il movimento di emancipazione delle donne (in particolare l’azione dell’Unione Donne Italiane), che pose al centro dell’attenzione della politica e della cultura l’esigenza di arricchire la città di dotazioni che consentissero di alleggerire il lavoro casalingo. Un ruolo decisivo svolsero le organizzazioni economiche e politiche delle classi lavoratrici. Grazie al movimento sindacale, e al congiungersi delle lotte operaie e di quelle studentesche negli anni 1968 e 1969, si ottennero i notevoli successi in merito alla casa e alle espropriazioni per pubblica utilità; e grazie alla sostanziale collaborazione tra le sinistre (comunista, socialista e democristiana) al di là delle divisioni parlamentari, si dovettero i principali risultati sul terreno legislativo e su quello di molte amministrazioni locali – come del resto si ottennero l’istituzione delle regioni e i primi episodi di decentramento amministrativo.
Queste conquiste si collocarono in un quadro più ampio di progressi sul terreno sociale ed economico: il riconoscimento del diritto al divorzio e all’aborto, lo statuto dei diritti dei lavoratori, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e l’abolizione delle strutture manicomiali, l’introduzione del tempo pieno nella scuola elementare, l’istituzione della scuola materna statale, l’estensione del voto ai diciotto anni. Ma esse provocarono anche fortissimi contrasti: una reazione che si scatenò subito, agli albori degli anni 70, con la “strategia della tensione” e con gli attentati bombaroli, che proseguirono fino all’assassinio di Aldo Moro.
Gli anni 80 del XIX secolo sono quelli che gli storici dell’Italia dei nostri anni (e quelli che cercano di viverli con gli occhi aperti) indicano come gli anni della svolta, del regresso, dell’inizio del declino che ancora oggi caratterizza il nostro paese. Ma concordo con quanti ne vedono il germe già nei decenni precedenti: decenni nei quali probabilmente si intrecciarono le pulsioni verso il rinnovamento civile del nostro paese e quelle verso una utilizzazione meramente egoistica e individualistica dei successi economico ottenuti dal boom degli anni 50, chiudendo gli occhi di fronte ai danni provocati dalle pratiche insieme liberiste e assistenzialistiche adottate in quegli anni.
La svolta
Si discute sul perché la svolta sia avvenuta, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Credo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, si possa collocare nella metà degli anni Ottanta il suo momento principale, perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.
Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. Nel 1984 in Italia un decreto del governo Craxi aveva aperto l’attacco alla scala mobile (al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto) e nell’anno successivo era fallito il referendum indetto dal PCI per difenderlo.
Siamo negli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi valori divengono vincenti nel pensiero comune. Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale.
Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva Paul Ginsborg
“crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti” (Ginsborg, 2007).
La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Raggiunge il massimo della sua esplicazione quel “declino dell’uomo pubblico” del quale Richard Sennett individua le antiche matrici e le attuali configurazioni. Tutto ciò non poteva mancar di trovare la sua espressione nel destino della città e del suo governo.
La città oggi
Certo è che oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diverse da quelle che la storia delle nostre città ci suggerisce, sia che le osserviamo alla luce del lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), e attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Oggi moltissimi, anche nell’area “riformista”, non si vergognano di parlare di “vocazione edificatoria” dei suoli, e di considerare perverso “vincolo” ogni destinazione del terreno che non sia quella edilizia. Oggi si sostituisce la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non prfesenti testimonianze molteplici di questa nuiova pratti di “urbanistica contrattata”. Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo.
Ma l’aspetto più emblematico è la progressiva mistificazione dello spazio pubblico. Nel rapido exursus storico abbiamo visto come gli spazi pubblici siano l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale nella quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi della crisi attuale è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.
Il rischio per lo spazio pubblico della città e il suo indebolimento nella vita della società urbana non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini, la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.
E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza degli spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città, costituendone la componente quantitativamente più importante.
Quando parlo di spazio pubblico della città non mi riferisco solo ai luoghi fisici dedicati alle funzioni collettive. Non mi riferisco solo alle piazze e alle scuole, ai municipi e ai mercati, alle chiese e alle biblioteche, ai parchi pubblici e alle palestre. Mi riferisco anche all’uso che di questi luoghi viene promosso e garantito.
Si pone qui una questione che non è solo di equità (la possibilità per tutti di avvalersi delle diverse funzioni collettive cui gli spazi pubblici sono adibiti), non è solo di accessibilità (la possibilità per tutti, anche i più deboli, di raggiungere agevolmente e comodamente i luoghi necessari alla vità urbana), ma anche una questione di agibilità politica. Quando vedo sindaci che emettono ordinanze che chiudono certe piazze alle manifestazioni di dissenso, che con il pretesto dell’ordine pubblico impediscono l’accesso di cortei o altre espressioni di presenze culturali o politiche, non vedo solo una minaccia per la democrazia, ma un attentato alla stessa natura della città.
Città e democrazia
La storia lega indissolubilmente città e democrazia. Non è un caso che – come ho ricordato - “polis” sia il nome della città primigenia e che l’”agorà”, il luogo del dibattito e della decisione, fosse il suo centro. Non è un caso se ho iniziato questo intervento ricordando come Carlo Cattaneo definisse “non città”, ma “pompose Babilonie” gli insediamenti delle tirannidi asiatiche. Non è un caso se il grande risveglio che ha ingioiellato di città storiche tutte le nostre regioni è associato alla lotta per l’autonomia dei “borghi” dai domini dei Signori. E non è un caso se la responsabilità della pianificazione urbanistica è, negli stati moderni, affidata alle mani delle istituzioni della democrazia.
Sia l’una che l’altra, città e democrazia, mutano nel tempo. Dalla democrazia oligarchica, la democrazia dei pochi, siamo giunti, attraverso un percorso faticoso e ancora incompiuto alla democrazia di tutti. Oggi tutti i cittadini hanno diritto a eleggere i propri rappresentanti nei luoghi ove si decide.
Nella nostra democrazia le decisioni le prende chi rappresenta la maggioranza. Una maggioranza che può avere varie ampiezze: può essere unanime, assoluta, relativa. In quest’ultimo caso essa è costituita dalla porzione dei cittadini più ampia tra quelle nelle quali si è suddiviso il corpo elettorale. É il caso della maggioranza di oggi: il raggruppamento che fa capo all’attuale premier rappresenta il 47 % dei voti validi e il 34 % degli elettori: meno della metà dei primi, un terzo del “popolo”.
Il maggiore contributo alla democrazia dei nostri tempi lo ha dato il pensiero liberale, un paio di secoli fa. I pensatori che hanno costruito le basi e i principi della democrazia hanno compreso subito che in essa il principio della maggioranza poteva condurre a effetti letali. L’influenza di un eletto o i suoi poteri occulti potevano trasformarlo in demagogo, capace di conquistare i cittadini sulla base non della ragione ma dell’emozione, magari sollecitata dall’istigazione ai sentimenti più bassi. Dalla democrazia alla tirannide il passo non è lungo: “La democrazia finisce subito se cade sotto la tirannia della maggioranza” ha scritto Alexander Hamilton, un politico ed economista statunitense vissuto alla fine del XVIII secolo. E della democrazia fa parte integrante il principio della possibilità di ricambio dei gruppi dirigenti: questo è impedito se la maggioranza spegne le voci alternative o impedisce loro di raggiungere le orecchie di tutti.
Proprio per queste ragioni la nostra democrazia (nella quale da noi si ha tanta fiducia da pensare di esportarla con le armi) è stata costruita con un attento sistema di contrappesi, che bilanciano quello della maggioranza con altri principi. Frenano la tendenza alla “tirannia della maggioranza” due principi: il diritto delle minoranze e la separazione dei poteri. Il primo comporta la garanzia che ogni gruppo d’interesse (sociale, economico, culturale) abbia la possibilità di essere rappresentato là dove si conosce e si dibatte per decidere, potendosi esprimere con la stessa libertà consentita alla maggioranza. Il secondo principio consiste nella rigorosa autonomia di ciascuno dei tre poteri fondamentali: legiferare(parlamento), applicare le leggi (governo), giudicare (magistratura).
Ciascuna di queste tre istanze ha eguale autorità rispetto alle altre. Sostenere che una di esse primeggia significa proporre una tesi eversiva della democrazia. Eppure, è quello che è avvenuto negli ultimi tempi, quando gran parte dei politici, e degli stessi giornalisti, che hanno scritto o parlato sul “conflitto” tra capo del governo e massima istanza della magistratura, hanno accreditato la tesi che solo chi è direttamente eletto dal popolo ha il potere di decidere, e se gli altri ostacolano la sua decisione sono rei di tradimento e vanno ricondotti all’ordine.
Un urbanista non avrebbe il compito di richiamare questi concetti, ad altri spetterebbe di farlo. Ma un urbanista – come ogni cittadino consapevole – sa che se essi vengono travisati, e i principi che li esprimono violati, per la città, luogo della società, non c’è speranza.
Crisi o morte della città?
Per molti aspetti l’interrogativo dal quale siamo partiti (se si debba parlare di crisi della città, oppure della sua morte) si accosta decisamente a un altro: crisi o morte della democrazia. In entrambi casi credo che la risposta sia soltanto una, ed è una risposta terribilmente aperta. Usciremo dalla situazione attuale, assisteremo alla ripresa di una vera città (e di una vera società democratica), raggiungendo traguardi più avanzati di quelli che l’esperienza storica ha conosciuto, a seconda che noi – che la società di cui siamo parte – vorremo farlo , e se saremo in grado di farlo.
Se vorremo farlo. Se le donne e gli uomini di questo XXI secolo riterranno che la vita nella città - in un habitat nel quale si vive insieme agli altri, si incontrano gli altri, si comunica con gli altri, si conoscono gli altri, si è solidali con gli altri, ci si aiuta con gli altri, ci si confronta e ci si misura con gli altri – e con altri diversi da ciò che noi stessi e i nostri congiunti sono, con altri portatori di altre storie, di altre culture, di altre credenze, di altre abitudini – se la maggioranza degli uomini e delle donne riterrà che è meglio vivere così che vivere da soli, chiusi nel proprio piccolo gruppo, spazio, orizzonte.
E se saremo in grado di farlo. Se ci metteremo all’altezza degli sforzi che sono necessari per concorrere aall’uscita della crisi della città. Dove mettersi all’altezza significa in primo luogo comprendere qual è la posta in gioco (che cosa noi stessi, e la civiltà umana nel suo insieme, pagherebbe se della città non vivessimo la crisi ma celebrassimo la morte e la scomparsa – possibili così come sono state possibili la morte e la scomparsa di intere civiltà.
Sento che mai come in questo momento la risposta, e il futuro, dipendano da noi: sebbene il percorso sia irto di difficoltà, sebbene la sua durata sia ignota e ugualmente ignoti siano i prezzi che dovremo pagare, non credo che siano possibili altre risposte.
Come uscire dalla crisi
Naturalmente, se alla domanda precedente si dà una risposta ottimista, se si tratta di crisi e di passaggio e non di declino e morte, bisogna domandarsi in che modo, partendo da quali inizi dalla crisi della città si possa cominciare a uscire.
Credo che il punto di partenza (o almeno, un punto di partenza) possa esser visto in una parte del titolo che abbiamo dato l’anno scorso alla quinta edizione della Scuola di eddyburg: una piccola scuola estiva di pianificazione che stiamo organizzando con le risorse del sito eddyburg.it. Il titolo era “Spazio pubblico: declino, difesa, riconquista”. Sul declino dello spazio pubblico abbiamo già ragionato. Per concludere vorrei avviare il ragionamento sugli altri termini: difesa, riconquista.
Avrete compreso che attribuisco all’espressione “spazio pubblico” un’accezione molto ampia. È spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico gli standard urbanistici, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.
Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e una politica di pianificazione del territorio, in tutte le sue componenti.
In questa sua accezione la conquista dello spazio pubblico è stata, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro.
Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile. Guai se pensassimo – come molti oggi pensano – che la storia è già scritta. La storia non è ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo inevitabilmente vittime passive e imbelli.
Collocarci nella storia significa saper individuare le ragioni per cui lo spazio pubblico è oggi a rischio, e già largamente compromesso. La ragione ideologica è in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. Ed è facile individuare la ragione strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia.
A questi rischi bisogna opporsi. Per farlo è necessaria la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa. Per dirla con Italo Calvino, per resistere all’inferno, dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Che cosa c’è nell’inferno “che non è inferno”?
Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica. Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo alla politica. È alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Io li ho vissuti.
Oggi non è più così. Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.
Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra
- i partiti che esprimono con pienezza e arroganza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,
- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo: per esempio, credono ancora che il Prodotto interno lordo sia l’unità di misura del livello di civiltà raggiunto, o che il termine “sviluppo” coincida con quello di continuo aumento della produzione e del consumo di merci indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale, oppure che la governabilità sia più importante della democrazia;
- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.
Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per i primi, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, alla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.
Le nostre istituzioni sono sempre più degradate e indeboliti dal modo in cui la politica dei partiti le ha asservite. É disarmante vedere come le istituzioni si siano rivelate – e si rivelino ogni giorno – incapaci di reagire al processo di vera e propria loro castrazione che sta procedendo ogni giorno di più. Il percorso del loro degrado è forse cominciato con lo spostamento dei poteri dagli organismi collegiali a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai governi, da questi ai presidenti e ai sindaci), quando si è privilegiata la governabilità sulla democrazia. Sta raggiungendo ora traguardi parossistici con l’estensione del potere dei commissari (Guido Bertolaso docet), esentati da ogni obbligo di trasparenza e correttezza, affrancati da ogni vigilanza e controllo, investiti direttamente di potere dai vertici massimi del potere.
E tuttavia, le istituzioni non possono essere lasciate al loro degrado. É forse dalla loro riconquista che una nuova politica delle città, nelle città e nelle piazze, deve ripartire.
Intervenire a Babilonia
Un’ultima questione vorrei porre al dibattito. Mi sono riferito fino ad ora alla città dell’esperienza storica europea. Ma in questa città – che noi ci proponiamo di riscattare dall’attuale situazione di degrado fisico e sociale – vive una porzione modestissima della popolazione del pianeta Terra. Miliardi di persone – di nostri simili – vivono in città “senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità”: nelle moderne Babilonie.
Una parte di questa realta appartiene alla “infrastruttura globale” analizzata da Saskia Sassen e raccontata da John Ballard: il ponte di comando del pianeta. É la parte di Babilonia (e della città europea) dove vive il potere globale, e i suoi servi più prossimi.
Un’altra parte appartiene al “pianeta degli slum”, studiato da David Harvey e dalle scuole marxiste e terzomondiste molto presenti al di là dell’Atlantico, dove si registrano i tassi più alti di miseria e disagio sociale. É la parte dell’habitat dell’uomo al quale si dirigono le attenzioni delle agenzie internazionali e delle ONG, nonché quelle delle forme contemporanee del colonialismo.
Un’altra parte, intermedia fra le due, è l’habitat di quei ceti sempre più sospinti verso la povertà e l’emarginazione ma ancora affascinati dal sogno del possibile approdo alla ricchezza dei consumi opulenti. É forse il mondo sempre più popolato dagli “uomini vuoti gli uomini impagliati, che appoggiano l'un l'altro La testa piena di paglia”, cantati da Thomas Stearns Eliot [2].
La domanda su cui voglio chiudere questo intervento è questa: che cosa dobbiamo proporci di chiedere e di fare per queste moderne Babilonie, in che modo possiamo proporci di intervenire, secondo crfiteri che non siano né l’imposizione del nostro irripetibile “modello” né l’acritica accettazione della realtà di questi disperati paesaggi neo-urbani?
Se è possibile nutrire ancora speranza nella capacità di riscatto e di progresso (progresso reale, non quello misurato dal PIL) del genere umano, forse è anche nell’universo delle nuove Babilonie che dobbiamo sforzarci di cogliere il germe di un futuro possibile: un futuro di una nuova civiltà urbana, che sia lo sviluppo di quella che abbiamo conosciuto ma non neghi – e anzi accolga e faccia germogliare – tutto ciò che di pienamente umano – e perciò anche pienamente sociale – lì si esprime e chiede ascolto e considerazione.
Magari cominciando a concentrare la nostra attenzione sui brandelli di nuova Babilonia che sono già tra noi, ai margini e negli interstizi delle nostre orgogliose città della plurimillenaria tradizione europea
[1]Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in: Carlo Cattaneo, “La città come principio”, a cura di Manlio Brusatin, Marsilio Editori, 19853, p. 18.
[2]Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano l'un l'altro
La testa piena di paglia. Ahimè!
Le nostre voci secche, quando noi
Insieme mormoriamo
Sono quiete e senza senso
Come vento nell'erba rinsecchita
O come zampe di topo sopra vetri infranti
Nella nostra arida cantina
Il patrimonio diffuso è minacciato dalle città, e le città sono minacciate dalla scomparsa delle campagne. Questo l’argomento del mio intervento, che articolerò in quattro punti: 1. perché è bene che la campagna rimanga, o rientri, in città; 2. Che cosa ha cacciato e caccia la campagna dalla città; 3. l’irrefrenabile consumo di suolo; 4. quali spazi la campagna dovrebbe riconquistare nella città.
Perché è bene che la campagna rimanga, o rientri, in città
Le città sono oggi spesso diventate – in molti paesi, tra cui l’Italia –un luogo nel quale sono accatastate famiglie e attività, stipate in grandi involucri di cemento armato e mattoni, raccordati tra loro da nastri d’asfalto. Da moltissime città, soprattutto nelle periferie che sono state costruite nell’ultimo mezzo secolo e che costituiscono il 90% dell’urbanizzato attuale, la natura è scomparsa. Restano i giardini storici nei centri antichi, e quei pochi parchi urbani e spazi verdi ancora agricoli che qualche amministrazione comunale intelligente ha realizzato negli anni 70 e 80 del secolo scorso. Ma anche questi sono minacciati dall’espandersi dalla “repellente crosta di cemento e asfalto”, per adoperare le parole di Antonio Cederna.
La perdita che abbiamo subìto è gravissima. Perché la vita dell’uomo sia ragionevolmente vissuta, il rapporto immediato, quotidiano con la natura è essenziale. Non basta il verde dei balconi, né qualche striminzito alberello o qualche aiuola spartitraffico per farci vivere come abitanti del pianeta Terra. Il verde, la natura (sia quella selvatica che quella foggiata dal lavoro dell’uomo) è indispensabile alla nostra vita. Per ragioni che hanno a che fare con la nostra formazione, la consapevolezza del nostro ruolo nel pianeta che abitiamo, per la nostra cultura, il piacere, il benessere, la salute.
Oggi si è sempre più consapevoli della utilità del verde urbano alla fisiologia umana. Si considera in particolare essenziale il suo ruolo di moderazione microclimatica, di depurazione dell’aria, di attenuazione dei rumori, l’azione antisettica, il contributo alla difesa del suolo, alla depurazione idrica, alla conservazione della biodiversità.
É necessario che la città riprenda dentro di sé la campagna, che la campagna si re-impossessi della città. Così come era una volta, nei primi decenni della mia vita, quando le colline della mia città erano coltivate a vigne e a orti, quando bastava fare cinquecento passi per trovarsi in un bosco di castagni. Quando i prodotti dell’agricoltura che si mangiavano venivano da un paio di chilometri da casa, ed erano nutriti dallo stesso sole che entrava dalla mia finestra. Quando il sapore non era cancellato dalle lunghe soste negli armadi frigoriferi. Quando il latte che bevevo era prodotto dalle mucche che potevo vedere nella passeggiata fuoriporta, e il pesce che mangiavo veniva dal mare che vedevo dalla mia finestra. Per sapere che rapporto c’era tra la gallina, il pollo e le uova, e per sapere che i conigli mangiavano le carote, non dovevo guardare su un libro di zoologia. L’aria che respiravo era sana, era lavorata dalle foglie degli alberi che vedevo ovunque. E l’acqua minerale la bevevano solo i malati ricchi.
É stato inevitabile che questa perdita vi sia stata, che questo regresso sia avvenuto? Dobbiamo chiamarlo “inevitabile portato della modernità”? Lo escludo. Ci sono città, soprattutto fuori d’Italia, dove la campagna entra in città. Entra con il formato dei grandi parchi, i cui tentacoli verdi si spingono senza interruzioni nei quartieri vicini al centro e si collegano magari ai grandi parchi storici. Entra con gli orti urbani, lottizzati e assegnati agli abitanti dei quartieri nelle immediate adiacenze. Entra con dei cunei agricoli ancora coltivati dagli agricoltori, come hanno tentato di fare anche in qualche città italiana urbanisti intelligenti e amministrazioni sagge e civili.
Dobbiamo insomma recuperare la campagna in città, perché le cose belle, utili, sane che una volta caratterizzavano le città (insieme ad altre cose brutte, dannose e malsane, che siamo stati felici di perdere) tornino nelle nostre vite e in quelle dei nostri figli e nipoti. E perché quello che ancora c’è – i brandelli di verde, di natura – non siano anch’essi seppelliti sotto la “repellente crosta”. Come rischia di accadere.
Che cosa ha cacciato la campagna dalla città
Città e campagna sono due utilizzazioni che condividono il medesimo spazio: il territorio. A seconda della concezione che si ha del territorio la condivisione può assumere il carattere di una collaborazione o di una concorrenza, di una integrazione o di un conflitto.
Nel nostro mondo si manifestano di fatto due concezioni di territorio.
Secondo l’una il territorio è il contenitore neutrale di qualsiasi oggetto; è un insieme di risorse di cui ci si può appropriare per trasformarle; è un paesaggio da plasmare e riplasmare secondo il capriccio dell’operatore e l’interesse dell’utilizzatore.
Secondo l’altra concezione il territorio è un insieme di risorse finite, è un patrimonio, un insieme di patrimoni, depositati dall’opera congiunta della natura e del lavoro e la cultura dell’uomo; è un paesaggio - testimonianza anch’esso del lavorìo della natura e della storia - da custodire e manutenere e trasformare, comprendendone e rispettandone le regole formative.
Dobbiamo ammettere che nel nostro paese è la prima concezione quella dominante. Non si è cercato un equilibrio nell’uso del territorio. Non si è compreso che il territorio non urbanizzato, non trasformato in una “repellente crosta”, è una risorsa essenziale, e che quindi è lecito sottrarne parte solo se ciò è indispensabile per soddisfare esigenze che altrimenti sarebbero sacrificate. Non si è cercato di ridurre la sottrazione di suolo alla ruralità.
Ciò è dipeso in gran parte dal fatto che un’area utilizzabile per la costruzione di manufatti privati (abitazioni, uffici, fabbriche, capannoni) dà una rendita enormemente superiore a quella percepibile con gli usi rurali.
In altri paesi europei si è ovviato a questo squilibrio mediante la rigorosa imposizione di politiche e di regole, che le amministrazioni pubbliche hanno saputo far rispettare: l’acquisizione preventiva delle aree che saranno utilizzate per l’urbanizzazione, le regole della pianificazione, il prelievo – fiscale o contrattato – di quote consistenti della differenza tra rendita urbana e rendita agraria.
Perciò vediamo – in Germania, in Austria, in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi, in Francia, nei paesi scandinavi – ampi parchi e ampie zone agricole all’interno stesso delle città, e confini netti che separano città, paesi e villaggi dalla campagna circostante.
Perciò, in Italia, vediamo invece dilagare quel fenomeno – che negli altri paesi si cerca di contrastare– che si chiama “consumo di suolo”. Precisamente, una riduzione patologica dello spazio rurale ben al di là delle strette necessità di realizzare residenze, attrezzature produttive e commerciali e servizi urbani per le esigenze della società. Uno spreco di territorio, origine a sua volta di altri sprechi di risorse scarse e non riproducibili.
L’irrefrenabile consumo di suolo
L’Unione europea ha espresso da tempo preoccupazione per il crescente consumo di suolo, derivante soprattutto dal disordinato espandersi delle città in grandi aree invase da insediamenti a bassa densità dispersi su territori frammentati da strade e altre infrastrutture, largamente impermeabilizzati, in cui l’agricoltura viene ridotta in campi tagliuzzati, il paesaggio agrario viene cancellato – e con esso le testimonianze della storia e dell’arte, la gestione dei reflui e dei rifiuti viene resa più difficile e provoca un aumento dell’inquinamento[1].
I documenti dell’Unione europea sottolineano come lo spazio consumato per persona nelle città europee sia più che raddoppiato negli ultimi 50 anni. “Negli ultimi 20 anni, l’estensione delle aree edificate in molti paesi dell’Europa occidentale ed orientale è aumentata del 20 %, mentre la popolazione è cresciuta soltanto del 6 %”.
In particolare, si rileva come la dispersione degli insediamenti provochi l’irrefrenabile espansione della motorizzazione individuale, l’aumento dei costi, il coinsumo energetico, l’inquinamento. Inoltre – osserva l’Agenzia europea per l’ambiente – “le infrastrutture dei trasporti segnano profondamente il paesaggio, in diversi modi, basti pensare, ad esempio, all’impermeabilizzazione del suolo, che aumenta gli effetti delle inondazioni, o alla frammentazione delle aree naturali”.
Negli altri paesi europei il consumo di suolo ha spesso dimensioni comparabili a quelle nostrane, ma in Italia ci sono quattro differenze rilevanti.
(1) L’insieme del nostro territorio è caratterizzato da una grande fragilità per la sua struttura morfo-geologica e la sua pessima manutenzione.
(2) Le aree pianeggianti e fertili - che sono quelle dove il consumo di suolo si concentra – sono in Italia una frazione modesta del totale, circa un quarto del totale, mentre mancano le grandi pianure che caratterizzano Germania, Francia e i paesi dell’Est europeo.
(3) Il nostro territorio rurale è particolarmente dotato di testimonianze storiche e artistiche diffuse ovunque le quali, integrate alle ricchezze dei nostri paesaggi, costituiscono per la loro disseminazione una ricchezza che gli altri paesi ci invidiano.
(4) Infine – ed è forse la circostanza più preoccupante - in Italia nulla si fa per contrastare il consumo di suolo, a livello sia dello stato che delle regioni,. Anzi, soprattutto negli ultimi decenni (grosso modo a partire dalla metà degli anni 80) si sono via via abbandonate le pratiche di governo del territorio che nei due decenni precedenti erano state adottate in gran parte delle regioni del Nord e del Centro.
Non esiste nessuna ricerca seria, a livello nazionale, che abbia almeno quantificato, con criteri unitari che consentano confronti diacronici e sincronici, l’effettivo consumo di suolo, la sua dinamica, il suo effetto sull’ambiente e sulla vivibilità. I dati generali, di livello nazionale, che circolano sono totalmente inaffidabili. Essi si riferiscono o alla riduzione delle superfici agrarie (che non dipende solo dal consumo di suolo, ma anche dall’uscita dal mercato di aziende agricole e dalla rinaturalizzazione di aree marginali), oppure dalle rilevazioni satellitari. Queste si basano sull’impiego di un programma (Corine, COoRdination of INformation on the Environnement) , al quale sfuggono del tutto l’edificazione sparsa, i nuclei di abitazioni, le infrastrutture, le catene di capannoni e di casette[2].
La situazione è drammatica. E penso che cosa succederà quando misureremo l’effetto delle politiche più recenti, che continuano a stimolare un’attività edilizia completamente svincolata dai fabbisogni reali e finalizzata solo a valorizzate economicamente i terreni mediante l’impiego estensivo del mattone.
Quali spazi la campagna dovrebbe riconquistare nella città
Mi sembra che tre siano gli obiettivi più immediati, per chi voglia sperare che, anche in Italia, città e campagna ritrovino una convivenza e un’integrazione.
(1) Evitare l’ulteriore espansione delle città, combattere lo sprawl urbano (lo “sguaiato distendersi della città sulla campagna”). Altri paesi europei hanno adottato provvedimenti che vanno in questa direzione, e da cui si può imparare. Sono stati presentati in Parlamento italiano disegni di legge che vanno nella direzione giusta. Ma anche in assenza di leggi nazionali e regionali qualcosa si può fare. Comuni sensibili a questo tema possono imporre un limite rigoroso all’espansione urbana, tracciando confini rigorosi che separino città e campagna: come ha fatto lo stato del Washington negli Usa, e più d’un comune virtuoso in Italia. Le previsioni di piani regolatori vistosamente sovradimensionati si possono modificare senza dover pagare nessun indennizzo ai proprietari[3].
(2) Difendere gli spazi destinati a verde pubblico o verde agricolo nei piani regolatori vigenti. In moltissime città essi sono a rischio. Si tenta di sacrificarne un pezzo alla volta per ottenere qualche area per servizi. É un’operazione sbagliata. Se non ci sono risorse per acquisire aree per realizzare oggi un parco pubblico meglio destinare l’area a verde agricolo e stabilire regole che ne consentano l’uso ricreativo e produttivo insieme: sono attività che possono benissimo integrarsi.
(3) Chiedere che i grandi vuoti urbani siano in parte consistente destinati a verde. I vuoti che si formano per l’abbandono di installazioni industriali, militari o di servizi obsolete non devono essere adoperati solo per la realizzazione di edifici, ma che una parte consistente, almeno il 50%, deve venir restituito alla natura, e che devono essere utilizzate le vaste aree industriali nelle periferie urbane, soprattutto nel Mezzogiorno, urbanizzate per attività manifatturiere che non sono mai decollate.
Al di là e oltre iniziative in questa direzione – diciamo di carattere urbanistico –, credo che, per ottenere che la campagna riconquisti la città e i cittadini si giovino della campagna, e anche per ottenere un sostegno più largo alle attività di integrazione dell’agricoltura con tuti gli abitanti, residenti e viaggiatori, delle città sia utile dare risposte efficaci alle numerosissime sollecitazioni per un’alimentazione più sana, legata al territorio e alla cultura dei luoghi, per una formazione dei bambini più legata alla natura e alla conoscenza dei suoi cicli.
Mi riferisco alle pratiche per la formazione di “filiere brevi” tra il produttore e il consumatore, alla ristorazione con il Menu a km Zero, ai Gruppi di acquisto solidale, e alle molte altre forme nelle quali si esprime il desiderio di uscire da una vita sempre più omogeneizzata, artificializzata, in definitiva malsana per il fisico e alienante per lo spirito.
Per concludere
Nella sua bella relazione, che condivido integralmente, Massimo Quaini si è riferito alla battaglia in corso tra il globale dell’economia finanziaria, della “turbo capitalismo”, e il locale. Ci domandiamo: il globale, quel globale, ha ormai vinto?
Io non so se davvero, come afferma il titolo del libro di Giorgio Ruffolo, “il capitalismo ha i secoli contati”. Ruffolo scriveva quel libro prima della crisi dell’anno scorso, e del resto rivelava già, nel suo testo, la fragilità del capitalismo e le ragioni della necessità di superarlo. Quello che so, e di cui sono convinto, è che oggi occorre difendere il locale e tutto ciò che di buono la storia ci ha lasciato. E che però, contemporaneamente, si debbano cercare le strade che consentano di superare la contraddizione tra il globale e il locale, e soprattutto di costruire una società in cui il valor d’uso prevalga sul valore di scambio, la qualità sulla quantità.
[1]Si vedano in particolare i seguenti rapporti dell’European Environment Agengcy: EEA Report 03/2006 (The continuous degradation of Europe's coasts threatens European living standards), 04/2006 (Urban sprawl in Europe) e 10/2006 (Urban sprawl in Europe. The ignored challenge)
[2] L’unità minima di territorio omogeneo rilevato da Corine è 25 ha, pari a un quadrato di 500x500 m. Nella provincia di Lucca l’amministrazione ha fatto un confronto puntuale tra il consumo reale, misurato sulle mappe topografiche, e quello del Corine. Ebbene il consumo reale è di 17.000 ha, quello rilevato dal Corine è di 11.000 ha: il 50% in meno. Cfr M. Baioni, M.P Casini (a cura di), a cura di, Prospettive per il governo del territorio, Provincia di Lucca, 2006.
[3] Si vedano in proposito il parere pro veritate del prof. Vincenzo Cerulli Irelli e la relazione del sottoscritto.
Urbanistica e mercato
Il pensiero comune è abbastanza incerto su che cosa sia l’urbanistica. Le opinioni sono oscillanti. Prevalgono due interpretazioni. L’urbanistica è quel mestiere (scienza? arte?) che si preoccupa di rendere belle le città: roba da architetti. L’urbanistica è quel mestiere composto da regole, procedure, adempimenti: roba da burocrati. Nel sapere dell’urbanistica (nei saperi dell’urbanistica) c’è l’uno e c’è l’altro, ma anche altre cose, di cui quelle sono un riflesso.
Come al solito la storia aiuta a comprendere (“utilità della storia” è la ragione del nostro convegno). L’urbanistica moderna nasce, nell’ambito della società liberale e dell’economia capitalistica, per affrontare un problema che il mercato – che la spontaneità dei comportamenti individuali – non riusciva ad affrontare, ma anzi aggravava man mano che quella società e quella economia si affermavano e progredivano.
Si può dire che l’urbanistica è il primo rivelatore dell’insufficienza del mercato. Se si fosse lasciato a quest’ultimo il compito di organizzare l’insediamento dell’uomo sul territorio si sarebbero aggravati a dismisura le situazioni di confusione, disordine, malfunzionamento in molti decisivi aspetti della vita delle famiglie e delle aziende che già contrassegnavano la città. Insalubrità, disagio, caos del traffico, rischi per le persone, oscillazioni imprevedibili nei valori della rendita fondiaria.
Non a caso il primo piano regolatore fu preteso – a New York, nel 1811 – sia dai cittadini disturbati dall’improvviso sorgere di fabbriche e dall’affollarsi di carriaggi tra le abitazioni, sia dai mercanti di terreni che vedevano alterarsi i prezzi per l’inopinato insediamento di officine meccaniche o manifatture di attrezzi per il Far West nella aree lottizzate per la residenza. Il comune provvide, con un piano regolatore che determina ancor oggi la forma e il funzionamento di Manhattan.
Il compito dell’urbanistica
Compito dell’urbanistica è quello di adoperarsi perché la società possa utilizzare il proprio habitat per l’insieme delle sue esigenze che hanno un rapporto con lo spazio e con il suo uso.
Abitare, lavorare, alimentarsi, muoversi, spostare, incontrarsi, apprendere, scambiare, divertirsi, curarsi, gestire i propri rifiuti sono alcune delle attività che hanno bisogno di una organizzazione dello spazio. Hanno bisogno che le cose (gli oggetti, le funzioni) necessarie per soddisfare quelle esigenze siano correttamente collocate sul territorio, abbiano tra loro le relazioni (fisiche e funzionali) necessarie per non danneggiarsi reciprocamente e per non renderne difficile l’uso. Anzi, per renderne l’uso e la percezione (la funzionalità e la bellezza) i migliori possibile.
Se questo è il compito del’urbanistica, se questa è la domanda sociale che storicamente la rende necessaria, è facile comprendere che essa è un sapere (un insieme di saperi) eminentemente pratico, che ha un rapporto di particolare attenzione e legame con due realtà: il territorio, e la società. E a me sembra che l’attuale crisi dell’urbanistica sia strettamente correlata alla crisi dell’ambiente e alla crisi della politica. E che l’attuale deriva culturale nel quale versa oggi l’urbanistica ufficiale sia una espressione della più generale deriva dei saperi e dei sapienti nella “società montante”, per usare l’espressione di Alberto Asor Rosa[1].
Il territorio
Il territorio è il campo nel quale si svolge, e al quale si riferisce, il lavoro dell’urbanistica.
Il territorio come contenitore neutrale di qualsiasi oggetto, il territorio come insieme di risorse di cui ci si può appropriare per trasformarle, il territorio come paesaggio da plasmare e riplasmare secondo il capriccio dell’operatore.
Oppure il territorio come insieme di risorse finite e come patrimonio (insieme di patrimoni) depositati dall’opera congiunta della natura e del lavoro e la cultura dell’uomo, come paesaggio - testimonianza anch’esso del lavorìo della natura e della storia, da custodire e mantenere e trasformare comprendendone e rispettandone le regole formative.
L’opzione del tecnico è aperta tra queste due interpretazioni del territorio, sebbene si possa dire che la migliore tradizione della cultura urbanistica propende nettamente per la seconda, e i suoi esponenti condividerebbero oggi l’affermazione di Piero Bevilacqua quando ricorda che “non è il fondale inerte delle nostre attività, ma un campo di forze in movimento, talora collegate in forma di sistema”[2].
La società
La società, l’altro versante di attenzione dell’urbanistica è, per così dire, il committente del lavoro dell’urbanistica, poiché ne è il destinatario: è attraverso la mediazione dell’urbanista che la società costruisce il proprio spazio e gli conferisce la sua impronta. Non credo di aver bisogno di dimostrare questo assunto. Vorrei solo aggiungere una breve considerazione sulla politica.
Poiché l’urbanistica è finalizzata a un’attività pratica, operativa, e poiché ha il compito di stabilire regole che consentano di raggiungere un risultato che è la somma di interventi di una molteplicità di operatori, il legame tra urbanistica e società è costituita dal governo, cioè dalla politica.
Leonardo Benevolo arriva a dire che “l’urbanistica è parte della politica”. A mio parere il nesso è più complesso, ma comunque il legame tra i due aspetti è indubbio. La complessità di quel rapporto si comprende quando si riflette alla politica come è oggi.
Oggi (ma riprenderò il tema più avanti) la politica intesa come politica dei partiti non esprime compiutamente la società. Essa infatti non esprime le posizioni che manifestano dissenso e alternativa nei confronti della dell’ideologia e della politica dominanti. E allora nasce nell’urbanista che voglia rimanere fedele alla tradizione del suo mestiere la necessità di collegarsi direttamente alla società.
La pianificazione
Vorrei occuparmi adesso dello strumento che l’urbanistica adopera per determinare azioni sul territorio conformi alle esigenze della società. Parlo di strumento indipendentemente dalla sua tecnicità, ma con riferimento alla sua logica, al metodo che ne giustifica l’invenzione e ne dirige l’impiego.
Lo strumento dell’urbanistica è la pianificazione. Si parla di “pianificazione urbanistica” con riferimento alla fase nella quale l’habitat dell’uomo era ristretto sostanzialmente alla città; sarebbe forse più corretto parlare oggi di “pianificazione territoriale” oppure, con maggior precisione ma anche maggiore complessità, “pianificazione della città e del territorio”.
La pianificazione di cui parlo non ha a che fare con la “pianificazione economica”, tanto meno con la piatiletka sperimentata nel Secondo mondo - nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche e nei paesi satelliti - nel tentativo di uscire dall’economia capitalistica. Essa ha comunque sull’economia ricadute possibili, e per qualche aspetto rilevanti.
Mi riferisco in particolare alla questione della rendita fondiaria ed edilizia (rendita immobiliare), ricordando a questo proposito pochissime cose:
(1) che essa è stata definita dal pensiero liberale la componente parassitaria del reddito;
(2) che alla rendita non corrisponde alcun lavoro e alcuna attività imprenditiva, ma unicamente la proprietà di un bene scarso e utile;
(3) che la quantità di risorse che va alla rendita viene sottratta alle altre due componenti del reddito, il salario e il profitto d’impresa;
(4) che la rendita immobiliare urbana è determinata dalle decisioni e dalle opere della collettività, ma essa è percepita dal proprietario;
(5) infine, che in Italia la rendita ha un pesa molto maggiore che negli altri stati europei, e ciò soprattutto a causa dell’alleanza di classe che la borghesia liberale del Nord stipulò con la classe dei proprietari terrieri, soprattutto quelli del Mezzogiorno e del Centro.
Il piano urbanistico incide sulla rendita, nel senso di accrescerla più o meno. A seconda degli strumenti offerti dalle legislazioni e delle politiche urbane il piano può inoltre essere lo strumento mediante il quale la rendita viene ridotta, oppure trasferita dal privato al pubblico. Il rapporto tra pianificazione e rendita esprime solo la più classica delle modalità mediante le quali la pianificazione può incidere sull’economia: ve ne sono numerose altre cui non abbiamo qui il tempo di fare riferimento.
Due interpretazioni
Precisato che cosa la pianificazione non è, occorre ricordare che cosa invece essa è. Partirò dalle definizioni di due persone che esprimono altri saperi: l’archeologo Antonio Cederna e l’economista Giorgio Ruffolo.
Per Cederna
“La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese”[3].
Per Giorgio Ruffolo la pianificazione territoriale
“E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico”[4].
Cederna sottolinea il carattere etico e politico della pianificazione, Ruffolo quello estetico. Vorrei aggiungere una definizione mia, certamente più “tecnica” delle due che ho letto, quindi probabilmente più arida.
Una definizione
Per conto mio intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.
L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.
Naturalmente questa definizione va interpretata nel contesto delle premesse che ho posto al mio ragionamento, a proposito del territorio e a proposito della società.
É chiaro che gli effetti della pianificazione (la trasformazioni prescritte o previste) sono ben diverse a seconda che per territorio si intenda l’una o l’altra delle due ipotesi che ho formulato quella del territorio come contenitore neutro e quella del territorio come patrimonio.
A questo proposito occorre dire che, per il modo in cui in Italia l’urbanistica si è formata, si è partiti dall’urbano, dalla regolamentazione dell’edificazione e dalla sua espansione, quindi partecipando alla prima delle due concezioni. Fino alla legge Galasso del 1985 (tanto per fissare un punto di riferimento) la pianificazione corrente ha largamente trascurato il “non urbanizzato”, la naturalità, l’ambiente, il paesaggio. Grandeggiano perciò le figure dei nostri maestri (come Giovanni Astengo, Luigi Piccinato, Edoardo Detti) che hanno saputo fin dagli anni 60 del secolo scorso, fare della pianificazione uno strumento per la tutela della natura e della storia, dell’ambiente e del paesaggio.
La formazione del cittadino
Riprendendo il tema del rapporto tra urbanistica e società entrerò direttamente (e finalmente!) nel tema del mio intervento: l’urbanistica per la formazione del cittadino. La ragione per cui il cittadino è (dovrebbe essere) vitalmente interessato all’urbanistica è facilmente comprensibile. É attraverso l’urbanistica che il suo habitat viene organizzato, trasformato, gestito.
Solo se comprende il modo in cui queste operazioni vengono effettuate egli si pone nelle condizioni di poter concorrere alla formazione del proprio futuro (almeno, di quella parte del suo futuro che dipende dal suo habitat). Solo se comprende e conosce egli può partecipare alle scelte in cui la pianificazione urbanistica consiste.
Ma il cittadino oggi non è preparato a comprendere la città e le regole della sua trasformazione, perché nulla dell’urbanistica c’è nel suo processo di formazione, quindi nel suo bagaglio culturale. Eppure la conoscenza dell’habitat dell’uomo potrebbe essere uno strumento didattico formidabile per condurre la persona (a cominciare dal bambino e dall’adolescente) a comprendere, a partire dalla sua esistenza e dalle sue esigenze di individuo, le ragioni, le necessità e le opportunità della vita sociale.
Avviano un percorso di conoscenza che vorrei definire “urbanistico” quegli insegnanti delle elementari che cominciano a far descrivere, o a riconoscere su una mappa o un fotopiano, il percorso che il bambino compie dalla sua abitazione alla scuola, o al luogo dove gioca o dove incontra gli amici, e al luogo dove accompagna il genitore a comprare o a curarsi, e così via. Non credo che siano molti quelli che adoperano simili strumenti di lavoro, e ancora meno quelli che lo preseguono fino agli aspetti più riccjhi e completi della vita sociale urbana.
I canali della partecipazione
Forse tentano, tardivamente, un simile percorso conoscitivo quegli adulti che si organizzano per protestare contro scelte urbanistiche sbagliate che incidono sulla loro vita e quella dei loro vicini, e quindi avviano una protesta e promuovono un conflitto per partecipare alle decisioni sul territorio.
Ma dobbiamo domandarci allora – passando dal cittadino all’istituzione - quali spazi la pianificazione urbanistica offra alla partecipazione. Nell’urbanistica italiana rivisitata dopo la Liberazione erano previsti due canali.
Il primo era quello diretto, pensato soprattutto per il cittadino direttamente interessato: è l’istituto dela “osservazione”, un documento con il quale il cittadino può esprimere la sua critica e la sua proposta di correzione al piano prima che questo sia definitivamente approvato. Il secondo canale è rappresentato dal percorso cittadino>partito>elezione>comune (più generalmente, istituto della Repubblica).
Oggi il primo canale è considerato del tutto insufficiente a garantire una partecipazione significativa della cittadinanza alle scelte. Il secondo canale è reso difficilmente praticabile a causa di tre circostanze:
1) perché i partiti hanno perso credibilità, e quindi non sono più considerati espressione adeguata dei gruppi sociali;
2) perché all’interno dell’ordinamento delle istituzioni si sono affermati l’esautoramento degli organi collegiali, quindi pluralistici e una governante nella quale l’istituto è rappresentato solo dal suo vertice e gli altri interessi coinvolti sono quelli legati alle rendite;
3) perché la cultura dei partiti ha largamente abbandonato l’attenzione al territorio, e in prevalenza lo considera come un mero strumento per lo “sviluppo economico” (uno sviluppo economico dal quale è scomparsa la critica alla rendita e non è entrata la consapevolezza dei limiti del pianeta).
Il paradosso italiano
Che il ceto politico italiano abbia completamente trascurato le questioni della città e del territorio mi sembra un fatto assolutamente paradossale. In un mondo dominato, piaccia o non piaccia, dalla concorrenza, l’Italia ha un immenso patrimonio da mettere in gioco.
Pensiamo alle sue città e ai suoi paesi, ai centri storici e ai quartieri antichi e ai borghi disseminati nelle campagne, pensiamo alla loro bellezza, alla ricchezza dei beni che conservano ed esprimono, all’eccezionale insegnamento che offrono. E pensiamo ai paesaggi, alla loro varietà e alla loro bellezza, alle testimonianze dell’incontro tra natura e storia che in ogni luogo rivelano.
Nonostante le immani distruzioni che stiamo compiendo da mezzo secolo a questa parte mi sembra che ci sia ancora una ricchezza immensa, unica al mondo.
Che io sappia, negli ultimi decenni un suolo uomo di governo è riuscito a comprendere che questa ricchezza doveva essere tutelata per oggi e per domani e ad agire coerentemente ed efficacemente per farlo, raggiungendo risultati significativi. Finché le espressioni della politica miope e di quella rapace non lo hanno sconfitto. Mi riferisco a Renato Soru, già presidente della Regione Sardegna.
Il canale del conflitto
Oltre l’istituto delle “osservazioni”, oltre la politica dei partiti si è aperto un nuovo canale tra i cittadini e il governo del territorio: quello del conflitto. Di un conflitto diffuso sul territorio, generato da gruppi, comitati, movimenti che spesso partono da sollecitazioni anguste (espresse dall’acronimo Nimby), ma promuovono azioni che tendono ad allargarsi, a connettersi con altri gruppi e movimenti, a passare dalla critica degli effetti alla consapevolezza delle cause.
Sono centinaia e forse migliaia le iniziative che partono dalla difesa di uno spazio pubblico, o dall’opposizione a un intervento inquinante, o dalla protesta per un processo di espulsione dalle case e dai quartieri, o dallo scempio di un paesaggio amato.
Gli esempi più significativi e rilevanti mi sembrano quello della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio, il cui promotore e portavoce è Alberto Asor Rosa, e il movimento Stop al consumo di territorio, che è partito dalle valli dell’Astigiano e del Cuneese e si è sviluppato in molte regioni.
Ma io collegherei questi movimenti a quelli che esprimono altre tensioni e altre sofferenze, che protestano per altri soprusi che minacciano beni e diritti pubblici: come l’Onda che si è sollevata nella scuola contro la privatizzazione, come il movimento contro la privatizzazione dell’acqua, e come i movimenti per i diritti del lavoro, e per quelli delle minoranze e delle maggioranze misconosciute, come le donne.
Forse è da qui che riparte la politica. Se politica non è solo quelle che si esprime con i partiti, ma è una dimensione della vita dell’uomo sociale. Una dimensione che nasce dalla percezione di un limite, di un’ingiustizia, di un torto subito o minacciato; che si sviluppa nella constatazione che quel limite, ingiustizia, torto colpisce anche altri; che si espande nella ricerca delle cause, delle connessioni con altre situazioni simili, che si interroga sui rimedi possibili.
Ecco che piano piano può trasformarsi – attraverso il dibattito pubblico, il confronto, il conflitto – in partecipazione dialettica al governo della cosa pubblica: in politica nel senso più ampio e più compiuto del termine.
Sottolinea come questo sia un problema (e una speranza) per oggi l’insigne costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. In una recente occasione ha affermato che oggi “la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino ‘visioni del mondo’, che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica”. E ha proseguito ricordando le “tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre”, ed dichiarando, con l’autorità che gli viene dal ruolo che ha esercitato, che “la formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro”, è per “le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale” e che“la sua difesa è nell’interesse comune”[5].
Ricostituire l’unità del campo
Ho sostenuto, all’inizio di questo intervento, che l'urbanistica è un mestiere finalizzata all’agire su una realtà complessa. La complessità del campo in cui agisce l’urbanistica impone la collaborazione con altri saperi, nei campi sia delle scienze positive che di quelle umanistiche. Perciò, oggi, contribuisce pesantemente alla crisi dell’urbanistica la segregazione dei saperi ciascuno nel proprio campo e nel proprio settore.Perciò anche il nostro mestiere patisce la “subordinazione agli imperativi della competizione economica, che emargina le culture umanistiche, esalta i saperi strumentali, che divide la scienza in discipline sempre più separate e in comunicanti”, e produce “una conoscenza sempre meno capace di cogliere quella verità che soggiace alle minacce che ci sovrastano: la complessa indivisibilità del vivente”.
Occorre essere consapevoli che la segregazione dei saperi è funzionale all’ideologia dominante. Se non ci vergogniamo di adoperare parole quali quelle che sto adoperando, oggi l’intellettuale può ritrovare un proprio ruolo non servile se pone il suo sapere al servizio della contro-ideologia, là dove questa si manifesta. Deve essere capace di indicare le alternative possibili fuori da quelle fornite dal pensiero dominante. Con un’altra consapevolezza ancora: quella che nessuno dei saperi nei quali si è articolato e suddiviso e frammentato il campo della conoscenza è di per sé sufficiente di comprendere e di indicare.
Lemontey scriveva:
“Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce”[6].
Nessun sapiente potrà, da solo, eguagliare oggi quelli che, sul finire del XVIII secolo, colpivano d’ammirazione Lemontey. Possiamo aiutarci a comprendere e ad agire solo se abbattiamo i recinti tra i saperi e lavoriamo insieme.
[1]A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Inchiesta sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Laterza, Bari-Roma 2009
[2] P. Bevilacqua, importanza della storia del territorio in italia, Lezione al Città Territorio Festival, Ferrara, aprile 2008. In eddyburg.it, http://eddyburg.it/article/articleview/11266/0/304/
[3] A. Cederna, Brandelli d’Italia. Come distruggere il Belpaese, Newton Compton, Roma 1991, pp. 44-45
[4] G. Ruffolo, Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.
[5] G. Zagrebelsky, Democrazia in crisi, società civile anche. «La Repubblica», 7 novembre 2009. Anche in eddyburg.it, http://eddyburg.it/article/articleview/14143/0/351/.
[6] P.-E. Lemontey, citato in K. Marx,Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115
Qui il link alla segnalazione del coonvegno e al programma
Il convegno è stato organizzato dell’European Spatial Development Planning Network e si è svollto all’Universidade de Aveiro (Portogallo)
1. DUE CONDIZIONAMENTI DELLA STORIA
Il mestiere dell’urbanista nell’ Italia di oggi è condizionato da due circostanze del passato. La prima è il ruolo economicamente e socialmente rilevante della rendita fondiaria. La seconda è il fatto che la figura dell’urbanista nasce in Italia dalla figura dell’architetto.
Il peso della rendita fondiaria
A differenza che in altri paesi europei in Italia l’unità nazionale e l’affermazione del sistema capitalistico-borghese non avvennero con la vittoria della nuova classe sull’ancien régime, ma con un compromesso tra la borghesia capitalista, promotrice dell’unificazione e della costruzione di uno stato unitario, presente soprattutto nelle regioni settentrionali, e la nobiltà feudale presente soprattutto nell’Italia centrale e in quella meridionale (nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato Vaticano). Secondo l’analisi di Antonio Gramsci (1952) e di Emilio Sereni (1980) le forze che esprimevano le componenti radicali (Mazzini, Garibaldi) della borghesia del Nord rinunciarono a sollevare contro i nemici esterni e interni le masse contadine e il mondo rurale, e furono quindi costrette a subire l’egemonia di quelle moderate (Cavour) e a consentire che si formasse un’alleanza tra la borghesia capitalistica e l’ancien régime.
I gruppi sociali il cui potere era assicurato dalla rendita fondiaria agraria (i grandi proprietari del Sud e la nobiltà vaticana) ebbero perciò assicurato il permanere della loro posizione di privilegio. La rendita fondiaria agraria si traformò rapidamente nella rendita fondiaria urbana, man mano che le città si svilupparono. Italo Insolera ha raccontato questa storia a proposito della capitale del nuovo stato, Roma, documentando il passaggio dei latifondi dalle mani della nobiltà papalina ai “mercanti di campagna” e poi da questi alle neonate società immobiliari:
“E c'erano soprattutto i ‘mercanti di campagna’, costituenti l'unico nucleo di industriali, di borghesi in quella che stava diventando la capitale di uno stato borghese, aperto verso la futura industrializzazione. I mercanti di campagna si insediarono subito in Campidoglio [sede del comune – ndr], come era logico, trattandosi dell'unica élite di borghesi, non compromessa con ‘radicali’ e ‘repubblicani’. Purtroppo in loro le caratteristiche negative della borghesia erano ben più importanti di quelle positive […] I mercanti di campagna diventarono mercanti di terreni fabbricabili e impresari edili. In mancanza di una qualsiasi riforma agraria, una nuova più promettente attività lucrativa era nata: si trattava di fabbricare la nuova Roma" (Insolera, 1971)
Dal latifondo rurale al latifondo urbano: a Roma, nel 1907, il 55% dei terreni che il piano regolatore aveva reso edificabili appartenevano a solo 8 proprietari (Insolera, 1971, p. 95) . I tentativi, nel primo decennio del secolo scorso, di ridurre il peso della rendita urbana con sistemi di tassazione ed espropriazione per pubblica utilità non ebbero successo (Insolera, 1971, p. 87 segg.).
Ancora oggi la rendita fondiaria (e in generale la rendita immobiliare) è molto forte. Ma questo lo vedremo più avanti.
L’urbanista nasce dall’architetto
Le prime esperienze italiane di pianificazione nell’età contemporanea, negli anni tra l’Unità d’Italia e la prima guerra mondiale, videro come protagonisti gli uffici municipali spesso assistiti da consulenti tecnici dagli studi di ingegneria o di architettura. Una discussione sulla formazione dell’urbanista, e prima ancora sulla sua natura, si sviluppò in Italia negli anni Venti del secolo scorso, sotto l’influenza delle proposte e delle iniziative in Gran Bretagna e soprattutto in Francia. Si manifestarono due posizioni molto diverse.
Secondo la prima (Silvio Ardy, 1926) si doveva formare una figura di “urbanista pubblico”: un civil servant formato “soprattutto sul modello francese delle alte scuole amministrative. […] È un approccio complesso, e per molti versi sorprendente nell’accostare competenze che per il lettore di oggi appaiono difficilmente conciliabili” (Bottini, 2004). Storia, demografia, gestione municipale, edilizia, infrastrutture avrebbero dovuto essere le materie di base, premesse per una specializzazione in due rami: l’uno tecnico e l’altro amministrativo. L’altra proposta (Alberto Calza Bini, 1929) propone il mestiere dell’urbanista come articolazione di quella dell’architetto
La proposta di Ardy si infrange contro la logica del regime fascista (Mussolini si è impadronito dello stato nel 1922 e lo mantiene fino al 1943). Contro la formazione di un planner formato ad hoc per le politiche pubbliche urbane prevale la posizione degli architetti, rappresentata da Alberto Calza Bini, influente esponente dell’accademia romana molto vicino al regime fascista (Calza Bini, 1928). Nelle scuole di architettura si era cominciato a insegnare l’urbanistica (a partire dai primi anni Venti), e questo tipo di formazione era più vicino sia al contesto economico, dove l’attività edilizia aveva un ruolo rilevante, sia alla propaganda del regime. Afferma uno studioso di quel periodo, Paolo Nicoloso:
“La ragione del fallimento della proposta di Ardy –- va colta anche nell’aver voluto egli privilegiare il buon governo della città a discapito della rappresentazione della forma. Viceversa la politica degli architetti, sostiene Calza Bini, considera preponderanti proprio i valori estetici. All’efficienza della forma il regime preferirà la realizzazione di opere auto celebrative più consone alla promozione del consenso” (Nicoloso, 1999, p. 69)
Fabrizio Bottini precisa il riferimento al contesto:
Per Calza Bini l’urbanistica è “il midollo spinale delle applicazioni di edilizia cittadina”. E la nuova figura professionale è ben diversa da quella dell’ “eletto funzionario comunale” che l’Ardy proponeva a Torino: è un “architetto-urbanista”, un professionista solidamente legato ai diversi interessi (amministrativi, ma anche finanziari, imprenditoriali, proprietari) la cui sinergia caratterizzava il regime corporativo fascista. Una concezione, quindi, omogenea sia al Regime, sia ad alcune modalità italiane di produzione e funzionamento della città, ciò che indubbiamente giovò al suo successo e durata nel tempo (Bottini, 2004).
Da allora e fino agli anni Settanta del secolo scorso l’urbanistica si insegna soprattutto nelle facoltà di architettura (più marginalmente in quelle d’ingegneria), con una spiccata tendenza per la figura del “libero professionista” più che per quella del civil servant.
2. GLI ANNI DELLE RIFORME, DELLE SPERANZE E DELLE BOMBE (1960-1979)
Emergono i guasti della ricostruzione
Nell’Italia del dopoguerra, passata la breve fase dell’unità dei partiti antifascisti, la maggioranza parlamentare era aggregata attorno alla democrazia cristiana (DC), un partito moderato su base popolare. A suo contrasto si era costituito un forte blocco di forze di sinistra, con una netta prevalenza del partito comunista (PCI), espressione degli strati operai e contadini e ampiamente egemonico negli strati intellettuali.
L’Italia era stata pesantemente distrutta dalla guerra. Scrive Vezio De Lucia:
“[…] più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; distrutti un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Particolarmente acuto il problema abitativo che già prima della guerra era assai grave (nel 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze). Mentre in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale, in Italia, viceversa, è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l’alibi – appunto – di «superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati» attraverso «dispositivi agili e di emergenza”(De Lucia, 2006IV, p. 5)
La ricostruzione è avvenuta nell’ambito di una politica economica che ha privilegiato soprattutto due settori economici. Da un lato l’attività edilizia privata, come tappa intermedia per il passaggio dall’agricoltura, fino ad allora dominante in Italia, all’ industria. Dall’altro lato l’industria manifatturiera, che già aveva solide basi nel capitale industriale del Nord e a cui era affidata la competizione sul mercato internazionale. In questo settore si puntava soprattutto sulla produzione di beni di consumo durevoli (l’automobile, ma anche elettrodomestici). L’agricoltura era stata lasciata, soprattutto nel Mezzogiorno, agli inefficienti rapporti di produzione del passato.
Lo sviluppo dell’industria manifatturiera si era concentrato nel nord-ovest. La sfrenata attività edilizia si era concentrata nelle maggiori città e lungo le coste. Tutto ciò aveva provocato vistosi squilibri territoriali : tra città e campagne, tra coste e regioni interne, tra regioni del nord e quelle del sud.
La scelta di politica economica, se aveva consentito l’ingresso dell’Italia nel mercato mondiale e un consistente aumento del benessere e della capacità di spesa delle famiglie, aveva quindi provocato anche una estesa devastazione del territorio e gravi fenomeni di congestione, sovraffollamento e disagio nelle città. Questi fenomeni, insieme a un logoramento della formula politica, erano venuti al pettine nella seconda metà degli anni Cinquanta e avevano provocato, da un lato, il formarsi di una nuova alleanza politica e, dall’altro lato, una presa di coscienza dei guasti provocati e il maturare della necessità di correre ai ripari.
Programmazione economica e pianificazione urbanistica
Programmazione economica per superare gli squilibri tra i settori economici e tra i territori; pianificazione urbanistica per collaborare a questa impresa e insieme ridurre il peso della rendita fondiaria e la congestione delle città: queste furono due delle principali riforme che la nuova alleanza del centro-sinistra – realizzata promuovendo il distacco del partito socialista da quello comunista –tentò dagli inizi degli anni Sessanta.
Strumento decisivo per la connessione tra programmazione economica e pianificazione urbanistica era stata considerata l’istituzione delle Regioni come anello intermedio tra lo stato nazionale e i poteri locali (soprattutto i comuni). Le regioni erano previste dalla Costituzione del 1948 come una delle quattro istituzioni della Repubblica (insieme a stato, provincia e comune), ma non erano mai state istituite dalla dai governi centristi per timore di ciò che poteva avvenire se le regioni del centro-nord avessero avuto un governo di sinistra, come era del tutto prevedibile.
La riforma urbanistica e il rilancio della pianificazione assumevano quindi un ruolo centrale nel dibattito politico e nelle speranze di trasformazione strutturale del paese. Nemico principale da sconfiggere apparvero subito le forze legate alla rendita fondiaria urbana. Un disegno di legge presentato dal ministro Fiorentino Sullo, che prevedeva l’esproprio preventivo delle aree interessate dai piani di espansione delle città, fu bocciato nel 1963, grazie a una violentissima campagna di stampa, cui DC e socialisti non reagirono. Ma alcuni disastri che si manifestarono a metà degli anni Sessanta, soprattutto nel 1966, ad Agrigento, Firenze, Venezia addebitabili al disordine urbanistico e territoriale, indussero a correre ai ripari: si approvò una legge, considerata come un ponte verso una più completa riforma urbanistica, che consentiva una migliore pianificazione delle città [1].
Si preparava intanto la formazione delle istituzioni regionali.
Un nuovo progetto e un nuovo ruolo per la formazione dell’urbanista
Nuovi orizzonti si aprivano per la professione dell’urbanista. Bisognava avviare un’estesa attività di pianificazione territoriale e urbanistica, nelle regioni e nei comuni cui la legislazione italiana attribuisce la competenza della pianificazione. Regioni e comuni non erano attrezzati, e non era più sufficiente il metodo di pianificazione applicato prima della guerra: nelle poche grandi città pianificate provvedevano generici uffici comunali assistiti da esperti specializzati soprattutto nel progetto urbano.
Bisognava procedere alla formazione di massa di nuovi tecnici, capaci di assistere le amministrazioni pubbliche in tutti gli aspetti connessi alla pianificazione: le competenze dell’architetto-urbanista non bastavano più. Il planner doveva essere dotato di competenze sia nei campi delle nuove tecniche del planning sia nell’economia, nel diritto, nell’amministrazione, nella sociologia.
Giovanni Astengo era un urbanista che aveva già svolto, con la rivista Urbanistica [2], un lavoro di ampliamento della cultura urbanistica italiana alle esperienze e conoscenze elaborate dalla cultura internazionale. Era vicino ai politici socialisti e aveva concorso alla definizione dei programmi del centro-sinistra. Era professore nel prestigioso Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV), forse all’epoca la migliore scuola di architettura italiana. Lì ottenne, con molta fatica, l’istituzione di un corso di laurea in urbanistica, basato su criteri molto vicini a quelli che, trent’anni prima, aveva proposto Silvio Ardy: la formazione di un urbanista che, pur non rinnegando la componente compositiva del progetto urbano, si preparasse a un’attività di planning molto integrata nelle politiche della pubblica amministrazione. Dopo l’esperienza di Venezia analoghi corsi di laurea si costituirono nell’ambito della facoltà di Architettura di Reggio Calabria; più tardi anche nel Politecnico di Milano e, nel corso degli anni Novanta, in molte altre facoltà di architettura. Il corso di laurea di Venezia si è trasformato, nel 2001, in facoltà di Pianificazione del territorio, ma l’esempio non è stato seguito.
Pochi anni dopo, le elezioni amministrative del 1975 e 1976 videro una forte avanzata dal PCI[3], che condusse alla formazione di amministrazioni di sinistra in molte città; tra le altre, Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Genova, Perugia Ancona, Roma, Napoli, Cagliari. Giunte regionali di sinistra si formavano, oltre che in Emilia-Romagna, Liguria ed Umbria, anche in Piemonte, Liguria, Lazio, e nel 45% delle province. Un grande entusiasmo riempì di speranza il “popolo di sinistra”, cui apparteneva gran parte del mondo degli urbanisti. E un grande campo di lavoro si apriva, dove l’impegno tecnico e culturale si sposava a un impegno politico volto a giocare un ruolo – sia pure piccolo – a partire dalle trincee delle istituzioni democratiche. Un numero consistente di giovani esperti formati nei corsi quinquennali di pianificazione di queste facoltà ha alimentato gli uffici dei comuni, province e regioni, soprattutto nell’Italia del nord e del centro, dove la gestione urbanistica era più consolidata. Numerosi urbanisti assunsero cariche elettive di rilievo in molte città e regioni.
Riforme e controriforme
Il processo di riforme del governo del territorio avviato dall’inizio degli anni Sessanta proseguì soprattutto dopo il biennio 1968-1969. In quegli anni ci furono, insieme, l’esplosione del movimento studentesco e il divampare di numerose proteste sindacali. Queste ultime ebbero il momento più alto in un grande sciopero generale nazionale. Per la prima volta in Italia l’argomento dello sciopero non era negli aspetti salariali o normativi del rapporto di lavoro, ma sulle questioni della casa, dei trasporti, degli squilibri territoriali e dei servizi: questioni che incidevano tutte sul salario reale e sulle condizioni di vita dei lavoratori.
Si aprì una vertenza dei sindacati, appoggiati da entrambi i partiti di sinistra, il comunista e il socialista, con il governo. I temi centrali furono quelli della casa e, in relazione a questo e ai servizi pubblici, del costo degli espropri. La trattativa tra sindacati e governo ottenne dei risultati positivi, nell’ambito di una dialettica che vedeva succedersi le minacce di sciopero e le crisi di governo[4]. Il tentativo di approdare a riforme serie del governo del territorio aveva in quegli anni basi più solide che nel passato. Scrive in proposito Paul Ginsborg:
“Negli anni 1969-71, le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centro-sinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva, ora, del movimento operaio. Come si è già visto (cfr. p. 43) la parte più ambiziosa della strategia sindacale mirava a usare il diffuso attivismo di questi anni come leva per ottenere riforme fondamentali. I riformisti, dunque, non erano più un gruppo di politici relativamente isolati. Erano invece appoggiati da un forte movimento di massa” (Ginsborg, 1989, p. 445)
Ma alle rivendicazioni sociali delle organizzazioni del movimento operaio rispondevano tentativi occulti di arrestare il processo di riforme con metodi violenti. Scrive Vezio De Lucia a proposito dello sciopero generale del 1969:
“L’indiscutibile successo dello sciopero contribuisce certo ad accelerare le manovre dei poteri più o meno occulti che governano la strategia della tensione. E infatti le bombe di Milano e Roma dei 12 dicembre distraggono l’opinione pubblica dal problema della casa, ma solo per qualche settimana. I primi mesi del 1970 sono di nuovo punteggiati da numerosi dibattiti e i sindacati riprendono l’iniziativa (De Lucia, 2006IV, p. 75)
Con la complicità dei servizi segreti (i “servizi deviati”) gli attentati dinamitardi furono organizzati anche negli anni successivi in numerose città, alternandosi con le azioni dimostrative del terrorismo di sinistra[5]. Essi provocarono morti e feriti, e soprattutto l’impaurirsi dell’opinione pubblica e il rafforzarsi nella maggioranza parlamentare delle forz che volevano interrompere il cammino delle riforme.
L’intero corso degli anni Settanta può essere definito come il conflitto tra i tentativi di riforma e quelli di controriforma. Ma negli anni Ottanta tutto cambiò. Non in meglio.
3. DENTRO UN NUOVO REGIME
La svolta
Siamo oggi in un mondo molto lontano da quello nel quale il mestiere del planner era socialmente importante, e la formazione universitaria aveva un obiettivo chiaro e definito cui orientarsi. Non c’è una interpretazione largamente condivisa del perché questo è accaduto, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Credo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, si possa collocare nella metà degli anni Ottanta il momento principale della svolta., perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.
Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi, il quale mantenne il suo ruolo fino all'aprile del 1987. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. In Italia un decreto del governo Craxi (14 febbraio 1984) aveva aperto l’attacco alla scala mobile: cioè al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto. Il PCI promosse, nel 1985, un referendum per difenderlo, ma non raggiunse la maggioranza dei votii[6]. Nello stesso anno si svolgono in Italia le elezioni amministrative: cadono quasi tutte le maggioranze di sinistra che erano al governo nelle grandi città.
Sono gli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi valori divengono vincenti nel pensiero comune.
“Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale. A Tokio, il 4 maggio 1986, Craxi riesce ad ottenere l'ammissione dell'Italia in quello che era allora il Club dei Cinque, organismo di concertazione della politica economica formato dalle maggiori potenze industriali del pianeta” (Della Seta and Salzano, 1993).
Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva Paul Ginsborg
“crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti” (Ginsborg, 2007).
La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali di affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato.
Berlusconi e il berlusconismo
L’ideologia di cui Craxi fu il veicolo politico ha trovato la sua più piena e devastante espressione nel nuovo premier italiano, Silvio Berlusconi. Spiace che il discredito internazionale che avvolge il nostro premier sia causato più dagli incredibili aspetti del suo comportamento personale che dalla conoscenza della reale sostanza della sua politica.
Dire soltanto che quella di Berlusconi è una politica di classe significherebbe nobilitarla. In realtà essa esprime al massimo grado la volontà proterva di far trionfare gli interessi personali e quelli dei gruppi di potere che è riuscito ad aggregare attorno a sé contro tutti gli altri, calpestando gli strumenti della democrazia (dalla legalità alle procedure di garanzia degli interessi pubblici, dalla libertà d’informazione alla pianificazione del territorio, dal rispetto delle minoranze a quello della verità dei fatti.
Per raggiungere il consenso popolare, il premier ha saputo utilizzare i vizi nascosti nell’ animus dell’italiano medio: la difesa del privatismo individuale e familiare contro la comunità più larga e lo stato, la diffidenza nei confronti delle autorità costituite, la forte propensione a non pagare le tasse e ad eludere o evadere dagli obblighi sociali. Vizi che hanno probabilmente fondamenti anche nella storia del paese, ma che il grande potere mediatico di Berlusconi ha sapientemente provveduto a legittimare fino a renderli pensiero comune.
In ciò Berlusconi è stato indubbiamente aiutato dall’appannarsi della coscienza critica nelle altre componenti culturali e politiche. Non c’è oggi, in Italia, un’alternativa credibile sul terreno politico, e sullo stesso piano della cultura allo sgretolamento delle ideologie della sinistra ha corrisposto una pesantissima azione di corruzione nei confronti di larghe porzioni dell’intellettualità. Accanto a Berlusconi si è sviluppata una nuvola di quasi-berlusconismo, o di “berlusconismo ben temperato“, che condivide alcuni pilastri della sua ideologia. La stessa sinistra ancora comunista aveva del resto cominciato, fin dagli anni Ottanta, a utilizzare slogan come “meno stato e più mercato”, “privato è bello”, “via i lacci e lacciuoli che ostacolano la libertà d’iniziativa economica”. Anche nella sinistra (o almeno nella sua area maggioritaria) si era privilegiata di fatto la governabilità alla democrazia.
L’urbanistica del berlusconismo
Tre sono i binari sui quali corre il treno del berlusconismo urbanistico: programma di grandi opere infrastrutturali, spesso prive di qualsiasi utilità, a volte pericolose, e comunque non prioritarie; libertà per i privati di costruire ovunque infrangendo ogni regola; privatizzazione dei patrimoni pubblici territoriali.
Tra le Grandi opere vorrei segnalare:
- il Ponte sullo stretto di Messina, che tra l’altro sorge in un sito soggetto ad altissimo rischio sismico, e che è alternativo al rafforzamento dei traffici marittimi (la Sicilia come cul de sac del sistema traportistico italiano invece che come cerniera tra l’Europa e la sponda sud del Mediterraneo);
- il MoSE, un gigantesco e pericoloso sistema di opere fisse e dighe mobili tra la Laguna di Venezia e il mare, già in corso di realizzazione benché non sia stato sperimentato e non siano neanche redatti i progetti esecutivi delle componenti più delicate e incerte;
- la realizzazione di una serie di autostrade e altre arterie stradali, soprattutto al nord, realizzate mistificando la strategia europea dei “corridoi”, che dovrebbero avere come asse linee ferroviarie e trasporti acquei, e sono ridotti in Italia a grovigli di.
Oltre a quelle decise dal governo, anche ogni comune cerca di inventare (e pagare) una Grande opera, affidata a una firma dell’architettura internazionale, che renda più dfamosa la sua città rispetto alle concorrenti. E queste grandi opere (anche quelle utili, come gli ospadali) sono realizzate con il sistema del project financing all’italiana, che affida la gestione delle opere agli stessi finanziatori/realizzatori, scaricando così i debiti contratti oggi sulle generazioni futuri.
A proposito della liberalizzazione dell’attività edilizia dalle regole della pianificazione voglio ricordare il cosiddetto “piano casa” di Berlusconi. Con esso si utilizza l’alibi della domanda di case in affitto a prezzi ragionevole (in Italia da dieci anni non c’è una politica per la residenza sociale) non per realizzare edilizia sociale, ma per disporre che ogni proprietario possa ampliare il proprio edificio (residenza, capannone industriale, albergo o centro commerciale che sia) in deroga alle regole della pianificazione e della tutela del paesaggio.
Una nuova ondata di cemento minaccia la penisola, ancora peggiore di quella che devastò città e coste negli anni Cinquanta. Le poche regioni ragionevoli sono riuscite a introdurre (basandosi sulle loro competenze costituzionali) dei limitati miglioramenti, ma le regioni dominate dalla destra stanno peggiorando ancora, con le loro leggi, l’impostazione di Berlusconi.
Infine, la spinta alla valorizzazione economica, all’alienazione del patrimonio pubblico, alla trasformazione del cittadino in cliente, congiunte all’appello alla sicurezza contro i diversi, stanno producendo la riduzione degli spazi pubblici e la loro privatizzazione.
Sta scomparendo dalle legislazioni nazionale e regionali l’obbligo di provvedere a realizzare servizi sociali e attrezzature pubbliche insieme alle costruzioni. Sempre più forti sono le spinte verso privatizzazione delle istituzioni collettive pubbliche (dalla scuola alla sanità). Nella stessa gestione dell’università prevalgono sempre più concezioni e pratiche aziendalistiche.
Conseguenze della strategia berlusconiana
Nel quadro di questa strategia il ruolo del planner diventa sempre più marginale: quasi scompare al cospetto del ruolo delle Star dell’architettura, cui spesso i sindaci affidano le strategie urbane (e le grandi realizzazioni celebrative). La pianificazione territoriale e urbanistica viene emarginata: è concepita come un ostacolo agli interessi di “fare affari” con le trasformazioni territoriali, alla discrezionalità del potere politico e amministrativo, alla miopia che caratterizza le nostre attuali classi dirigenti, alle improvvisazioni dell’oggettistica degli Architetti.
I saperi accademici, che governano i processi formativi, si rivelano incapaci di offrire agli studenti prospettive diverse, e perfino di stimolarli ad esercitare un pensiero critico. Del resto, gran parte dei nostri professori sono anche professionisti. Una buona parte dei loro introiti viene dai compensi che percepiscono dalle amministrazioni pubbliche e dalle aziende private, e questo incide sui loro comportamenti. Raramente nelle università, e nelle stesse istituzioni culturali come l’INU, si discute criticamente della politica urbanistica di Berlusconi. Nella mia università, nella recente elezione del rettore, ha avuto un inaspettato successo un candidato che denunciava il fatto che nella passata gestione non si era mai aperto un dibattito critico sui peggiori provvedimenti del goveno, come il “piano casa” di Berlusconi, il MoSE o le autostrade.
Ma l’aggressione agli spazi pubblici e la devastazione dei paesaggi e dell’ambiente, provocati dalle grandi opere e dall’ondata di cemento, insieme all’irrisolta questione della casa, stanno suscitando molte reazioni di gruppi di cittadini, comitati, associazioni. Interessanti episodi di protesta e resistenza si sono manifestati soprattutto in Toscana, in Lombardia, in Piemonte, nel Veneto, In queste regioni il movimento si sta organizzando in “reti” che, spesso partendo da logiche Nimby, tentano di contrastare la strategia della destra a livelli più alti e cominciano a svolgere un ruolo politico.
Quale formazione per una nuova speranza
In che direzione muoversi in una situazione quale quella che si è determinata in Italia? In particolare, che ruolo può svolgere la formazione per contribuire a uscire dalla situazione attuale? Le risposte sono già implicite nell’analisi che ho tentato di fare. Sarò perciò molto schematico.
Bisogna prendere atto che la politica dei partiti è oggi del tutto inefficace: una parte consistente dei partiti (sostanzialmente tutti quelli rappresentati in Parlamento) sono subalterni rispetto alla visione della destra e condividono, più o meno pienamente e consapevolmente, il “pensiero unico”. I gruppi residui della grande sinistra del PCI non riescono a trovare una convergenza tra loro, e neppure con i gruppi che esprimono posizioni critiche nei confronti del neoliberalismo (verdi, ecologisti ecc.) o dell’immoralità pubblica e privata di Berlusconi (parti del mondo cattolico e di quello liberale).
Bisogna ugualmente prendere atto che la destra ha il consenso di una parte molto ampia dell’elettorato[7]. Il lavoro fatto nei decenni scorsi con i mass media (soprattutto con la televisione e la pubblicità) ha esaltato i vizi e depresso le virtù di grandissima parte della popolazione italiana e creato un pensiero comune che si accontenta delle prospettive indicate dal Potere. Neppure la crisi economica ha modificato questo orientamento, e forse lo ha invece accentuato.
Bisogna perciò in primo luogo comprendere che il lavoro da fare è di lunga lena, che deve proporsi dal modificare la testa degli italiani e far nascere in loro la capacità di guardare criticamente la realtà. Bisogna convincerli – a partire dalle generazioni più giovani – che il mondo così non va bene, che le tendenze sono preoccupanti, ma che la storia non è ancora scritta e spetta a loro farlo.
Bisogna ugualmente comprendere che l’unica realtà sociale che mostra dinamismo e capacità di opposizione è costituita dai movimenti di protesta per le condizioni della città, del territorio, dell’ambiente, per una condizione sempre più precaria e incerta del lavoro, per la privatizzazione del processo formativo e al degrado della scuola pubblica.
Bisogna infine comprendere che i movimenti rimangono sterili se non trovano delle ragioni comuni, se non assumono consapevolezza dei caratteri generali del disagio che vivono, se non diventano capaci di generare una nuova politica. Questa non può nascere che da uno sforzo di analisi e di organizzazione nel quale i saperi esperti si mescolino a quelli che nascono dalla società.
La formazione dell’urbanista deve perciò essere finalizzata a far assumere (o riassumere) all’urbanista due nuove connotazioni:
1. la capacità di analizzare il trend culturale, sociale e politico, di criticarlo nel suo immediato e nelle sue prospettiva, di diffondere la sua critica negli strati che subiscono il potere dominante;
2. la capacità di aiutare, con il loro sapere e con la loro umiltà, i movimenti che tendono a contrastare la tendenza in atto e a costruire un’alternativa.
Questa non può nascere da chi ha un’esperienza limitata alla propria esperienza “locale”, ma ha bisogno dello sguardo largo dell’intellettuale: sempre che questo sia realmente tale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino, Einaudi, 1980 (tit.orig.:1947)
[1] Legge 765/1967. La legge prevedeva tra l’altro: la generalizzazione a tutti i comuni dell’obbligo di formare un Piano regolatore generale; l’obbligo di prevedere nei piani urbanistici determinate dotazioni minime di spazi pubblici o d’uso pubblico (standard urbanistici); una disciplina dei piani di lottizzazione privati, che garantissero la presenza di dotazioni urbanistiche adeguate.
[2]Urbanistica era la rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica, un’associazione che raggruppava gli urbanisti italiani. Astengo la diresse dal 1952 al 1978 e ne fece uno strumento importantissimo eper la formazione della cultura urbanistica. I fascicoli della rivista, dotati di un ricchissimo apparato di immagini, dedicava ampi dossier alla documentazione di importanti eventi o luoghi concernenti soprattutto progetti di piani urbanistici e territorialio, ma non mancava l’attenzione ad altri aspetti del planning e degli studi urbani. Era ben conoscita negli ambienti specializzati anche all’estero; mi è capitato di vederne una copia, negli anni Sessanta, sul tavolo dell’ufficio tecnico di Costanza, in Romania.
[3] Il dato elettoralmente più significativo delle elezioni amministrative fu la crescita del Pci, che passò dal 27,9% delle precedenti elezioni regionali al 33,4, guadagnando 5,5 punti in percentuale, mentre anche il Psi cresceva dell’1,6% e la Dc perdeva il 2,5%.
[4] Con la legge 22 ottobre 1971, n. 865 si ottennero un rafforzamento della legge 167/1962, che sollecitava i comuni (obbligandone alcuni) a realizzare quartieri di edilizia residenziale pubblica e privata convenzionata, dotata di tutti i necessari servizi, forte riduzione delle indennità d’esproprio, che assumevano come valore di riferimento quello legato all’utilizzazione agricola. Leggi successive disposero il controllo dei canoni di locazione del patrimonio edilizio privato (legge 29 luglio 1978 n. 392) e la programmazione decennale dell’intervento finanziario dello stato per l’edilizia residenziale, comprendente la possibilità di realizzare interventi per il recupero dell’edilizia esistente (legge 5 agosto 1978 n. 457). Cfr Edoardo Salzano, Fondamenti Di Urbanistica. La Storia E La Norma, IV ed., Grandi Opere (Roma-Bari: Editori Laterza, 2007IV), 171-85.
[5]Gli attentati principali avvennero nelle seguenti date: 12 dicembre 1969, Milano, Piazza Fontana; 8 agosto 1969, otto città; 22 luglio 1970, Gioia Tauro, deragliamento del treno Nord-Sud; 31 maggio 1972, Peteano (Gorizia); 17 maggio 1973, Milano, Questura; 28 maggio 1974, Brescia, Piazza della Loggia; 4 agosto 1974, treno Italicus; 16 marzo 1978, Roma, Via Fani, rapimento del premier Aldo Moro; 2 agosto 1980, Bologna, stazione ferroviaria. La maggior parte di essi sono attribuibili a organizzazioni legate alla destra. Come si vede, particolarmente intenso fu il periodo 1969-1972, mentre si discutevano le leggi di riforma.
[6] A favore dell’abrogazione del decreto Craxi il Pci, il Psiup e i Verdi, che raggiunsero il 46%; contrari il Psi, la Dc, il Pri, il Psdi e i liberali. Si scoprirà più tardi che la campagna referendaria era stata pagata da Craxi con i soldi delle tangenti. Pochi anni dopo la scala mobile viene completamente abrogata.
[7] Il consenso reale è molto minore di quanto la destra voglia far credere. Si basa largamente su una legge elettorale truffaldina (il parlamentare che le ha dato il suo nome l’ha definita “una porcata”), e su un astensionismo molto più ampio del solito, generato da una sfiducia generale per la politica e in particolare per l’impotenza della sinistra.
Eduardo Salzano è un urbanista molto noto e non solo in Italia. Un urbanista militante, nel senso che ha sempre coniugato la teoria, l’attività di docente alla Università IUAV di Venezia e di saggista, con le pratiche dell’impegno anche politico. Un suo libro, «Fondamenti di urbanistica» ristampato di recente da Laterza, è un raro esempio di chiarezza su metodi è obiettivi della pianificazione. Oggi tra le altre cose, cura un sito (eddyburg.it) che si occupa di governo del territorio. Negli ultimi anni ha dedicato molta attenzione alla Sardegna che considera uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo e sta seguendo con grande interesse il dibattito in corso sulla tutela delle sue aree litoranee. La sua posizione su questi argomenti è molto netta.
- Il ritardo nel dibattito ha pesato: i partiti, anche quelli di sinistra, arrivano tardi a riconoscere l’importanza della questione ambientale. Penso al discorso di Berlinguer sull’austerità del ‘77, che non aveva determinato conseguenze, come se mancasse il coraggio di entrare nel merito. O alla linea di prudente attesa del movimento sindacale, che poteva constatare che al consumo di territorio non corrispondeva una contropartita occupazionale accettabile.
«Mi sembra che si registrino due carenze gravi. Da una parte, un forte ritardo a dare il giusto peso alla questione ambientale. Questa viene intesa in un senso molto riduttivo, che porta a risolvere il problema a furia di maquillages e di mitigazioni, mentre quello che è irrimediabilmente in crisi è il modello di sviluppo basato sulla crescita quantitativa della produzione di merci. Non posso non riferirmi alle analisi di Claudio Napoleoni e di Franco Rodano, che hanno trovato una intelligente eco politica nella proposta dell’austerità di Enrico Berlinguer. Chi esprime oggi molto lucidamente il paradosso della crescita è Carla Ravaioli, per esempio in “Un altro mondo è necessario”, pubblicato da Editori Riuniti nel 2002.
Ma dall’altra parte, c’è un vizio di fondo della cultura italiana, che si riflette anche nelle posizioni e nelle sensibilità delle élites culturali. Un vizio che definirei come l’ignoranza del territorio. L’interazione tra azione dell’uomo e trasformazioni del territorio, e le ricadute che queste hanno sul destino vicino e futuro della società, è del tutto estraneo alla cultura corrente, anche a quella “alta”».
- Questi indugi hanno pesato anche in Sardegna: molti paesaggi costieri sono stati cancellati e i turisti più attenti cominciano ad accorgersene. Si è depauperata la materia prima, e non si avvera il meraviglioso programma: molto volume edificato uguale ricchezza per tutti. Crescono gli abitanti di alcuni centri litoranei e si prefigura un vuoto al centro dell’isola per lo spopolamento di paesi.
«I nostri territori sono pieni di ricchezze inaudite. Millenni di storia hanno lasciato il loro deposito, e hanno costruito un patrimonio di bellezza inestimabile: ancora viva, ancora presente nella vita, nei sapori e negli odori, nelle parole e nelle musiche, nei mestieri e nei saperi dei nostri popoli. Ci sono tesori di qualità nascoste nelle nostre terre, forse nelle colline e nei monti ancora più che nelle coste. Questa è la risorsa che dobbiamo utilizzare: modelli nuovi di turismo (anzi, di conoscenza, ricreazione, godimento), non più su quelli basati sullo sfruttamento rapace e intensivo di beni che sono disponibili anche altrove (sole, sabbia, acqua). Milioni di persone oggi, miliardi nei prossimi decenni, chiedono qualità, conoscenza di cose diverse, comprensione di ritmi di vita diversi da quelli affannosi delle omologate metropoli. È in vista di questi nuovi, grandi flussi che occorre lavorare; è per essi che occorre in primo luogo individuare, riconoscere e tutelare, e poi rendere disponibili a una fruizione intelligente, le ricchezze dei nostri paesaggi. C’è indubbiamente un grande ritardo nella comprensione di questa necessità, e dei grandi orizzonti che essa apre».
- Forse qui in Sardegna la politica ha in parte recuperato il ritardo e rimosso alcuni equivoci. C’è la vittoria di Soru.
«La Sardegna di Soru è un esempio di intelligenza e di volontà. È venuto un segnale forte. A me è sembrato di scorgervi una saggezza molto antica: l’orgoglio di chi rifiuta ogni colonizzazione, e sa vedere la miseria morale e la rapacità che si nascondono dietro gli orpelli della cosiddetta modernizzazione. Ma è una strada molto difficile, perché è contro una corrente che sembra travolgere tutto. Mi ha dato molta speranza, però, vedere quanto sia largo il consenso che la politica di tutela del paesaggio delle coste ha trovato nell’opinione pubblica, non solo nell’isola».
- Le case da vendere producono scarsi vantaggi. Eppure resiste il mito dell’imprenditore che viene dal mare. Nello sfondo ricompare ciclicamente la scena nel romanzo di Conrad, ogni volta che il villaggio costiero avvistava il brigantino e «cominciavano a picchiare i gong, a issare le bandiere, le ragazze si ornavano i capelli di fiori, la folla si allineava sulla riva...». Pesa la disoccupazione: una famiglia in gravi difficoltà vende anche le cose più belle che possiede...
«Mi ha colpito molto la lucidità di Soru nello svelare, all’assemblea dei sindaci del 6 settembre scorso, la truffa nascosta dietro quel mito. Come ho scritto nel presentarlo su eddyburg.it, ho apprezzato la consapevolezza del ruolo della Regione, la responsabilità di rappresentare anche le generazioni future, la fermezza nel sostenere che “il turismo non è vendere la terra”. Sono tre aspetti strettamente collegati tra loro. Governare è in primo luogo responsabilità: non è solo mediare tra gli interessi presenti. Responsabilità nei confronti di valori che non appartengono solo al “locale” né solo al “presente”. La bellezza che natura e storia hanno costruito non può essere degradata per gli interessi dei pochi proprietari attuali. Ciò che i millenni hanno creato deve essere tutelato nell’interesse delle generazioni future. Chi può rappresentarle, se non provvede un governo lungimirante?»
- Però in alcune aree della Sardegna e forte l’insofferenza nei confronti di vincoli a tutela del paesaggio o di altri beni culturali che vengono dallo Stato o dall’Europa: tarda a passare l’idea della solidarietà ecologica e generazionale.
«Sono meno pessimista di te. Grandi eventi (lo tsunami in Asia, la guerra nel Medio Oriente, le grandi epidemie moderne, l’inquinamento delle metropoli) fanno comprendere a gruppi sempre più vasti di cittadini che il destino delle civiltà umane è solidalmente legato, e che da soli non si resiste al male del mondo. Un giorno si comprenderà anche quali sono le cause, e allora si sarà maturi per sanarle. Io ho molta fiducia nell’uomo, soprattutto da quando ha scoperto (sta scoprendo) che è maschio e femmina».
- L’impressione è che le scelte più vicine al bene ambientale siano molto condizionate. Una disposizione che viene da lontano, è più rigorosa ma ha spesso la debolezza di non essere condivisa localmente. Non è una questione semplice: il principio di sussidiarietà è normalmente letto nel senso di garantire ad un’autorità inferiore una certa indipendenza rispetto ad un potere centrale.
«Ci sono cose che si vedono bene da vicino, e cose che si vedono bene da lontano. La sussidierietà rettamente intesa (all’europea, non alla padana) consiste proprio nel dire che a ciascun livello di governo spettano tutte, e solo, le decisioni su argomenti che solo a quel livello possono essere efficacemente governati. Ora mi sembra del tutto evidente che la tutela dell’ambiente naturale e storico e lo sviluppo di un turismo aperto alla prospettiva e chiuso alla rapina, sono questioni la cui responsabilità ricade sul livello regionale. Sostenere il contrario significa avere i paraocchi, e vedere solo il sacco di biada che si porta appeso al collo».
- La Regione dopo l’approvazione della legge di provvisoria salvaguardia deve redigere nuovi strumenti per sostituire i piani paesistici che due diverse sentenze hanno bocciato. Servirebbe indicare il metodo, anche considerando i tempi che non sono lunghi.
«A me sembra che lo sforzo da fare consiste nel tenere insieme due cose: una risposta tempestiva (nel tempo stabilito dalla legge) all’esigenza della salvaguardia, e l’avvio di un processo di conoscenza, governo e monitoraggio sistematico delle trasformazioni. Io partirei perciò da tre compiti pratici da svolgere in parallelo: 1) costituire un ufficio formato da personale prevalentemente interno, qualificato e soprattutto motivato (Roosvelt diceva che sarebbe un errore esiziale affidare la gestione di una riforma a personale che non ci crede); 2) utilizzare le conoscenze, e le proposte di tutela, che derivano dal lavoro fatto per la predisposizione degli atti bocciati dalla giustizia amministrativa, per una prima stesura di un piano; 3) mettere in piedi un sistema informativo territoriale capace di costruire e sistematicamente aggiornare il quadro conoscitivo essenziale per individuare, catalogare, riconoscere i dati del territorio, diffonderne la conoscenza, definire le regole per la sua conservazione / trasformazione».
- C’è la questione degli obiettivi. E non è cosa di poco conto se si guarda il dibattito di questi mesi: c’è chi ancora dà per scontata l’idea di trasformabilità, con qualche eccezione, delle aree che hanno fortunatamente resistito.
«A mio parere la questione va posta diversamente. Il nostro territorio è costituito da parti, elementi, componenti, ciascuna delle quali ha una sua individualità, delle qualità ancora riconoscibili, soggette dalla storia a trasformazioni le quali le hanno a volta arricchite a volta degradate. Si tratta di leggere questo processo e i suoi esiti. Si tratta di individuare insomma le regole che la storia (quella antica e quella recente) hanno seguito. Criticamente: nel senso di distinguere quelle che hanno dato risultati positivi, e di queste incoraggiare e promuovere la permanenza, cioè la conservazione attiva del paesaggio che hanno determinato. E di distinguere, per converso, le regole che hanno degradato e distrutto, e queste modificarle promuovendo trasformazioni che migliorino la qualità del paesaggio. Per fare un esempio, proprio il caso della villa di Soru che Pili ha presentato come uno scandalo. Lì Soru ha trasformato una brutta casa in stile tirolese in una tranquilla e sobria costruzione (senza aggiungere un metrocubo), e ha sostituito un bosco di essenze importate dall’Australia con piantagioni di alberi e arbusti tipici di quei paesaggi».
L’obiettivo
Parlare di città come bene comune significa riferirsi a un obiettivo molto ambizioso – se lo confrontiamo non alla letteratura e alla tradizione della nostra civiltà, ma alla realtà italiana di oggi.
Significa, in parole povere, porsi l’obiettivo di una città che risolva in tutti gli aspetti spaziali il rapporto tra l’uomo (anzi, la società) e l’ambiente (anzi, il territorio).
E che li risolva tenendo conto del modo in cui oggi si vive sul territorio, dell modo in cui oggi attribuiamo valore (valor d’uso) alle sue risorse naturali e storiche, in cui oggi siamo in grado di affrontare e risolvere i problemi nuovi e antichi che si pongono.
I problemi
Vediamo allora alcuni di questi problemi. Anzi, enunciamoli soltanto: la loro consistenza e il loro spessore sono certamente presenti all’attenzione di tutti i prersenti in questa sala.
Il problema dell’accesso a un alloggio collocato là dove la storia e il presente di ciascuno la richiede, a un prezzo commisurato alla sua capacità di spesa.
Il problema dell’accesso a tutti i servizi che è necessario, possibile ed economico soddisfare fuori dall’abitazione: l’apprendimento nelle varie fasi della vita, la salute, l’approvvigionamento, la ricreazione, lo sport, la soddisfazione dei bisogni appartenenti alla cultura personale di ciascuno.
Il problema dell’accesso al lavoro, a questa dimensione ineliminabile dell’uomo, ragione fondamentale della coesione sociale e strumento decisivo per la partecipazione alla conoscenza e alla trasformazione del mondo.
Il problema della mobilità, della possibilità di raggiungere da ogni luogo tutti i luoghi nei quali è stato conveniente ed economico ddisporre le sedi delle attività che rendono città un territorio.
Il problema della conservazione e ricostituzione delle risorse naturali necessarie alla vita delle generazioni poresenti e di quelle future, e quello della tutela e della fruizione delle risorse storiche, che costituiscono la base dell’identità di un territorio e la testimonianza della sua storia.
Il problema del governo della produzione, della riutilizzazione e dello smaltimento dei rifiuti inevitabilmente prodotti dalla vita sociale.
Mi sembra evidente che, posti in tal modo l’obiettivo e i problemi sia facile comprendere quali debbano essere sia il metodo da adoperare sia il livello al quale esso deve porsi.
Il metodo
Il metodo è quello della pianificazione territoriale e urbanistica. Essa ha infatti due caratteristiche che la rendono particolarmente idonea a questo scopo.
É sistemica, abbraccia in un unico sistema di conoscenze, di scelte, di azioni e di politiche i diversi aspetti della vita del territorio, cogliendo le connessioni e relazioni tra i diversi aspetti, settori, elementi del territorio e della sua organizzazione. Garntisce quindi coerenza alle decisioni di trasformazione del territorio, pur potendo essere strutturata in modo da garantire una notevole flessibilità.
É democratica, poiché (e finchè) garantisce la partecipazione dei cittadini alla formazione delle scelte e l’attribuzione di queste alle decisioni degli organi che esprimono la volontà popolare e la rappresentano.
Mi limito ad accennare che nell’ultima, orribile fase della nostra storia abbiamo assistito, e stiamo ancora assistendo, a un fortissimo degrado sia dell’una che dell’altra caratteristica della pianificazione.
Lo spezzettamento delle decisioni sul territorio in una miriade di decisioni settoriali, locali, legati al soggetto che volta per volta si vuole premiare o all’emergenza più o meno inventata. E il trasferimento delle decisioni a sedi sempre più ristrette (il sindaco o il presidente invece del consiglio).
Lo sguardo miope del breve periodo ha prevalso sulla visione di prospettiva, la governabilità ha prevalso sulla democrazia
Il livello
I problemi che ho elencato poc’anzi indicano tutti qual è il livello decisivo – assolutamente non trascurabile – della pianificazione che è necessario.
Ho parlato di problema della casa, dei servizi, della mobilità, del lavoro, delle riusorse naturali, dei beni culturali, dei rifiuti. É evidente che questi problemi, che cent’anni fa potevano essere grosso modo racchiusi entro i confini della città, oggi sono comprensibili e gestibili solo a livelli più ampi.
Più precisamente, a più livelli. Dobbiamo abituarci a ragionare in un’ottica multiscalare, la cui esigenza mi sembra oggi particolarmente accentuata. Il territorio è governabile se si tiene conto dei diversi livelli ai quali i problemi e le possibili soluzioni. In questo quadro il ruolo del livello provinciale mi sembra particolarmente rilevante.
In che modo – questo è il punto che vorrei adesso affrontare – si è giunti in Italia ad attribuire alla provincia la competenza della pianificazione d’area vasta? Il percorso non è stato breve, ma un presagio della soluzione cui si è pervenuti possiamo scorgerlo già alle origini. Ma procediamo con ordine.
Lo strano decennio
Della pianificazione d’area vasta si cominciò a parlare e a discutere, e a lavorare, in quello strano decennio del XX secolo (grosso modo dalla fine degli anni Venti all’inizio dei Quaranta) che separa tra loro la grande crisi esplosa a Wall Street e la Seconda guerra mondiale. E si cominciò a farlo non solo negli USA e in Gran Bretagna, ma anche in Italia. (Fabrizio Bottini, Sovracomunalità - Elementi del dibattito sulla pianificazione territoriale in Italia: 1925-1970, Franco Angeli, Milano)
Tra le esperienze italiane vorrei ricordare la bonifica delle Paludi pontine e la conseguente realizzazione di città e paesi, di canali, strade e ferrovie, di zone industriali e di parchi.
Certamente gli autori della legge urbanistica del 1942 avevano in mente questa esperienza, quando inventarono il Piano territoriale di coordinamento: un’esperienza nella quale si applicarono le tecniche e gli strumenti della “bonifica integrale” e quelle della pianificazione dell’urbanizzazione (numerose città, borghi, strade e ferrovie, zone industriali) di un’area vasta, che oggi coincide precisamente con l’area di una provincia.
Per molti anni non se ne parlò più. Alcuni generosi tentativi compiuti negli anni Cinquanta (il piano del canavese promosso da Adriano Olivetti, quello piemontese del gruppo coordinato da Giovanni Astengo, il manuale per la pianificazione regionale commissionato dal Ministero dei Llpp ad Astengo) restano isolati episodi. È solo nel corso degli anni Settanta che si tenta di riprendere, in modo generalizzato, la sperimentazione di una dimensione d’area vasta nella pianificazione.
Si ricomincia negli anni Settanta
Molte sono le soluzioni che furono tentate quando l’esigenza di pianificare il territorio riemerse, dopo gli anni devastatori della ricostruzione postbellica, abbandonata nelle mani dell’edilizia selvaggia che oggi si vorrebbe ripristinare, con il cosiddetto “piano casa” di Berlusconi, e in quelle della motorizzazione individuale,.
Superate le resistenze della DC si istituirono finalmente le regioni. Ci si rese conto subito che il livello regionale della pianificazione non è sufficiente: troppo ampia è la forbice tra le decisioni che la Regione può governare con efficacia, e quelle proprie del livello comunale. Occorre un “livello intermedio” della pianificazione.
Si sperimentarono varie strade. Quella che fu tentata più a lungo, è quella dei “comprensori”: enti elettivi di secondo grado (i membri dei consigli comprensoriali vengono eletti dai consiglieri comunali), oppure emanazione delle regioni, oppure costituiti a mezzadria tra regione e comuni. Leggi regionali (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto), a volte coraggiose, precisano caratteristiche, poteri, competenze dei comprensori. Si tentò, dorò pochi anni. L’esperienza dei comprensori fallì.
Il fallimento dei comprensori
e la nascita della pianificazione provinciale
Perché il fallimento? Una ragione sostanziale fu individuata nel fatto che i comprensori non avevano poteri propri. I soggetti che componevano gli organi decisionali non erano investiti direttamente dall’elettorato, ma rappresentavano in primo luogo il comune, o la regione, che li aveva eletti come “suoi” rappresentanti nei governi comprensoriali.
Poiché gli interessi dei diversi livelli possono essere, e spesso sono, in contraddizione tra loro, i contrasti interni provocavano la paralisi di ogni decisione.
Fu negli anni Settanta che emerse la posizione più ragionevole, un vero e proprio principio della pianificazione: a ogni livello di pianificazione deve corrispondere un livello di governo autorevole, e perciò eletto direttamente dai cittadini.
Fu così che maturò, negli anni successivi, la proposta di attribuire potere di pianificazione del “livello intermedio” alle province. Ricordo un articolo di Vezio De Lucia su Urbanistica informazioni, nel quale emerse lo slogan che avevamo coniato: “il recupero delle istituzioni esistenti”. Perchè sforzarsi di inventare un nuovo organismo quando c’è già la Provincia, prevista dalla Costituzione come una delle istiituuzioni della Repubblica?
Nate sulla scia dell’ordinamento statuale napoleonico come emanazione dei poteri del governo nazionale, trasformate in organi elettivi e articolazioni dell’ordinamento repubblicano con la Costituzione del 1948, le province avevano poteri debolissimi: caccia e pesca, assistenza psichiatrica, scuole superiori, strade di livello intermedio, e pochissimo altro.
Dopo un lungo dibattito, è nel 1990 che, con la legge 142, più tardi riformulata nella 265 del 1999, si assegna alle province il ruolo e le competenze in merito alla pianificazione d’area vasta.
Due domande intrecciate
Oggi sembra esserci un largo consenso sulla proposta di abolire la provincia. Perché vogliono abolire questo istituto? La domanda si intreccia con un’altra: perché vogliono abolire la pianificazione?
La risposta è politica. Anzi, è ideologica. Ha prevalso, a destra ma anche sinistra, quella ideologia che ha come suoi slogan “meno stato e più mercato”, “privato è bello”, “basta lacci e lacciuoli”, “ridurre i controlli che fanno perdere tempo”, “individuale significa libertà e collettivo significa comunismo”. Ha prevalso un modo di fare politica che privilegia il presente e s’infischia del futuro, che ambisce al massimo di discrezionalità nelle scelte per poter premiare volta per volta questo o quest’altrol soggetto, che ha sostituito la miopia alla lungimiranza e ha sacrificato la democrazia alla governabilità.
Al fondo, questa ideologia ha separato la libertà dall’equità, quindi non ci si domanda più “libertà per chi” e si è relegato l’equità nell’armadio degli scarti.
Con la consapevolezza che queto è, in Italia, il quadro entro ilk quale agiamo, e che quindi nuotiamo controcorrente, dobbiamo continuare – come fate fruttuosamente a Lodi – a praticare la pianificazione territoriale. Poniamoci allora alcune questioni sulle pratiche che discendono da questo metodo applicato al territorio, e all’istituto, dellla provincia.
Il principio di sussidiarietà
La prima domanda è questa: come distinguere le competenze della pianificazione provinciale da quelle del comune e della regione? Il principio al quale ci si può riferire è quello “di sussidiarietà”. Poiché se ne parla spesso a sproposito, vediamolo nella sua interpretazione più autorevole. Esso è stato definito compiutamente nell’articolo 3b degli Accordi di Mastricht, che regolano i rapporti tra l’Unione europea e gli stati membri, e poi ripreso nei successivi testi regolamentari:
“Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.
Sulla base di questo principio, sono quindi di competenza della pianificazione provinciale quegli interventi, e quelle azioni, che “a causa della loro scala o dei loro effetti” possono essere compresi e governati meglio al livello territoriale della Provincia che a quello del singolo comune.
È chiaro quindi che “appartengono” alla pianificazione d’area vasta provinciale due grandi campi di decisione.
Da un lato, quelli che attengono ai sistemi ambientali: alla tutela e all’uso delle risorse naturali e culturali, al paesaggio, alla tutela del suolo e dell’acqua e agli interventi volti alla prevenzione dei rischi. Quindi il contrasto allo sprawl e al consumo di suolo, Quindi l’organizzazione a rete delle aree urbane.
E perciò, dall’altro lato, quelli che riguardano la grande attrezzatura del territorio visto come sistema insediativo: come insieme di infrastrutture, attrezzature, servizi, centri i quali sono funzionali non alla vita di questa o quella unità di vicinato, di questo o quel comune, ma del sistema insediativo provinciale nel suo complesso.
Provincia e comuni
Il rapporto tra provincia e comuni pone comunque problemi complessi e impegnativi, soprattutto in situazioni, come quella attuale della Lombardia (e di molte altre regioni) in cui, a differenza che in altri paesi europei, la pianificazione provinciale non ha efficacia diretta, ma agisce esclusivamente attraverso i comuni.
Bisogna che la provincia faccia il massimo sforzo per coniugare autorità e consenso: per esercitare cioè un’egemonia, in senso gramsciano: cioè un potere nel quale l’autorità nasca dal consenso alle idee e alle proposte che la provincia è in grado di fornire.
L’impresa è realmente molto difficile. Il Ptcp è necessariamente portatore di una “visione d’area vasta” dei problemi del territorio e del suo futuro. Questa visione può configgere con quella di questo o di quell’altro comune. Non c’è da stupirsi di questo: il territorio è il luogo dei conflitti, e non ci sono ricette da adoperare per risolverli.
Una buona carta che la provincia puà giocare è quella del servizio che può offrire ai comuni.
Una provincia ben attrezzata è una miniera di informazioni utili, può su questa base fornire scenari alternativi che illustrano vantaggi e svantaggi delle diverse soluzioni proponibili per ciascuno dei comuni e delle realtà sociali che nei comuni esistono.
Una provincia è più forte d’un singolo comune nel confronto con la regione e con lo stato, e in generale con i poteri sovracomunali. Anche questa è una potenzialità che consente di svolgere un ruolo importante per i comuni.
Sono comunque sempre più convinto che occorre concepire l’attività di pianificazione anche come un forte contributo al processo di apprendimento, da parte di tutti i soggetti (istituzioni e cittadini) che partecipano alla pianificazione. La pianificazione deve diventare strumento della crescita della consapevolezza critica da parte di tutti.
Eppure, il problema della precettività delle scelte della pianificazione deve restare un obiettivo cui tendere. La responsabilità di ciascun livello di governo deve conferire a ciascuno di essi il potere di decidere, in ultima istanza, se il consenso unanime non si riesce a costruire. Altrimenti,, la tendenza di sostituire lì espressione gerarchica del potere a quella democratica diventa invincibile.
Quattro impegni
Credo che siamo tutti consapevoli che lavorare nella direzione cui questo coinvegno si riferisce, e di cui ho provato a sviluppare alcuni aspetti, è del tutto controcorrente. É controcorrente anche solo affrontare in termini positivi temo come la pianificazione e la democrazia, e il loro necessario intreccio.
Se è così, diventa decisivo porsi quattro obiettivi per la nostra azione, assumere quattro impegni per l’attività di ciascuno di noi.
Bisogna resistere. La difesa degli spazi pubblici deve essere al centro della nostra attenzione. E parlo di spazi pubblici in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme.
Bisogna faar crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali.
Bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.
E bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più sapremo allargare il campo di quanti ragionano insieme a noi, occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.
LA QUALITÀ DELLA CITTÀ PUBBLICA
Ringrazio molto Concetta Fallanca e Flavia Martinelli, che mi hanno invitato a questo incontro. E ringrazio Enrico Costa per le sue parole.
Sono particolarmente contento quando riesco a venire qui, nel Mezzogiorno. Anch’io sono di questa parti, sono napoletano anche se da molti anni vivo altrove. Delle molte patrie che ciascuno di noi ha, mi sento ancora molto legato alla mia patria meridionale. Ma rifuggirò di parlare in dialetto, di rivestire le mie considerazioni con un’ottica meridionale. Credo che uno degli sforzi che dobbiamo fare, in queste regioni “basse” della penisola, è quello di pensare fuori dai nostri luoghi, per poter connettere i nostri luoghi al resto del mondo. Guai a isolarci, a chiuderci nella nostra “specificità”, nel nostro idioma.
Il mio intervento, che temo non sarà breve, sarà costituito da una premessa, da due tempi d’una storia e da una conclusione.
LA PREMESSA.
Vorrei partire da una frase molto bella di Francesco Indovina. In un recente incontro pubblico (il testo è in eddyburg) ha detto: “La città è bella perché è buona”. Questa frase è la sintesi di un pensiero che voglio rapidamente sviluppare.
“La città è bella perché è buona”
La qualità di una città (sorvolo per un momento sul termine “pubblica”) sta nel fatto che essa è in primo luogo una città giusta, appropriata, buona, in rapporto a tre elementi: il luogo, il governo, la società (Indovina dice “i cittadini”).
La qualità del luogo è data dalla collaborazione della natura e della storia. Essa deve in primo luogo essere compresa, negli elementi che la caratterizzano e la rfendono meritevole d’essere conservata. Nostro compito deve essere quella di custodirla, mantenerla, se necessario restaurarla, se possibile migliorarla. E’ il prodotto dei nostri avi, dobbiamo lasciarla più ricca ai nostri posteri. “La bontà – per tornare alle parole di Indovina - è la buona cura dei luoghi, loro arricchimento, l’attenzione alla trasformazione
La qualità del governo, la bontà del governo, è racchiusa in alcune parole: il primato del’interesse generale, la capacità di ascolto, l’attenzione al conflitto non considerato come un fastidio, l’equità, la solidarietà, l’accoglienza, “la dilatazione dei servizi collettivi quali strumenti per rendere operativi i diritti di cittadinanza (senza i servizi sono parole vuote)”, la capacità di disegnare un futuro. Per il governo buono “il problema è la povertà non i poveri; è la clandestinità non i clandestini; è la prevenzione non la repressione; sono problema i motivi di disagio, non i giovani. La bontà di un governo si misura dal rifiuto di vivere alla giornata, e dalla capacità di coniugare intervento immediato e prospettiva futura”.
Se parliamo di qualità della società, dobbiamo innanzitutto ricordare che “i cittadini hanno il governo che si meritano ma anche i governi hanno i cittadini che si meritano”. Così, ad esempio, se chi governa non raccoglie i rifiuti in modi ragionevoli ed efficaci non può pretendere che non vengano essi vengano gettati per strada.
Città pubblica
Qualità della città pubblica. Ragioniamo su questo attributo: "pubblica". Per me questo attributo significa due cose.
Significa che la città è, nel suo insieme, un bene comune. Quindi è necessaria una regìa pubblica, un governo pubblico per la costruzione, la trasformazione, il controllo del suo insieme. E’, se volete, il principio dal quale nasce – come componente tecnica – la pianificazione: il sistema di regole nell’a,mbito delle quali ciascun operatore svolge la sua azione.
E significa che nella città hanno un peso determinante gli spazi pubblici. Nella mia interpretazione della città gli spazi pubblici hanno un peso rilevantissimo, per una molteplicità di ragioni:
1. perché la città nella storia si forma, si organizza, acquista la propria identità e sviluppa la propria forza negli spazi pubblici;
2. perché negli spazi pubblici si manifesta pienamente, si realizza quel trascendimento dall’individuale al sociale, dal privato al pubblico, dall’intimo all’aperto, dal singolare al collettivo nel quale si realizza la società;
3. perché gli spazi pubblici costituiscono il luogo nel quale può manifestarsi la politica, cioè l’intervento del cittadino – meglio, dell’abitante – nel governo della città.
IL PRIMO TEMPO DELLA MIA STORIA
Non vi spaventate. Non vi porto troppo lontano, troppo indietro nel tempo. Solo al decennio che vide nascere, in Italia, lo strumento di misura degli standard urbanistici e lo slogan del diritto alla città.
Le trasformazioni del dopoguerra
E’ una storia che inizia, in Italia, alla fine degli anni 50, per una serie di eventi di diverso ordine:
1. la trasformazione economica: l’attività produttiva prevalente, che fino ad allora era l’agricoltura, diventa l’industria;
2. la trasformazione territoriale: avviene in pochi lustri una gigantesca migrazione - qualcuno l’ha definita “biblica” - dal sud al nord, dalle campagne alle città, dalle zone interne ai fondovalle e alle coste;
3. la trasformazione sociale: l’elemento più emblematico e significativo è l’ingresso delle donne entrano nel mercato del lavoro, cioè nel lavoro extracasalingo;
4. la trasformazione culturale: la sprovincializzazione della cultura italiana, e in particolare l’affermazione di una cultura urbanistica e d’una cultura economica moderne: il tema della riforma urbanistica e della programmazione economica
Alcune date
Ricordiamo alcune date significative:
1959, il Codice dell’urbanistica dell’INU;
1962, la Nota aggiuntiva al bilancio di Ugo La Malfa, individua negli squilibri territoriali una delle cause significative delle difficoltà del paese e afferma la necessità della programmazione economica;
1962, vede la luce la legge 167/1962, che permette di espropriare consistenti quantità di aree per realizzare interventi organici di edilizia abitativa integrata con servizi differenti tipologie abitative e di gestione;
1963, una violenta campagna di stampa induce la DC ad abbandonare il tentativo di riforma urbanistica, basato sull’esproprio generalizzato delle aree d’espansione e di ristrutturazione presentato dal ministro democristiano Fiorentino Sullo;
1963, un organismo di massa, l’UDI (Unione donne italiane), apre una grande campagna per una legge d’iniziativa popolare (vengono raccolte oltre 50mila firme) e affronta il tema dei servizi collettivi nella città e nei piani regolatori. Al convegno di lancio politico dell’iniziativa tre delle quattro relazioni generali sono svolte da tre urbanisti: Giovanni Astengo, Alberto Todros, Edoardo Detti;
1966, crolli ad Agrigento, alluvioni a Firenze e Venezia, rivelano i danni dell’assenza della pianificazione; si apre un grande dibattito nel Parlamento e nel paese;
1967, il Parlameno approva la “legge-ponte” urbanistica, che generalizza la pianificazione comunale, disciplina le lottizzazioni urbanistiche e introduce gli standard urbanistici;
1968, viene emanato il decreto legge che stabilisce gli standard urbanistici: il diritto per ogni abitante, esistente o futuro, di disporre di eterminate quantità di spazi pubblici, da prevedere e vncolare nei piani urbanistici;
1968, le sentenze n. 55 e n. 56 della Corte costituzionale che invalidano alcuni articoli della legge 1150/1942 e indicano al legislatore la strada possibile, e costituzionalmente corretta, d’una riforma del regime degli immobili;
1969, nel marzo la Fiat rende noto che assumerà 15mila operai nel Mezzogiorno, altrettante famiglie (circa 60mila persone) si trasferiranno a Torino aggravando la congestione:prezzi delle case, servizi, traffico; inizia una vertenza sindacale che, incrociandosi con le lotte studentesche, porterà dopo pochi mesi:
1969, 19 novembre, al grande sciopero generale nazionale per la casa, i servizi, i trasporti la pianificazione, il Mezzogiorno
Due processi paralleli
Da questo momento in Italia si svolgono due processi paralleli.
Da un lato, una forte e continua iniziativa dei sindacati dei lavoratori e dei partiti di sinistra per ottenere dal Governo e dal Parlamento leggi efficaci. “Nella battaglia per la riforma urbanistica il detonatore è la casa", scrive il responsabile del PCI per l’urbanistica, Alarico Carrassi. L’iniziativa conduce alla legge per la casa nel 1971 e si sviluppa poi fino alla legge Bucalossi che prevede, tra l’altro, il finanziamento degli standard urbanistici (1977), e alle leggi per il recupero abitativo (1978) e per l’equo canone per le locazioni nel mercato privato (1979).
Ha scritto uno storico: “Negli anni 1969-1971 le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano diventate più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centro-sinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio” (P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, p.445)
Vengono lanciate e raccolte parole d’ordine forti, capaci di mobilitare: “la casa come servizio sociale”, “diritto alla città”.
Dall’altro lato, si manifesta una forte reazione delle componenti più regressive dello schieramento conservatore: la strategia della tensione si esprime con le bombe di Brescia (Banca dell’agricoltura) e di Roma (BNL), con il tentativo di colpo di stato di Valerio Borghese, con l’azione dei servizi segreti e con le ricorrenti crisi di governo ad ogni minaccia di nuova iniziativa dei sindacati.
Risultati e insegnamenti
Riflettiamo sui risultati e sugli insegnamenti di questo periodo.
Sul piano legislativo e normativo segnalerei due grandi successi:
- l’affermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);
- l’apprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella edilizia sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dell’intervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero dell’edilizia esistente e degradata (1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).
Mi interessa, soprattutto in questa sede, sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale. Ciò ha dato alle masse (donne 1963, operai 1969) le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo. Due le condizioni che lo hanno consentito:
1. la capacità degli intellettuali di piegarsi ad ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e quella di trovare le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;
2. la capacità della società di costruire gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni
Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: l’applicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte degli urbanisti e delle istituzioni, che per esempio hanno applicagli standard urbanistici e la zonizzazione finalizzata al loro calcolo come criterio di progettazione qualitativa della città, anziché come mero strumento di verifica del rispetto quantitativo. Sia da parte della politica e della società, dove dobbiamo registrare la graduale perdita nella politica della capacità di azione riformatrice (non “riformista”) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi dell’uomo nell’individualismo, nell’intimismo, nel privato.
Il ragionamento dovrebbe allargarsi molto a quanto succedeva nel resto del mondo, al montare e all’espandersi delle pratiche neoliberali e neoliberiste, alla pervasività dell’azione di trasformazione del capitalismo iniziata con la dottrina Truman (1947) e sviluppatasi con il quartetto Tatcher, Reagan, Deng Xiaoping, Pinochet (primi anni 70). quell’insieme di ideologie e di pratiche che ebbe, come suo principale agente per l’Italia, Bettino Craxi. Così però passiamo alla seconda parte della mia storia
SECONDA PARTE DELLA MIA STORIA
Parliamo dei nostri anni, di questa fase della nostra storia nella quale siamo ancora immersi.
Tutto è cambiato
La prima sensazione è questa: quanto siamo lontani dalla fase che ho finora ricordato. Così lontani che appare spesso sterile ricordarla, si rischia di cadere nella pericolosissima sindrome della nostalgia, di un rimpianto paralizzante perché ricorda scenari non ricostruibili, perduti per sempre.
Tutto è davvero cambiato. Allora per prima cosa è necessario comprendere dove ci troviamo: costruire una carta geografica del mondo e della città di oggi. Se non lo facciamo, se non dedichiamo all’analisi l’attenzione e il tempo necessari, ci riduciamo a inconsapevoli servi di forze e interessi che ci sovrastano. Il secondo passo sarà comprendere che cosa fare per cambiare un mondo e una città che non ci piacciono – se alla fine della nostra esplorazione riterremo che non ci piacciono: comprendere che cosa fare per conferire ad essi qualità, paer fare il nostro mestiere di urbanisti – se riterremo che il mondo e la città stiano drammaticamente perdendo qualità.
L’uomo e la società
I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: per denunciare una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.
A me sembra che l’aspetto centrale sia quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”: la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.
Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, appiattita sul breve periodo, priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Il mondo e la città
Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.
Si è diffuso ed è diventato egemone un “pensiero unico”, per il quale gli unici “valori” sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla civiltà “occidentale”, o “atlantica”. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anch’esse forse portatrici di verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dell’umanità si potrebbe assumere.
Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese. Inutile ricordare qui i suoi effetti sull’ambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta.
Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dal quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).
Le politiche urbane del neoliberalismo
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne sono una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.
Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune, nella città e nel territorio, che può dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Il modello della città del neoliberalismo
È descritto con efficacia da Jean-François Tribillon in uno scritto ripreso su eddyburg: “Lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …), scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana. I gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento / oppressione di cui sono oggetto. Lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice” (la “infrastruttura globale” descritta da Saskia Sassen).
Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli. Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.
L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione. La distribuzione dell’informazione è organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.
Nasce una controegemonia?
In tutt’Europa nascono movimenti di protesta: spesso deboli, frammentari, episodici, qualche volta collegati in reti più ampie, anche internazionali. Si tratta di proteste che riguardano prevalentemente due temi:
(1) la difesa dagli sfratti, dall’espulsione dalle case e dai quartieri sottoposti a processi di rigenerazione e riqualificazione che spostano gli abitanti originari nelle più lontane periferie;
(2) la difesa di spazi pubblici (piazze, parchi, edifici pubblici) sottratti all’uso collettivo dall’edificazione o dalla privatizzazione.
Sono proteste che cominciano ad emergere nei forum sociali nei quali si esprimono le forze, culturali e sociali, che non credono che la globalizzazione del neoliberalismo porti benessere e felicità a tutti, e cercano altre vie per affermare i diritti dell’umanità.
Il “diritto alla città”
Tra questi diritti riemerge un diritto antico, evocato alla fine degli anni 60 del secolo scorso da Henri Lefebvre, ripreso da David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole d’ordine dei movimenti e nel lavoro dei ricercatori: il diritto alla città. Un diritto che spetta agli uomini e alle donne non in quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto membri della società: in quanto cittadini o in quanto abitanti ancora privi del diritto di cittadinanza.
E’ un diritto che si concreta in due aspetti principali, dai quali tutti gli altri derivano:
1) Il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi);
2) Il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.
La tesi che abbiamo discusso e approvato al Forum sociale europeo del 2008 è che la risposta positiva all’esigenza di diritto alla città è costituita dalla capacità di realizzare nel concreto quel modello di habitat dell’uomo che abbiamo definito “la città come bene comune”. Ma di questo, magari, parleremo in un’altra occasione.
CHE FARE, DA DOVE PARTIRE
Come cittadini
Ricordiamo innanzitutto che, prima di essere urbanisti, siamo cittadini. Naturalmente come cittadino non posso dare consigli, posso solo esporre il mio pensiero. Io penso che in questo momento non si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.
Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra
- i partiti che esprimono con pienezza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,
- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo,
- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.
Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date: Essi crescono mese per mese e, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano di una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose. Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società sia rappresentata dall’onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti.
L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti
Come esperti e come urbanisti
Ma non siamo solo cittadini. Siamo intellettuali, depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città “bella perché buona”, nel senso che ho indicato all’inizio. E a quelle esigenze dobbiamo e saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni 60
Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole d’ordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in che modo le pratiche correnti della “urbanistica reale” rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in particolare delle componenti più deboli.
Poche settimane fa abbiamo organizzato a Venezia, in collaborazione con la Rete delle Camere del lavoro della CGIL, un convegno proprio sui temi che stiamo discutendo qui. Molte esperienze sono state illustrate del modo in cui le organizzazioni territoriali del sindacato si adoperavano per far comprendere agli abitanti quali erano le cause del disagio urbano, e quali i modi per combatterle. Mi meraviglia il fatto che oggi, chi ha studiato per conoscere queste cose, e le insegna ai propri studenti, non riesce a trovare i canali e le parole per spiegarle ai cittadini.
La questione degli spazi pubblici
Mi sembra che, tra le diverse componenti componenti della città pubblica, quella che offrr, più delle altre, un terreno privilegiato, di critica e di proposta, è la questione delle attrezzature, degli spazi pubblici. E’ un terreno progettuale con ampie possibilità, anche in relazione alla nostra professionalità. Vorrei suggerirvene tre, anche sulla base delle esperienze che ho svolto o sto svolgendo.
Un primo argomento è quello che definisco la costruzione del “sistema delle qualità”: Si tratta di non vedere gli spazi pubblici come degli immobili (aree ed edifici) separati, ma di costruire una rete di percorsi protetti, piacevoli e sicuri per chi va a piedi o spinge la carrozzella, che colleghino tra loro, collochino in un’unica rete, tutti i luoghi utili e belli: le scuole e il verde, il mercato e l’ambulatorio, il giardino e l’edificio storico, la sponda del fiume e la piazza, il luogo di culto e il teatro e così via. Si tratta di costruire l’alternativa alla città formata dalle abitazioni e dalle automobili. E si tratta di un disegno, di un sistema, che può proiettarsi all’esterno della città, toccare i luoghi belli delle campagne e delle colline, le spiagge e i boschi.
Un secondo tema, a proposito del quale ci sono esperienze significative anche in Italia, è quello del recupero alla convivialità e alla socievolezza, di luoghi adibiti a depositi di automobili, o comunque malamente utilizzati. Un’esperienza significativa è stata compiuta nella piccola città di Arenzano, in Liguria. Ne trovate qualche elemento in eddyburg, così come vi trovate un riferimento al progetto Urban a Cosenza: un’esperienza interessante, giunta a buon fine e poi, malauguratamente, abbandonata.
Un terzo tema, utile anche per promuovere, assistere e cercare ddi mettere in rete le proteste dei cittadini, è quello della difesa di spazi pubblici minacciati dalla privatizzaazione o dalla utilizzazione a fini di speculazione. Stiamo progettando, come eddyburg ma con un progetto di costituzione di una iniziativa nazionale ed europea, una “mappa degli spazi pubblici, e/o dei beni comuni: sia per raccogliere e diffondere la conoscenza di ciò che già c’è, o puà esserci, sul territorio, sia per mobilitare i gli abitanti alla difesa e al miglioramento di ciò che c’è.
La prossima sessione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg (che svolgeremo a settembre probabilmente ad Alghero) sarà dedicata a questo insieme di temi. Ci proponiamo di lanciare, nell’occasione, la proposta di “nuovi standard urbanistici”. Vorremmo proporre di ampliare la gamma degli standard, in tre direzioni: allargare l’attenzione agli standard territoriali (oggi riguardano sostanzialmente i servizi di vicinato), prendere in considerazione nuove esigenze (la balneazione, il fine settimana, il bisogno di aria pulita nella campagna ecc.), inserire nel ragionamento degli standard anche beni che meritano di essere aperti alla fruizione comune e aperta in ragione della loro bellezza, del loro interesse stirucoi, della loro qualità ambientale.
Quattro nodi
Non posso trascurare, prima di concludere questa relazione, quattro temi che sono i veri nodi della pratica professionale e del governo delle trasformazioni territoriali in questi anni in Italia. Sono riassunti in quattro parole: rendita, edificabilità, perequazione, partecipazione.
Rendita
Secondo l’economia classica la rendita è la componente parassitaria del reddito. Infatti, a differenza delle altre forme di reddito (il salario, che remunera il lavoro, il profitto, che è il risultato dell’attività di gestione della produzione) la rendita corrisponde unicamente alla proprietà di un bene che è desiderato da altri soggetti. Essa non svolge nessuna funzione sociale, neppure nellaa logica derl sistema capitalistico.
I maestri dell’urbanistica ci hanno insegnato che l’appropriazione privata della rendita urbana (la proprietà privata dei suoli urbani) è la causa maggiore di tutti i disagi che nascono nella città, all’indomani del trionfo della rivoluzione capitalistico-borghese. La consapevolezza di ciò era presente, negli anni ai quali mi sono riferito nella prima parte della mia storia, alle forze politiche e culturali progressiste, e perfino, in alcuni momenti, agli stessi esponenti del capitalismo italiano (ricordo parole molto chiare dei fratelli Gianni e Umberto Agnelli all’inizio degli anni 70).
Oggi le cose sono profondamente e drammaticamente cambiare anche su questo argomento centrale per il destino della città e per il benessere dei suoi abitanti. Oggi la rendita urbana, e il suo continuo accrescimento sono considerati addirittura il motore dello sviluppo. Non c’è sindaco, non c’è amministratore, non c’è politico (salvo rare eccezioni) che non attribuisca virtù positive all’incremento delle aree urbanizzate – e quindi all’incremento della rendita fondiaria. Le operazioni di trasformazione urbana sono guidate dalle volontà di aumentare il valore immobiliare delle aree investite, non dal benessere degli abitanti. Anzi, questi vengono espulsi per facilitare la valorizzazione immobiliare. Finché questo nodo non verrà sciolto non ci sarà futuro positivo per le città e i suoi cittadini.
Edificabilità
Da che cosa deriva l’edificabilità di un suolo? Per un urbanista la risposta è ovvia. Se non ci fosse stato un processo storico sociale che ha con dotto alla costruzione delle città esistenti, se gli investimenti pubblici non avessero realizzato le urbanizzazioni primarie e secondarie, se la decisione pubblica del piano urbanistico non avesse definito l’utilizzazione edilizia dell’area, nessun suolo sarebbe stato edificabile per funzioni urbane.
La lotta per ottenere il riconoscimento giuridico di questa verità oggettiva ha conosciuto fassi diverse, ma quel principio oggi, nel nostro paese, non è stato ancora pienamente codificato sul piano normativo. Ciò ha indotto qualche urbanista a teorizzare (e a praticare) la tesi secondoi la quale esiste un “dirittoo edificatorio” attribuito dal piano urbanistico: un “diritto” che una successiva decisione (un successivo piano) non può modificare, se non compensando adeguatamente il proprietario interessato. Sulla base di questo “diritto” si sono rese edificabili, nel PRG di Roma, aree vastissime, ancora oggi in edificate, che non esiste alcun motivo oggettivo per rendere edificabili.
Eppure, come ho dimostrato tutta la giurisprudenza è costante nel dichiarare che qualsiasi decisione urbanistica relativa all’edificabilità può essere modificata, riducendo o eliminando l’edificabilità, nel rispetto di due sole condizioni: che la decisione sia motivata da ragioni d’interesse pubblico, e che le spese legittimamente e documentatamente sostenute dai proprietari a causa di precedenti decisioni (per esempio, nel caso di lottizzazioni convenzionate già in parte urbanizzate a opera dei proprietari) debbano venir rimborsate.
Perequazione
C’era già con la disciplina dei piani di lottizzazione vigente dal 1967. Nella pratica si è estesa a tutti gli strumenti di pianificazione attuativa, come ripartizione degli oneri e vantaggi nell’attuazione del piano. Oggi si tende a trasformarle in una spalmatura dell’edificabilità su tutto il territorio. In questi termini è secondo me un’operazione perversa, che tende a rafforzare la convinzione che l’edificabilità sia un “diritto” di tutto il territorio (di tutte le proprietà), e tende ad aumentare il consumo di suolo.
È diventata, da strumento attuativo e limitato alle aree di trasformazione urbanistica, criterio generale da adottare per accrescere la rendita immobiliare, il vero “motore dello sviluppo”: di uno sviluppo perverso, che ha perso ogni contatto con i reali bisogni degli uomini.
Partecipazione
Dopo essermi soffermato sui nodi che strangolano la possibilità di accrescere davvero gli standard qualitativi del nostro territorio, vorrei accennare a una questione che può rappresentare un antidoto alle cattive pratichedi governo del territorio che le precedenti tre parole (rendita, edificabilità e perequazione) hanno evocato. La quarta parola è “partecipazione”. La speranza sta infatti nella capacità e volontà dei cittadini a intervenire nei conflitti del governo della città, esprimendo con forza e convinzione la volontà che le trasformazioni siano guidate dall’interesse collettivo, dall’esigenza degli abitanti di avere un ambiente urbano adeguato, fruibile da tutti.
Gli strumenti formali della partecipazione sono debolissimi. Nella legislazione urbanistica c’è solo l’istituto delle “osservazioni “ ai piani. A proposito, trovo aberrante che nella legge urbanistica calabrese l’istituto delle osservazioni venga ridotto, sicché vi abbiano diritto solo le persone che sono colpite direttamente dalle scelte dei piani. Se il mio terreno ha una destinazione che non mi fa guadagnare abbastanza, se una strada minaccia la mia proprietà, posso criticare e proporre un’alternativa. Se il piano riduce il verde pubblico, minaccia l’aria che respiro, mi rende disagevole raggiungere la scuola o il mercato, sottrae ingiustificatamente aree agricole, lascia costruire dove il terreno è permeabile e inquina la falda agricola, allora non posso criticare e proporre.
E’ una decisione aberrante, e mi meraviglio fortemente che nessuno abbia protestato. Come nessuno ha protestato perché in tutte le fasi della formazione dei piani sono fortemente presenti gli interessi economici (naturalmente prevarranno quelli della grande proprietà immobiliare) e sono praticamente assenti i cittadini.
Oggi ci sono in Italia varie esperienze di introdurre ben più largamente la partecipazione. Ma molto spesso ci troviamo davanti a pratiche orientate più a catturare il consenso su scelte preconfezionate, che ad attivare effettivamente pratiche di “governo dal basso”, di partecipazione effettiva dei cittadini alle scelte. Devo dire che credo oggi molto di più alla partecipazione che si esprime in iniziative spontanee degli abitanti che di quello "guidata dall’alto”. Ma esistono esempi significativi anche di partecipazione “top-down”. Il caso, certo rarissimo se non unico, del comune di Cassinetta di Lugagnano, ai margini dell’area milanese, dove un sindaco coraggioso è riuscito ad adottare un piano “a crescita zero” con il consenso di tutti i cittadini. Lo ha fatto intrecciando strettamente la discussione sul piano regolatore con quella del bilancio comunale, adoperando la partecipazione come strumento di appropriazione dei cittadino informati delle decisioni sul futuro del loro paese.
Una domanda finale
Altre parole mi vengono in mente sulle quali bisognerebbe ragionare. Tutte suscettibili di significati diversi, anche alternativi. Penso a parole come vivibilità, sostenibilità, qualificazione, rigenerazione, qualità: parole sulle quali abbiamo ragionato in particolare nell’ultima edizione della Scuola di eddyburg, scoprendo le mistificazioni e l’attivazione di azioni e poteri che da esse possono scaturire.
Io credo che, per interpretare correttamente quelle e altre parole occorra porsi ogni volta una domanda finale, a proposito di ogni pratica urbana nella quale siamo coinvolti – come attori, o come semplici osservatori critici.Chi ci guadagna e chi paga? Nell’immediato e in prospettiva, al di là della parola impiegata per raccontarla. Credo che sia un interrogativo essenziale per chi si occupa del governo del territorio
Grazie ancora a tutte e a tutti.
Tre parole
In Europa cresce il movimento che rivendica la città come bene comune. Che cosa significa questa espressione? Interroghiamoci sulle tre parole che la compongono
Nell’esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città à la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.
Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Nell’esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo, e anche membro dell’umanità: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia storia.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze è perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
LA DIMENSIONE PUBBLICA NELLA CITTÀ EUROPEA
Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.
Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del sistema di piazze) cittadine.
Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.
Gli spazi comuni nel welfare state
Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. A differenza delle fabbriche (che nella società capitalistica diventano i luoghi della socializzazione dei lavoratori) gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti i cittadini possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E sono il luogo dell’incontro con lo straniero.
Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si estende a tutta la città. Il governo della città non è più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci, nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso.
L’emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. In Italia è negli anno 60 del secolo scorso che, parallelamente al superamento al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell’ufficio, nasce una forte e vittoriosa tensione per ottenere, nei piani attraverso cui si organizza la città, spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini
Non solo gli spazi pubblici, anche la residenza: la casa come servizio sociale
Nella città moderna anche l’abitazione diventa un problema che non può essere abbandonata alle soluzioni individuali. C’è (c’è sempre stata) l’esigenza di assicurare all’insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso da un’accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia.
Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e servizi. L’aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita) va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni.
Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan “la casa come servizio sociale”. Con questa parola d’ordine non si chiede che l’abitazione venga offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.
LA CITTÀ COME BENE COMUNE
NELLA FASE ATTUALE DEL CAPITALISMO
Il primato dell’individuo sulla società
Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Si discute sulle cause del cambiamento. Ci si domanda perché hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità, che hanno schiacciato luomo sulla sua dimensione economica (di strumento della produzione di merci), che hanno reso la politica serva dell’economia.
Le due componenti dell’uomo che ne caratterizzano l’individualità (quella privata, intima, e quella sociale, pubblica) avevano forse trovato un equilibrio, che si rifletteva nell’organizzazione della città: la vita si svolgeva nell’abitazione e nella piazza, nello spazio privato e in quello pubblico, senza barriere tra l’uno e l’altro. Oggi, con Richard Sennett, constatiamo con angoscia “il declino dell’uomo pubblico”. E nella città lo vediamo pienamente rappresntato.
E non trascuriamo le ragioni strutturali, a partire dal suolo urbano. Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee: il libro di Hans Bermpulli, La città e il suolo urbano, lo racconta in modo molto efficace. Nel XIX secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, in molti paesi dell’Europa è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.
Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.
Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).
In Italia si è abbandonato ogni tentativo di ridurre il peso della rendita immobiliare. Si sono stretti legami forti tra rendita finanziaria e rendita immobiliare. Le grandi industrie (come la FIAT e la Pirelli) hanno dirottato i loro investimenti dall’industria alla speculazione immobiliare. Da oltre un decennio si è interrotto qualsiasi impegno dello Stato nel campo dell’edilizia sociale. Una proposta di legge presentata dai partiti che attualmente governato prevede addirittura di lasciare ai promotori immobiliari la realizzazione e gestione delle attrezzature pubbliche, e la stessa pianificazione urbanistica, che dovrebbe limitarsi ad accettare i progetti urna mistici presentati dalla proprietà immobiliare.
Tutto questo avviene nel quadro di una fortissima spinta verso le soluzioni individuali. Non solo si riduce il welfare state, ma si convincono i cittadini (attraverso il monopolio dell’informazione televisiva e l’onnipresenza della pubblicità) che raggiunge il benessere chi si arrangia per conto suo, calpestando le regole ed evitando di pacare le tasse. In Italia, negli ultimi venti anni, il declino dell’uomo pubblico è avvenuto in modo crescente.
Il modello della città del neoliberalismo
Come ha scritto Jean-François Tribillon, nel modello neoliberale
“- lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …),scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana;
- i gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento/oppressione di cui sono oggetto;
- lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice”.
Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli.
Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.
L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione.
La distribuzione dell’informazione o organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.
La realizzazione del modello neoliberalista, se arricchisce i ricchi, colpisce tutti quelli che ricchi non sono.
È colpito il lavoro dipendente, nelle fabbriche e negli uffici, dove il postfordismo ha dato luogo (come ha raccontato nella sua relazione Oscar Mancini) a un mercato del lavoro dove non solo i diritti, ma anche la condizione materiali dei lavoratori si sono fortemente indeboliti. Si riduce la sicurezza del lavoro, si riducono i salari, si riduce la solidarietà nel luogo del lavoro.
E' colpita la condizione delle donne, cui le attrezzature e i servizi promossi dal welfare state urbano fornivano strumenti essenziali per ridurre il peso del lavoro casalingo: dagli asili nido alla scuola, dall’assistenza ai malati e agli anziani alla ricreazione e allo sport.
È colpita la condizione dei giovani, che in un mondo dominato dall’individualismo, dall’assenza di motivazioni ideali e di solidarietà, in una società che non dà alcuna certezza di futuro, in una città privata della presenza di spazi pubblici adeguati, sono abbandonati alle tentazioni della fuga da se stessi mediante la droga e l’alcool, la trasformazione dello stress e della depressione nel vandalismo e nella violenza.
È colpita la condizione degli anziani, ai quali da una parte è tolto lo spazio per comunicare ai giovani le proprie esperienze e il proprio sapere, e dall’altra parte patiscono di diventare un peso per la faiglia, alla cui assistenza sono costretti a ricorrere.
È colpita la condizione delle giovani coppie e di chi, per ragioni di lavoro, deve abbandonare la residenza originaria, ed è costretto dal mercato inmnmobiliare ad abitare in luoghi lontani dal posto di lavoro e a impiegare parte consistente del suo tempo in mezzi di trasporto spesso inadeguati.
Sono colpiti, il generale, tutti i cittadini, ai quali la società neoliberale toglie via via gli spazi di partecipazione consapevole al governo, privilegiando la governabilità sulla democrazia, l’accordo discreto con i potenti alla trasparenza delle procedure,
Per resistere, per reagire, per iniziare a preparare una città diversa da quella che il capitalismo dei nostri tempi ci prepara, dobbiamo orientare l’azione lungo tre direttrici:
1. dobbiamo lavorare sulle idee, sulla conoscenza, sulla consapevolezza delle persone: informazione e formazione del maggior numero possibile di cittadini;
2. dobbiamo sostenere, incoraggiare e promuovere azioni dal basso per difendere i beni comuni là dove sono minacciati e per conquistarne di nuovi;
3. dobbiamo individuare e proporre esempi positivi, che dimostrino che una città diversa è possibile, che il potere e la partecipazione dei cittadini ad esso possono essere adoperati per rendere migliore e più giusto l’ambiente della vita dell’uomo.
La città come bene comune è la concezione
che permette di soddisfare il diritto alla città
Il tema della “città come bene comune” deve essere proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. La “città come bene comune” è una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a partire dai più deboli. È una città che assicura a tutti i cittadini un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno. È una città che garantisce a tutti l’accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi.
È una città nella quale i servizi necessari (l’asilo nido e la scuola, l’ambulatorio e la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico, il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in localizzazione adeguate, sono aperti a tutti i cittadini indipendente dal loro reddito, etnia, cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze siano luogo d’incontro aperto a tutti i cittadini e i forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli.
Ed è una città nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini, in cui essi partecipano alla gestione del potere non solo nel momento dell’elezione ma in ogni momento significativo delle scelte. Devono essere garantiti la trasparenza del processo delle decisioni sulla città e sul suo funzionamento, e la possibilità dei cittadini a esprimersi e ad avere risposte alle loro proposte. Tutto ciò richiede ai cittadini di imparare a conoscere gli obiettivi, gli strumenti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella città: quelli che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro conoscenze liberamente.
Realizzare e far funzionare una simile città è l’unico modo per realizzare, per tutti, il diritto alla città, nei due aspetti dell’appropriazione dell’uso della città (valore d’uso e non valore di scambio), e di partecipazione piena al suo governo.
Regole chiare, trasparenti, condivise
Controllo dell’uso del suolo e delle urbanizzazioni
La prima condizione perché ciò possa avvenire è che le trasformazioni della città (sia quelle che comportano opere sia quelle che si verificano solo con cambi d’uso e di proprietà) avvengano sulla base di regole chiare, definite in modo trasparente, applicate senza deroghe e favoritismi. Esse devono essere definite con la condivisione della maggioranza degli abitanti, i quali devono intervenire in quanto cittadini e non in quanto proprietari di terreno o di edifici.
La seconda condizione è che il governo cittadino abbia il pieno controllo sull’uso del suolo, delle urbanizzazioni, del loro uso, e che possa impiegare gli incrementi di valore degli immobili, derivanti dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, alla realizzazione e al funzionamento delle opere che servono a tutti i cittadini.
Il governo pubblico delle trasformazioni del territorio, la pianificazione urbanistica, è il momento di sintesi della lotta per il diritto alla città e per la costruzione della città come bene comune.
Per iniziare la costruzione di una città più giusta occorre combattere a partire dalle esigenze più sentite dalla popolazione: la difesa degli spazi pubblici minacciati dalla privatizzazione e dall’abbandono del welfare, la conquista o la difesa di un alloggio a prezzi compatibili con il reddito, la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale sono già l’argomento di molte lotte nella città e nel territorio. . Occorre appoggiare, incoraggiare e promuovere le iniziative, aiutarle a mettersi in rete, a condividere obiettivi e strumenti.
In tutte le città d’Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d’America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo. In molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo , le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.
Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzate spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all’uso comune), sulle comodità e sugli arredi.
Le iniziative e le vertenze devono essere utilizzate non solo in vista dei loro obiettivi concreti e immediati. Esse devono aiutare a far crescere la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune.
Il tema
Il tema che mi è stato assegnato mi sembra particolarmente centrato. Per una ragione di fondo e per una ragione contingente.
La ragione di fondo. Il nesso tra i tre termini (città, comunità, spazi pubblici) esprime compiutamente l’essenza stessa della civiltà urbana: dalla nascita, anzi, dall’ invenzione della città, fino alle sue attuali difficoltà.
La ragione contingente. Le cause della crisi attuale della città (e della civiltà urbana) stanno proprio nella decadenza progressiva e concatenata di quei tre termini (città, comunità, spazi pubblici): una decadenza che comincia con la riduzione della comunità a mera aggregazione di individui, prosegue con l’erosione e il decadimento degli spazi pubblici, e non può concludersi – se non la contrastiamo - che con la morte della città.
La ricchezza, il senso, i problemi della civiltà urbana non sono del resto comprensibili se non si tiene stretta la triade urbs, civitas, polis: città come realtà fisica, città come società, città come governo.
GLI SPAZI POUBBLICI NELLA STORIA DELLA CITTà
La città nasce con gli spazi pubblici
Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. Si può dire che l’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.
È questa la ragione di fondo per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.
La piazza: incontro, mixitè, rappresentazione, celebrazione
Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). Le piazze come i luoghi della mixitè e della libertà.
Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città. E il ruolo che svolgevano era sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui erano riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.
Le piazze non erano solo dei luoghi aperti. Erano lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Le piazze e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.
Non sono comuni solo gli spazi pubblici
Se noi guardiamo con una certa attenzione la rappresentazione di una città del medioevo europeo troviamo la puntuale testimonianza di questo ruolo ordinatore del sistema degli spazi pubblici. Ma troviamo anche un più ampio significato del concetto di spazio pubblico. Vediamo che non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcos’altro. Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengano ordinati.
Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Regole scritte, a volte disegnate, e regole determinate dalla cultura costruttiva. Regole prescritte dalla politica fondiaria della città, che a volte era padrona del terreno sul quale la città sorgeva, e ne dava in uso i lotti alle famiglie, altre volte imponeva norme e criteri per l’utilizzazione delle aree private.
Possiamo dire che inizia un percorso dal concetto di spazio pubblico al concetto di città pubblica: non sono più comuni, collettivi, pubblici solo una serie di spazi ritagliati dall’insieme del contesto urbano, ma è la città in quanto tale che riconosciamo come struttura comune, collettiva, pubblica.
l conflitto tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra momento individuale e momento collettivo si è sempre manifestato nella storia – come quello tra esclusione e inclusione. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese esso assume una configurazione particolarmente rilevante per la città.
Il prevalere dell’individualismo porta a due conseguenze, entrambe negative. Sul versante della struttura, esso conduce alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando una delle basi della capacità regolativa della polis. Sul versante dell’ideologia conduce all’affievolirsi dei vincoli e dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
Ma dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica provocano effetti di segno opposto. L’inclusione di tutti i portatori di forza lavoro, i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città “la cui aria li renderà liberi” pone le premesse materiali all’allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe che di quel sistema è l’inevitabile prodotto conduce al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Possiamo dire che s’indebolisce la solidarietà cittadina ma nasce e s’irrobustisce la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, germoglia una nuova domanda di spazio pubblico.
Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica nasce la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse.
L’incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali riuscì a incidere in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Nel corso del “secolo breve” possiamo infatti vedere l’affermarsi di alcune componenti di quel carattere pubblico della città che prenderà il nome di “diritto alla città” e, nei nostri anni e con un significato analogo, “città come bene comune”.
Lo vediamo nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare: dall’apprendimento alla cura della prole, dalla salute alla cultura. Le scuole, gli asili nido, le biblioteche, gli ambulatori e gli ospedali, i parchi e le palestre cominciano a diventare presenze la cui quantità e qualità misura il grado di civiltà dei diversi stati.
Nei paesi della socialdemocrazia europea interi quartieri, intere parti di città vengono progettate, costruite e gestite per le famiglie degli operai e degli impiegati, con una ricchezza di dotazioni pubbliche che solo molto più tardi vengono raggiunte altrove.
In Italia, all’inizio del XX secolo cominciano a nascere iniziative mutualistiche e municipali per affrontare socialmente il problema della casa per determinate categorie di cittadini più bisognose. Ma poi occorre aspettare la caduta del fascismo, l’instaurazione della Repubblica “fondata sul lavoro” e il superamento della fase contraddittoria della ricostruzione per compiere alcuni passi rilevanti.
È negli anni Sessanta del secolo scorso che si sviluppano iniziative che conducono ad avvicinarsi al raggiungimento di tre grandi obiettivi della “città pubblica”:
- la presenza diffusa e generalizzata di spazi destinati alle attività collettive
- il controllo pubblico di tutte le componenti dello stock abitativo (dall’edilizia pubblica a quella sociale e a quella privata);
- la generalizzazione della definizione e del controllo di regole comuni alle trasformazioni del territorio, in particolare quelle derivate dall’urbanizzazione
Questi obiettivi sono stati raggiunti in modo incompleto. In particolare, non è stato raggiunto quello che avrebbe dovuto costituire la base strutturale degli altri obiettivi: il controllo della rendita immobiliare
Ricordiamo che cos’è la rendita. Essa è la quota di reddito che non corrisponde né allo svolgimento di un lavoro (salario) né al’esercizio di un’attività imprenditiva (profitto). Esso remunera unicamente la proprietà. In particolare, la rendita immobiliare urbana si forma e cresce per effetto delle decisioni e gli interventi della collettività, storica e attuale. Che un suolo da agricolo sia diventato o diventi oggi urbano non è dipeso né dipende certo dall’ingegno, dall’imprenditorialità, dal lavoro del suo proprietario. Perciò gli economisti classici e il pensiero liberale parlano di rendita parassitaria. È la città, la sua espansione, la sua attrezzatura che determinano l’incremento del valore della rendita. Quindi è fortissimo l’interesse dei proprietari di dettar legge nelle regole della città. Storicamente ci sono riusciti spesso, soprattutto in Italia. Ed è la pressione della rendita, e l’arrendevolezza verso di esse dei decisori pubblici, che rendono invivibili le città.
Controllare la rendita immobiliare, il suo accrescimento e la sua destinazione, è la condizione perché la collettività possa raggiungere nel concreto i propri obiettivi. Finché quella condizione non viene raggiunta il conflitto tra interesse pubblico e interessi privati dei proprietari immobiliari minaccia continuamente di veder soccombere il primo. Perché ciò non avvenga è necessario che l’interesse collettivo sia rappresentato da un potere politico fortemente determinato a difenderne le ragioni. Un simile potere politico, in Italia, si è manifestato solo in brevi ed eccezionali momenti, ma poi è stato sempre rapidamente sconfitto.
Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati davvero centrali, in Italia, dal punto di vista della conquista di un assetto soddisfacente per la città e per l’affermazione del suo carattere pubblico. È utile ricordarne qualche elemento.
Sul piano legislativo e normativo i due grandi successi:
- l’affermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);
- l’apprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dell’intervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero dell’edilizia esistente e degradata (1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).
Un insegnamento positivo......
Vorrei sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale che c’è stato in quegli anni. Ciò ha dato alle masse le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo.
Due le condizioni che lo hanno consentito:
1. la capacità degli intellettuali di ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e cercare e trovare gli argomenti, i fondamenti teorici, le possibilità tecniche e le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;
2. la capacità della società di costruire e adoperare gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni
...e un insegnamento negativo
Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: l’applicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte degli urbanisti e delle istituzioni.
Ad esempio, gli standard urbanistici e le “zone territoriali omogenee” erano stati concepiti come strumenti per misurare, prescrittivamente, le quantità di spazi pubblici riservati nei piani urbanistici. Sono diventati la stanca formula di progettazione della città, dividendola artificiosamente in zone A, B, C, e così via, ignorando e cancellando la complessità, la mixitè, l’articolazione reale degli spazi che della città costituiscono l’essenza.
Ancora un esempio. L’applicazione pedissequa degli standard urbanistici (tanti mq per la scuola elementare, tanti per gli ambulatori, e i mercati, e le chiese, tanti per il parcheggi, e il verde ecc.), ha condotto spesso alla suddivisione dello spazio pubblico nelle sue diverse componenti funzionali (qui la scuola, là il mercato, più in là l’asilo nido, altrove la palestra e gli impianti sportivi, altrove il parco) dimenticando l’insegnamento della “piazza”, del luogo dove gli interessi confluiscono e le persone s’incontrano.
Ma un insegnamento negativo è venuto anche dalla politica e della società, dove si è manifestata la graduale perdita della capacità di azione riformatrice (non “riformista”) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi dell’uomo nell’individualismo, nell’intimismo, nel privato.
Crisi del carattere pubblico della città
Certo è che oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diverse da quelle che la storia delle nostre città ci suggerisce, sia che le osserviamo alla luce del lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Oggi moltissimi, anche nell’area “riformista”, non si vergognano di parlare di “vocazione edificatoria” dei suoli, e di considerare perverso “vincolo” ogni destinazione del terreno che non sia quella edilizia. Oggi si propone di sostituire la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare come nella proposta di legge Lupi per il governo del territorio, che si riuscì a fermare nella XV legislatura ma che è oggi di nuovo in discussione in Parlamento.
Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Il Disegno di legge delega” in materia di edilizia reso noto afferma che il governo è delegato a emanare norme, in particolare, per quanto riguarda la “individuazione degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia e di conservazione comunque realizzabili quali espressione del diritto di edificare connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia”. Un’affermazione che in questi termini non era mai apparsa nel diritto italiano, e che ci si era invece illusi, nella prima metà degli anni Settanta, di capovolgere esplicitamente ne suo contrario .
Gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’interesse comune, sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario rigorosamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.
Alle piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’interesse del frequentatore all’acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’integrazione, della varietà, della libertà d’accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’outlet, dall’aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.
L’abitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale. Ognuno è solo al cospetto del mercato, e di un mercato caratterizzato dall’incidenza crescente della rendita. Cancellata da un decennio ogni risorsa destinata all’edilizia sociale. Privatizzata l’edilizia pubblica, realizzata con i contributi di tutti i lavoratori. Ridotta ai margini la disponibilità di alloggi in affitto, proprio quando il lavoro diventa precario, oggetto di un inseguimento che obbliga a una maggiore mobilità sul territorio.. Demolita ogni forma di contenimento dei canoni di locazione delle case private, contribuendo con ciò poderosamente all’aumento della povertà e dell’emarginazione.
Perché tutto questo è successo? Se diamo un giudizio negativo sul cambiamento che si è manifestato, sul suo senso e sui suoi risultati, e vogliamo contribuire a invertire la tendenza, dobbiamo innanzitutto comprendere le ragioni .
La ragione di fondo sta certamente nel mutato rapporto tra uomo e società.
I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: per denunciare una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.
L’aspetto centrale è quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”: la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.
Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.
Si è diffuso ed è diventato egemone un “pensiero unico”, per il quale gli unici “valori” sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla civiltà “occidentale”, o “atlantica”. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anch’esse forse portatrici di verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dell’umanità si potrebbe assumere.
Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese.
Inutile ricordare qui i suoi effetti sull’ambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta – il vero e proprio saccheggio di risorse esauribili nella ricerca di una continua e crescente produzione di merci sempre più gratuite, suiperflue, ridondanti, prive di finalità con i bisogni reali di crescita dell’uomo.
Inutile ricordare i suoi effetti sul lavoro. Questo costituisce la strumento essenziale dell’uomo per comprendere e trasformare il mondo di cui è parte. Esso è la base della dimensione sociale della persona umana. Oggi è reso precario, privato dei diritti, sempre più marginale rispetto al processo delle decisioni.
Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dalla quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).
Le politiche urbane del neoliberalismo
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città.
Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.
Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune - nella città e nel territorio - che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti:
- quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni;
- quando il crollo delle Twin Towers ha fornito la giustificazione – o l’alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.
Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: quello della loro consistenza fisica e quello della loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.
Credo che sia emerso chiaramente che al concetto di spazio pubblico attribuisco un significato molto ampio. È spazio pubblico la piazza, diventano spazio pubblico gli standard urbanistici, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e una politica di pianificazione del territorio, in tutte le sue componenti.
In questa sua accezione la conquista dello spazio pubblico è stata, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.
Credo di aver sufficientemente argomentato come e perché gli spazi pubblici siano oggi a rischio. Ho accennato ai rischi principali. Ho individuato la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E ho indicato la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia.
Opporsi, come?
A questi rischi bisogna opporsi. Per farlo occorrono a mio parere due cose.
Da un lato, la consapevolezza piena della condizione in cui viviamo e, insieme, quella della nostra possibilità di concorrere alla sua modificazione. La storia non è ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo inevitabilmente vittime passive e imbelli.
Dall’altro lato, la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa. Per dirla con Italo Calvino, per resistere all’inferno, dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Che cosa c’è nell’inferno “che non è inferno”?
Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica. Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo alla politica. È alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Io li ho vissuti.
Oggi non è più così. Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.
Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra
- i partiti che esprimono con pienezza e arroganza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,
- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo,: per esempio, credono ancora che il Prodotto interno lordo sia l’unità di misura del livello di civiltà raggiunto, o che il termine “sviluppo” coincida con quello di continuo aumento della produzione e del consumo di merci indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale, oppure che la governabilità sia più importante della democrazia;
- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.
Orfani della politica
Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società, espressiva di principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, sia rappresentata dall’Onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario.
L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.
Gli esperti
Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Siamo intellettuali, siamo depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.
Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole d’ordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in che modo le pratiche correnti della “urbanistica reale” rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in particolare delle componenti più deboli.