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Non c’è da meravigliarsi se la maggioranza procede così. La linea culturale della maggioranza è espressa dalla vignetta di Giannelli: costruisca chi può, tanto c’è il prossimo condono. Per rafforzare il concetto che la tutela del paesaggio non è preoccupazione del governo del territorio un altro emendamento precisa che, se le attività del governo del territorio sono “volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità”, ciò va visto “in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio”.

Sviluppo del territorio. Non siamo nati ieri e non siamo nati fuori del mondo. Sappiamo bene che quando oggi, sotto il dominio del peggiore sistema capitalistico-borghese che si sia potuto immaginare, si parla negli USA di “developement” o in Francia di “développement” o in Italia di “sviluppo”, non si allude al concetto di miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, di parsimoniosa fruizione delle risorse, di accrescimento dei valori d’uso presenti nel territorio, ma semplicemente di edilizia e infrastrutture: sviluppo di cemento, ferro, asfalto.

Questo sviluppo è dunque, chiaramente ed esplicitamente, il fine, l’obiettivo, la missione cui il governo del territorio è votato. Anche l’esclusione della tutela del paesaggio e dei beni culturali è funzionale a questa missione. Contraddicendo una linea di pensiero che, fin dai tempi di Bottai, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria, contraddicendo quindi gli indirizzi culturali e legislativi che dalle leggi del 1939 e del 1942 avevano condotto alla “legge Galasso” e alle successive leggi regionali, paesaggio e trasformazioni territoriali sono divisi: affidati a leggi diverse, a uomini diversi, a strumenti diversi. Non c’è dubbio a chi spetterà la parola (la prima e l’ultima) in caso di contrasti: non certo a chi rappresenta i musei e i bei panorami del passato, ma a chi investe, occupa, trasforma, agli “energumeni del cemento armato”, pubblico e privato.

Un tassello rivelatore è stato aggiunto così a un disegno già di per sé perverso, Un disegno il cui centro (lo ripeto una volta ancora) sta nel porre gli interessi degli sviluppatori privati all’origine e al centro delle decisioni sul territorio, scardinando la pianificazione come strumento dell’affermazione del primato dell’interesse pubblico. È chiaro che questo disegno è del tutto coerente con l’ideologia degli uomini del Cavaliere: ne ha ricordato i tratti essenziali pochi giorni fa Ritanna Armeni. Ma perché l’opposizione non fa sentire la sua voce di dissenso, non denuncia lo scandalo di questa impostazione, i danni che provocherà nella vita delle donne e degli uomini di questa e delle future generazioni? Forse perché è stato il centro sinistra, con la modifica del titolo V della Costituzione, ad aprire la strada. Forse perché la proposta di legge della Margherita non è poi tanto distante da quella di Forza Italia. Forse perché i cattivi consigli dell’INU hanno confuso le idee ai legislatori e agli altri opinion maker della sinistra. Forse perché il territorio, i suoi valori, il suo destino sono questioni irrilevanti rispetto allo “sviluppo”.

Forse per tutte queste ragioni insieme. Ma allora non lamentiamoci se Berlusconi regnerà per più tempo di Mussolini. Se la verità è a destra, se anche la sinistra usa le sue parole, perché votare a sinistra?

Qui l'ultimo eddytoriale dedicato alla legge Lupi-

Qui la vignetta di Giannelli, e molte altre

Su tutto si può discutere. L’ordinanza del giudice del Tribunale dell’Aquila potrà essere criticata, e anche contestata. Ma i giudizi unanimi e perentori (salvo pochissime eccezioni: grazie, Paolo Mieli) sono stati emessi subito, senza neppure aver letto quel dispositivo che insigni giuristi hanno giudicato ineccepibile. A me il crocifisso nelle aule non ha mai dato fastidio (mentre me ne darebbe molto il ritratto di B: se malauguratamente divenisse Presidente della Repubblica), ma penso che nessun uomo religioso possa oggi, nella civile e democratica Europa, presumere che la sua fede possa vincere per imposizione di legge. Credo nella superiorità dei valori elaborati dalla civiltà occidentale nei millenni della sua variopinta storia, ma non penso che siano gli unici al mondo, e men che meno che possano prevalere affidandosi alla forza.

Ho sempre pensato che questi fossero pensieri comuni al mondo della sinistra, a quello della solidarietà e a quello del liberalesimo: anzi, pensieri normali. Quando ho contribuito a scegliere chi eleggere ai vertici delle istituzioni ho sempre pensato che i miei candidati fossero persone che sanno anteporre il ragionamento all’impulso dell’emozione, il pensiero al turbamento. L’episodio del crocifisso di Ofena ha fatto vacillare le mie certezze.

La mia preoccupazione è stata ribadita, pochi giorni dopo, dalle reazioni febbrili all’annuncio che, richiesti di esprimersi tra quale, tra quindici stati del mondo (compresa l’Europa) costituisse oggi la maggiore minaccia per la pace, la maggioranza degli interpellati abbia risposto Israele. E allora? Possibile che noi, civili europei, colti giornalisti, pensosi pensatori, eminenti statisti, navigati politici, non si sia imparato a distinguere Stato e razza, governo e religione? Possibile che non si possa criticare Israele senza passare per antisemiti? Soprattutto in una situazione nella quale (come tra il Giordano e il Mediterraneo) la piaga purulenta della pluridecennale riduzione di generazioni di palestinesi nei campi di concentramento (e non è certo Yasser Arafat il colpevole di questo regime concentrazionario) ha formato vivai di ribellione e di terrorismo, dove il diritto dei popoli e le pronunce degli organismi internazionali sono stati ripetutamente e impunemente violati, dove l’unica legge avvertibile nei rapporti tra popoli l’uno all’altro ostile è “occhio per occhio, dente per dente”.

A me sembra del tutto ragionevole che oltre la metà degli europei interpellati abbia posto, tra i paesi che più minacciano oggi la pace, Israele insieme all’Irak, alla Nord Corea, all’Iran e agli USA. Sì possono certamente avere altri pensieri e formulare altre graduatorie, si può valutare diversamente l’eccesso di autodifesa di Sharon, ma da questo a indignarsi e tacciare di antisemitismo quegli europei che quell’eccesso lo ritengono deleterio e rischioso per la pace, mi sembra davvero inquietante.

Mi domando le ragioni di questa apparente generalizzata incapacità di ragionare, di sceverare, di distinguere. Non so trovarle. Qualcuno mi aiuta?

Renato Soru, si sa, ha fatto un’operazione coraggiosa e controcorrente: ha imposto l’inedificabilità, da subito e per un periodo di tempo limitato, delle residue coste libere della Sardegna, in attesa che una corretta pianificazione possa stabilire dove e come devono essere trasformate e dove è meglio che restino come sono. Oltre che alle manifestazioni di opposizione esplicita (che naturalmente erano scontate) si è diffusa una sottile campagna di denigrazione. Essa ha serpeggiato in gran parte della stampa, locale e nazionale. Non solo tra i giornali che esplicitamente si oppongono alla tutela ritenendo – per convinta posizione ideologica - la bellezza del paesaggio un bene sacrificabile agli affari. Ma anche di quelli che usano difendere ambiente e paesaggio, promuovendo spesso campagne condivisibili e denunce argomentate delle malefatte dei “energumeni del cemento armato”, come li definiva Antonio Cederna.

La calunnia, come lo Spirito santo, soffia dove vuole: “sotto voce sibilando va scorrendo, va ronzando”. Nel caso specifico, ha ronzato dove ci sono collusioni, grandi e piccole, con gli affari che le bellezze delle coste sarde hanno generato. Poiché Soru non è un metalmeccanico, il bersaglio della “auretta assai graziosa” è subito trovato: lui è uno che non vuole far fare affari sulle coste perché lui gli affari li ha già fatti. Per di più abusivi, quindi non può permettersi di criticare la villa abusiva di Berlusconi. Ecco trovato il tallone d’Achille di Renato Soru: ha una villa abusiva sulla costa.

Il venticello della calunnia è penetrante: “nelle orecchie della gente s'introduce destramente”. Perciò è arrivato anche nelle mie. Ho voluto vederci chiaro. Amici sardi mi hanno documentato. Ho avuto la documentazione (infamante, nelle intenzioni) che l’ex presidente forzaitaliota della Sardegna, l’onorevole Pili, ha esibito nel parlamento regionale per denunciare, col clamore richiesto dai fatti, lo scandaloso comportamento del presidente Renato Soru.

Le accuse di Pili (quello – ricordate? – che copiò integralmente il suo discorso di Presidente della Sardegna da quello del Presidente della Lombardia, Formigoni) sono contenute in un dossier pubblicato in internet, all'indiriizzo indicato in calce. E’ intitolato “Pubbliche virtù e vizi privati”. Si apre con una sintesi della denuncia: Soru è il vizioso proprietario di “una villa sulla riva del mare demolita e ricostruite contro tutte le norme di Legge, una pineta di migliaia di alberi rasa al suolo impunemente e sostituita con ceppi di vite, manipolazioni ingannevoli delle norme, e soprattutto il grande rischio speculativo sulle coste della Sardegna”.

Il virtuoso fustigatore dei privati vizi di Renato Soru molto avveduto non è. Pubblica infatti le immagini e i documenti che dimostrano non solo l’innocenza, ma anche l’avvedutezza, il buon gusto, il rispetto del paesaggio, la cura dei beni comuni dell’attuale Presidente della Sardegna. Come infatti limpidamente emerge dalla documentazione, e dalle immagini, Soru ha compiuto una soffice “ristrutturazione edilizia”, pienamente consentita dalle norme, trasformando una brutta villotta similtirolese in una sommessa costruzione mediterranea, senza aggiungere un metrocubo di volume nè un metroquadrato di superficie. Per di più, ha sradicato alcune decine di eucaliptus, piante notoriamente allogene, piantando al loro posto vigne e mandorli tipici della vegetazione locale.

Siamo agli antipodi dell’iniziativa del capo dell’on. Pili, Silvio Berlusconi e della sua orribile reggia della Certosa. Particolare non trascurabile: barriere insormontabili e vigilantes pubblici e privati scoraggiano chiunque (perfino i magistrati) ad avvicinarsi al maniero del cavalier B.; persone che conosco sono sbarcati l’estate scorsa sulla spiaggetta dove sorge la villa di Soru, ne hanno tranquillamente attraversato lo scoperto, salutando (cortesemente ricambiati) il signor Soru che leggeva il giornale su una sdraia.

Questa differenza, del resto, l’hanno rilevata anche altri. Sul The Independent di ieri (6 dicembre) si legge, a proposito di Berlusconi: “ His Neronian tastes in property were well known even before he began tinkering with his Sardinian villa. Mr Soru could not be more different”.

L'articolo di The Independent

Il dossier (autolesionista) dell'on Pili

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La calunnia è un venticello, parole e musica

Ci hanno allontanato dall’Europa che avevamo contribuito a far nascere. E soprattutto, in pochi anni hanno distrutto ciò che era stato costruito in un paio di secoli. Bisogna fermarli. Al più presto. Questa volta non ci si può far arrestare, sulla soglia del seggio, dalla disaffezione per i politici d’oggi.

Qualche argomento in più va speso sulla terza affermazione. Non voterò per la lista “Uniti per l’ulivo” per tre ordini di ragioni.

Perché è un raggruppamento nel quale prevale la componente moderata del centro-sinistra: è una formazione sostanzialmente di centro, e io preferisco una formazione sostanzialmente di sinistra.

Perché è troppo spiccata la presenza in quella aggregazione di quanti hanno preparato il terreno a Berlusconi e ai suoi: lo hanno oggettivamente assecondato con atti (la bicamerale, lo spoil system e il federalismo, per citarne alcuni) e con parole d’ordine (privato è bello, più mercato e meno stato, basta lacci e lacciuoli, per citare le prime che mi vengono in mente) che esprimevano l’abbandono del rigore a vantaggio della demagogia, e un forte deficit di intelligenza politica.

Infine, perché è stato sconcertante il comportamento dei leader di quel raggruppamento in tutta la vicenda della guerra in Iraq (ma come, solo adesso vi accorgete che i soldati italiani lì sono agli ordini dei peggiori guerrafondai?)

Mi trovo francamente in grande difficoltà a scegliere, tra le altre liste antiberlusconiane, quale preferire. A tutte rivolgo un rimprovero: non sono state capaci di rinunciare alle ragioni delle loro modeste individualità, diciamo pure ai loro egoismi personali o di apparaticchi, per cercar di costruire la “seconda gamba del centro-sinistra”: una componente politica di sinistra ed ecologista (come, secondo le intenzioni di Achille Occhetto, avrebbe dovuto caratterizzarsi il partito che raccoglieva l’eredità del PCI), capace di costituire un solido alleato dei centristi di Prodi, Amato e Fassino.

Renderà meno impegnativa la mia scelta il ragionamento espresso in un appello, lanciato da Franco Ottaviano e sostenuto da moltissime persone che stimo, che riporto qui di seguito. Il titolo dell’appello è Un voto " in prestito”per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente.

Mi sembra che esso esprima con chiarezza, a un tempo, la situazione del tutto insoddisfacente nella quale ci troviamo, l’esigenza primaria di battere la destra devastatrice, ma insieme la volontà di dare al nostro voto per le europee un’indicazione positiva per il futuro dell'Italia.

Non vogliamo solo battere Berlusconi, vogliamo anche che il nostro voto serva a scuotere la sinistra, a farle ritrovare un linguaggio comune, a contribuire alla formazione di uno schieramento che oggi ancora non c’è: uno schieramento di forze diverse, ma capaci di unirsi in un comune sistema di valori e in un comune e convincente programma di governo.

Ognuno di noi, insomma, scelga nell’ambito delle formazioni di centro-sinistra quella che gli sembra abbia fatto meno errori, che sia più decisa a cogliere le aspettative di legalità e di giustizia, di rispetto per i cittadini di oggi e per quelli di domani, e che insieme gli appaia più propensa a impegnarsi, all’indomani delle elezioni, alla formazione di un fronte vasto (più vasto di quello di Berlusconi) e solidale su un numero limitato di cose da fare ( in primis, ricostruire ciò che B. ha distrutto).

Se l’insieme dei voti che saranno raccolti dalle liste opposte alla destra saranno molto di più di quelli berlusconiani, e se al loro interno avranno più peso quelli orientati alla ricostruzione di un’Italia diversa, allora la fine della notte sarà più vicina.

Il testo dell'appello Un voto in prestito

L'immagine illustra la grande manifestazione indetta dalla CGIL a Roma il 23 marzo 2002. E' tratta da questo sito: http://www.pmt.cgil.it/manifesta/inizio.htm

È una questione di cultura, innanzitutto. I paesaggi campani sono tra i più antichi e nobili del mondo: basta pensare ai terrazzamenti della costiera amalfitana e di quella sorrentina; basta pensare ai feracissimi terreni della piana tra Napoli e Caserta, resi tra i più fertili del mondo dalle millenarie ceneri vesuviane. Basta pensare ai Campi Flegrei, straordinari per l’intreccio di rarità geotermiche e lasciti greci e romani.

È una questione di sicurezza per le vite e le risorse umane. Desta orrore leggere che sulle pendici a rischio del Vesuvio, nella “zona rossa”, si concede ancora di costruire (si veda il Corriere della sera del 25 ottobre, che denuncia: “Ai piedi del Vesuvio ogni giorno si scoprono nuovi cantieri. Nei paesi della zona rossa, quelli a più alto rischio in caso di ripresa dell’attività eruttiva del vulcano, si continua a costruire. E non abusivamente, ma con tanto di licenza edilizia”). E com’è possibile che si debba oggi ancora temere ad ogni pioggia per i paesi e i paesani nella piana del Sarno?

Ed è infine una questione delle risorse economiche offerte da un’agricoltura pregiata. Il valore (anche economico) delle uve e dei limoni, degli ortaggi e dell’olio, delle albicocche e delle cerase, dovrà scomparire per il proliferare di case, casarelle, capannoni e capannoncini, così come sono scomparsi dalla Piana del Sarno i famosi Sammarzano cacciati dai veleni industriali e da quelli degli additivi chimici? Proprio oggi, che le produzioni agricole di qualità (e di nicchia) cominciano a essere fruttuosamente commercializzate e trovano accoglienti mercati nel mondo?

La Campania ha tre importanti scadenze, e tre possibili strumenti, in questa settimane. Quello che richiede un intervento più urgente è il Piano territoriale provinciale di Napoli. Ha preoccupato molto l’affermazione dell’assessore all’urbanistica, secondo il quale il piano tutelerebbe 30mila ettari di aree a produzione agricole: meno del 30% della superficie territoriale, contro il 45% attuale (e l’80% del 1960). Come preoccupano le norme che affidano al completamento urbanistico i 15mila ettari denominati “aree di frangia”: aree che comprendono le terre murate, gli aranceti e gli arboreti promiscui della penisola sorrentina, porzioni significative dei versanti collinari flegrei, con gli orti arborati ad elevata complessità strutturale dei ciglionamenti medievali, e infine quote cospicue degli orti arborati ed albicoccheti del pedemonte Vesuviano. Si è nella fase delle osservazioni: si può correggerlo

La regione sta predisponendo due atti: il piano territoriale, e la legge urbanistica regionale. Potrebbero essere strumenti utilissimi, se mettessero dei paletti seri all’occupazione edilizia dei territori aperti. Se il primo non fosse una mera descrizione della realtà e l’indicazione di “direttrici strategiche”. Se la legge non fosse tutta di procedure volte a razionalizzare il trend, ma ponesse alcune coraggiose scelte di merito.

Per esempio, se stabilisse che “nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente”. Che “le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali”. Che “nuovi impegni del suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti quando non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e infrastrutture esistenti”. Che il territorio agricolo non vale solo per la generica funzione produttiva, ma anche per il suo valore e la sua utilità“storico-culturale, estetico-percettiva e paesaggistica, di mantenimento dei cicli idrologici e biogeochimici e di riproduzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo)”, e per la sua idoneità a costituire delle “cinture verdi per l’attenuazione degli impatti locali e globali dei sistemi urbani, di risorsa per lo svago e la vita all’aria aperta”. Che alla pianificazione provinciale spetta, tra l’altro, “di evitare ingiustificati consumi di suolo e di tutelare l’integrità funzionale e strutturale dei sistemi ecologico-naturalistici, agro-forestali, paesaggistici e storico-culturali”. Che il piano comunale ” garantisce l’integrità strutturale e funzionale del territorio agricolo, forestale e naturale”. Che, a tal fine, “il piano comunale determina come invariante strutturale la linea che separa il territorio urbano da quello aperto”, e stabilisce che in quest’ultimo “è vietata qualunque trasformazione che non sia finalizzata agli usi specifici del territorio rurale stabiliti dalla legge regionale”.

Una legge urbanistica che ponesse questi paletti sarebbe una legge utile. Un piano regionale che avesse alla sua base questi principi, sarebbe un documento condivisibile. Un piano territoriale provinciale che fosse emendato in questa direzione, sarebbe adeguato alle esigenze del futuro.


Paesaggi della Campania, dai Sistemi di terra di Antonio Di Gennaro, dal sito di Risorsa

Due effetti del provvedimento sono evidenti: Berlusconi può dire di aver mantenuto le sue promesse; il degrado dello Stato (della pubblica amministrazione) avrà un vigoroso impulso. Sul primo punto si potrebbe obbiettare: ma vuoi che l’elettorato non si accorga subito che quel provvedimento ruba ai poveri per dare ai ricchi? E i ricchi non sono una minoranza del corpo elettorale? Mi piacerebbe che fosse così, ma non ne sono sicuro. Per due ragioni che proverò ad esporre.

La prima. Berlusconi ha il monopolio dell’informazione. Lo ha denunciato un uomo non sospetto di sinistrismo: Giuseppe Tesauro, il capo dell’Antitrust. Avere il potere di controllare le due aziende che detengono la maggioranza schiacciante dell’informazione radiotelevisiva significa avere lo stesso potere del Grande fratello (quello di Orwell, non quello della TV). Oltre alla denuncia di Tesauro leggetevi anche lo scritto di Luciano Canfora sulla democrazia, e domandatevi se è anchora questo il regime che ci governa. Io temo che una parte consistente degli italiani si farà convincere che il premier sta lavorando nella direzione giusta,e che ha dato sia ai poveri che ai ricchi (perchè questi investano e diano occupazione).

La seconda. Per battere Berlusconi e la sua accolita alle prossime elezioni ci vuole un’antagonista, che abbia una forza paragonabile a quella dell’avversario. Non mi sembra che il centrosinistra abbia saputo affermare con una forza, continuità e capacità di convinzione confrontabile con quelle spese da Berlusconi per propagandare il suo “meno tasse” quello che ha scritto Fabrizio Galimberti sul giornale della Confindustria: che le tasse bisogna pagarle, che le tasse servono a finanziare i servizi e le opere necessari per la vita e il benesssere dei cittadini e la funzionalità delle imprese, che perciò l’obiettivo è quello di far funzionare meglio lo Stato.

Quello che è certo è che, per far pagare a una platea dai confini ancora incerti un po’ meno di tasse il governo ha ulteriormente aggravato llo stato della pubbblica amministrazione. Sempre più spesso le regioni, le province, i comuni si trocveranno di fronte al dilemma: aumentare le imposte o ridurre i servizi. Sempre più spesso l’ideologia berlusconiana (alla quale nessun’altra si oppone) indurrà a ridurre i servizi, quando l’obiettivo dovrebbe essere quello di aumentarli e migliorarli. Colpiti saranno soprattutto i meno difesi: i giovani, le donne, gli emigrati, gli anziani.

E i posteri, per i quali il Belpaese (distrutto sia con i ripetuti condoni, con lo stravolgimento delle leggi sull’ambiente e il paesaggio, con la demolizione della pubblica amministrazione) sarà una favola raccontata da qualche nonno o nonna che potrà raccontare com’era l’Italia quando Antonio Cederna faceva le sue battaglie, quando Giacomo Mancini salvava l’Appia Antica, quando la prima Giunta Bassolino faceva rinascere Napoli, quando il Parlamento dopo i crolli di Agrigento discuteva su una nuova legge urbanistica, quando i partiti di sinistra portavano l’Emilia Romagna e il suo territorio al livello dei paesi più avanzati d’Europa.

P.S. - Questa nota non intende demonizzare Berlusconi, ma ricordare quello che è. L'immagine è tratta dall'Allegoria del cattivo governo, di Ambrogio Lorenzetti, nel Palazzo comunale di Siena. Qui sotto l'immagine intera.


Al nostro B. non è (ancora) consentito praticare siffatti strumenti per affermare il suo dominio. Deve limitarsi a pratiche più sommesse. È riuscito a completare il suo impossessamento delle reti televisive, ottenendo l’approvazione della legge Gasparri-Mediaset e costringendo, attraverso i suoi uomini in Rai, a costringere la presente alle dimissioni. Attraverso la Moratti prosegue l’appiattimento della cultura (esemplare il tentativo di cancellare Darwin). Intanto, l’Italia è scivolata negli ultimi posti nella graduatoria dei paesi per la ricerca, che è il settore che indica il futuro. Sembra addirittura che la P2 sia un’eredità da difendere, se è vero che una pubblicazione ufficiale dileggia l’eroina della Resistenza e della democrazia che ha presieduto la commissione d’indagine su quell’oscuro episodio della nostra storia recente. Su questi argomenti ho inserito articoli di Staiano, Bongi, Colombo, Ricci, Scalfaro, Galimberti, e le vignette di Altan e Giannelli. Un appello di alcuni famosi personaggi della Resistenza francese, molto bello, annoda ai temi (e alle proposte) di quegli anni le battaglie di oggi per i diritti sociali, la formazione e la cultura di massa, la comunicazione; l’ho tradotto prt voi.

Per le questioni della città e del territorio lo spazio maggiore lo occupano le reazioni all’articolo di Mario Pirani in appassionata difesa dell’auditorium di Ravello. Molti hanno avuto la possibilità di rendere noti gli argomenti della loro contrarietà all’intervento inviandoli a Eddyburg che, a differenza di Repubblica, li ha pubblicati (ma a me lo spazio costa meno): troverete così le valutazioni di Giulio Pane, Giuseppe Palermo, Lodo Meneghetti, Desidera Pasolini dall’Onda; e naturalmente, la debole replica di Pirani.

Articoli di Luigi Mazza e di Vezio De Lucia commentano la legge urbanistica Lupi-Mantini. Una nota di Flavia Schiavo aggiorna sulla situazione urbanistica di Palermo, un documento di Mare vivo e WWF su quella dell’Argentario, srticoli di Vitucci sulle grandi opere a Venezia.

Antonio Di Gennaro stimola (a partire dalla vicenda del PTCP di Napoli) a una riflessione sulle idee della sinistra. Nella stessa direzione sollecita una nota in calce a una lettera di Lodo Meneghetti. C’è poco da stare allegri, anche in vista delle prossime elezioni europee. A tutt’oggi ho solo tre certezze:voterò, voterò contro Berlusconi, non voterò per la Lista Prodi. Per il resto vedremo. Questa volta possiamo approfittare del fatto che il sistema proporzionale rende possibile scegliere con tranquillità. Ma certo che, se anche alle politiche nazionali avremo da un lato un raggruppamento moderato (com’è quello del Triciclo: stringeranno la mano a Bush a Roma, il 4 giugno?) e dall’altro la dispersione delle proposte e la confusione delle lingue, ci sarà poco da stare allegri.

Ho deciso di spedirvi più frequentemente la newsletter. Questa volta la inserisco anche come eddytoriale.

B. dispone oggi in Italia di un potere che nessuna costituzione razionalmente costruita in una società occidentale poteva immaginare. Ciò dipende dal concorrere di due eventi.

Da un lato, i meccanismi di rafforzamento dei poteri degli organi esecutivi (il presidente del consiglio dei ministri e il governo nazionale, come i sindaci, i “governatori” regionali e le rispettive giunte) rispetto agli organi collegiali e pluralisti (il parlamento, i consigli), che sono stati introdotti negli ultimi anni (tutti d’accordo) per “garantire la governabilità”..

Dall’altro lato l’evento, assolutamente unico nei paesi occidentali, del giungere al massimo vertice del governo di un uomo che detiene un potere monopolistico nel settore delle comunicazioni: di quel “quarto potere”, cioè, il cui peso non è stato in alcun modo regolato dalla cultura e dalla prassi delle istituzioni che, negli ultimi tre secoli, si sono occupate esclusivamente dell’equilibrio tra gli altri tre, classici poteri (il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario).

L’esistenza di questo potere straordinario non incontra un efficace limite nell’opposizione: sia per la sua attuale frammentazione, sia per la sua rappresentanza parlamentare, di molto inferiore rispetto al suo peso nell’elettorato. Gli unici due limiti effettivi consistono nel Capo dello Stato e nella Magistratura. Il primo è un limite temporaneo: il mandato di Ciampi scadrà, e il trend non è tale da far presumere che sarà sostituito, che so, da Tina Anselmi. L’unico vero limite (in assenza del quale il potere di B. non sarebbe straordinario, ma “sconfinato”), è la magistratura. Da qui il grande impegno di B. e dei suoi giannizzeri contro il Terzo potere.

Se così stanno le cose, io credo che l’argine che ci separa dal regime sia davvero molto sottile. La sua fragilità dovrebbe indurci a due decisioni: evitare qualunque azione che possa indebolirlo; impiegare ogni energia per far cessare al più presto l’anomalia di quello straordinario (e tendenzialmente sconfinato) potere.

A me sembra perciò che l’antiberlusconismo non sia un “tallone d’Achille” né, come altri hanno detto, una “ossessione”, ma semplicemente la consapevolezza della centralità e urgenza, in Italia, della questione democratica: dove per democrazia non si intenda la mera procedura elettorale, ma la corrispondenza la più profonda possibile tra volontà dei governati e azione dei governanti (ossia, tra il popolo sovrano e gli esecutori della sua volontà).

Certo, per battere Berlusconi occorre seguire anche le procedure elettorali che sono uno strumento della democrazia, e uno dei più importanti. Ma battere Berlusconi è un prius rispetto a ogni altra scelta. Perciò sono contrario, oggi, all’astensionismo. Perciò sono favorevole a ogni sforzo per costituire un fronte comune, aggregando le forze più diverse per raggiungere l’obiettivo primo (purché, ovviamente, condividano le ragioni democratiche della scelta). Perciò sono preoccupato per qualsiasi accordo che, in cambio di risultati parziali, comporti un rafforzamento di Berlusconi.

Stiamo attenti però. Battere Berlusconi non significa battere il berlusconismo. Questo si è infiltrato in strati molto vasti del mondo politico, e della stessa società. È il risultato della combinazione tra mali antichi della politica italiana: il doroteismo, il potere come fine a se stesso, e il craxismo, la modernità come valore, la corruzione come strumento neutrale del potere. (A questo miscuglio di per sé pestifero B. ha aggiunto la riduzione dell’interesse generale all’interesse del Dominus, con un salto all’indietro all’età delle monarchie assolutiste). È il prodotto della caduta degli ideali, dei “progetti di società”, delle visioni escatologiche, della capacità della politica di guidare la società verso il futuro interpretandone le speranze più alte.

Per battere il berlusconismo (impresa di ampio respiro) bisognerebbe che la politica riprendesse il suo ruolo. Che non cadesse più nell’errore di illudersi di sconfiggere l’avversario assumendone le parole d’ordine e gli obiettivi, come pure il centrosinistra ha fatto nell’intero decennio che è alle nostre spalle, tessendo in tal modo il tappeto rosso che ha agevolato l’accesso di Berlusconi al potere. Se gli slogan condivisi sono “meno Stato e più mercato”, “privato è bello”, “tagliare i lacci e laccioli che intralciano l’impresa”, allora, regime o non regime, Berlusconi è più convincente di D’Alema.

Tempi di una destra nuova, molto lontana, abissalmente lontana da quella che, per difendere il mercato e l’imprenditività, scoprì che occorreva un intervento pubblico per regolare ciò che il mercato non poteva regolare: in primo luogo, l’assetto del territorio. Tempi nei quali, rovesciando la tradizione e la prassi dell’urbanistica moderna, si vuole porre alla base delle scelte relative all’organizzazione della città e del territorio non le esigenze dei cittadini, delle famiglie e delle imprese, ma quelle dei proprietari immobiliari.

Lo afferma esplicitamente il progetto della “Casa delle libertà” (do sempre queste denominazione tra virgolette, perché mi sembra una bestemmia ridurre la libertà a quella di non pagare le tasse). La pianificazione del territorio avviene “sentiti i soggetti interessati” (art. 3, c. 2). Il testo precisa che “le funzioni amministrative” (la pianificazione) “sono svolte in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati ai quali va riconosciuto comunque il diritto alla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti” (c. 3).

Fino ad oggi il piano urbanistico esprimeva la volontà dell’amministrazione elettiva, e solo dopo veniva sottoposta al parere dei privati. Adesso il procedimento è invertito: il piano è redatto sulla base delle espressioni di volontà dei “soggetti interessati”. Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di “soggetti interessati”, ci si riferisce alla cittadina e al cittadino? Tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare.

Ho già raccontato quanto, per questo fondamentale aspetto, la proposta della Margherita sia vicina alla proposta della destra. Rinvio a un articolo che ho scritto qualche mese fa per Archivio di studi urbani e regionali; mi piacerebbe che lo leggesse l’on. Ermete Realacci, fondatore di Lega Ambiente, cofirmatario della proposta. Forse è per questo che a sinistra tutti stanno zitti su questo scandalo che si prepara? Il prodotto dell’intesa destra-centro, raggiunta con la volenterosa ed esplicita mediazione dell’INU, sarà una di quelle “riforme” (metto questo ternine tra le stesse virgolette che ho adoperato sopra) del berlusconismo che secondo l’on. Rutelli non si toccano se il centro-sinistra vince?

Non sarebbe male se si facesse chiarezza su questo punto. Gli amministratori locali che hanno a cuore un governo del territorio volto alla difesa degli interessi collettivi, i tecnici che lavorano quotidianamente nella trincea dei comuni e delle altre amministrazioni pubbliche cercando di difendere il territorio e i diritti dei cittadini contro le leggi eversive e i comportamenti subalterni alla proprietà immobiliare, hanno anch’essi qualcosa da chiedere. Hanno diritto di sapere se chi, nei propositi, vuole difende lo Stato sociale, intende promuovere i diritti di cittadinanza, ritiene di esprimere gli interessi delle generazione future, rivendica giustizia per i gruppi sociali più deboli, lavora per un paese più moderno ed efficiente, si batte per una partecipazione dei cittadini alle scelte sulla città – ebbene, se gli uomini e i partiti che dicono di riconoscersi in questi “valori” sono consapevoli che l’on Lupi, e i suoi sponsor e alleati, portano tutti nella direzione opposta.

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Un articolo su Archivio di studi urbani e regionali

Un articolo su il manifesto

Eddytoriale 39 del 13 marzo 2004

Eddytoriale 38 del 2 marzo 2004

Eddytoriale 36 del 21 gennaio 2004

In questi giorni il TAR dovrebbe esprimersi sulla legittimità o meno dell’iniziativa del Comune. Ho espresso più volte e in varie sedi la mia posizione. Voglio qui ribadirne e precisarne alcuni aspetti.

La questione della legittimità. Sarà la giustizia amministrativa a dire la parola definitiva (ma si era già pronunciata in precedenza, dichiarando illegittimo il PRG proprio perché prevedeva un auditorium in quel sito). Per conto mio, ho argomentato e fornito materiali a iosa, e non voglio ripetermi. Voglio sottolineare però il mio sconcerto per il fatto che nessuno dei sostenitori del progetto (con l’unica eccezione di Carlo Gasparrini, volenteroso arrampicatore su specchi impervi e scivolosi) ha ritenuto degno di rilievo il rispetto della legge. Tutti hanno ritenuto che, riguardo alla (presunta) eccellenza del progetto, il rispetto della legge dovesse passare in secondo piano.

Mi sembra un atteggiamento di gravità eccezionale, tenendo conto tra l’altro che la legge rispetto alla quale contrasta la localizzazione di un auditorium (e di qualunque altra opera) è una legge regionale, che la regione è favorevole all’intervento, e che il Consiglio regionale può benissimo modificare la legge (non fa forse modifiche ad personam il Parlamento nazionale per questioni molto più ignobili?)

Considerare la legge un intralcio burocratico, che è lecito eludere per una causa dichiarata giusta da chi ha più ascolto nei mass media, mi sembra un segno terribile dell’abisso nel quale siamo caduti: se almeno è vero, come a me sembra vero, che il sistema delle regole e la sua certezza nei confronti di tutti è il portato della convivenza democratica e una delle sue condizioni. So che la lista di quanti credono che una giusta causa può scavalcare la legge è lunga (e si apre autorevolmente con Bush, Sharon e Berlusconi), ma non pensavo che avesse adepti nei settori dello schieramento culturale e politico che mi sono vicini.

La questione del merito. Tralascio le argomentazioni di carattere paesaggistiche: altri si sono espressi più efficacemente di quanto potrei fare, e io stesso ho detto quel che pensavo (ho detto anche che non mi sembrava affatto scandaloso che altri sostenessero tesi diverse e anzi opposte). Non ritorno sulle questioni urbanistiche, e cioè agli effetti sulla funzionalità di un sistema insediativi che la Regione Campania, nei suoi documenti programmatici, ha definito “ad economia turistica satura”; non mi dilungo sull’accessibilità dei luoghi e sulla loro vivibilità, di cui un aumento del carico insediativo aggraverebbe la crisi. Voglio invece replicare a una giustificazione dell’intervento che viene spesso sollevata dai suoi difensori.

Essa è icasticamente espressa nell’immagine, che riporto nella massima dimensione consentita qui sotto, che mi ha inviato Domenico de Masi (che ringrazio). Il senso di quest’immagine è il seguente: questo luogo è tutt’altro che un “paesaggio perfetto”. È stato già pesantemente scempiato da interventi che l’hanno reso orribile. Un intervento di elevata qualità non può che migliorarlo.

L’argomento è tutt’altro che sciocco. Esso potrebbe motivare un’iniziativa legislativa regionale che volesse riparare il vulnus di legittimità. Quindi mi sembra utile discuterlo. Per farlo, dovrò intrecciare argomenti di legittimità e argomenti di merito.

Mi dicono che le costruzioni recenti che appaiono nella fotografia di de Masi sono in grandissima prevalenza abusive o illegittime. Ciò deriva evidentemente dal fatto che la collettività aveva ritenuto che il paesaggio non dovesse essere modificato, e che la sua volontà è stata calpestata. Sostenere il progetto Niemeyer significa quindi consolidare una prassi sbagliata, confermare una devastazione che si riconosce essere tale e darle legittimità; quindi distruggere la speranza che si possa, domani o fra cent’anni, realizzare un progetto diverso.

Quale progetto? Se vengono demolite (non solo negli altri paesi europei, ma anche in Italia) edifici e quartieri legittimi ma ritenuti obsoleti, se nello stesso Mezzogiorno, nella stessa Campania, nella stessa provincia di Salerno coraggiosi amministratori locali demoliscono centinaia di costruzioni abusive (Eboli, Gerardo Rosania), è forse impossibile pensare che le ferite inferte al magico paesaggio della costiera amalfitana, della costa sottesa alle splendide ville di Ravello possano essere risarcite, che esperti e delicati architetti paesaggisti (meglio se più abili a maneggiare pietra viva e arbusti che a gettare calcestruzzo), e magari interi laboratori universitari, possano essere impegnati a disegnare un progetto di paesaggio che recuperi gli antichi terrazzamenti? È impossibile proporsi di definire e presentare all’opinione pubblica un progetto di restauro di quei siti?

Una volta era impensabile escludere dai centri storici le demolizioni e ricostruzioni che li hanno devastati. Ciò fino agli anni in cui scese in campo l’associazione Italia Nostra, e maturò – nella cultura e nella società - una nuova coscienza: finchè si comprese che alle immissioni di edifici contemporanei bisogna sostituire il restauro, il recupero, il risanamento di ciò che la storia ha consolidato.

A Ravello si vuole celebrare, con il progetto Niemeyer, un episodio omologo alla piacentiniana Via della Conciliazione, oppure vogliamo aprire la strada del restauro del paesaggio?

Si può anche non decidere subito. Ma, almeno, non si cancelli la speranza che, domani una società più consapevole dei suoi interessi di lunga durata, possa seguire la seconda via.

L'articolo di Mario Pirani e la mia lettera

La lettera di Giuseppe Palermo

La lettera di A. Croce, M. De Cunzo, G. Donatoni, C. Iannello

Sullo stesso argomento: Eddytoriale 35 del 19 gennaio 2004


Una prima ragione sta in questo: che è l’ultima volta che in Italia la politica ha dato speranza, alle donne e agli uomini. Perciò la straordinaria commozione che sollevò la sua morte. Perciò la trasversalità del suo rimpianto (che ha toccato persone che militavano in ogni formazione, che votavano per ogni lista, che credevano in ogni fede). Perciò, ancora oggi, le reazioni immediate da ogni versante se qualche sprovveduta valutazione ne sminuisce la figura.

Ma cerchiamo di andare un po’ più avanti. Domandiamoci perché Berlinguer ha saputo dare speranza.

Per dare speranza, la condizione necessaria è dare fiducia; e Berlinguer, pur così schivo, così alieno dall’apparire prima di essere, così disinteressato dall’impegno a “bucare lo schermo” (così lontano, quindi,dal vizio capitale che macchia oggi quasi tutti i politici), dava fiducia. Le sue parole venivano accolte come vere, schiette, sincere. Il suo essere politico veniva sentito come dedicarsi al servizio di un’idea per gli uomini. Si poteva non essere d’accordo con lui, ma non si poteva dubitare dell’onestà delle sue analisi e delle sue proposte.

Sulla base di questa condizione, Berlinguer ha saputo proporre strategie che non riguardavano mai soltanto l’interesse del suo partito, e neppure solo quello delle classi, della nazione e del popolo che direttamente rappresentava ed esprimeva. Ha avuto la capacità di vedere, anticipandoli, i temi grandi della sua epoca, e di indicare per ciascuno di essi una soluzione possibile.

Comprese che gli errori dell’Occidente avevano condannato al deperimento la speranza sollevata dalla Rivoluzione d’Ottobre, che quindi il Socialismo reale era un guscio svuotato d’ogni capacità di progresso. Propose l’ Eurocomunismo perché si riprendesse la via d’una nuova sinistra nel mondo, superando le miopie accomodanti e gli estremismi fuorvianti che avevano lacerato le sinistre europee.

Comprese che le riforme strutturali del paese (le riforme della società, non quelle, nelle quali oggi ci si attarda, delle sue cornici istituzionali) richiedevano una maggioranza che si poteva trovare solo rompendo gli schieramenti. Propose il Compromesso storico come alleanza strategica tra le grandi correnti di pensiero, e le forse sociali e politiche che ad esse si ricollegavano, per costruire un progetto comune.

Comprese (primo tra i politici italiani) che la prospettiva del disastro ambientale e quella di un crescente divario, fino alla rottura, della forbice tra paesi ricchi e paesi poveri non potevano essere scongiurate se non affrontando alla sua radice lo spreco immane di risorse che un consumo asservito alla produzione determinava. Propose l’ Austerità come indirizzo per instaurare giustizia, efficienza, ordine e “una moralità nuova”.

Comprese, prima dei valorosi giudici di Mani pulite, che la politica stava scivolando nell’affarismo non come accessorio, ma come obiettivo dei giochi di potere; da ciò, come molti commentatori hanno ricordato in queste settimane, il suo rifiuto alle offerte consociative di Craxi. Propose la Questione morale come centrale per riaffermare la dignità della politica, la sua capacità di lavorare per un trasparente sistema di obiettivi coerentemente perseguiti.

Spero che i materiali (solo un inizio, per ora) che ho raccolto nella cartella a lui dedicata facciano comprendere la realtà e il valore di Enrico Berlinguer anche a chi non ha vissuto i suoi anni partecipandone gli eventi. E che le poche immagini riescano ad esprimere qualcosa della sua ritrosa capacità di incontrare i cuori delle persone.

Vai alla cartella dedicata a Enrico Berlinguer

Si può affermare che l’ urbanistica moderna nasce proprio per affrontare con la mano pubblica problemi che la mano privata, giustamente dominatrice nel mercato capitalistico, non solo non riusciva a risolvere ma anzi provocava e, dove esistevano, aggravava. Quel mercato il quale in tanto è riuscito storicamente a diventare egemone nell’ambito dell’economia in quanto il sistema di cui è espressione (il sistema capitalistico-borghese) ha ridotto ogni valore a valore di scambio e ogni bene a merce.

Si può quindi anche affermare che l’ urbanistica, nel suo concreto operare, lavora per tutelare, valorizzare e promuovere caratteristiche dei luoghi e della loro organizzazione che il mercato non riconosce proprio perché sono dotati di valore d’uso, mentre possiedono un limitato, o inesistente, valore di scambio.

E’ proprio per questo che l’urbanistica italiana pose al centro dei suoi interessi i centri storici (il cui valore testimoniale e la cui qualità erano beni che il mercato tendeva a travolgere), l’accessibilità alle parti socialmente utili del territorio (resa sempre più critica per il fatto che il mercato privilegiava un modo di trasporto assolutamente incompatibile con le dimensioni assunte dalla città), il diritto all’abitazione (un bene di cui la riduzione a merce impediva ai ceti non privilegiati di godere), il paesaggio e l’ambiente (universi di beni di cui la riduzione a merce provoca la distruzione).

Missione dell’urbanistica (così come l’hanno intesa, predicata e praticata i fondatori dell’INU e i loro discepoli) è stata insomma quella di far sentire al mercato vincoli diversi da quelli che questo autonomamente poteva porsi: il contrario, quindi, della missione proposta dall’INU di oggi. E la concreta operazione dell’urbanistica, la pianificazione del territorio e delle sue parti, solo nei casi deteriori si è ridotta a "valorizzare", ad accrescere il valore di scambio, degli immobili: si è invece impegnata a mettere in valore (a difendere, accrescere, creare) le qualità del territorio che la "valorizzazione", con le conseguenti pratiche di edificazione finalizzata alla speculazione economica, sistematicamente distruggevano.

Non è quindi un caso che l’urbanistica (quella di cui l’INU ha avuto in Italia, in decenni lontani, la rappresentanza egemonica) ha trovato il suo "principe" nelle formazioni politiche e nelle amministrazioni della sinistra: dove per sinistra intendo quella parte dello schieramento politico che ha lucida consapevolezza dei limiti e degli errori del sistema capitalistico-borghese, ha convinzione ed esperienza dell’insufficienza del mercato, e quindi si propone di riformare o correggere, in modo più o meno profondo, quel sistema e quel suo strumento.

Sicché oggi, nell’inversione di tendenza che si è manifestata nell’INU e che la frase da cui sono partito efficacemente esprime, si possono leggere due eventi.

Vi si può leggere un generale prevalere, anche nella politica, di ideologie e sistemi di convenienze che esprimono il primato dei valori dell’economia capitalistica su ogni altro valore. Che esprimono perciò anche l’illusione dell’autosufficienza del mercato, della virtù salvifica di una concorrenza senza freni, del possibile ordine di una società in cui la piena esplicazione delle tensioni dell’individuo non debba incontrare limiti nei diritti altrui e in quelli di tutti. E’ quella ideologia di cui Ronald Reagan, Margaret Tatcher, il primo e soprattutto il secondo Bush sono i più illustri e autentici interpreti, il nostro Berlusconi l’apostolo, il laburista Blair e numerosi membri della "sinistra riformista" i tardivi e perplessi adepti.

E vi si può leggere anche, su un piano più modesto, il prevalere nell’INU (senza apparenti residui) di una tendenza a cercare il mercato professionale là dove esso è più fruttuoso, ponendosi al servizio delle forze che comunque agiscono nella città e nel territorio, quali che esse siano, purché siano interessate, a qualsiasi fine, alle trasformazioni territoriali. Poiché la forza trainante di tali trasformazioni è, in questa società e in questo sistema, la valorizzazione immobiliare, ecco che questa assume il ruolo di attore privilegiato.

Una categoria professionale e un istituto che avevano saputo coniugare tensione morale e critica sociale al sostegno culturale e tecnico alle espressioni del potere democratico, tende a ridursi così a mediatore tra gli interessi contrastanti e facilitatore di inquietanti connubi.

Altri eddytoriali a proposito dell'INU:

Eddytoriale 36 del 21 gennaio 2004

Eddytoriale 38 del 2 marzo 2004

In questa contrapposizione c’è indubbiamente qualcosa che vale. E’ da almeno mezzo secolo, del resto, che i padri dell’urbanistica (“tradizionale”) criticano le norme e le pratiche nelle quali non sono adeguatamente raggiunti la partecipazione popolare, il consenso degli amministrati alle decisioni degli amministratori, il corretto ed efficace raccordo tra le scelte pubbliche di governo del territorio e le azioni degli operatori privati.

Che oggi ci sia un’accentuazione dell’interesse sulla partecipazione e sulle altre forme di raccordo con la società non è quindi cosa che possa preoccupare (sebbene preoccupi un po’ che molti non distinguano tra i diversi interessi dei quali si vuole promuovere la partecipazione) . Sollecita del resto nella direzione di una ricerca della partecipazione diretta alle scelte sul teritorio il fatto che sono screditati, e oggettivamente in crisi, gli strumenti tipici di quel raccordo (gli strumenti della democrazia: i partiti politici e le istituzioni da essi alimentate).

Ciò che preoccupa, invece, è la contrapposizione, un po’ manichea, tra termini che dovrebbero essere saggiamente integrati - nelle menti e nel linguaggio prima ancora che nelle regole e nei comportamenti.

Mi stimolava a riprendere questa riflessione (cui ho accennato nell’eddytoriale 39 del 13 marzo scorso, non a caso accompagnato dalla figura del carabiniere) una frase in un intelligente e condivisibile articolo di Massimo Morisi, a proposito della nuova legge toscana per il governo del territorio. Descrivendo il nuovo sistema di rapporti tra Regione, Provincia e Comune configurato dalla legge toscana Morisi scrive che esso si propone di svolgersi “non su basi autoritarie bensì mediante un intenso e costante lavorìo di confronto e concertazione tra analisi, programmi e strategie in cui ciascuna istituzione reca il contributo della propria capacità di visione e del proprio impegno di aggregazione e rappresentanza”.

Tutto ciò è giustissimo. E’ ragionevole e sensato, da ogni punto di vista, puntare alla massima collaborazione tra enti pubblici di diverso livello e dare il giusto peso a questo pedale della sussidiarietà: l’accordo e l’integrazione. Non dimenticando, però, che c’è anche un altro pedale sul quale occorre poggiare il piede: ed è quello della responsabilità. Ogni livello di governo ha determinate competenze (articolo 3 della nuova proposta legislativa toscana), ciò significa che ha determinate responsabilità. Se sull’argomento sul quale ha competenza (=responsabilità) si raggiunge un accordo soddisfacente (per l’interesse generale che quella competenza esprime), allora nulla questio. Ma se l’accordo non si raggiunge? O la paralisi, oppure occorre che qualcuno si assuma la responsabilità della decisione, ossia agisca d’autorità. D’accordo, Morisi?

Massimo Morisi, Il futuro del governo del territorio

Eddytoriale 39

Ambrogio Lorenzetti, Il Buongoverno: Concordia

La discussione nata dal delitto malavitoso di Rozzano si è tradotta in una critica ai prodotti più appariscenti (e certamente non tra i peggiori) della cultura architettonica e urbanistica moderna. Abbandonando rapidamente le denunce alle periferie prodotte, negli anni Cinquanta e Sessanta, dalla più ignobile speculazione fondiaria ed edilizia, la deprecazione si è rivolta ai risultati degli sforzi compiti negli anni Settanta e Ottanta per proporre modelli diversi da quelli allora prevalenti: gli enormi scatoloni di dieci o quindici piani accostati l’uno all’altro senza spazio se non quello degli stretti corridoi lasciati all’automobile.

Singolare che nessuno abbia confrontato i requisiti oggettivi dei quartieri di edilizia economica e popolare di Rozzano (con i larghi viali alberati, i giardini decentemente curati e i marciapiedi in ordine) ai quartieri di Torpignattara o della Balduina a Roma, di Pianura o dell’Arenella a Napoli, di viale Zara a Milano o di viale Lazio a Palermo: i mostruosi prodotti, cioè, di quelle due operazioni (la divisione del terreno in lotti tutti fabbricabili, e la moltiplicazione dell’area di ciascuno di essi per il numero dei piani abitabili) a cui si riduce, secondo Leonardo Benevolo, la speculazione immobiliare. Ma tant’è. È più facile additare come “mostri” episodi singolari (si chiamino essi Corviale o Le Vele, lo Zen o Laurentino 38) che affrontare l’analisi dei meccanismi generalizzati di appropriazione privata di beni comuni (tale è infatti il territorio urbanizzato), che ancora agiscono nella città.

Voci ragionevoli si sono pur levate (e in questo sito ne ho raccolte molte). Hanno ricordato come l’origine del disagio della vita in quei presunti “mostri” sia nella cattiva amministrazione, che non ha saputo né dotarli della necessaria mixitè sociale, né completarli con i previsti servizi sociali e con l’attrezzatura dei progettati spazi pubblici, né garantire l’indispensabile manutenzione, e nemmeno garantirne la custodia. Certo, ai difensori di Corviale e dello Zen si può obiettare che un buon urbanista deve comprendere quali sono i caratteri del contesto politico e amministrativo, e tenerne conto. Ma non è insensata la loro replica, quando ricordano l’enorme fabbisogno abitativo insoddisfatto cui occorreva dare risposta, e insieme il clima di accesa speranza in un veloce rinnovamento della politica e dell’amministrazione che caratterizzava gli anni nei quali quegli episodi sono maturati. Anni, ricordiamolo, in cui la “riforma urbanistica” era al centro delle parole d’ordine della politica, e i sindacati dei lavoratori riempivano le piazze di affollati cortei per chiedere “la casa come servizio sociale”.

L’articolo di Paolo Desideri, al quale mi sono riferito aprendo questo pezzo, chiarisce però almeno uno dei termini del problema. Se da una parte (quella dei difensori delle ragioni del patrimonio culturale dell’urbanistica e dell’architettura moderna) si è evocata l’epoca delle battaglie per le riforme della società, dell’affermazione degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, delle speranze di un rinnovamento della città basato sull’uguaglianza dei diritti e sulla condivisione dei destini, Desideri preannuncia lucidamente un’epoca ben diversa. Afferma infatti: “Più consona alle attese e alla cultura abitativa dell’uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città non pianificata, le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista” ( Repubblica, 18 settembre 2003).

È proprio così. Questo è il mostro che il possibile (non inevitabile) futuro ci prepara: proliferazione dell’abusivismo, dissipazione del territorio, degradazione del paesaggio, spreco di suolo e d’energia, dissoluzione dei vincoli sociali, chiusura nel privatismo – e asservimento al Grande Fratello padrone dell’etere e delle coscienze, suscitatore .

Se posso buttarla in politica, direi che all’epoca degli uomini di Togliatti, De Gasperi e Nenni, di Pertini, Moro e Berlinguer, Desideri oppone come inevitabile l’epoca degli uomini di Berlusconi. Speriamo che, oltre a intravederla, quest’epoca non la desideri.

Vedi anche Periferie

Con la legge delega si sono compiuti tre delitti. Contro la democrazia parlamentare, si è affidato a una commissione nominata dal ministro un compito che spetta al Parlamento. Contro la legalità, si è approvato un provvedimento la cui latitudine è studiata apposta per salvare il Presidente del consiglio in carica, il cavalier Silvio Berlusconi, dalle conseguenze giudiziarie di un grace abuso urbanistico ed edilizio compiuto in Sardegna (in quella stessa Sardegna dove un bravo presidente regionale, Renato Soru, si sta adoperando per salvare quel che resta del paesaggio costiero, ed è per questo è oggetto di attacchi personali ingiustificati e subdoli). Contro il paesaggio, e la ricchezza del paese, si è allargata l’oscenità del condono edilizio ad ambiti fino ad oggi protetti per la loro qualità.

Con la riforma della Costituzione si sono poste le premesse per un passaggio pieno a un regime dittatoriale. Così ritagliato su misura del cavaliere è quel provvedimento che il vertice del potere è stato denominato “Silvierato”, anzicchè premierato. Così degradata è la democrazia parlamentare che un giornale moderato come la Stampa ha potuto scrivere che “il Parlamento è stato ridotto a un simulacro”, poiché il suo ruolo si limita a mettere lo spolverino a decisioni prese altrove. E la follia brianzola delle devoluscion ha reso così confuso e sconnesso il sistema dei poteri che c’è già chi ha potuto scorgere, nel pasticcio costituzionale, il lucido disegno della surrettizia preparazione di un centralismo ancora più forte di quello dei tempi di Re Umberto I e di quello dell’egemonia della Democrazia cristiana (e vicino, forse, a quello dei tempi del cavalier Benito Mussolini).

Stanno distruggendo il paese: nel suo patrimonio sostanziale e virtuale, nei suoi valori e nelle sue regole. E non si può mancar di ricordare che questa distruzione è stata preparata negli anni di governo del centrosinistra: quando si è concretamente avviato l’avvento della devoluscion nel tentativo di tagliare l’erba sotto i piedi a Bossi; quando si è teso la mano a Berlusconi con la Bicamerale accantonando kla questione del conflitto d'interessi; quando si è predicato “meno Stato e più mercato”, “privato è bello”, “via lacci e lacciuoli” per non ostacolare la “governabilità”.

Così come non si può non sottolineare che ancora oggi, nell’ambito del centrosinistra, c’è chi predica che “il regime non c’è”, nascondendo che il regime sta affermandosi dappertutto. E che c’è chi preferisce erigere barriere all’interno dell’area antiberlusconiana, per mantenere aperte le comunicazioni con l’area del Cavaliere, ipotizzando futuri scenari di ricomposizioni moderate. E c’è chi antepone le convenienze di gruppi e gruppetti e partiti e partitini destinati a scomparire nel giro di pochi anni (dopo aver migrato da una sigla all’altra all’altra ancora) alla ricerca delle regole minime di una solidarietà democratica, di opposizione e di governo.

Questo è il punto. Occorre rendersi conto che la democrazia, la libertà, la ricchezza del paese, le istituzioni, tutto ciò è minacciato pericolosamente: peggio, è in corso di distruzione. Bisogna trovare la forza di superare le divisioni – che indubbiamente ci sono – e lottare insieme per scongiurare il danno più grave. Come si fece quando comunisti e democristiani, liberali e socialisti seppero costruire una unità contro il nazismo e il fascismo, sconfiggerlo, e scrivere insieme una costituzione democratica, superando le diversità che li dividevano, negli anni bui nei quali già tra di esse si ergeva il muro della guerra fredda.

Sulla testata della pagina vedete una doppia striscia.

La parte superiore contiene alcuni servizi utili (il collegamento alla homepage, qualche informazione che vi spiega chi sono e vi dice come potete raggiungermi, i collegamenti a questa guida al sito, ai link consigliati, una mappa del sito e un motore di ri-cerca nel sito).

La parte inferiore contiene i collegamenti alle sette sezioni in cui il sito è articolato. A differenza che nel vecchio Eddyburg, adesso l’articolazione è per temi, espressi in modo – speriamo – trasparente:

I miei scritti contiene cartelle che raccolgono testi e informazioni sui miei prodotti cartacei

Società e politica raccoglie, in cartelle e sottocartelle, documenti di vario carattere, consistenza e natura che ho raccolto in giro, o che mi sono stati inviati; alcune cartelle sono aggiornate molto spesso

Città e territorio ha un’organizzazione e una finalità analoghe, ma riguarda eventi che concernono – appunto – le città e il territorio, prevalentemente italiani; anche questa sezione ha cartelle ad aggiornamento costante e frequente

Urbanistica e pianificazione contiene materiali di carattere più disciplinare, concernenti dibattiti, proposte, persone, leggi e atti tecnici e amministrativi relativi al tema

Poesia e non poesia contiene cose che mi piacciono per la loro bellezza: poesie, altri scritti, quadri e disegni, architetture e così via

Mangiare, bere e sorridere raccoglie indicazioni che vi saranno utili se quelle tre attività hanno per voi valore.

Nella home page trovate, sotto la doppia striscia della testata, quattro settori, secondo il modello che l’araldica definisce “inquartato”, in ciascuno dei quali trovate l’incipit o l’annuncio di qualcosa che poi prosegue nelle altre parte del sito:

- a sinistra in alto l’inizio dell’ eddytoriale: una nota nella quale due o tre volte al mese commento una situazione o un evento che mi sembrano significativi

- a sinistra in basso l’elenco delle ultime novità del sito, cioè gli ultimi documenti inseriti, in ordine cronologico (il più recente in alto): il titolo, l’autore e qualche riga di presentazione

- a destra in alto l’annuncio degli ultimi messaggi della posta ricevuta, che trovate seguendo il rinvio

- a destra in basso alcune informazioni “libere” mi sembra utile mettere in evidenza, come ad esempio convegni o altre manifestazioni che mi sembrano tanto interessanti da parteciparvi io stesso, oppure appelli che vi invito a firmare

- a destra ancora più in basso, qualche ulteriore informazione tecnica, come il contatore, i crediti e poco altro.

Nelle altre pagine occorre distinguere le aperture di sezione o di cartella e i documenti:

- nelle aperture trovate in primo luogo la presentazione della sezione (o cartella), con un’immagine a sinistra; sotto, l’ elenco delle cartelle o sottocartelle e dei documenti, ciascuno con una breve presentazione del contenuto

- nei documenti trovate il testo, in formato uniforme, con alcune utilità che vi spiego di seguito

- sia nelle une che negli altri trovate a destra un elenco delle cartelle presenti nella sezione, mediante le quali potete spostarvi facilmente (per spostarvi tra una sezione e le altre, e per accedere ai servizi, utilizzate invece i segmenti della testata)

Alcune utilità costanti del nuovo Eddyburg meritano d’essere segnalate, perché esprimono comodità nuove che vi sono fornite:

- in corrispondenza d’ogni documento, o presentazione, o annuncio di cartella o di documento trovate la data d’inserimento, e il percorso (ciascuna delle cui parole è cliccabile); sapete esattamente dove state, e potete facilmente raggiungere ogni altro luogo

- nei documenti firmati cliccando sul nome dell’ autore raggiungete l’elenco degli altri scritti di quell’autore presenti nel sito: in esso sono cliccabili sia il documento che la cartella in cui è contenuto

- a pie’ di pagina trovate sempre il comando versione per la stampa, che vi consente di stampare direttamente in un formato maneggevole e senza tagli arbitrari del testo

Non posso concludere questa illustrazione del sito (e delle novità introdotte con questa edizione) senza ringraziare quanti mi hanno insegnato a costruirlo e aiutato a farlo: Ciro Palermo e Marina Migliorini in primo luogo, senza i quali nessuno dei siti che ho utilizzato sarebbero stati possibili: se ho fatto dei progressi nell’impiego di questi strumenti è per merito loro; Alessandra Poggiani con la quale ho discusso la nuova struttura e che, con grandissima pazienza e numerosissimi tentativi, l’ha concretizzata nel nuovo visum di Eddyburg; last but not least Ivan Blecic, maestro e collaboratore per la costruzione di questo sito, la persona che ha personalizzato l’ottimo, maneggevole, amichevole ed efficace programma eZ Publish con il quale il nuovo Eddyburg è costruito e le sue nuove utilità sono rese possibili: un programma open-source, utilizzabile da chiunque senza licenza. Grazie a tutte e a tutti.

In un articolo che ho scritto per la rivista Areavasta (e che inserirò nel sito appena possibile) tento di dare qualche elemento in questa direzione. In estrema sintesi, la mia tesi è che gli interventi proposti e la forma istituzionale adottata per studiarli, sperimentarli, progettarli, eseguirli, sono entrambe in palese opposizione con la possibilità di conservare la Laguna così come è: cioè nel suo carattere essenziale di sistema ecologico in permanente equilibrio tra due destini opposti, ed entrambi distruttivi (terra o mare), grazie unicamente al saggio impiego di una costante azione locale di manutenzione/trasformazione svolta guidando e assecondando (ma non stravolgendo né violando) le leggi e i ritmi della natura.

Certo, un’azione siffatta sarebbe in palese contrasto con le leggi che hanno governato lo sviluppo negli ultimi due secoli. Ma sarebbe perciò stesso anche la sperimentazione pratica d’un modo oggi innovativo di affrontare un problema di frontiera, che è aperto in tutto il mondo: quello di gestire il difficile rapporto tra la soddisfazione delle crescenti esigenze dell’uomo e il rispetto dei limiti e delle qualità delle risorse che il pianeta e la sua storia mettono a disposizione nostra (e dei nostri posteri).

È evidente che da un impegno determinato e “alto” in questa direzione potrebbe nascere un nuovo progetto di sviluppo di Venezia e dell’intera Città metropolitana, fondato sulla cultura della qualità e non della crescita quantitativa, sulla conoscenza e sulla fruizione delle straordinarie ricchezze dell’ambiente naturale e storico e non sulla loro dissipazione consumistica, sulla valorizzazione intesa come restituzione di valori esistenti e non come accrescimento del valore fondiario.

Ma quando mai le forze politiche riprenderanno d affrontare simili temi,a costruire e a proporre un progetto di città e di società, invece di affannarsi alla ricerca del consenso immediato (poco importa se dei commercianti o dei proprietari immobiliari, dei gondolieri o delle grandi holding) da spendere alle prossime elezioni?

Le forze politiche, ecco l’altro tema cui voglio accennare: che fanno in Italia? Su che dibattono e si dividono? Non parlo di quelle sul versante berlusconiano, parlo di quelle alle quali vorrei affidare qualche speranza. Magari non per “i domani che cantano” (i lendemains qui chantent di Paul Èluard), ma per un domani democratico come era quello di De Gasperi e Togliatti, e quello di Moro e Berlinguer: quello della Prima repubblica. Insomma, un domani un po’ più simile all’Europa delle grandi socialdemocrazie e della destre civili.

Sul versante opposto a Berlusconi il tifo è tra i fautori del partito unico e quelli dell’alleanza di partiti diversi (Ulivo si, Ulivo no), tra i modi di arrivarci o di non arrivarci, tra le tecniche da adoperare perché nessuna perda nulla del potere che ha (e magari ne guadagni).

È palese a tutti che non sono questi i problemi reali. Sembra a me (che sono solo un osservatore della politica) che quelli centrali siano due: come restituire all’Italia una competitività economica che ha perso. Come impedire che la deriva impressa da Berlusconi alle nostre istituzioni (ivi compreso il quarto potere, la pubblica comunicazione) non arrivi definitivamente al regime verso il quale è ossessivamente avviata.

Che quest’ultimo sia un rischio drammatico il presidente del maggiore partito del centrosinistra non l’ha compreso, visto che continua a deprecare la “ossessione antiberlusconiana”. Ha dovuto ricordarglielo un vecchio cattolico e democristiano, Oscar Luigi Scalfaro. Gliene sono grato.

integrale

I meno giovani, e i giovani informati, ricorderanno che molti anni fa furono varate buone politiche riformatrici (“riformatrici”, non “riformiste”) per la casa, i servizi, i trasporti, la città. Ciò si ottenne perché il sindacato dei lavoratori uscì dal recinto delle fabbriche e delle politiche salariali e normative e affrontò gli argomenti della vita delle lavoratrici e dei lavoratori in quanto cittadini. Il momento chiave fu lo sciopero generale nazionale su quegli argomenti (divenuti rivendicazioni) del 19 novembre 1969, alla quale si riferisce l’immagine qui accanto. Forse si sta riaprendo qualcosa di simile.

Lo vedo nella decisione dei tre sindacati dei lavoratori (e negli omologhi sindacati degli inquilini) di lanciare una petizione popolare per un problema divenuto angoscioso per vaste categorie di cittadini e colpevolmente ignorato da governi e partiti: quello della casa: un aspetto decisivo dello Stato sociale che è stato smantellato nel decennio scorso.

Lo vedo, soprattutto, nell’iniziativa di sei Camere del lavoro (le organizzazioni territoriali della CGIL) che propongono all’intero sindacato di assumere le questioni della città, della sua vivibilità dei diritti pratici dei cittadini nell’uso della città e dei suoi servizi, della tutela dell’ambiente, come temi centrali delle lotte sindacali e come terreno di confronto con la società (di cui il sindacato è parte larghissima ma non esclusiva) e con la politica (che dalle pulsioni profonde della parte maggioritaria della società, e dalle stesse esigenze immediate, sembra sempre più distante). I materiali di quell’iniziativa sono stati pubbblicati dalla rivista Carta nel numero speciale dedicato alle “Camere del lavoro”ora in libreria. Ne continueremo a seguire gli svolgimenti.

A Bologna non solo col sindaco di destra Guazzaloca, ma anche col sindaco di sinistra Vitali si era condotta una politica urbanistica sbagliata: compiacente con gli interessi immobiliari più che con quelli dei cittadini. Gli strumenti derogatori erano stati adoperati con larghezza, al verde e ai servizi si era preferito il cemento e l’asfalto. Alla partecipazione dei cittadini si era preferita quella degli interessi forti. Non era molto chiaro dove il nuovo sindaco Cofferati volesse andare. Adesso, finalmente, è stato presentato il programma che la Giunta si impegna ad attuare: la direzione di marcia è promettente.

Le parti dedicate all’urbanistica, alla casa, all’ambiente, alla partecipazione sono state giudicate molto buone. Esse segnano un punto di svolta rispetto al passato: a entrambi i passati. Nel presentare il programma di Cofferati su queste pagine ci si poteva chiedere: Di nuovo Bologna all’avanguardia, come fu negli anni in cui la città veniva presa a modello e ispirava le migliori riforme? Le premesse ci sono, ne seguiremo lo sviluppo.

Ultima ma non minore, la Sardegna. E stato veramente un amministratore controcorrente Renato Soru quando ha posto un vincolo temporaneo d’inedificabilità su una fascia profonda 2.000 metri dell’isola. All’interno di quella fascia per decenni si era saccheggiato, cementificato, privatizzato. Le parti più belle erano state ridotte a squallide recintate esibizioni di sfarzo e cattivo gusto. Il tycoon che ci governa aveva dato l’esempio, a Villa Certosa, di una nuova stagione di abusivismo, di rapacità privatistica, di volgarità pacchiana, d’illegalità arrogante.

Il fermo alla devastazione (premessa temporanea d’una pianificazione attenta, si spera, alle qualità del territorio e alla libertà di fruizione) aveva provocato una levata di scudi di una parte larga degli opinion maker: da testate insospettabili, ai sindaci della costa. A questi ultimi si è rivolto il Presidente della Regione con un discorso bellissimo, che testimonia la lucidità della sua azione, la profondità della sua convinzione, la solidità del suo impegno, la forza della convinzione con cui difende la sua certezza: sviluppo non è vendere la propria terra.

Venti presidenti di regione così (o quattro segretari di partito, o un premier), e l’Italia sarebbe salva: quello che ne resta.

Sull'iniziativa dei sindacati:

una intervista del segretario generale della CGIL

un articolo di Carla Ravaioli: La crescita non è illimitata

Sul programma di Cofferati per Bologna:

Il testo del programma

Un commento di Paola Bonora

Sul provvedimento di Renato Soru:

il discorso ai sindaci della costa

altre informazioni e commenti sulla Sardegna

l'eddytoriale 53 del 27 agosto 2004

Bisogna comprendere che nell’Islam si agitano fantasmi e pulsioni mortifere, che è nell’interesse di tutti gli uomini di buona volontà – di qualunque parte del mondo, di qualunque culture, religione, etnia – sconfiggere per sempre. Ma bisogna comprendere anche (e in primo luogo, poiché è qui, in Occidente, che viviamo) che il terrorismo che è divampato in Iraq è stato concimato dalla folle politica dell’attuale Presidente degli USA, che ha colto l’occasione dell’orrore delle Twin Towers per perseguire un disegno di potere messo a punto anni prima: terribile occasione, e ancor più terribile coglierla in quel modo.

Bisogna comprendere che l’altro terrorismo, quello ceceno, quello della strage degli innocenti della scuola dell’Ossezia, è stato concimato dal genocidio praticato dalla Russia in Cecenia. Bisogna comprendere che gli attentati suicidi negli autobus e nei ristoranti di Israele (un altro terrorismo ancora) sono stati concimati dai decenni di miseria, di violenza, di sopraffazione nei campi di concentramento e negli altri recinti nei quali sono stati rinchiuse generazioni di palestinesi.

E bisogna comprendere che la minoranza planetaria che pretende di comandare il mondo (perché è la civiltà “superiore”) non può reclamare la solidarietà, e neppure la tolleranza, di quella maggioranza del mondo che i secoli del suo trionfo economico e politico hanno abbandonato (se non gettato) nella miseria e nella morte. Ancora oggi, alcune centinaia di bambini trucidati in Europa accendono infiniti riflettori di più di quanti illuminano le decine di migliaia di bambini sterminati in Africa.

Bisogna comprendere tutto questo per vincere il terrorismo dilagante. E bisogna agire di conseguenza. È stato aperto il vaso di Pandora. Non ha senso inseguire uno ad uno i diavoli che ne sono usciti: sono infiniti. Occorre richiudere il vaso. Non ha senso indossare l’elmetto e circondare il campo dove si nascondono i terroristi: è un campo più vasto delle armate che vogliono accerchiarlo. Occorre togliere al terrorismo l’humus dal quale si alimenta.

Non è Bush, non è Putin, non è tantomeno Berlusconi a lavorare in questa direzione: anzi, continuano a gettare benzina attorno ai fuochi. La direzione l’ha indicata e praticata un altro uomo di destra, Chirac. Senza cedere al ricatto (e mantenendo attiva la legge che i terroristi chiedevano di abrogare) ha aperto immediatamente il dialogo con il mondo all’interno del quale, come pesci nel mare, navigano e si alimentano i gruppi terroristici. Non so ancora, mentre scrivo queste righe, se l’iniziativa della Francia avrà successo. Ma i giornali già ci dicono che gli ostacoli e i bastoni fra le ruote non vengono dal mondo arabo o dall’Islam: vengono dalle forze d’occupazione.

Sul ruolo e sulla politica di queste forze, e dei loro dirigenti remoti, occorrerebbe lavorare. Magari a partire dall’assassinio di Enzo Baldoni, a proposito del quale troppi interrogativi sono rimasti aperti. Come mai le bugie del governo italiano e della Croce rossa? Come mai indossava la maglietta della sua guida? Come mai il filmato era falsificato? Come mai, a differenza a dei colleghi francesi, vi appariva tranquillo e disteso, ironico, come se fosse tra suoi amici e non tra i terroristi? Come mai il secondo filmato si è ridotto a un’unica fotografia? Come mai non si è trovato il suo corpo, e quello della guida non è stato analizzato? Insomma, lo hanno assassinato i terroristi o altri?

Gli eventi di questi mesi gettano luci inquietanti sul mondo dell’Islam, ma anche su quello che solidalmente gli si oppone, elmetto in testa.

Non si tratta di una rivendicazione di competenze. Il nuovo Statuto si limita a dire, nell’articolo dedicato alle finalità generali, che “la Regione persegue, tra le finalità prioritarie”, nientedimeno che “la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”, nonché “la tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”. Nulla dice lo Statuto su chi legifera in materia di patrimonio culturale. Nulla sottrae alle competenze stabilite dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie. Si limita a tradurre nello Statuto della Regione Toscana (e mi meraviglierebbe se le altre regioni non l’avessero fatto o non lo facessero) il dettato dell’articolo 9 della Costituzione: “la Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

La Repubblica, dice la Costituzione. Quell’ente, cioè, che secondo la Costituzione oggi vigente “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. In altri termini, quali che siano le competenze legislative in materia, è evidentemente (e costituzionalmente) dovere di tutti i livelli di governo, di tutte le istanze della Repubblica, assumere come finalità della propria azione (dei propri compiti di amministrazione, di gestione, di pianificazione, di regolamentazione, di promozione, di vigilanza, di repressione) quello della tutela del patrimonio culturale.

Non fu del resto la stessa Corte costituzionale, alla quale oggi il governaccio Berlusconi si rivolge, a stabilire che l’azione di tutela non può esercitarsi solo a livello nazionale, ma deve interessare tutti i livelli di governo? Nella sentenza 151/1986, ad esempio, la Corte sostenne che con la legge 431/1985 si era ribadito il concetto di “una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” una “riconsiderazione assidua” che postulava che le azioni di protezione del patrimonio culturale, avviate dal livello nazionale, venissero poi proseguite ai livelli regionale, provinciale, comunale.

Il tentativo del governo di invalidare le affermazioni di principio dello Statuto toscano è inaccettabile sul piano dei principi, come argomenta con efficacia Luigi Scano nella nota scritta per Eddyburg. Ma è pericolosissimo sul piano pratico. Esso può infatti indurre a comportamenti lassisti gli attori del sistema delle autonomie. “È Roma che si occupa della tutela, quindi possiamo (anzi, dobbiamo) non occuparcene noi”. Errore gravissimo sarebbe quello di adottare un comportamento siffatto. Poiché si tratta di una materia che - per la sua stessa natura, per la straordinaria ricchezza del patrimonio nazionale, per il suo essere distribuito e diffuso in ogni luogo e città e paese e contrada e valle e riva - fortemente richiede che la ricognizione e tutela dei suoi elementi siano svolti con “assiduità” da tutte le componenti dell’altrettanto ricco tessuto dei poteri e delle responsabilità pubbliche.

Preoccupa perciò, oltre alla improvvida iniziativa del governo, il silenzio che su questo punto hanno manifestato le Regioni. Da quelle che ritengono che la tutela del patrimonio culturale, storico, paesaggistico non sia solo argomento di retorici gargarismi ci si aspetterebbe una tempestiva adozione, nei loro statuti, di formule analoghe a quella adottata dal Consiglio regionale della Toscana: sarebbe il miglior modo di protestare contro un centralismo lesivo degli interessi nazionali.

Sull'impugnativa del Governo si veda la nota di Luigi Scano

Sul tappeto ci sono molti articolati. Quelli dell’on. Lupi, della “Casa delle libertà” e dell’on Mantini, della Margherita: su di essi mi sono già soffermato, sottolineandone le analogie e le differenze. E quello dell’on. Sandri, dei DS, che riprende positivamente i lineamenti culturali della legge regionale dell’Emilia Romagna. Poi c’è una bozza di testo unificato proposto alla Commissione parlamentare dall’on Lupi, che è una riproposizione peggiorata della proposta Lupi, con inserito qualche brandello della Mantini.

A me sembra che, in questa fase della nostra vita politica, non abbia senso lavorare nella logica del miglioramento del testo della maggioranza. Troppo lontane sono le posizioni espresse da questa con quelle che dovrebbero essere proprie di una forza di governo riformatore (e magari perfino “riformista”) europeo. Forse è il caso di fare lo sforzo per enucleare una chiara posizione alternativa: solo una visione miope potrebbe condurre a soluzioni diverse. Nessun “depeggioramento” è possibile al cospetto di una cultura per la quale gli interessi particolari devono prevalere su quelli generali (ai quali è concesso di essere la somma dei primi), il privato sul pubblico, l’immediato sulla prospettiva (e il forte sul debole, il ricco sul povero, il bianco sul colorato, il padano sull’italiano).

Su quali punti dovrebbe articolarsi una proposta politica e culturale alternativa, che sia moderna, democratica ed europea? Ho provato più volte a proporli. Li presento di nuovo, molto sinteticamente.

Tre principi fondamentali: la prevalenza dell’interesse pubblico, il principio di pianificazione (le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, comprendenti l’insieme delle scelte che competono all’ente decisore, formati con procedure trasparenti), il principio di competenza (la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune.

Generalizzazione della prassi della concertazione istituzionale, ossia procedure analoghe alle conferenze di pianificazione instaurate da alcune regioni, a condizione che ne siano definite con chiarezza le modalità. In particolare, che sia stabilito che gli accordi di programma, e in generale gli strumenti che prevedono il concorso nelle decisioni di soggetti diversi dagli organi degli enti elettivi di primo grado, non possono derogare rispetto alle scelte stabilite dal sistema ordinario della pianificazione.

Un principio che riguarda i diritti dei cittadini: la questione dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che devono essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Quindi, determinazione di alcuni “limiti non derogabili” che devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio. Vogliamo ricordare anche il diritto ad abitare?

Alcuni principi relativi al rapporto tra interessi privati e interessi pubblici: ciò che andrebbe stabilito, ribadendo con chiarezza posizioni giuridiche spesso ribadite dalla giurisprudenza:

- i “diritti edificatori” si costituiscono solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati;

- i vincoli ricognitivi non sono indennizzabili, come stabilito da una costante giurisprudenza costituzionale;

- i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti;

- la perequazione può essere praticata solo nell'ambito di ciascun comparto d’intervento operativo.

Infine, è giunto il tempo di dichiarare che il paesaggio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. E sarebbe opportuno disporre per i centri storici una tutela più immediata, generalizzata e legata a programmi d’intervento finanziati.

Su questi o analoghi punti occorrerebbe discutere, col massimo di chiarezza. Non per emendare il “testo unificato”, ma in vista di un futuro governo democratico ed europeo. Un governo che non sembra dietro l’angolo, e nel quale ci sarà molto molto da lavorare: cominciando con lo sbaraccare il terreno dalle nefandezze costruite dal governo Berlusconi. Come ricorda la signora di Altan, effigiata in cima a questa pagina, e come i leader dei diversi velocipedi non ci hanno ancora promesso.

Mi piacerebbe che chi governa, e chi si propone di farlo, partisse dalla valutazione degli interessi materiali e morali delle cittadine e dei cittadini. Non solo di quelli di oggi, ma anche di quelli di domani, e che su questa convinzione basasse le sue scelte a proposito dei patrimoni della cultura, del paesaggio e del territorio. Non solo di quelli che hanno voce in capitolo, ma “dell’uomo che va in tram”, per usare il titolo di un bel libro di Carlo Melograni: della donna e dell’uomo che lavora, che vive col suo salario, che non usa l’automobile per andare al lavoro, non usa la scuola privata per i suoi figli, non si cura a Lugano ma alla ASL locale.

Mi piacerebbe che perciò dimostrasse consapevolezza del fatto che, in una società complessa come la nostra, molte esigenze vitali possono essere soddisfatte solo con un forte rilancio dei valori, e degli strumenti, della collettività in quanto tale, e quindi anche del pubblico: penso alla scuola, alla salute, alla mobilità, all’abitare. E penso a una cultura ridotta a distorcente spettacolo e a veicolo di consumi inutili e sempre più spesso dannosi (lo dimostrano le nuove malattie sociali, come l’obesità), a causa anche di una colpevole assenza di impegno, dei partiti non accucciati nella difesa degli interessi dominanti, sul terreno cruciale delle comunicazioni di massa. (Un’assenza, occorre precisare, che non è cominciata con il governo D’Alema).

Mi piacerebbe che riconoscesse che la scomparsa delle grandi ideologie (e quindi dei grandi progetti di società, dei grandi ideali, delle grandi speranze) ha delegittimato i partiti, e che quindi, se questi non vogliono ridursi a camarille preoccupate solo di conservare il propria fetta di potere, la ricerca e la promozione della partecipazione popolare è una scelta obbligata, non un optional: è l’unica strada attraverso la quale si può tentare (con molta fatica, con molto impegno, con molta intelligenza) di ritrovare una sintonia durevole tra eletti ed elettori, tra rappresentanti e rappresentati, e quindi le ragioni di una nuova politica.

Per tutte queste ragioni (e anche perché sono un urbanista) mi piacerebbe che il tema di fondo, attorno al quale tutti gli altri si annodano e trovano riscontro, fosse quello del governo della città e del territorio. Non nell’astrazione delle tecniche che di loro si occupano, ma nella loro concretezza, nella fisicità, nella funzionalità e nella disposizione dei loro elementi: le case (disponibili o no per chi ha un reddito di lavoro) e le strade (libere per i pedoni, le carrozzine, le biciclette e i tram, oppure intasate di automobili), le campagne (destinate alla ricreazione, alla salute, alla produzione di derrate sane, oppure all’edificazione attuale o futura) e i fiumi (utilizzati dalle acque che scorrono sopra e sotto il suolo e alimentano le nostre essenziali risorse, o dalle costruzioni in golena e dai rifiuti in alveo), i servizi scolastici, sanitari, commerciali, sportivi (facilmente accessibili, collegati da una rete di percorsi piacevoli e sicuri, oppure casualmente sparpagliati sui lotti residui e marginali) e i servizi di trasporto collettivo (comodi, frequenti, intelligentemente connessi nelle loro modalità e disegnati in relazione alla domanda di mobilità, oppure casualmente collocati segmento per segmento e distrattamente gestiti).

È la politica urbanistica insomma, nelle sue tre funzioni strategica, regolativa e operativa, che dovrebbe essere insomma al centro delle discussioni e decisioni politiche, nelle città e nelle province. E domani, molto presto, anche nelle regioni e nella Repubblica. È su questi temi che le opzioni delle diverse parti dovrebbero essere chiare, la scelta tra i diversi interessi esplicita, il consenso popolare (del popolo, non dei soliti interessi forti) attivamente ricercato. Non mi pare – almeno dalla lettura dei giornali e dagli sporadici riscontri personali – che di questi temi si parli molto, nel paese oscillante tra un berlusconismo con Berlusconi e un berlusconismo senza.

Peccato che alcune cose non siano vere. Peccato che la regola che vige in quell’area (e in tutta la penisola amalfitana) sia quella del piano urbanistico territoriale approvato con legge regionale e mai abrogata. Peccato che la giustizia amministrativa lo abbia già accertato, con l’ordinanza n. 1350 del 5 luglio 2000 del Tribunale amministrativo regionale, e che perciò non sia vero che quel progetto “; rispetta scrupolosamente le norme urbanistiche”.

Intendiamoci. Col progetto di Niemeyer si può essere d’accordo o no. A me, personalmente, l’oggetto non piace. Soprattutto non piace lì: non ritengo che quell’area richieda altri interventi se non quelli della “pulizia” dei piccoli interventi abusivi, di un’attenta e continua manutenzione, della intelligente valorizzazione degli splendidi spazi e volumi che già la rendono ricca di incomparabile valore. E mi sembra pericoloso aggiungere un ulteriore elemento di forte richiamo (in quel contesto 400 posti non sono pochi) in un ambiente le cui infrastrutture sono già congestionate e, per poter “smaltire il traffico”, sono già state oggetto di interventi orripilanti. A me, insomma, un nuovo oggetto lì mi sembra inutile e dannoso. Comprendo però che si possano avere pareri, e gusti, diversi. Che si possa amare così forsennatamente Oscar Niemeyer da considerare un suo oggetto lì così importante da meritare qualche rischio in più di allargare le strade d’accesso. Che si possa apprezzare così poco il paesaggio delle ville Rufolo ed Episcopi da volerlo migliorare con qualche nuovo inserimento. De gustibus non est disputandum (traduco per i moderni: “non si discute sui gusti”).

Ciò che non comprendo è come mai personaggi così seri, autorevoli, intelligenti, sicuramente democratici quali sono indubbiamente tutti i firmatari (che vanno da Oliviero Beha a Massimo Cacciari, da Vittorino Andreoli a Corrado Augias, da Attilio Belli a Fausto Bertinotti, da Laura Balbo a Franco Barbagallo, da Mario Manieri Elia a Paolo Sylos Labini, da Vittorio Sermonti ad Alberto Wite, da Ermete Realacci a Giorgio Ruffolo, da Remo Bodei a Cesare de Seta, da Antonio Girelli a Benedetto Gravagnuolo, da Miriam Mafai a Giovanni Valentini, da Cesare Stevan a Roman Vlad, e tanti altri) siano così indifferenti della questione della legalità.

Perchè di questo si tratta, prima di ogni altra cosa. Esiste una regola, definita con legge, valida nei confronti di tutti. Questa legge stabilisce che cosa, nella penisola amalfitana, si può fare e non si può fare. È abbastanza rigorosa: è stata fatta nel clima della legge Galasso, della protezione dei paesaggi naturali e storici. Ed è impressionante, scorrendo sulla stampa locale le dichiarazione dei difensori dell’auditorium, scoprire come la legge venga vista come un impaccio burocratico, una fastidiosa remora, qualcosa comunque che è del tutto impari rispetto alla nobiltà di un progetto firmato dall’Architetto Oscar Niemayer. Come la legge venga considerata qualcosa che si può “correggere”, o magari semplicemente “interpretare”, purché l’Opera Bella prevalga.

Amici, maestri, sono spaventato. Perché la logica è quella stessa di Berlusconi.

L’episodio si presta a due ordini di considerazioni. In primo luogo, dopo oltre un decennio di esperienza è possibile fare un bilancio dell’applicazione degli “strumenti innovativi” e dei loro effetti sulla città. A Bologna la benemerita Compagnia dei Celestini si è impegnata da tempo in un’analisi accurata. Essa conferma l’esito deludente (perfino in una città nella quale l’amministrazione dell’urbanistica è stata storicamente all’avanguardia) delle “innovazioni” facilone introdotte in Italia. Le valutazioni sugli esiti dimostrano infatti l’inconsistenza da un lato, la negatività dall’altro dei risultati raggiunti. Non hanno cambiato in meglio l’assetto delle città, non hanno introdotto in modo generalizzato (o almeno ampio) nuova qualità urbana, non hanno ridotto i tempi del processo delle decisioni: non hanno insomma prodotto i risultati che dovevano motivarne l’esistenza e lo “strappo” rispetto alla pianificazione tradizionale. Invece, hanno rivelato la loro vera natura: strumenti per restituire alla valorizzazione privata aree destinate dai piani urbanistici a funzioni pubbliche, per derogare alle norme garantiste relative alle densità edilizie e agli altri parametri finalizzati alla vivibilità e all’igiene, in una parola, per derogare nell’interesse privato dei proprietari immobiliari alle norme poste nell’interesse dei cittadini.

Anche a Bologna, e non solo negli anni di Guazzaloca. Il programma dei 26 PRU è infatti il prolungamento (ovviamente peggiorato) di una linea già percorsa dalla giunta Vitali. Il centrosinistra aveva promosso, mediante il medesimo strumento, il doppio delle costruzioni avviate adesso: anche allora, sulla base delle richieste degli immobiliaristi, su aree aventi una diversa destinazione di PRG. La continuità della politica urbanistica della giunta di centrodestra con quella di centrosinistra è probabilmente la ragione per cui i DS si sono presentati divisi sulla valutazione del programma dei 26 PRU.

Una simile continuità, in un campo delicatissimo nel quale da sempre Bonomia docet, ove persistesse sarebbe per il nuovo candidato sindaco Sergio Cofferati uno scoglio forse più duro dello stesso Guazzaloca. Gli auguro di cuore di superarli entrambi: per Bologna ma anche per il significato più generale che una decisa correzione di rotta avrebbe.

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