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Roberta Carlini ha scritto che la finanziaria non spiega a sufficienza se l'obiettivo finale sia il risanamento o lo sviluppo, nè quale scelta vi sia tra welfare e mercato. Forse questo non era il compito di un provvedimento finanziario. Ma è certo compito della politica spiegare quale sviluppo si intenda perseguire superata l'esigenza impellente del risanamento finanziario,e quale rapporto si intenda costruire tra welfare e mercato. E una politica economica che non spiega se stessa non sollecita a schierarsi chi dovrebbe difenderne gli strumenti: su questi si mobilitano gli interessi colpiti (anche se in modo del tutto marginale, e là dove i margini per tagliare sarebbero ampi), mente restano inerti i cittadini interessati a sostenerla poichè non comprendono per quali prospettive debbano farlo.

Il fatto è che i cittadini non sanno quali siano, nel concreto, i costi della società, come siano composti, quali siano riducibili e quali no, quali giusti e quali ingiusti. Così come non sanno mediante quali canali, diretti e indiretti, si drenano i soldi per pagarli, e da quali tasche essi scaturiscano. Nella seconda edizione della Scuola di Eddyburg abbiamo affrontato (dopo quattro sessioni spese a illustrare problemi e soluzioni possibili per la casa, l’ambiente,la mobilità, le politiche pubbliche) un argomento cruciale: chi paga i costi della città?

Una cosa è emersa con chiarezza. Una parte troppo alta del costo della città va alla rendita, cioè a quella forma di reddito che, come ha scritto di recente Giorgio Lunghini, “non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà”. La rendita erode salario e profitto. La tassa occulta che essa costituisce incide pesantemente sull’affitto, ricade sul costo delle merci e dei servizi. La facilità di fruirne ha spinto il capitale industriale a spostare le sue risorse dall’innovazione e dalla ricerca verso gli investimenti finanziari e immobiliari,condannando l’economia del Paese alla stagnazione. Qualcuno oserebbe opporsi alla lieve incisione sulla rendita compiuta con la finanziaria se tutti avessero presenti queste verità?

Si è anche discusso (alla Scuola di Eddyburg e nelle polemiche a proposito di finanziaria) del ruolo degli enti locali: hanno ancora senso le Province, e non costa troppo una democrazia così articolata (quattro livelli di governo) come quella italiana? Sulla stampa quotidiana un ottimo articolo di Diego Novelli,già sindaco di Torino e valoroso parlamentare, ha ricordato come il Parlamento avesse deciso, alla fine degli anni Novanta, una riforma degli enti locali che ne prevedeva la razionalizzazione, e come quella riforma non fosse stata attuata per tiepidezza dei partiti e per il rifiuto dei sindaci dei grandi comuni (Rutelli, Bassolino, Castellani: Roma, Napoli, Torino) a cedere i loro poteri.

I sindaci di oggi protestano per i tagli ai bilanci comunali. La loro protesta avrebbe maggior sostegno se rendessero trasparenti i bilanci, se dissipassero i veli ragionieristici che li rendono incomprensibili ai cittadini. Se pubblicassero, ad esempio, l’elenco delle consulenze con i relativi importi e il rendiconto dell’attività svolta. Se rendessero esplicito quanta parte delle spese sostenute per i Grandi Eventi che hanno dato lustro alla città è venuta dal bilancio dello Stato (quindi dalle tasche di tutti i cittadini). E se, prima di gloriarsi per l’aumento del numero dei turisti e di investire risorse per eventi che ne attirino altri, spiegassero ai cittadini quanto costa ogni city user: chi paga (e quanto paga di tasse) per le spese che la città sostiene, e chi guadagna (e quanto paga di tasse) chi ne cattura i soldini.

Vogliamo "bilanci partecipativi"? Non chiediamo tanto, ci basterebbero bilanci trasparenti per tutti, non solo per i padroni della città.

L'immagine di Sergio Staino è tratta dal sito del Comune di Empoli (Firenze)

Cominciamo dalla forma, la quale spesso è sostanza. Soprattutto in una legge, che è un insieme di regole che devono essere applicate da qualunque operatore. Sciatteria, confusione, contraddizioni, termini uguali adoperati con significati diversi, espressioni non comprensibili: di ciò pullula la legge, e non l’hanno rilevato solo commentatori ostili al suo contenuto, ma anche personalità del mondo che ha condiviso le “innovazioni” introdotte da Lupi (mi riferisco all’INU).

Veniamo al contenuto. Voglio sottolineare solo un punto. Come tutti i critici hanno osservato, in quella legge l’iniziativa e la decisione nelle scelte di organizzazione del territorio passa dalle mani dell’autorità pubblica a quella degli operatori immobiliari. Con tre conseguenze gravi: sul territorio e sul paesaggio e, di conseguenza, sulla vita delle cittadine e dei cittadini; sul sistema dei poteri democratici; sull’economia e le sue prospettive.

L’interesse degli operatori immobiliari è quello della massima “valorizzazione” della proprietà, ovunque questa sia collocata. Ma è proprio per limitare i fallimenti del mercato e massimizzare il benessere collettivo che è nata, nelle democrazie liberali, l’esigenza di un governo pubblico delle decisioni sul territorio e la pratica della pianificazione urbanistica: un’esigenza vieppiù accresciuta quando si è compreso che non solo l’organizzazione del territorio ma anche la sua forma (il paesaggio) sono interessi comuni da tutelare.

Le nostre città testimoniano con l’evidenza dei fatti che dove la pianificazione è diventata prassi corrente nell’azione amministrativa le città sono abitabili e i paesaggi ancora salvi (le città dell’Emilia Romagna e le campagne della Toscana lo testimoniano, ma non sono le sole in Italia), dove la regola è stata imposta dalla proprietà immobiliare le città sono dei mostri (la Napoli del film “Mani sulla città” di Francesco Rosi ne è l’icona).

Promulgare una legge nella quale si afferma che la pianificazione è esercitata “prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi” (articolo 5, comma 4), e precisare che la negoziazione si svolge con i “soggetti interessati” alle trasformazioni (articolo 8, comma 7), significa tornare - nel mondo - a prima del piano di New York del 1811 e - in Italia - ai tempi denunciati da Francesco Rosi e dalle condizioni di vita in molte nostre città.

L’indebolimento dei poteri pubblici nei confronti degli interessi immobiliari non è espresso solo da quella affermazione generale, ma dal complesso dei meccanismi che la legge vorrebbe porre in essere. Il più smaccato è l’introduzione del silenzio-assenso nella verifica della conformità delle proposte di edificazione con le previsioni urbanistiche, ma anche l’obbligo puntiglioso per i comuni di motivare ogni e qualsiasi proposta di modifica ai piani adottati o di esproprio per pubblica utilità che venga rigettata è (per chi conosca la capacità d’inventiva della proprietà immobiliare nel proporre edificazioni e la debolezza cronica delle pubbliche amministrazioni gravate sempre più di oneri burocratici e private sempre più di risorse) un ignobile invito a lasciar correre e acconsentire tacendo alle proposte immobiliari.

Che dire poi del fatto che lo Stato (con buona pace non della “bossiana” devoluscion e del federalismo, ma dello stesso regionalismo) riprende tra i suoi “compiti e funzioni” nientedimeno che “il rinnovo urbano” (articolo 3, comma 1)? Forse per gli investimenti che si vogliono attribuire alla proprietà immobiliare nei “programmi urbani complessi”? E che dire del silenzio sulle modalità e le procedure con le quali lo Stato eserciterà le decisioni sul territorio per i settori d’intervento di sua competenza?

Pesanti riflessi avrà la legge Lupi (se il Senato non provvederà a fermarla) sul sistema economico. Non solo per la crescente inefficienza che sempre più condizionerà città e territori sottratti alla logica della pianificazione e affidati alla negoziazione, in regime di subalternità del pubblico alla congenita miopia degli interessi immobiliari. Non solo, insomma, per la crescita di tutte le ragioni dei dissesti attuali, ma anche per una ragione pienamente strutturale. La legge, secondo tutti gli osservatori appena smaliziati, è un poderoso incentivo alle rendite immobiliari, e a quelle finanziarie sempre più con esse intrecciate. Ebbene, non è proprio nel prevalere della rendita sul profitto e sul salario, delle attività speculative su quelle produttive, che i più attenti osservatori economici hanno visto una delle cause di fondo del declino economico del nostro Paese?

Battere la legge Lupi significherebbe allora dare un segnale d’inversione di tendenza anche sul terreno sul quale si gioca il futuro del nostro sistema economico, e quindi della nostra società. Ci si potrà poi dividere sul ruolo che i diversi interessi che compongono il mondo della produzione dovranno svolgere, sulla composizione tra i diversi interessi dialetticamente contrapposti, sulle regole e sulla durata dell’auspicato patto tra i produttori. Ma un fatto è certo, sconfiggere l’ulteriore prevalere delle rendite comporta, come primo passo, il profondo ripensamento delle regole di governo del territorio che la Camera dei deputati ha improvvidamente licenziato, e consegnato alla saggezza (speriamo) dei senatori della Repubblica.

Della legge urbanistica del 1942 si poté dire che aveva segnato la sconfitta degli interessi legati alla speculazione immobiliare e la vittoria degli interessi legati ai settori avanzati dell’economia. Della legge Lupi, se diventerà legge dello Stato, si dovrà dire il contrario. Avrà vinto una maggioranza molto più arretrata di quella che, in pieno regime fascista, approvò la legge 1150/1942.

Il testo della Legge Lupi

Un libro: La controriforma urbanistica

Una cartella di testi e documenti

Un filo evidente lega questi tre avvenimenti: più precisamente, lega gli effetti dello Tsunami alle grandi questioni del destino del nostro pianeta e dell’incapacità del vigente sistema economico-sociale ad assicurare benessere e sicurezza a tutte le donne e li uomini.

Accettare o meno come inevitabile ed eterno il sistema basato sull’accrescimento sistematico dell’accumulazione capitalistica, sul dominio del mercato su ogni altra regola, sulle procedure e garanzie di libertà inventate ed applicate dalla borghesia? Questo è l’argomento che, alla fine dei conti, segna la differenza tra le sinistre “radicali” e le componenti del “riformismo”.

Il sistema capitalistico-borghese ha indubbiamente portato vantaggi enormi all’umanità: ha sottratto masse sterminate alla povertà, alla malattia, alla morte precoce; ha determinato condizioni e garanzie di libertà e d’uguaglianza in interi continenti, e fomentato in altri tensioni verso i medesimi diritti; ha provocato uno sviluppo tecnologico che ancora stupisce. Ma al tempo stesso ha generato altre povertà, malattie, morti precoci; ha accentuato ingiustizie che urlano ribellione e vendetta; infine, si è rivelato incapace a governare i nuovi squilibri che esso stesso ha provocato allontanandosi (grazie al carattere del suo stesso sviluppo tecnologico) dalla necessaria naturalità della condizione umana.

Non è allora doveroso – più ancora che ragionevole – porre al centro di una riflessione non disarmata la ricerca, e la speranza, della possibilità di inverare un sistema fondato su valori diversi, più ricchi e più lungimiranti, non più appiattiti solo sulla crescita economica e sui diritti individuali? Questo è dunque il tema che occorre affrontare per disegnare un futuro diverso non solo all’Italia, ma all’umanità intera.

Il futuro, però, si prepara anche nel presente: altrimenti, la ricerca verso il domani può diventare una sterile fuga. È allora del tutto ragionevole che la componente “riformista” (che vuole aggiustare il sistema) e quella “radicale” (che vorrebbe cambiarlo) si riuniscano per affrontare i problemi dell’oggi e trovare per essi risposte comuni. Ed è positivo che abbiano trovato (come sembra dalle anticipazioni giornalistiche) un accordo pieno proprio sulle questioni dell’ambiente. La loro potenziale catastroficità è stata squadernata dallo Tsunami, ultimo di una catena di eventi che rivelano come l’arroganza della civiltà contemporanea abbia piedi d’argilla.

Le questioni dell’energia e dell’acqua, delle aree protette e dei rifiuti, della difesa del suolo e dei trasporti, della fiscalità ecologica e dell’agricoltura (riprendo dall’articolo di Giovanni Valentini l’elenco dei temi affrontati dal TAO, il Tavolo Ambiente dell’Opposizione) costituiscono certamente aspetti rilevanti della questione ambientale, ed è significativo che il primo testo base che verrà presentato all’esordio ufficiale del TAO sarà quello sull’energia e i cambiamenti climatici, predisposto dalla commissione di cui è presidente una persona seria e preparata come Paolo degli Espinosa.

C’è un tema però che è strettamente connesso alle questioni che ho finora evocato, e che sembra ignorato dalle agende dei “riformisti” come da quelle dei “radicali”: è la questione del governo del territorio, del sapere che sta alla sua base (l’urbanistica), del principale dei suoi strumenti (la pianificazione). È solo la pianificazione, una pianificazione basata sull’attenta e assidua considerazione dei valori e dei rischi dell’ambiente, che può aiutare a trovare una sintesi tra le diverse esigenze relative all’uso del suolo, a tradurla in regole valide erga omnes, a definire le opere necessarie alla vita degli uomini e allo sviluppo duraturo della società. Ed è solo una pianificazione di cui sia protagonista un’amministrazione pubblica autorevole, efficace, braccio operativo delle istituzioni nei quali si esprime l’attuale democrazia, capace di indicare le direttrici da percorrere e i precetti da rispettare, che può ottenere che l’interesse degli individui e delle aziende non prevalga sull’interesse collettivo, ma ne sia al servizio.

Una pianificazione, e un governo del territorio, molto lontani da quelli – dominati all’asservimento agli interessi privati della proprietà immobiliare – cui spalanca le porte la legge “per il governo del territorio” all’esame della Camera dei deputati. Sarebbe un buon segnale se, dai luoghi dove si discutono le prospettive e i programmi delle diverse e variegate sinistra, venisse un chiaro gesto di rigetto di quella legge e se, nelle agende della riflessione programmatica, il governo del territorio trovasse finalmente il suo ruolo.

Un eddytoriale sulla legge

Una lettera di Giovanni Caudo

Si parla di due iniziative, che appaiono culturalmente e politicamente coerenti e tra loro connesse. Una proposta di legge regionale d’iniziativa popolare, promossa da Legambiente e da alcuni docenti del Politecnico; il Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp), di cui è responsabile l’assessore provinciale al territorio, il verde Pietro Mezzi.

Sia la proposta di legge che il Ptcp hanno al loro centro l’impegno a ridurre il consumo di suolo. Pietro Mezzi, dopo aver fornito dati allarmanti sul consumo di suolo nel territorio provinciale, dichiara che il nuovo piano si pone l’obiettivo di contrastarlo ponendo un limite all’urbanizzazione, disegnando una rete ecologica provinciale, individuando le aree destinate all’attività agricola. Enfasi giustamente posta su un problema indubbiamente centrale, temi pragmatici correttamente enunciati: ma bisognerà verificare quale efficacia avranno le scelte del piano provinciale sulle pianificazioni comunali, e come il limite al consumo di suolo sarà territorialmente articolato (per evitare che restino immutate le previsioni dei piani pregressi nelle zone in cui il limite è già superato, e che nelle altre il limite, più alto della situazione attuale, non spinga ad accentuare le spinte all’edificazione).

La stessa ispirazione muove la proposta legislativa, della quale abbiamo per ora solo informazioni giornalistiche. Essa si muove certamente nella direzione giusta: quella di contenere il consumo di suolo e di accompagnare ogni nuova edificazione dall’attrezzatura di una adeguata quantità di verde pubblico. Il meccanismo proposto (che ha conquistato il ministro Pecoraro Scanio, intenzionato a proporlo a livello nazionale) è la “compensazione ecologica preventiva”. Per dirla con Giovanni Caudo, “il passo è nella direzione giusta, ma bisogna capire se la testa lo segue”. Se si abbandona lo slogan e si passa alla concretezza della disciplina sorgono numerosi problemi.

Il primo. La cessione di aree non può essere l’unica regola da stabilire. Occorre preliminarmente stabilire che cosa si deve costruire, dove, per chi, a quali prezzi dell’immobile realizzato. È quello che una volta si chiamava “calcolo del fabbisogno”, e che oggi dovrebbe certamente assumere un significato quantitativo e qualitativo più ampio, dovendosi arricchire di valutazioni e decisioni relative all’uso finale del bene realizzato. Se non si parte da qui si rischia di fare come il PRG di Roma, che concede edificabilità a go go a condizione che un po’ d’area venga utilizzata per spazi pubblici.

Il secondo. Quali aree devono essere destinate perennemente alla natura o all’uso pubblico, chi le sceglie? Se per ogni intervento è l’operatore che cede una parte dell’area in cui interviene allora non c’è nulla di nuovo: è la prassi generalizzata fin dal 1967 con la lottizzazione convenzionata, e poi dal 1977 con gli oneri di urbanizzazione (uno strumento che è stato dissolto da dissennate politiche regionali e comunali). Se è l’operatore che sceglie l’area da conferire alla collettività, allora non c’è il rischio, ma la certezza che saranno “sacrificate” le aree più marginali, dissestate, inutili. Se invece, come sarebbe ragionevole, le aree sono scelte tra quelle che la collettività, con un piano (magari definito a livello sovracomunale) individua come le più idonee dal punto di vista delle loro caratteristiche proprie e da quello della loro collocazione in un disegno coerente del territorio, allora con quali meccanismi si può ottenere il trasferimento alla collettività?

Come si comprende dalle due questioni che abbiamo evocato il tema non riguarda solo le politiche ambientali ma, più compiutamente, quelle territoriali, e in primo luogo quella urbanistica. Speriamo che il testo della proposta di legge dia una risposta positiva alle domande che abbiamo posto, altrimenti avrebbero buon gioco quanti vorrebbero utilizzarne l’annunciato dispositivo per lottizzare qualche parco già previsto. Speriamo che la linea di lavoro indicata dalle due iniziative cui ci riferiamo non trovi ostacoli nell’ambito dell’attuale maggioranza, e non sia significativa la inaspettata presa di distanza del presidente della Provincia. E speriamo, soprattutto, che la testa guardi nella stessa direzione in cui si muovono i primi passi.

In un mondo in cui l’oggetto trionfa sul contesto, lo slogan prevale sulla concretezza del dato, l’annuncio sostituisce l’evento, occorre che siano chiari a tutti, e soprattutto a chi governa, la complessità delle questioni, i nessi che legano i diversi aspetti dei problemi, gli ostacoli che si frappongono tra le intenzioni enunciate e la realtà. Non per rinunciare alle buone ispirazioni e agli obiettivi giusti, ma per tradurre le prime in fatti concreti e per raggiungere i secondi.

L'articolo di eddyburg sul n. 38 di Carta sarà sulla homepage sabato 27.10; è comunque raggiungibile qui fin d'ora. Per gli argomenti di cui si tratta nell'eddytoriale si vedano in particolarei risultati dell’indagine sui consumi di suolo fatta per la Provincia, e le informazioni riportate dalla stampa questi giorni.

L'immagine è la campagna lombarda raffigurata da Carlo Carrà

Il merito del progetto e del suo inserimento è, al cospetto dello scandalo di oggi, questione secondaria C’è chi lo ritiene un’opera d’arte che valorizzerà il sito e lo renderà ancora più ambito ai visitatori, aumentandone la competitività. C’è chi ritiene che in quel territorio delicatissimo e già bellissimo siano negativi nuovi interventi, mentre bisognerebbe invece depurarlo dalle costruzioni abusive. Due tesi entrambe legittime, sebbene Eddyburg propenda decisamente per la seconda (abbiamo documentato con ampiezza i momenti, i documenti e le posizioni in questo sito).

Ma le ragioni che hanno motivato le opposizioni più recise sono altre: riguardano la legittimità. Quell’intervento è dimostratamente in contrasto con il piano territoriale vigente, quindi è illegittimo. Nessuno ha potuto contestare l’illegittimità, che è stata confermata dalla magistratura nel merito, mentre le sentenze che hanno “liberato” l’intervento riguardano solo i formalismi (come un errore d’indirizzo di una citazione). Anche l’attuale governo comunale ha ritenuto l’intervento in contrasto con il piano vigente, e lo ha fermato. Il presidente della Regione (il “governatore”) ha prima minacciato di sostituirsi al comune sottraendogli i poteri e poi, di fronte alla resistenza, ha nominato il suo commissario. Senza neppure provare a fare quanto il Consiglio regionale può fare, e cioè approvare un nuovo piano territoriale. Senza neppure contestare nel merito le critiche di legittimità, ma adducendo l’unica ragione della perdita di un finanziamento europeo.

Superior stabat lupus: certamente l’autorità del presidente della Regione è superiore a quella del sindaco, ma adoperarla per forzare una comunità locale a essere complice d’una illegalità costituisce una violazione grave della sostanza della democrazia. Eppure, nessuno ha gridato allo scandalo. Anzi, la notizia è stata relegata nelle cronache o nei quotidiani locali. La democrazia si vuole esportarla in altri mondi, ma qui si accetta che sia soggetta agli umori dei potenti.

Non stiamo esagerando. Chiave della democraticità del sistema rappresentativo è il corretto equilibrio dei poteri. Non siamo tra quelli che ritengono che il livello di potere più “basso”, in questo caso il Comune, debba sempre aver ragione su tutto. Abbiamo applaudito al presidente-non-governatore Soru anche perché ha saputo tutelare gli interessi dello Stato e della Regione imponendo ai comuni di non costruire lungo le coste, perché il patrimonio dei beni paesaggistici e culturali costituiti dalle parti non ancora devastate delle coste della Sardegna sono beni d’interesse nazionale e regionale, non “disponibili” per gli altri livelli dei governi (e delle comunità) democratici. Quindi non avremmo protestato se la Regione avesse contrastato e impedito, motivatamente e legittimamente, un intervento che avesse minacciato di degradare ulteriormente il bene costituito dalla costa di Ravello (né se avesse, ad esempio, invitato il Comune a demolire le eventuali costruzioni abusive che la corrompono, minacciando e praticando interventi sostitutivi in caso di inerzia). Ma non è questo il caso. In questo caso l’autorità della Regione (anzi, del suo Governatore) è stata diretta a imporre al comune una scelta che riguarda strettamente il campo delle scelte di competenza del comune, e per di più obbligando quest’ultimo a compiere un atto illegittimo.

Dispiace che un atto del genere, e una lunga azione sbagliata in relazione a questa illegittima operazione di griffe, sia stata compiuta da una persona come Antonio Bassolino, nei cui confronti abbiamo nutrito sentimenti di vivissima stima e ammirazione.

L’icona è tratta da Aesopus moralizatus, in Napoli, per F. Del Tuppo (stralcio), inserita in internet da www.iconos.it

Vezio De Lucia

Roma, 8 settembre 2005 - Caro Eddy, non ho creduto ai miei occhi nel leggere le tue osservazioni alla proposta di legge urbanistica siciliana. Salzano che parla bene, o almeno non parla male, di un testo della giunta Cuffaro mi pare inverosimile. Hai scritto che si tratta di una legge “migliore di tante altre che sono state approvate di recente dalle regioni”. Che “prevede un sistema di pianificazione incentrato sulla pianificazione regionale e provinciale (e questo della legge è indubbiamente un merito), alla quale viene attribuito il compito di individuare la struttura delle invarianti territoriali, distinguendo tra aree indisponibili …”, eccetera. La paragoni nientemeno alla legge Galasso. La confronti con le leggi dell’Emilia Romagna e della Toscana. Ma come fai, caro Eddy, a formulare giudizi su una legge astraendoti dal contesto storico e culturale dal quale ha origine? “Sganciare la legge dalla storia può portare a conseguenze aberranti”: lo hai scritto tu, ieri, commentando un articolo di Antonio Cassese: la postilla vale anche per te. Il contesto dal quale ha origine la legge è quello di una regione che ha venduto il suo territorio agli abusivi e alla malavita, che ha mandato in rovina i suoi centri storici, che ha trasformato le coste in una ripugnante periferia, che ha asservito le città alle automobili, e così di seguito. Questa regione, secondo te, dovrebbe adottare la pianificazione come metodo fondamentale per il governo del territorio? Ma quale pianificazione? Credo che in nessuna regione si siano fatti tanti piani come in Sicilia, senza che siano mai diventati efficaci. Esattamente trenta anni fa, nell’estate del 1975, collaborai con Edoardo Detti al corso estivo che teneva a Erice, dove esaminammo per conto della regione decine di piani territoriali (comprensoriali?) poi finiti nel dimenticatoio. Come tante altre esperienze. Dai dati pubblicati dalla Dicoter risulta che in Sicilia non c’è neanche un piano territoriale di coordiamento vigente, né “consolidato”. In cinque province “il processo è maturo” (inedito eufemismo). Che senso ha dire che se i piani ci fossero sarebbero meglio di quelli toscani? In tutta la legge non c’è una riga riguardante scelte ope legis. Non c’è verbo sulla repressione dell’abusivismo. Vi si allude all’art. 26 proponendo piani e procedure che sembrano fatti apposta per un’indiscriminata sanatoria. In Toscana la legge del 1995 (confermata nel 2005) ha prescritto il sostanziale blocco delle espansioni. Non è stata una captatio benevolentiae nei confronti degli ambientalisti. Dieci anni dopo, le previsioni dei piani regolatori erano dimezzate (da 8 a 4 milioni di abitanti). E veniamo ai vincoli. Intanto, come tu riconosci (non senza qualche sorprendente apprezzamento) gli standard sono abrogati, come nella legge Lupi, salvo a recuperarli con la nuova pianificazione. C’è chi ci crede. Lo stesso è per i vincoli di tutela. È vero che sono ripristinati da una norma transitoria, ma intanto sono cancellati, e si sa che le norme transitorie sono le più esposte a successive modifiche.

La verità è che fra le tue virtù, la principale è l’innocenza. Credi nelle conversioni e nei miracoli. Che il cielo ti ascolti. Io, che sono molto meno innocente di te, penso che, in un posto come la Sicilia, una legge autenticamente di riforma dovrebbe, in primo luogo, rafforzare, con norme perentorie, e senza tante raffinatezze, proprio il regime dei vincoli di tutela. Senza di che, come ha scritto Rosanna Piraino non si tratta di riforma ma di controriforma.

Un abbraccio, Vezio

Edoardo Salzano

Caro Vezio, non mi dispiacerebbe se fra le mie virtù la principale fosse l’innocenza, cioè se sapessi guardare e vivere la realtà senza il filtro della malizia. Ma non è così. E’ proprio la malizia, o più precisamente il calcolo politico, ad avermi suggerito di intervenire in quel modo nel dibattito (nella polemica) a proposito del disegno di legge urbanistica della Sicilia. Ho seguito con una certa attenzione il dibattito, ed ho letto la legge. Ciò che mi ha colpito è che nel dibattito le critiche non siano state alla politica urbanistica della Giunta Cuffaro, o all’impostazione della legge, ma si siano concentrate su un fatto specifico: sul fatto che quella legge abolirebbe sic et simpliciter i vincoli sulle coste, sui boschi e sugli altri beni precedentemente tutelati, nonché gli standard urbanistici. Ho verificato: non è così. Quella legge tutela quei medesimi beni, non più con un vincolo geometrico (tot metri) ma con la pianificazione. Come potevo ritenere negativo questo passaggio quando abbiamo celebrato insieme la legge 431/1985 (la legge Galasso) proprio perché ritenevamo giusto e sacrosanto che la tutela passasse (abbiamo scritto allora) “dal vincolo al piano”? E non dicevamo, né pensavamo, che questa regola doveva valere solo per le amministrazioni di sinistra.

A una prima lettura mi aveva preoccupato il fatto che la legge, rinviando le definizione delle tutele a un successivo atto (la pianificazione regionale e provinciale), non aveva però definito il regime delle aree vincolate nel periodo intermedio: poteva succedere carne di porco. Una lettura appena più attenta mi ha fatto scoprire che la legge prescriveva, nel periodo transitorio, la permanenza dei vincoli “vecchi”, e addirittura il loro irrigidimento in caso di ritardi nella pianificazione. Analogo ragionamento sugli standard, non soppressi ma trasferiti da una norma meramente quantitativa fissata per legge (regionale) ad uno specifico atto amministrativo (regionale). Non è così che fece la legge 765 del 1967? E non è così che hanno fatto successivamente molte regioni?

Non voglio però ripetere gli argomenti che ho sollevato nel mio articolo. Voglio dire soltanto che basare le critiche su un racconto della realtà non vero è un errore politico che favorisce l’avversario. Non è una critica efficace dell’avversario quella che si basa su un travisamento della verità dei fatti. Un’opposizione che si basa su valutazioni false è un’opposizione che ha perso una battaglia, e che ha rafforzato l’avversario. A me sembra che gli atti devono essere valutati anche in sé; e se in un contesto negativo si produce un atto che negativo non è, occorre domandarsi il perché, ma non aiuta a comprendere esprimere una valutazione pregiudizialmente negativa, o rifiutarsi di conoscere l’atto in se. Del resto, la storia che conosciamo e abbiamo studiato testimonia che in contesti molto negativi sono nati atti positivi (hai sostenuto da tempo che la legge urbanistica del 1942, in regime fascista, era una buona legge).

Hai ragione su un punto: ho sbagliato a non ricordare, nel mio articolo, il contesto, ma sono stato travolto dall’irritazione per una opposizione che, se si affida alle deformazioni della realtà, ha perso in partenza. Sono certo che, a partire da questa nostra discussione, si aprirà un dibattito più ampio che potrà servire a illuminare, oltre l’oggetto, anche la cornice.

La questione delle rendite è un argomento scottante, sotto molti punti di vista e da moltissimi anni: sia per i territori, le città, i paesaggi, il loro assetto, le condizioni di vita degli abitanti, la permanenza (meglio, la scomparsa) delle qualità e delle testimonianze in essi sedimentate, sia per l’economia del nostro paese. La quota della ricchezza del paese che va alla rendita è sottratta ai salari e ai profitti, quindi riduce la possibilità di utilizzare i maggiori salari per allargare i consumi, e quella di reinvestire il profitto nel processo produttivo applicandovi ricerca e innovazione. A partire dagli anni sessanta del secolo scorso, accanto al drenaggio di ricchezza provocato dalla rendita immobiliare (contro la quale non a caso si era scagliato un predecessore di Luca di Montezemolo, l’avvocato Gianni Agnelli) si è via via accresciuto quello provocato dal largo investimento nelle rendite finanziarie.

Oggi rendite finanziarie e rendite immobiliari sono strettamente intrecciate, e pesano fortissimamente sul nostro paese. Lo avevano compreso gli estensori del programma di governo della formazione “Uniti per l’Ulivo”: il documento sulla cui base gli elettori sono stati chiamati a votare alle ultime elezioni politiche e l’Unione ha riportato la vittoria. In quel programma, infatti, si legge che tra “le cause del declino che investe il sistema paese” vi è “un sistema fiscale che penalizza il reddito di impresa rispetto alla rendita finanziaria”, si accusa il governo di centrodestra di aver “ favorito un’abnorme crescita delle rendita immobiliare”, si constata che “si è realizzato un drammatico impoverimento del potere d’acquisto dei redditi medio-bassi” mentre “è stato riconosciuto un vantaggio fiscale alla rendita piuttosto che ai redditi prodotti dalle imprese”, ci si impegna ad “attuare una nuova politica della concorrenza che miri”, tra l’altro, a “ridurre le rendite e la convenienza all’impiego di capitali nei settori che le alimentano tali rendite (immobiliare, autostrade, ecc.)”.

Le citazioni potrebbero proseguire, ma sembra chiaro che, sulla perniciosità del peso assunto delle rendite finanziaria e immobiliare, e sulla conseguente necessità di liberarne le altre forme di reddito, le valutazioni e le intenzioni fossero esplicite. Eppure, oggi, alla proposta di rendere efficaci gli impegni assunti, si reagisce - da parte degli stessi autori di quegli impegni programmatici - con timidezza, prendendo le distanze da chi quegli impegni dichiara di voler tradurre in atti di governo, e senza ribattere con la necessaria energia agli esponenti di quel capitalismo straccione, iperprotetto, pronto ad approfittare di ogni smagliatura del sistema degli accertamenti fiscali e di ogni occasione per socializzare perdite e privatizzare risorse pubbliche, generatore delle iniziative arrembanti dei “capitani coraggiosi” dediti all’assalto dei galeoni delle grandi banche e dei grandi giornali con i proventi dei raggiri finanziari.

Forse, per comprendere le ragioni di un simile atteggiamento, converrà ripercorrere l’amara esperienza del ministro democristiano Fiorentino Sullo e il saggio dedicato da Valentino Parlato al “blocco edilizio”. Forse l’Italia (il suo popolo, i suoi elettori, il suo sistema economico) sono così intrisi dalla rendita e dalla concezione individualistica della proprietà che i governanti avveduti sono costretti a recitare, con la Zerlina del Don Giovanni, “vorrei… e non vorrei, mi trema un poco il cor”.

Gli osservatori più attenti hanno ricordato il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Giavazzi ha posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (Corriere della sera, 16 luglio 2005) e Galapagos ha osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (il manifesto, 6 agosto 2005). E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice.

Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico, solo una riduzione della politica a lotta per il potere indifferente al progetto di società in nome del quale esercitarlo, solo l’incapacità di esprimere una prospettiva, una strategia, un orizzonte al quale indirizzare le forze sociali? Certo, queste sono componenti reali della situazione italiana. Ma in questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale, sulla quale è utile riflettere. Il prevalere delle rendite nel nostro sistema - questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei - affonda infatti le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia: svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale: doti delle quali l’attuale personale politico sembra del tutto sprovvisto.

Tra il XVIII e il XIX secolo si scontrarono, nelle diverse regioni d’Europa, tre grandi forze: l’ancien régime, espresso dagli ordinamenti feudali delle monarchie; la borghesia capitalistica, ormai lanciata alla conquista del mondo; il proletariato, emergente come nuovissima forza sociale dalle viscere stesse della produzione capitalistica. A queste tre figure sociali corrispondevano tre forme di reddito, che l’economia classica aveva puntualmente analizzato: la rendita, ossia la mercede del puro privilegio proprietario; il profitto, la remunerazione dell’attività volta ad associare i “fattori della produzione” e a trasformare i beni in merci, motore, attraverso l’accumulazione, dell’allargamento indefinito del processo produttivo; il salario, compenso per l’erogazione delle forza lavoro dei produttori.

In quasi nessuno dei paesi europei la nuova classe egemone, la borghesia capitalistica, giunse al potere senza combattimenti aspri, spesso tinti di sangue. L’ancien régime fu sconfitto e, quando ne riemersero i fantasmi, erano già trasformati in vesti borghesi: lo sfruttamento della proprietà attraverso la speculazione aveva prodotto risorse che più fruttuosamente venivano destinate in un’industria orientata a impadronirsi dei mercati mondiali. In Italia no.

In Italia la borghesia giunse al potere mediante un “compromesso storico” con l’ancien régime. E se questo era rappresentato, fuori dai confini del dominio pontificio e del regno borbonico, da una borghesia che aveva sovente nell’investimento nella terra le sue radici (e aveva quindi prodotto un’agricoltura resa feconda e, insieme, sapiente modellatrice del paesaggio, mediante cospicui investimenti delle rendite), in altre regioni l’alleanza fu stipulata con un’aristocrazia che si limitava a trasformare in consumi sfarzosi e futili il frutto della fatica del mondo contadino nelle terre, rese aride dalla mancanza degli investimenti necessari.

Fin dalla nascita dello Stato italiano il peso delle rendite (all’inizio, rendita fondiaria agraria) fu considerevole nell’economia italiana. E poiché, a un momento dato, le risorse sono quello che sono, l’ampiezza della quota percepita dalla rendita riduceva l’entità di quelle destinata al profitto (e quindi all’allargamento della produzione) e al salario (e quindi alla capacità di consumo, e all’allargamento del mercato). Lo sviluppo dell’urbanizzazione e, più tardi, la finanziarizzazione dell’economia capitalistica fecero sorgere, accanto alla rendita agraria, quella urbana (fondiaria ed edilizia, in una parola “immobiliare”) e quella finanziaria. L’intreccio tra le due, segnalato dagli osservatori più attenti da alcuni decenni almeno, è diventato in queste settimane l’elemento più preoccupante della situazione italiana: sul terreno dell’economia come su quello della democrazia. Entrambe le rendite hanno una cosa in comune: consentire l’accrescimento delle ricchezze personali di alcuni sulla base del privilegio proprietario, sottrarre ricchezza al circuito produttivo.

Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è dunque un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale: solo Bertinotti, Prodi, Epifani hanno, con parsimonia, segnalato la rilevanza di questo passaggio, e il “progetto dell’Italia” dell’Unione si limita ad affermare che “verranno assunte le iniziative necessarie a contrastare i privilegi legati alla rendita, le rendite di posizione e le distorsioni derivanti dai monopoli pubblici e privati” Ce n’est qu’un debut, è la speranza.

Io non so su quali strumenti si può contare per ridurre il peso della rendita finanziaria: so però che è un terreno nel quale le leve del potere pubblico sono notevoli, e oggi vengono usate all’incontrario. Conosco abbastanza bene, invece, gli strumenti cui si può ricorrere per ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), per distrarre risorse da quegli impieghi improduttivi, per travasarne parte consistenti verso utilità pubblica. L’utilità di farlo mi è stata insegnata dal pensiero dell’economia classica e di quella liberale (da David Ricardo a Karl Marx, da Claudio Napoleoni a Luigi Einaudi) gli strumenti per farlo mi sono stati indicati dalla cultura politica espressa da personaggi come Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan, amministratori e presidenti del consiglio nel primo decennio del secolo scorso, e da quella urbanistica, da maestri come Hans Bernoulli e Luigi Piccinato, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti. Di questi strumenti la pianificazione territoriale e urbanistica è il principale, proprio perchè esprime il primato del potere pubblico nel decidere le utilizzazioni e trasformazioni del territorio: cioè quei meccanismi mediante i quali la rendita immobiliare si forma e si trasforma. E anche perchè costituisce la cornice nella quale inserire le altre decisive politiche urbane: quelle della casa, dei servizi collettivi, della mobilità, della gestione dell’energia e dei rifiuti.

L’atteggiamento a dir poco ambiguo, che il gruppo dirigente dei DS ha manifestato nei confronti degli avventurosi arrembaggi degli immobiliaristi, e le operazioni immobiliari che esponenti dello stesso partito sponsorizzano in questa o quell’altra città, sono una spia di ciò che Lodo Meneghetti, nella sua appassionata “opinione” su questo sito, definiva “la vittoria definitiva egli immobiliaristi”. Le reazioni decisamente sopra le righe alle preoccupazioni espresse da Arturo Parisi, nella sua denuncia sulla risorgente “questione morale”, rivelano che si è toccato un testo doloroso e che ciò, forse, stimolerà in quel partito un riflessione seria. Una riflessione altrettanto seria dovrebbe però aprirsi anche in altre componenti del centrosinistra: da quel “polo rosso-verde” sempre di là da venire, che si è limitato a brontolare all’ultim’ora contro lo “scandalo” della Legge Lupi, a quella Margherita di cui un autorevole esponente, dopo aver collaborato alla stesura di quel testo, ha dichiarato in più occasioni che si tratta di un provvedimento bipartisan.

Che c’entra la Legge Lupi? Il lettore appena attento si sarà accorto che quella legge, ove fosse approvata anche dall’altro ramo del Parlamento, costituirebbe la sconfitta più grave per chi combatte contro il ruolo storicamente e attualmente centrale della rendita immobiliare, e la sconfessione più grave per gli uomini che, da ogni sponda culturale e politica, hanno tentato di contrastarla. Lo è perchè scardina il principio del primato del potere pubblico nelle decisioni sul territorio e sul suolo urbano, perchè introduce i “privati” (in Italia, la proprietà immobiliare) tra i decisori della pianificazione, perchè costruisce la cornice legale entro la quale esercitare il primato della rendita sul profitto e sul salario, della speculazione sull’impresa e sul lavoro. Ma su questi argomenti torneremo certamente con ampiezza, alla ripresa settembrina.

Qui potete trovare gli articoli citati nel testo: Galapagos, Il liberal D’Alema, Giavazzi, Privatizzazioni, chi le ha viste?, Meneghetti, La vittoria degli immobiliaristi. E sulla Legge Lupi, nella cartella Tutto sulla legge Lupi. Il documento dell'Unione è qui.

L'immagine è di Quentin Metsys, Gli usurai

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Per adoperare ancora le parole di Giorgio Ruffolo, oggi viviamo “una nuova vulgata neoliberista [che] si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico”. Abbandonando ogni senso critico e dimenticando la lezione liberista sui limiti del mercato, questo è insomma divenuto la misura non solo del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società.

Questa vulgata non è innocente. Dietro di essa si nasconde una pratica di classe che è stata acutamente indagata. Si tratta del neoliberismo, che non è una forma ammodernata della vecchia concezione dell’economia e della società tipica della società borghese e della sua ideologia, ma qualcosa del tutto nuovo.

Per dirla con uno dei suoi più acuti studiosi, David Harley “il neoliberismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Esso è un progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Lo studioso americano apertamente sostiene (si veda la recensione di Ilaria Boniburini) che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e quindi come tale occorre trattarla.

È a questo scenario che occorre riferirsi quando si sente parlare oggi della necessità di “tener conto del mercato”. Dimenticare che la pianificazione urbanistica è una delle pratiche inventata (dalla società borghese) per risolvere problemi che lo spontaneismo del mercato era incapace di affrontare non è solo grave errore intellettuale. È anche subalternità a un disegno politico che è forse il rischio più grave che corre oggi la democrazia.

Eppure, è quello che succede in Italia a proposito del territorio e del suo governo. Succede ovviamente a Milano, nelle modalità di “governo del territorio” esplicitamente subalterno alle scelte delle grandi società immobiliari, teorizzata da intellettuali provenienti dalla sinistra (Luigi Mazza e Stefano Moroni) e praticata dal ceto politico più omogeneo al neoliberismo. Succede in Toscana, dove l’autorevole ispiratore della politica del territorio della giunta di centrosinistra (Massimo Morisi) ha esplicitamente sostenuto che bisogna fare entrare a pieno titolo il mercato nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica, e che la pianificazione deve svolgersi su due “gambe”, tenendo conto delle finalità e delle regolazioni del pubblico e delle finalità e del dinamismo del mercato, poiché solo in tal modo si può garantire sviluppo, modernizzazione e capacità competitive. E succede nel Parlamento nazionale, dove si accetta pressoché unanimemente che le localizzazioni industriali possano avvenire (proposta di legge Capezzone e altri) senza alcuna di quelle verifiche di necessità, di adeguatezza e di coerenza territoriale che solo una corretta pianificazione del territorio può assicurare.

Verrebbe da dire che siamo alle frutta con il nostro Belpaese. Anche perché il “mercato” al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Non è quello della dinamica capitalista, ma è quello del parassitismo proprietario. Ed è un mercato il cui predominio sulla città produce (lo ha dimostrato la storia) segregazione di gruppi sociali, spreco di risorse comuni, disagio delle persone e delle famiglie, penalità al sistema produttivo e infine (tanto per adoperare un altro concetto divenuto idolo delle piazze) ulteriore motivo di perdita di competitività di un sistema già pesantemente degradato e inefficiente.

Implicito, finché la Costituzione era rispettata, era quello che poi fu definito il “ principio di sussidiarietà” (alla Jacques Delors, non alla Umberto Bossi; nella cultura europea, non nella subcultura “padana”): a ciascun livello di governo spettano le decisioni in merito a ciò che a quel livello meglio può essere governato. Poiché i livelli storici (lo Stato e i Comuni) non erano ritenuti sufficienti, nel 1948 si introdussero, tra l’uno e gli altri, le Regioni. Se queste furono costituite solo nel 1970 ciò fu per vicende politiche contingenti (tale appare oggi la declinazione italiana della guerra fredda!), non a una modificazione delle scelte di fondo.

Dopo il 1970 la politica si rese conto di ciò che gli esperti da qualche anno avevano già compreso: i fenomeni territoriali richiedevano, tra Regione e Comune, un livello intermedio. La discussione, la ricerca e la sperimentazione impegnarono due decenni: trovarono soluzione concorde nel 1990: Stato, Regione, Provincia e Comune avevano competenza per ciò che a quel livello si amministrava meglio, con un equilibrio nei poteri e nelle procedure che trovarono applicazioni esemplari in numerose leggi: da quella per la casa del 1971 a quella sull’ordinamento dei poteri locali del 1990.

In questa stessa logica si inserì con saggezza la “legge Galasso” del 1985: riprendendo in salsa democratica l’intuizione di John Ruskin (“il paesaggio è il volto amato della Patria”) e di Benedetto Croce (“il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria”), individuò e tutelò ope legis i lineamenti fondamentali del paesaggio della nazione, quelli percepibili a quella scala, e affidò alla pianificazione ordinaria o specialistica alle scale sottordinate quella che la Corte costituzionale definì “l’assidua riconsiderazione del territorio nazionale”: la individuazione a scala via via più ravvicinata, delle qualità da tutelare.

Questo equilibrio si è rotto: nelle nuove norme, gabbate per “riforme”, e nei comportamenti politici e amministrativi. Si può dire (riprendendo un’antica battuta di Giulio Carlo Argan) che oggi “l’Italia è diventata un gigantesco campo di decentramento”: almeno per quanto riguarda il territorio e il suo governo. E oggi il panorama è a macchia di leopardo, con una pericolosa prevalenza dei localismi.

C’è della luce. Così, in Sardegna Renato Soru difende con energia la responsabilità della Regione nell’avere l’ultima parola nella tutela degli elementi rilevanti a quella scala, contro le demagogie localistica di destra e di sinistra. Così, la Corte costituzionale ammonisce la Regione Toscana e ricorda che non tutto si può delegare ai comuni, perchè “l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica […] è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale” e perchè “il paesaggio va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali”.

Ma altrove l’ombra è fitta. In quanti luoghi italiani (quelli della cultura, della politica, dell’amministrazione) si tende a ridurre le competenze regionali all’esortazione programmatoria e quelle della provincia al mero coordinamento a posteriori delle decisioni comunali? In quante sedi si sproloquia sulla “equi-ordinazione” degli strumenti di pianificazione di competenza dei diversi livelli istituzionali, per dire che un piano comunale può tranquillamente disattendere e contrastare la decisione di un piano regionale o provinciale? O si afferma che, addirittura, la pianificazione d’area vasta e quella strutturale non devono, per l’amor di Dio, essere precettive e regolative, ma solo esortative e “d’indirizzo” (lo ripete spesso lo stesso presidente onorario dell’INU, Giuseppe Campos Venuti)?

Bisogna riconoscere che un contributo importante all’affermarsi di simili posizioni (e pratiche) lo hanno dato le infauste modifiche al titolo V della Costituzione, improvvidamente e furbescamente varate dal centro-sinistra. La furberia era quella di tagliar l’erba sotto i piedi a Umberto Bossi: ma il diavolo insegna a fare le pentole, non i coperchi.

Dopo aver battuto le perverse ”riforme” costituzionali del centrodestra bisognerà ricominciare a ragionare sul serio, a partire dal tema proposto dal direttore del Giornale di architettura che ho citato all’inizio: “il superamento di autonomie locali oggi controproducenti”, la ricostituzione di un equilibrio tra i poteri pubblici fondato sulla ragione e sull’efficacia, e non sulla demagogia.

Sulla sentenza costituzionale n.182 del 20 aprile – 5 maggio 2006

Il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto). Se i deputati di sinistra, di centro e perfino di destra avessero compreso questo non avrebbero certo potuto avallare il disegno di radicale spostamento dei poteri sul territorio operato dalla legge Lupi: come hanno fatto chi con il tranquillo consenso, chi con un’opposizione di mera facciata.

Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge (“bipartisan”, l’ha definita l’onorevole Mantini, autorevole esponente della Margherita). La norma chiave è l’articolo 5, comma 4: “Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”. Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, la maestra di Forlì, il contadino di Tricarico, il musicista di Sorrento, il salumaio di Norcia, la studentessa di Bologna? Oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.

Del resto, il rinvio al’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso agli onorevoli Iannuzzi, Realacci, Mantini, Sandri, Vigni, Chianale, Lion, firmatari della coraggiosa proposta di sostituzione di cui sopra, è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.

Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miope per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio. Nel sistema “innovativo” e “moderno”, largamente condiviso dai parlamentari di centro sinistra presenti nel lavoro di Commissione, le scelte sono cncordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7). Se leggete l'articolo di Sergio Brenna su ciò che sta avvenendo a Milano sulla base degli “obiettivi strategici” potete farvene un’idea.

Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo legislativo, che sarebbe giusto definire “pasticcio di legge”. Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili? Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane? Dell’articolo 5 si è già detto: esso è il centro dell’edificio.

L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Cancella il ruolo delle province. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendolo al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale (chi vuol capire come, legga gli scritti di di Gennaro e Scano in proposito). Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali.

L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”. Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).

L’articolo 8 (già ne abbiamo commentato uno svelamento) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari. Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!). Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”! Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.

Questo scritto diventa faticoso. I lettori mi perdoneranno, ma qualche ulteriore gioiello va esibito. Così l’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura). E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere "l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari). E infine – last but not least, oppure in cauda venenum, scelga il lettore la koiné moderna o quella classica – l’articolo 13, ultimo comma: “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”. Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico: il “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso”: fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica.

Una precisazione: con buona pace di quanti sostengono che l’opposizione, in Parlamento, avrebbe fatto un ottimo lavoro e corretto positivamente il precedente testo cucinato dall’onorevole Lupi (amorevolmente assistito dall’onorevole Mantini), quest’ultimo comma è stato aggiunto nel dibattito in Aula, e le “opposizioni” (udite, udite) si sono astenute!

A questo punto mi sembra evidente che per i membri della Camera dei deputati, e per le formazioni politiche cui fanno riferimento, la filosofia della legge Lupi (quella che potremmo sinteticamente definire “la privatizzazione del governo del territorio”, oppure “tutto il potere agli immobiliaristi”) è pienamente accettabile: se fosse stata formulata meglio, se magari ci fosse stato qualche riferimento gli accordi di Kyoto o al problema delle risorse idriche, si sarebbe potuto anche votare più favorevolmente. Le voci contrarie sono davvero poche. Le troverete tutte qui, in eddyburg.it.

L'immagine è di Gabriele Picco

Tra i buoni segnali, annoveriamo senz’altro la più recente edizione della proposta di legge per il governo del territorio (prima firmataria l’on. Raffaella Mariani). In essa – come abbiamo già osservato – accanto a qualche residuo del linguaggio dell’immobiliarismo neoliberista ereditato dalla precedente legislatura e dalle posizioni culturali allora egemoni (da Berlusconi all’INU) abbiamo ritrovato quasi tutte le formulazioni della proposta degli “Amici di eddyburg”, fatta propria da Rifondazione comunista e da altri esponenti della sinistra (pdl on. Migliore e sen. Sodano), soprattutto, ma non solo, in materia di contrasto al consumo di suolo e di tutela delle aree rurali.

Ma quanti segnali di direzione opposta! Alla tenace resistenza della maggioranza dei ministri ad abbandonare la logica delle Grandi opere (si è lasciato cadere solo il poco difendibile Ponte sullo Stretto) risponde nelle regioni e nelle città un coro di iniziative, promosse e sostenute da governanti del centro-sinistra, che meriterebbero un’amplissima distribuzione di Premi Attila. Il premio più consistente spetterebbe probabilmente (ma la gara è aperta) al presidente del Friuli - Venezia Giulia (che avrebbe il dovere morale di dividerlo con alcuni suoi più attivi collaboratori). Non solo per la pessima legge urbanistica da poco approvata (si leggano in proposito le spietate critiche di Luigi Scano) ma anche per le innumerevoli iniziative, emblematiche del nuovo corso che l’ex sindaco di Trieste ha impresso a una regione che è stata sede, in tempi lontani, di coraggiose sperimentazioni.

Ci riferiamo in particolare all’ultima della serie: il nuovo grande cementificio sul margine delle Laguna di Grado e Marano, a Torviscosa. Una proposta decisamente contrastata non solo dalle associazioni ambientaliste, ma dai comuni più direttamente interessati e dai sindacati dei lavoratori (i quali sempre più spesso rifiutano il ricatto occupazione contro ambiente). La tenacia con la quale l’establishment regionale difende il devastante progetto ha condotto a una spaccatura aperta all’interno stesso della maggioranza e a un conflitto tra Esecutivo e Legislativo. Un autorevole esponente dei DS, capogruppo in Consiglio regionale, ha criticato pesantemente l’iniziativa di Illy, e la commissione consiliare ha sollevato obiezioni tutt’altro che marginali.

In una delle sue sortite a difesa e giustificazione della scelta Illy ha lasciato chiaramente comprendere che i diversi momenti della sua politica del territorio sono tasselli organicamente legati d’una medesima strategia: serve produrre più cemento per realizzare le numerose nuove infrastrutture che dovranno continuare a invadere i delicati territori del Carso giuliano e di quello friulano, a devastare i residui ecosistemi, a rendere più precarie le condizioni delle falde idriche e dei corsi d’acqua.

Ma quanti piccoli e grandi Illy comandano ancora nelle regioni e nelle città del Malpaese? Per far sì che le promesse contenute nelle leggi per il governo del territorio producano fatti occorre davvero grande determinazione, in quelle aree del centro e della sinistra che ancora credono che il territorio, il paesaggio, l’ambiente siano beni da preservare nelle loro risorse e nella loro qualità, e che lo sviluppo non consista nell’aggiungere cemento e asfalto a quelli già ridondanti che il secolo scorso ci ha lasciato. La speranza è che non manchino loro né determinazione né ricerca dell’unità, nel Parlamento e nel popolo.

Come si argomenta nella relazione che accompagna l’articolato (entrambi i testi sono scaricabili in calce), il ”governo del territorio” è concetto e campo molto vasto. Comprende materie che sono attribuite dalla Costituzione a enti diversi. Una legge che regoli l'insieme dell'argomento richiederà un lavoro di lunga lena, che non può non avere la sua premessa in un diligente lavoro di enucleazione dei principi desumibili dalla ricchissima legislazione vigente. Non a caso le leggi regionali in materia, anch’esse usurpando in qualche misura l’espressione “governo del territorio”, concernono il campo - più limitato ma indubbiamente decisivo – della pianificazione del territorio urbano ed extraurbano. A definire “principi” relativamente a questo campo è dedicato il testo che proponiamo.

È un testo snello, essenziale, scritto cercando di adoperare un linguaggio chiaro ma anche giuridicamente corretto. Non è comunque questo che soprattutto ci interessa, quanto il contenuto: le riaffermazioni che in esso si fanno di principi consolidati nella giurisprudenza costituzionale, le novità che si formulano tenendo conto delle nuove esigenze ed esperienze maturate.

Due principi sono alla base dell’intero articolato e ne ispirano i contenuti e i procedimenti: il territorio e la sue risorse sono un patrimonio comune, di cui le autorità pubbliche sono garanti e custodi; la titolarità della pianificazione del territorio compete esclusivamente alle pubbliche autorità democraticamente elette e rappresentative della cittadinanza.

Tra le riaffermazioni e il consolidamento di principi già presenti nel quadro legislativo italiano, segnaliamo l’assunzione della pianificazione come metodo generale per il governo delle trasformazioni territoriali (principio peraltro contraddetto nell’azione amministrativa e nella legislazione recente), l’onerosità per l’operatore immobiliare delle opere necessarie per la trasformazione urbanistica, la non indennizzabilità dei vincoli di tutela dell’identità culturale e dell’integrità fisica del territorio.

Particolare evidenza tra le novità, introdotte anche mutuando elementi dalle legislazioni regionali più recenti, assume una decisa opzione per la riduzione di quello sciagurato fenomeno, contrastato negli ultimi anni da tutti i governi europei, consistente nell’abnorme consumo di suolo, motivato unicamente dall’esigenza di accrescere il valore di scambio di privati patrimoni immobiliari. Accanto a questi, si segnalano: nuove norme per la tutela ope legis degli insediamenti storici, per effetto dell’essere individuati dagli strumenti di pianificazione, purché d’intesa con la competente Soprintendenza; l’affermazione del diritto alla città e all’abitare, riprendendo e consolidando il diritto alla presenza di determinate quantità di spazi pubblici e d’uso pubblico ma aggiungendo, tra l’altro, i diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale delle risorse territoriali ed ambientali e del patrimonio culturale; l’obbligo per gli enti pubblici di acquisire antro un termine perentorio gli immobili assoggettati dai piani a vincoli di tipo espropriativo; infine (last but not least) la formazione partecipata degli strumenti di pianificazione.

A quest’ultimo proposito si ritiene che la partecipazione della società alle scelte di governo non sia un problema dell’urbanistica, ma della democrazia, della vitalità dei suoi istituti, della loro capacità di rinnovarsi. Certo è comunque che le scelte sul territorio hanno particolare rilevanza sia dal punto di vista dei poteri che da quello dei diritti dei cittadini. Procedure aperte, trasparenti, attente all’ascolto e alla proposta, rendiconti puntuali, chiarezza negli atti a partire dalla condivisione delle basi conoscitive e dalla evidenza nella rappresentazione delle scelte – possono essere valido aiuto, che la legge può contribuire a determinare, per l’espressione dei diritti democratici. Anche a tal fine, oltre che per adempiere a un obbligo formale,si è introdotta nella proposta il recepimento della normativa europea in materia di valutazione ambientale strategica, per le parte in cui riguarda i procedimenti di formazione e i contenuti della pianificazione delle città e dei territori.

Affidando queste proposte alla buona volontà dei legislatori, ci auguriamo che esse diano un contributo per la costruzione, nella città e nel territorio, non di una congerie di valorizzazioni immobiliari e di conseguenti diversificate degradazioni ambientali, sociali e culturali, ma della casa comune della società italiana dei futuri decenni.

E il diessino on. Sandri aveva ripetuto spesso che il limite della legge è di essere “solo” una legge urbanistica, di non affrontare le altre questioni che, insieme all’urbanistica, compongono il più vasto quadro del governo del territorio. Il rovesciamento dell’urbanistica, il trasferimento di poteri dal pubblico al privato, l’ingresso formale della rendita immobiliare al tavolo dove si decide, questa è la linea che ha vinto: con l’accordo pieno della Margherita, la complicità dei DS, l’ignavia degli altri. E con la copertura culturale dell’Istituto nazionale di urbanistica, nel silenzio dell’accademia.

I lettori di Eddyburg sanno perchè quella legge è nefasta. Ne abbiamo parlato in numerosi articoli. Abbiamo promosso un appello, sul quale abbiamo raccolto 400 firme. Dall’appello, riprendiamo i punti essenziali della critica:

1) Si sostituiscono gli “ atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “ atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato.

2) Si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi (scuole, sanità, sport, cultura, ricreazione) e spazi di vita comuni per i cittadini, ottenuto decenni fa grazie a un impegno massiccio delle associazioni culturali, delle organizzazioni sindacali, del movimento associativo e di quello femminile, delle forze politiche attente alle esigenze della società. Gli “standard urbanistici” sono infatti sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”.

3) Si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio. Contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria, contraddicendo gli indirizzi culturali e legislativi che dalle leggi del 1939 e del 1942 avevano condotto alla “legge Galasso” e alle successive leggi regionali, paesaggio e trasformazioni territoriali sono divisi: affidati a leggi diverse, a uomini diversi, a strumenti diversi. Non c’è dubbio a chi spetterà la parola in caso di contrasti: non certo a chi rappresenta i musei e il bel Paese, ma a chi investe, occupa, trasforma, agli “energumeni del cemento armato”, pubblico e privato.

Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del paese, avviate con i condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare. E su quest’ultimo punto il cedimento della componente diessina della sinistra alle impostazioni di Forza Italia non può non essere messa in relazione con altre vicende. Anche a non voler ricordare le voci sugli intrecci tra la “finanza rossa”, i suoi patron politici e le fortune degli immobiliaristi alla Ricucci, occorrerebbe essere davvero ingenui per non vedere il nesso che lega il comportamento dei parlamentari dei DS con le politiche locali che vedono esponenti di quel partito premiare gli interessi della proprietà immobiliare, a Caorle come nella riviera romagnola come nell’Agro romano. E come non sottolineare infine la contraddizione tra una politica, coerentemente tesa a premiare la rendita, con la constatazione che il declino industriale dell’Italia dipende, in modo essenziale, sul fatto che si sono tollerati, o addirittura incoraggiati, flussi di investimenti verso la speculazione immobiliare, distraendoli così dagli impieghi produttivi?

Non tutto è ancora perduto. La parola spetta adesso al Senato. La denuncia ha ancora una sede cui fare appello, la ragione ha ancora uno spazio per farsi sentire.

Si vedano, sulla “riforma urbanistica”, gli eddytoriali 20 del 14 luglio 2004, 36 del 31 gennaio 2004 e 50 del 14 novembre 2004, l’articolo E. Salzano, Due le proposte di legge, una la matrice culturale

Gli articoli nella cartella Tutto sulla legge Lupi

Sulla copertura offerta dall’INU si vedano gli eddytoriali 38 e 39.

Qui l’appello contro la legge Lupi.

Il testo della legge nella stesura approdata alla Camera dei deputati.

Non c’è ancora nessuna informazione ufficiale, ma ormai si sa che il principale dei cantieri nei quali si preparano i “pezzi” del MoSE saranno nelle aree libere della Penisola di Pellestrina, costituite dalle due riserve naturali di Santa Maria del Mare e di Ca’ Roman. Le due aree sono entrambe Siti d’importanza comunitaria, e ovviamente sono entrambe tutelate dagli strumenti di pianificazione. Le vincola in particolare il Palav (Piano d’area della Laguna di Venezia), redatto e approvato dalla Regione e tuttora vigente.

Ebbene, è proprio in quelle aree che si realizzeranno i giganteschi elementi di calcestruzzo, ciascuno delle dimensioni di un palazzo alto cinque piani e lungo cinquanta metri, che dovranno costituire i basamenti sommersi dell’immane macchina del MoSE. In tutto i cassoni saranno 157: quanti se ne costruiranno contemporaneamente? Non è noto, perché il progetto del cantiere è top secret. Nonostante la competenza di quattro ministri (Beni e attività culturali, Ambiente e tutela del territorio e del mare, Università e ricerca, Infrastrutture), nonostante i poteri, sia pure dimessi come quelli di postulanti, di Comune e Provincia, nonostante la presenza di due taciturne Università, nonostante leggi rigorosamente protettive approvate dopo la famosa alluvione del 1966 per tutelare l’incomparabile gioiello, l’ecosistema unico al mondo, costituito dalla Laguna di Venezia – nonostante tutto ciò, nessuno sa nulla: chi sa, tace.

Innumerevoli sono le violazione di legge. Ma neppure la magistratura se ne accorge. È un po’ come ai dintorni di Napoli, a Casalnuovo, dove 71 edifici abusivi sorsero senza che nessuno se ne accorgesse. Ma siamo a Venezia, e la camorra non c’è.

Del resto, scorrendo le cronache veneziane si scopre che le violazioni delle norme negli interventi in Laguna si susseguono con tanta regolarità da essere divenuti la Regola. Mentre da qualche decennio si è stabilita in 12 metri la profondità massima dei canali navigabili (per ridurre l’afflusso delle acque marine) e si era deciso per legge di allontanare il traffico delle petroliere (a causa del loro eccessivo pescaggio), ora si sta decidendo di approfondire il “canale dei petroli” a 14 metri per consentire il transito di gigantesche navi cerealicole. Mentre da decenni leggi speciali e piani d’ogni ordine e grado probiscano ogni “imbonimento” (così si chiama il riempimento con terra di porzioni della Laguna), è in corso di realizzazione un’isola artificiale per immagazzinare i fanghi inquinati. Mentre, in omaggio a leggi vigenti e con finanziamenti pubblici, ci si adopera a disinquinare la Laguna, si prevede un imbonimento (di nuovo) sul margine della Laguna per ospitarvi una gigantesca discarica di rifiuti, alta una dozzina di metro, camuffata da terrazza belvedere sulle barene e i canali, adornata da ridenti vegetazioni.

Su ciascuno di questi episodi occorrerebbe soffermarsi: e lo faremo, in questa sede e altrove. Per ora, segnaliamo una situazione che è drammatica per il silenzio che la circonda: nessuno vede, nessuno sente, nessuno parla.

“Lavoro” è un termine che esprime un valore profondo, primario, fondativo della nostra società. Per la nostra Costituzione (la difendiamo abbastanza?) il lavoro è il fondamento della Repubblica italiana. E in effetti, in modo diverso e con alleanze di classe diverse, le grandi forze che fondarono la Repubblica esprimevano tutte il mondo del lavoro: dal PCI e il PSI, alla DC, ai “partiti laici”.

La corrente di pensiero che, nella sua analisi e nella sua azione, ha posto come centrale il lavoro dell’uomo è comunque indubbiamente la marxista. E allora vale la pena di ricordare il modo in cui Marx lo definiva: “l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso [corsivo mio] di qualsiasi genere”. E ancora: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.

Riflettere sul significato del lavoro dell’uomo nei contesti nei quali viviamo (dal governo nascituro dell’on. Prodi alla crisi planetaria) porta a sottolineare due connotazioni dei nostri tempi, l’una di carattere tattico e relativa al breve-medio periodo, l’altra di carattere strategico e relativa allungo periodo. Da esse scaturiscono due necessità dell’azione politica e di quella culturale: necessità certamente distinte, ma che sarebbe delittuoso separare.

Da un lato, è evidente che nell’attuale situazione italiana, così come questa si è determinata per colpa sia della destra che delle debolezze del centro-sinistra, il lavoro ha perso la centralità che la Costituzione gli assegnava. Lo rivelano l’espansione del precariato e la sua assunzione come “fattore di modernizzazione”, l’indebolimento dei sindacati dei lavoratori, lo squilibrio tra la tassazione dei redditi da lavoro e quella dei redditi finanziari, nonché, per riferirci a un tema centrale per queste pagine, la prevalenza della rendita (remunerazione della proprietà) sul salario (remunerazione del lavoro) e del profitto (remunerazione dell’attività imprenditiva secondo una scuola, il frutto stesso del lavoro secondo un’altra). Un programma di governo che volesse ripristinare il rispetto della Costituzione su ciò che costituisce il fondamento della Repubblica dovrebbe assumere perciò come centrale la questione del lavoro, in tutte le articolazioni ora enunciate.

Ma accanto e dietro questo aspetto del problema del lavoro un altro se ne pone, che ne costituisce in qualche modo la prospettiva e lo scenario. La concezione del lavoro che ancor oggi nutre il pensiero economico e l’organizzazione sociale è quella propria del sistema capitalistico: il lavoro socialmente ed economicamente riconosciuto è quello finalizzato, direttamente o indirettamente, alla produzione di merci. Se Marx, nel brano sopra citato, riferiva il lavoro alla produzione di valor d’uso, oggi per il calcolo economico, e per la stessa considerazione sociale, l’unico valore che è rimasto è il valore di scambio. I beni (siano essi oggetti o servizi) cui la produzione è finalizzata sono solo quelli riducibili a merce, e in tanto sono considerati in quanto sono ridotti a merce. Ciò che conta non è la loro utilità ai fini dello sviluppo dell’uomo e dell’umanità, ma la loro capacità di essere acquistati da un consumatore.

È morto qualche giorno fa John Kenneth Galbraith. Fu lui che, nel lontano 1958, coniò per primo il termine “società opulenta” (affluent society). Con questa espressione si designa appunto una società nella quale la produzione ha perso qualunque profondo connotato umano, ed è finalizzata esclusivamente a vendere, in misura via via crescente, merci via via più lontane da ogni reale utilità per l’uomo. Sembra che un lavoro finalizzato esclusivamente alla produzione crescente di merci superflue (spesso per di più dannose) non possa essere considerato durevole. Il ragionamento sul lavoro e la rivendicazione della sua necessaria centralità si deve perciò connettere a quello attorno ai limiti dello sviluppo (di questo sviluppo, basato sulla riduzione dei beni a merci, sull’orgogliosa negazione dei limiti posti dal pianeta, sulla perdita di ogni finalità propriamente umana), al nuovo imperativo della “decrescita”, al pieno riconoscimento economico e sociale dei valori d’uso - e delle qualità culturali,ambientali, storiche del territorio.

Il discorso di Fausto Bertinotti

Scritti sulla "decrescita" nella cartella Il nostro pianeta

Ricordiamo gli eventi. Il comune di Ravello adotta, dopo anni di inadempienza, un PRG che prevede, sulle pendici ai piedi delle famose ville storiche, un auditorium. Il Tribunale amministrativo regionale boccia il PRG perché il Piano urbanistico territoriale (PUT), approvato dalla Regione con legge 35 del 1987 in base alla legge Galasso, non consente costruzioni di quella specie. Il comune, restando sprovvisto di PRG, adotta procedure straordinarie (conferenza dei servizi) e ottiene il consenso della Regione, della Provincia e della locale Sovrintendenza su un progetto di auditorium, redatto dagli uffici comunali sulla base di schizzi e maquettes dell’architetto brasiliano. L’operazione viene accompagnata da un grande battage pubblicitario, con il quale si tenta di tacitare le critiche sulla legittimità e sulla sostanza del previsto intervento. Italia Nostra ricorre al TAR il quale, esaminando nel merito la questione di legittimità, emette una sentenza con cui accoglie il ricorso e argomenta ampiamente l’illegittimità sostanziale degli atti con cui si è approvato il progetto. Il “governatore” Bassolino incita subito il sindaco di Ravello a insistere. E infatti il sindaco ricorre al Consiglio di Stato contro la sentenza del TAR.

Eccoci adesso alla decisione del Consiglio di Stato, Quarta sezione. Leggetela, è straordinaria. Affronta una questione “preliminare”: se il ricorso di Italia Nostra sia stato spedito agli indirizzi giusti. Argomenta (con ammirevole ricchezza di dottrina) che, stante la natura dalla “conferenza dei servizi” che aveva approvato il progetto, il ricorso avrebbe dovuto essere inviato anche al Ministero dei beni e delle attività culturali, rappresentato nella conferenza dei servizi dal Sovrintendente di Salerno e Avellino. Ciò non è avvenuto. Ergo, non vale la pena di esaminare il merito della questione. Non vale la pena di valutare se sia stata commessa una, o due, o tre illegittimità. C’è un errore d’indirizzo, quindi tutto il resto non vale. Quindi, dopo il “preliminare” niente.

Tana libera tutti, si diceva da bambini. Tutti liberi di non rispettare la legge: se un’opera “è bella”, se un’opera è “firmata”, allora si può fare; anche se una legge e un piano hanno stabilito che lì, in quel posto, meglio non costruire nulla, meglio non aumentare il traffico già intasato (che ha già “obbligato” a scempi stradali su una delle coste più preziose del mondo).

Abbiamo sentito dire più volte che non sempre i tribunali hanno ragione, che non sempre la sentenza che manda libero un imputato equivale a riconoscerne la non colpevolezza: ricordate la sentenza per Andreotti? Ricordate la sentenza per Berlusconi? Una volta si valutavano le cose non solo sulle forme, ma anche nel merito. È stata la stampa a insegnarcelo: dai tempi del Mondo di Mario Pannunzio, al quale il gruppo Espresso si richiama. Oggi questa regola si applica solo quando si tratta di criticare gli avversari politici? I nemici del territorio, quelli che calpestano il sistema di regole mediante il quale ci si propone, bene o male, di tutelarne le qualità, non hanno avversari: godono di amplissime complicità, a destra e a sinistra. Bipartisan.

L'immagine rappresenta la falsa prospettiva di Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato: E' tratta dal sito www.giustizia-amministrativa; potete vederla ingrandita cliccando qui

Ma vorremmo che fosse migliorata: soprattutto per emendare il linguaggio da alcuni residui “lupeschi” (i diritti edificatori, lo sviluppo del territorio), e per introdurre maggiore efficacia ai suoi principi, soprattutto in materia di difesa del suolo e di diritti dei cittadini.

Della tradizione dell’urbanistica italiana, cancellata ope legis o lasciata cadere in desuetudine dalle pratiche di “governo del territorio” la proposta di legge recupera più d’un elemento. Rende esplicito il “principio di pianificazione”, con una formulazione efficace. Ribadisce la non indennizzabilità dei “vincoli ricognitivi”, cioè delle tutele poste per ragioni oggettive su parti del territorio dotate di qualità o soggette a rischi. Recupera gli standard urbanistici, sia pure con formulazioni non sempre convincenti. Ripristina alcuni apporti della Commissione Giannini (DPr 616/1977) caduti in desuetudine, come i “lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale” quale documento territoriale nel quale le competenze dello stato (dalle infrastrutture alle tutele) dovrebbero trovare la loro sintesi.

Molte delle formulazioni, il rilievo dato – almeno sul piano dei principi e degli impegni generali – al contenimento del consumo di suolo, e la riconduzione della “perequazione” sostanzialmente a ciò che era nella “legge ponte” del 1967, rivelano il tentativo, in gran parte riuscito, di costruire una piattaforma che possa comporsi con le proposte formulate da altre forze politiche del centro-sinistra, in particolare con quelle che hanno fatto propria le “legge di eddyburg”. E se il lavoro parlamentare proseguirà tenendo conto prevalentemente delle due proposte che abbiamo finora citato si può dire senz’altro che la fase della “legge Lupi” è dietro le nostre spalle. Ma a un paio di condizioni.

In primo luogo, occorre correggere alcune espressioni linguistiche tipiche dell’impostazione distruttiva prevalsa nel decennio trascorso, e rivelatrici della sua ideologia. Ne segnaliamo in particolare due.

Negli articoli si parla spesso di “sviluppo del territorio” (espressione che appare fin dall’importante articolo 2 dedicato al “principio di pianificazione”). È un’espressione nemmeno ambigua nel suo significato, poiché il suo uso discende dal termine anglosassone “development” e indica la trasformazione del territorio per l’attuazione di un piano di lottizzazione o simile. “Sviluppo del territorio” allude alla Cascinazza di Monza, non all’emersione improvvisa dal mare dell’isola Ferdinandea. È un termine non adoperato dai geologi, ma dai promoters di operazioni immobiliari. In un testo che, nei suoi principi, dichiara sempre la priorità del risparmio delle risorse non rinnovabili, della conservazione della biodiversità e del patrimonio culturale, storico e paesaggistico, ha senso riferirsi di continuo allo “sviluppo del territorio” come un obiettivo di grande rilievo? E ha senso introdurre all’articolo 16 tra gli standard urbanistici (alias “dotazioni territoriali”) “il sostegno all’iniziativa economica”?

Veniamo alla seconda espressione. Opportunamente nella proposta si riconduce la perequazione a strumento attuativo della pianificazione urbanistica, e quindi se ne ripristina il ruolo di compensazione degli interessi immobiliari all’interno degli ambiti attuativi (il collaudato meccanismo dei piani di lottizzazione convenzionata). Ma perché attribuire alle facoltà di edificazione, concesse dai piani, e giustamente destinate alla decadenza ove non utilizzate nei tempi stabiliti, il termine impegnativo di “diritto edificatorio”? Questa espressione non esiste nella legislazione urbanistica. Introdurlo appare una incoerenza, o un residuo di precedenti stesure. Come del resto palesemente contraddittorio è il comma 6 dell’articolo 21 (dedicato appunto alla perequazione e alla disciplina dei diritti urbanistici), nel quale si afferma che “l’utilizzazione dei diritti edificatori deve avvenire a seguito di trasferimento di cubatura”. Da dove a dove, visto che tali “diritti” devono essere perequati all’interno degli ambiti?

La seconda condizione per rendere adeguata la proposta è quella di attribuire efficacia operativa ai principi proclamati. L’abbondanza delle formulazioni di principio e d’intenzioni accattivanti (a volte anche pleonastiche, come il principio di legalità e quello di democrazia e trasparenza) non trova riscontro in formulazioni legislative capaci di agire con immediatezza e chiarezza nelle trasformazioni del territorio. La proposta nata da questo sito (e le formulazioni della proposta dell’on. Migliore e altri) consentono ben diversa, più efficace e più immediata tutela del territorio non urbanizzato (riportiamo qui sotto gli articoli in proposito).

Più in generale, preoccupa molto la delega pressoché totale alle regioni della responsabilità di tradurre i principi stabiliti dalla legge nazionale in precise norme vigenti erga omnes. Così in materia di standard urbanistici, a proposito dei quali occorrerebbe almeno far salvi i “diritti acquisiti” dai cittadini sulla base della legge del 1967 e del decreto del 1968. Ma il caso limite è l’attribuzione alle leggi regionali della “emanazione delle misure di salvaguardia” (articolo 15). Oggi in ogni parte d’Italia tra l’adozione di un piano e la sua approvazione il sindaco non può autorizzare interventi che siano in contrasto con il piano adottato, ma non ancora vigente; ciò per effetto di una legge che vige in tutto il territorio nazionale. Domani non sarà più così? Un comune che avrà deciso con un nuovo piano urbanistico – come molti hanno fatto in questi ultimi decenni – di ridurre le previsioni di espansione, o correggere interventi di trasformazione urbanistica (development) lungo le sponde del fiume o sulle colline, dovrà aspettare una eventuale legge regionale per impedire che questa sua saggia decisione venga rispettata?

Il dibattito parlamentare, che auspichiamo si apra presto e si svolga in modo produttivo, darà risposte a queste e ad altre domande che il testo solleva. La speranza è che le positive intenzioni espresse nella proposta di cui è prima firmataria l’on. Raffaella Mariani, e che sappiamo essere il risultato di un faticoso lavoro di composizione di esigenze, culture ed esperienze diverse, trovino l’approdo in un testo legislativo con esse pienamente coerente.

I valori furono dunque una componente decisiva: non ricostituzione (come in Francia e in Danimarca, in Belgio e in Olanda, in Jugoslavia e in Norvegia) di quelli nazionali calpestati dal nemico invasore, ma costruzione di valori nuovi, fondativi della società nuova che – a partire dalla Liberazione – si cominciava a costruire.

Ricordare oggi, 25 aprile 2006, la liberazione dell’Italia dal nazifascismo suggerisce prepotentemente una necessità di oggi: rimettere i valori al centro dell’attenzione della politica e della società.

Una necessità di oggi. Il risultato elettorale del 9-10 aprile scorso non rivela soltanto che “l’Italia è spaccata in due”: risultato inevitabile d’un sistema maggioritario, come qualche osservatore più lucido ha rilevato. Rivela anche un’incertezza degli elettori, una certa aleatorietà del risultato, una mobilità di parte consistente dell’elettorato che non ci sarebbero se alla base delle scelte di voto ci fossero convincimenti profondi e radicati, e legami stretti tra questi e le proposte delle diverse (delle due) parti politiche.

In assenza di convincimenti profondi e radicati (di valori) è evidente che tendono a prevalere gli interessi differenziati dei gruppi,delle corporazioni, dei segmenti della nostra frammentata società. Tendono a prevalere insomma quei moventi del voto che più facilmente vengono catturati dalle offerte mercantili (bugiarde o meno) degli imbonitori cui è stato lasciato il possesso dei mezzi di comunicazione di massa.

Singolare, in proposito, l’atteggiamento del centro-sinistra. La sua propaganda ha lasciato cadere tutti i numerosi spunti polemici (e di convincimento delle coscienze) che potevano essere offerti dalle stesse parole ed azioni dell’avversario. A partire dall’ingiustizia di fondo,dal vero e proprio vulnus dell’ordinamento democratico, costituito dal potere straordinario in mano a uno solo dei contendenti (in codice: il conflitto di interessi), fino a quell’incredibile affermazione dell’ex premier, rivelatrice di un pensiero osceno, secondo il quale sarebbe del tutto evidente che il figlio d’un operaio vale meno del figlio d’un professionista.

Abbiamo dimenticato i principi fondativi della nostra nuova società, nata dalla Resistenza. Non ci siamo sentiti offesi dal loro tradimento, dal loro rovesciamento perfino. Ricordiamoli,così come furono costruiti nelle coscienze e nei sacrifici negli anni difficili della Resistenza e tradotti in principi costituzionalmente garantiti.

Solidarietà, primato del lavoro, subordinazione della proprietà al suo ruolo (al suo dovere) sociale, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e ai diritti non solo giuridici, sostegno ai più deboli perché possano entrare nel novero dei più forti, privilegio agli interessi della collettività, politica come proposta di un progetto di società più alto di quello dell’antagonista. Infine, ma non è l’ultimo dei valori, difesa dei beni comuni costruiti dal lavoro di tutti: a partire dalle fabbriche strenuamente difese, nel 1943-45 dagli operai perché non erano dei padroni, ma di tutti, fino alla tutela del paesaggio e dei beni storico-artistici come patrimonio della Nazione,nel 1946-48.

È da qui che occorrerebbe partire per conquistare durevolmente il consenso delle cittadinee dei cittadini: dalla riaffermazione orgogliosa di quei principi, dalla loro propaganda tenace e intelligente, dalla loro traduzione in una reale riforma dei codici della convivenza civile (a cominciare dalla demolizione delle norme e delle prassi con essi in contrasto). E scendendo dal generale allo specifico degli interessi di questo sito, vorremmo lavorare per una legge sul governo del territorio che si aprisse con le parole: “le risorse del territorio sono patrimonio comune non negoziabile”. Ma di questo scriveremo un’altra volta.

A prima vista, appare un paradosso. Ma come, gli ambientalisti predicano la necessità di incentivare le energie alternative, e poi protestano quando finalmente si cerca di passare dalle parole ai fatti! Così hanno scritto Valentini, Manfellotto e tanti altri bravi giornalisti. Così pensa una parte consistente, forse maggioritaria, dell’opinione pubblica, e perfino qualche componente dell’ambientalismo. Tanto è vero che Massimo Serafini e Mario Agostinelli (persone del cui giudizio mi fido) hanno invitato Vendola a ripensare al suo decreto di moratoria agli impianti eolici in Puglia e ad adottare soluzioni più soft. Cerchiamo di ragionare, senza schierarci: o meglio, prima di schierarci, per comprendere se ci si debba schierare o no, e da quale parte.

Le ragioni di chi difende le energie alternative, utilizzatrici di risorse rinnovabili, sono fuori di ogni dubbio. Ma ogni energia, anche alternativa, ha bisogno che venga realizzata una “interfaccia”, un apparecchio o un complesso di apparecchi che trasformi la sorgente di energia in energia accumulabile, trasmissibile, consumabile. E ogni energia, anche alternativa, provoca trasformazioni del territorio: modeste o cospicue, in parti del territorio più o meno dotate di qualità e di fragilità.

Ora il fatto è che tra le proposte degli ambientalisti e la loro pratica traduzione in opere si inserisce, di fatto, un solo soggetto: l’industria, senza alcuna guida, senza alcun indirizzo, senza alcuna definizione delle prestazioni richieste e delle condizioni da rispettare. Manca, insomma il governo: il government, l’autorità pubblica garante dell’interesse generale. E l’industria, miope per definizione (è guidata esclusivamente dalla ricerca del profitto, in assenza del quale fallisce), produce oggetti progettati con l’unica finalità di produrre il massimo di energia al costo più basso.

Va bene questo? Non va bene: lo dimostra la documentazione raccolta da Carlo Ripa di Meana e dal suo Consiglio nazionale per il paesaggio, e la ricca letteratura in proposito che è stata prodotta in Europa e negli USA. Non va bene soprattutto in Italia, dove il paesaggio costituisce la maggiore ricchezza della nazione, e una delle maggiori fonti di reddito per il futuro (oltre all’intelligenza, la quale peraltro comincia anch’essa a scarseggiare): e dove le amplissime piantagioni di impianti eolici (produttori di quote molto modeste di energia) stanno trasformando in modo irreversibile delicatissimi paesaggi degli Appennini, spesso “protetti” da provvedimenti europei, nazionali o regionali.

Domandiamoci allora – visto che per di più siamo in una fase di definizione dei programmi elettorali – che cosa un governo lungimirante ed efficace dovrebbe fare.

In primo luogo, dovrebbe elaborare un piano energetico nazionale, nel quale si stabilisca, in relazione alle risorse energetiche disponibili e alle loro concrete capacità d’impiego, quali impiegare e per quale quota: e questo è un compito del tutto tradizionale, che qualunque mediocre governo in una società moderna adempie come normale amministrazione. È ragionevole che in Italia dal 1988 non si sia fatto un Piano energetico, e che (peggio ancora) con la riforma del titolo V delle Costituzione la materia sia stata attribuita alle 20 regioni? È ragionevole che si sia avviata una iniziativa per la diffusione massiccia dell’eolico, senza neppure prima verificare – per esempio – se nella concreta situazione paesaggistica e meteorologica della penisola sia più conveniente l’eolico o il solare?

In secondo luogo, il governo dovrebbe definire le prestazioni richieste agli impianti relativi a ciascun tipo di energia. Per far questo sarebbe ovviamente necessario un potenziale di ricerca applicata direttamente gestito dallo Stato, con la massima autonomia rispetto all’industria. Sarebbe necessario definire (da parte dello Stato e delle Regioni) le caratteristiche dei progetti di impianti in relazione alle collocazioni possibili nei nostri territori, con un’attenzione particolare ai paesaggi urbani e a quelli territoriali. Sarebbe necessario definire le caratteristiche dei siti capaci di ospitare gli impianti e le altre infrastrutture necessarie per la loro gestione, le modalità mediante le quali gli strumenti della pianificazione territoriale e urbana debbano decidere le specifiche localizzazioni e le regole della loro attivazione. E su tutto ciò, sulla rigorosa applicazione delle regole definite e degli strumenti individuati, occorrerebbe esercitare controllo e monitoraggio.

Sono giuste, allora, le critiche alla opposizione degli ambientalisti a interventi devastanti? Finché chi governa non avrà fatto il suo dovere, la mia opinione è che gli ambientalisti, poiché non governano, abbiano il dovere di proporre e di denunciare: non è a loro che spettano i compromessi. E chi governa, nell’incertezza derivante dall’assenza delle condizioni indispensabili per agire, ha ragione se applica il principio di precauzione: provvida perciò la moratoria, e il contemporaneo avvio di un’iniziativa che consenta di decidere a ragion veduta, di scegliere con piena cognizione di causa. Per governare, e per non essere governati dai poteri forti.

Il disegno è di Pablo Picasso, "Don Quijote y Sancho Panza", 1955

integrale

I meno giovani, e i giovani informati, ricorderanno che molti anni fa furono varate buone politiche riformatrici (“riformatrici”, non “riformiste”) per la casa, i servizi, i trasporti, la città. Ciò si ottenne perché il sindacato dei lavoratori uscì dal recinto delle fabbriche e delle politiche salariali e normative e affrontò gli argomenti della vita delle lavoratrici e dei lavoratori in quanto cittadini. Il momento chiave fu lo sciopero generale nazionale su quegli argomenti (divenuti rivendicazioni) del 19 novembre 1969, alla quale si riferisce l’immagine qui accanto. Forse si sta riaprendo qualcosa di simile.

Lo vedo nella decisione dei tre sindacati dei lavoratori (e negli omologhi sindacati degli inquilini) di lanciare una petizione popolare per un problema divenuto angoscioso per vaste categorie di cittadini e colpevolmente ignorato da governi e partiti: quello della casa: un aspetto decisivo dello Stato sociale che è stato smantellato nel decennio scorso.

Lo vedo, soprattutto, nell’iniziativa di sei Camere del lavoro (le organizzazioni territoriali della CGIL) che propongono all’intero sindacato di assumere le questioni della città, della sua vivibilità dei diritti pratici dei cittadini nell’uso della città e dei suoi servizi, della tutela dell’ambiente, come temi centrali delle lotte sindacali e come terreno di confronto con la società (di cui il sindacato è parte larghissima ma non esclusiva) e con la politica (che dalle pulsioni profonde della parte maggioritaria della società, e dalle stesse esigenze immediate, sembra sempre più distante). I materiali di quell’iniziativa sono stati pubbblicati dalla rivista Carta nel numero speciale dedicato alle “Camere del lavoro”ora in libreria. Ne continueremo a seguire gli svolgimenti.

A Bologna non solo col sindaco di destra Guazzaloca, ma anche col sindaco di sinistra Vitali si era condotta una politica urbanistica sbagliata: compiacente con gli interessi immobiliari più che con quelli dei cittadini. Gli strumenti derogatori erano stati adoperati con larghezza, al verde e ai servizi si era preferito il cemento e l’asfalto. Alla partecipazione dei cittadini si era preferita quella degli interessi forti. Non era molto chiaro dove il nuovo sindaco Cofferati volesse andare. Adesso, finalmente, è stato presentato il programma che la Giunta si impegna ad attuare: la direzione di marcia è promettente.

Le parti dedicate all’urbanistica, alla casa, all’ambiente, alla partecipazione sono state giudicate molto buone. Esse segnano un punto di svolta rispetto al passato: a entrambi i passati. Nel presentare il programma di Cofferati su queste pagine ci si poteva chiedere: Di nuovo Bologna all’avanguardia, come fu negli anni in cui la città veniva presa a modello e ispirava le migliori riforme? Le premesse ci sono, ne seguiremo lo sviluppo.

Ultima ma non minore, la Sardegna. E stato veramente un amministratore controcorrente Renato Soru quando ha posto un vincolo temporaneo d’inedificabilità su una fascia profonda 2.000 metri dell’isola. All’interno di quella fascia per decenni si era saccheggiato, cementificato, privatizzato. Le parti più belle erano state ridotte a squallide recintate esibizioni di sfarzo e cattivo gusto. Il tycoon che ci governa aveva dato l’esempio, a Villa Certosa, di una nuova stagione di abusivismo, di rapacità privatistica, di volgarità pacchiana, d’illegalità arrogante.

Il fermo alla devastazione (premessa temporanea d’una pianificazione attenta, si spera, alle qualità del territorio e alla libertà di fruizione) aveva provocato una levata di scudi di una parte larga degli opinion maker: da testate insospettabili, ai sindaci della costa. A questi ultimi si è rivolto il Presidente della Regione con un discorso bellissimo, che testimonia la lucidità della sua azione, la profondità della sua convinzione, la solidità del suo impegno, la forza della convinzione con cui difende la sua certezza: sviluppo non è vendere la propria terra.

Venti presidenti di regione così (o quattro segretari di partito, o un premier), e l’Italia sarebbe salva: quello che ne resta.

Sull'iniziativa dei sindacati:

una intervista del segretario generale della CGIL

un articolo di Carla Ravaioli: La crescita non è illimitata

Sul programma di Cofferati per Bologna:

Il testo del programma

Un commento di Paola Bonora

Sul provvedimento di Renato Soru:

il discorso ai sindaci della costa

altre informazioni e commenti sulla Sardegna

l'eddytoriale 53 del 27 agosto 2004

Bisogna comprendere che nell’Islam si agitano fantasmi e pulsioni mortifere, che è nell’interesse di tutti gli uomini di buona volontà – di qualunque parte del mondo, di qualunque culture, religione, etnia – sconfiggere per sempre. Ma bisogna comprendere anche (e in primo luogo, poiché è qui, in Occidente, che viviamo) che il terrorismo che è divampato in Iraq è stato concimato dalla folle politica dell’attuale Presidente degli USA, che ha colto l’occasione dell’orrore delle Twin Towers per perseguire un disegno di potere messo a punto anni prima: terribile occasione, e ancor più terribile coglierla in quel modo.

Bisogna comprendere che l’altro terrorismo, quello ceceno, quello della strage degli innocenti della scuola dell’Ossezia, è stato concimato dal genocidio praticato dalla Russia in Cecenia. Bisogna comprendere che gli attentati suicidi negli autobus e nei ristoranti di Israele (un altro terrorismo ancora) sono stati concimati dai decenni di miseria, di violenza, di sopraffazione nei campi di concentramento e negli altri recinti nei quali sono stati rinchiuse generazioni di palestinesi.

E bisogna comprendere che la minoranza planetaria che pretende di comandare il mondo (perché è la civiltà “superiore”) non può reclamare la solidarietà, e neppure la tolleranza, di quella maggioranza del mondo che i secoli del suo trionfo economico e politico hanno abbandonato (se non gettato) nella miseria e nella morte. Ancora oggi, alcune centinaia di bambini trucidati in Europa accendono infiniti riflettori di più di quanti illuminano le decine di migliaia di bambini sterminati in Africa.

Bisogna comprendere tutto questo per vincere il terrorismo dilagante. E bisogna agire di conseguenza. È stato aperto il vaso di Pandora. Non ha senso inseguire uno ad uno i diavoli che ne sono usciti: sono infiniti. Occorre richiudere il vaso. Non ha senso indossare l’elmetto e circondare il campo dove si nascondono i terroristi: è un campo più vasto delle armate che vogliono accerchiarlo. Occorre togliere al terrorismo l’humus dal quale si alimenta.

Non è Bush, non è Putin, non è tantomeno Berlusconi a lavorare in questa direzione: anzi, continuano a gettare benzina attorno ai fuochi. La direzione l’ha indicata e praticata un altro uomo di destra, Chirac. Senza cedere al ricatto (e mantenendo attiva la legge che i terroristi chiedevano di abrogare) ha aperto immediatamente il dialogo con il mondo all’interno del quale, come pesci nel mare, navigano e si alimentano i gruppi terroristici. Non so ancora, mentre scrivo queste righe, se l’iniziativa della Francia avrà successo. Ma i giornali già ci dicono che gli ostacoli e i bastoni fra le ruote non vengono dal mondo arabo o dall’Islam: vengono dalle forze d’occupazione.

Sul ruolo e sulla politica di queste forze, e dei loro dirigenti remoti, occorrerebbe lavorare. Magari a partire dall’assassinio di Enzo Baldoni, a proposito del quale troppi interrogativi sono rimasti aperti. Come mai le bugie del governo italiano e della Croce rossa? Come mai indossava la maglietta della sua guida? Come mai il filmato era falsificato? Come mai, a differenza a dei colleghi francesi, vi appariva tranquillo e disteso, ironico, come se fosse tra suoi amici e non tra i terroristi? Come mai il secondo filmato si è ridotto a un’unica fotografia? Come mai non si è trovato il suo corpo, e quello della guida non è stato analizzato? Insomma, lo hanno assassinato i terroristi o altri?

Gli eventi di questi mesi gettano luci inquietanti sul mondo dell’Islam, ma anche su quello che solidalmente gli si oppone, elmetto in testa.

Non si tratta di una rivendicazione di competenze. Il nuovo Statuto si limita a dire, nell’articolo dedicato alle finalità generali, che “la Regione persegue, tra le finalità prioritarie”, nientedimeno che “la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”, nonché “la tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”. Nulla dice lo Statuto su chi legifera in materia di patrimonio culturale. Nulla sottrae alle competenze stabilite dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie. Si limita a tradurre nello Statuto della Regione Toscana (e mi meraviglierebbe se le altre regioni non l’avessero fatto o non lo facessero) il dettato dell’articolo 9 della Costituzione: “la Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

La Repubblica, dice la Costituzione. Quell’ente, cioè, che secondo la Costituzione oggi vigente “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. In altri termini, quali che siano le competenze legislative in materia, è evidentemente (e costituzionalmente) dovere di tutti i livelli di governo, di tutte le istanze della Repubblica, assumere come finalità della propria azione (dei propri compiti di amministrazione, di gestione, di pianificazione, di regolamentazione, di promozione, di vigilanza, di repressione) quello della tutela del patrimonio culturale.

Non fu del resto la stessa Corte costituzionale, alla quale oggi il governaccio Berlusconi si rivolge, a stabilire che l’azione di tutela non può esercitarsi solo a livello nazionale, ma deve interessare tutti i livelli di governo? Nella sentenza 151/1986, ad esempio, la Corte sostenne che con la legge 431/1985 si era ribadito il concetto di “una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” una “riconsiderazione assidua” che postulava che le azioni di protezione del patrimonio culturale, avviate dal livello nazionale, venissero poi proseguite ai livelli regionale, provinciale, comunale.

Il tentativo del governo di invalidare le affermazioni di principio dello Statuto toscano è inaccettabile sul piano dei principi, come argomenta con efficacia Luigi Scano nella nota scritta per Eddyburg. Ma è pericolosissimo sul piano pratico. Esso può infatti indurre a comportamenti lassisti gli attori del sistema delle autonomie. “È Roma che si occupa della tutela, quindi possiamo (anzi, dobbiamo) non occuparcene noi”. Errore gravissimo sarebbe quello di adottare un comportamento siffatto. Poiché si tratta di una materia che - per la sua stessa natura, per la straordinaria ricchezza del patrimonio nazionale, per il suo essere distribuito e diffuso in ogni luogo e città e paese e contrada e valle e riva - fortemente richiede che la ricognizione e tutela dei suoi elementi siano svolti con “assiduità” da tutte le componenti dell’altrettanto ricco tessuto dei poteri e delle responsabilità pubbliche.

Preoccupa perciò, oltre alla improvvida iniziativa del governo, il silenzio che su questo punto hanno manifestato le Regioni. Da quelle che ritengono che la tutela del patrimonio culturale, storico, paesaggistico non sia solo argomento di retorici gargarismi ci si aspetterebbe una tempestiva adozione, nei loro statuti, di formule analoghe a quella adottata dal Consiglio regionale della Toscana: sarebbe il miglior modo di protestare contro un centralismo lesivo degli interessi nazionali.

Sull'impugnativa del Governo si veda la nota di Luigi Scano

Sul tappeto ci sono molti articolati. Quelli dell’on. Lupi, della “Casa delle libertà” e dell’on Mantini, della Margherita: su di essi mi sono già soffermato, sottolineandone le analogie e le differenze. E quello dell’on. Sandri, dei DS, che riprende positivamente i lineamenti culturali della legge regionale dell’Emilia Romagna. Poi c’è una bozza di testo unificato proposto alla Commissione parlamentare dall’on Lupi, che è una riproposizione peggiorata della proposta Lupi, con inserito qualche brandello della Mantini.

A me sembra che, in questa fase della nostra vita politica, non abbia senso lavorare nella logica del miglioramento del testo della maggioranza. Troppo lontane sono le posizioni espresse da questa con quelle che dovrebbero essere proprie di una forza di governo riformatore (e magari perfino “riformista”) europeo. Forse è il caso di fare lo sforzo per enucleare una chiara posizione alternativa: solo una visione miope potrebbe condurre a soluzioni diverse. Nessun “depeggioramento” è possibile al cospetto di una cultura per la quale gli interessi particolari devono prevalere su quelli generali (ai quali è concesso di essere la somma dei primi), il privato sul pubblico, l’immediato sulla prospettiva (e il forte sul debole, il ricco sul povero, il bianco sul colorato, il padano sull’italiano).

Su quali punti dovrebbe articolarsi una proposta politica e culturale alternativa, che sia moderna, democratica ed europea? Ho provato più volte a proporli. Li presento di nuovo, molto sinteticamente.

Tre principi fondamentali: la prevalenza dell’interesse pubblico, il principio di pianificazione (le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, comprendenti l’insieme delle scelte che competono all’ente decisore, formati con procedure trasparenti), il principio di competenza (la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune.

Generalizzazione della prassi della concertazione istituzionale, ossia procedure analoghe alle conferenze di pianificazione instaurate da alcune regioni, a condizione che ne siano definite con chiarezza le modalità. In particolare, che sia stabilito che gli accordi di programma, e in generale gli strumenti che prevedono il concorso nelle decisioni di soggetti diversi dagli organi degli enti elettivi di primo grado, non possono derogare rispetto alle scelte stabilite dal sistema ordinario della pianificazione.

Un principio che riguarda i diritti dei cittadini: la questione dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che devono essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Quindi, determinazione di alcuni “limiti non derogabili” che devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio. Vogliamo ricordare anche il diritto ad abitare?

Alcuni principi relativi al rapporto tra interessi privati e interessi pubblici: ciò che andrebbe stabilito, ribadendo con chiarezza posizioni giuridiche spesso ribadite dalla giurisprudenza:

- i “diritti edificatori” si costituiscono solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati;

- i vincoli ricognitivi non sono indennizzabili, come stabilito da una costante giurisprudenza costituzionale;

- i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti;

- la perequazione può essere praticata solo nell'ambito di ciascun comparto d’intervento operativo.

Infine, è giunto il tempo di dichiarare che il paesaggio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. E sarebbe opportuno disporre per i centri storici una tutela più immediata, generalizzata e legata a programmi d’intervento finanziati.

Su questi o analoghi punti occorrerebbe discutere, col massimo di chiarezza. Non per emendare il “testo unificato”, ma in vista di un futuro governo democratico ed europeo. Un governo che non sembra dietro l’angolo, e nel quale ci sarà molto molto da lavorare: cominciando con lo sbaraccare il terreno dalle nefandezze costruite dal governo Berlusconi. Come ricorda la signora di Altan, effigiata in cima a questa pagina, e come i leader dei diversi velocipedi non ci hanno ancora promesso.

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