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"Il manifesto", 3 marzo 2012. Anche su eddyburg.

"La Repubblica", 29 febbraio 2012. Anche in eddyburg

"La Repubblica", 5 agosto 2011; anche in

In calce l'articolo di Arturo Lanzani e le repliche alle sue 9 proposte

E’ certamente positivo che, come Arturo Lanzani ci segnala, negli ultimi mesi molti studiosi abbiano «sottolineato l’urgenza di fermare o almeno rallentare la trasformazione di suolo agricolo e naturale in suolo urbanizzato». C’è indubbiamente da compiacersene soprattutto da parte di chi, almeno dalla seconda metà degli anni 90, e compiutamente nel 2005 con la prima edizione della “scuola di eddyburg” (voglio ricordare tra gli altri Maria Cristina Gibelli, Mauro Baioni, Fabrizio Bottini, Vezio De Lucia, Georg Frisch, Antonio di Gennaro), evidenziava questo come un tema di rilevanza fondamentale, ma si sentiva allora circondato da un silenzio assordante (Gibelli e Salzano, NO SPRAWL, Alinea, 2006). Sentiva cioè di studiare e di proporre in un contesto culturale (e politico, e amministrativo), nel quale la “diffusione urbana”, o la “città diffusa”, o la “città infinita” sembravano fenomeni da analizzare non per contrastarli, ma per scoprire in essi una nuova occasione di sperimentazione di pratiche “innovative” di disegno urbano: non per contrastare il fenomeno dunque, ma per accompagnarlo, riprogettane le forme, integrarne i contenuti, arricchirne il significato, accrescerne la bellezza - con rotondi alberelli e magari con nuove più massicce costruzioni.

Bisognerebbe domandarsi a che cosa è dovuta la ‘recente’ consapevolezza maturata nel milieu culturale specialistico sulla necessità di intervenire con urgenza per fermare il consumo di suolo agricolo e naturale. Non certo a una sia pur tardiva presa di coscienza da parte della politica e dell’amministrazione. E neppure a un vigoroso allarme sollevato dalla cultura urbanistica ufficiale: quella dell’accademia e delle istituzioni culturali, che ha continuato a preoccuparsi più di moderare, molcire, mitigare, correggere il fenomeno – e insomma di accompagnarlo - che di denunciarlo e di suggerire gli strumenti tecnici per contrastarlo, dopo averne compreso e svelato le radici.

Quali sono le radici del fenomeno, a guardarlo dal campo visuale dell’urbanista? Almeno tre: il ruolo assolutamente dominante della rendita immobiliare (dell’accrescimento del valore della rendita fondiaria a causa delle aspettative di urbanizzazione dei suoli e di nuove forme/aree su cui generarla); l’abbandono delle politiche di edilizia abitativa programmate negli anni 60 e 70; il discredito nel quale è stata gettata quella che è stata definita “urbanistica autoritativa”.

Se si volessero sviluppare le proposte generosamente avanzate da Lanzani occorrerebbe partire da una riflessione su perché e come quelle tre questioni si siano manifestate (e siano anzi diventate devastanti) nel ventennio passato. Certo la riflessione dovrebbe tener conto del quadro più complessivo: che è quello dell’egemonia dell’ideologia neoliberista (a cominciare dalla martellante predica del primato del privato sul pubblico, del mercato sullo stato, dell’economia sulla politica), della sua diffusione nelle pratiche di governo del territorio, e infine, last but not least, della mutazione del sistema economico in quello che è stato definito da Gallino “finanzcapitalismo” (Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011).

Su eddyburg, e nelle diverse edizioni della sua scuola estiva di pianificazione, cerchiamo costantemente di fornire materiali, non troppo specialistici, di conoscenza e riflessione critica su questo più ampio quadro. Siamo infatti convinti che chiudere l’attenzione degli urbanisti nello stretto recinto disciplinare-professionale li possa sospingere a diventare facilitatori di processi che sfuggono alla loro comprensione, anziché interpreti critici delle tendenze in atto e propositori di obiettivi e percorsi alternativi.

In questa sede vogliamo limitarci a porre un interrogativo. Non avrà la cultura urbanistica ufficiale legittimato, consapevolmente o meno, il modello del neoliberismo? A mio parere sì, in particolare con l’appoggio, o addirittura l’invenzione, di pratiche e di parole d’ordine che hanno legittimato le ideologie da cui ha tratto alimento. Accenno ad alcune espressioni che di queste ideologie sono il risultato operativo: l’”urbanistica contrattata” (o concertata) come strumento per sottrarre il rapporto tra il pubblico (l’ente territoriale elettivo) e il privato (immobiliarista e/o proprietario) alla trasparenza e alla subordinazione del secondo al primo; la perequazione e la compensazione come riconoscimento, premio e incentivo alla formazione di plusvalori fondiari; i “programmi speciali” e gli “accordi di programma” in deroga alla pianificazione ordinaria; e infine i “diritti edificatori”, mera invenzione degli urbanisti (PRG di Roma) e causa del riconoscimento pratico dell’impossibilità di ridurre previsioni eccessive di edificabilità dei piani urbanistici. E vorrei aggiungere anche l’errore culturale e pratico commesso con l’introduzione dell’interesse degli investitori come componente legittimamente riconoscibile nella decisione della quantità dell’espansione urbana, fino a farne una componente del fabbisogno edilizio.

Lanzani ha costruito la sua proposta raccogliendo criticamente quelle che ha desunto dal dibattito in corso. (Sarebbe interessante capire perché ha trascurato di rammentare quella elaborata da Luigi Scano, contenuta nella “proposta di legge di eddyburg” e recepita in alcuni dei disegni di legge della XIV legislatura) . Non espongo qui le mie osservazioni su ciascuna delle nove proposte di Lanzani; lo farò su eddyburg.it. Esse comunque non mi sembrano tali da assicurare una ragionevole (cioè drastica quanto è necessario) riduzione del consumo di suolo: sia per alcuni limiti peculiari ai singoli punti, o al modo in cui sono formulati, sia perché non affrontano tutti i versanti del problema, soffermandosi solo su quello urbanistico edilizio.

La mia ferma opinione è che non sia sufficiente combattere l’espansione edilizia, ma occorra al tempo stesso difendere il territorio rurale dall’urbanizzazione non strettamente necessaria. Ciò significa collegare le mille vertenze aperte per combattere il consumo di suolo urbano con quelle, aperte in tutto il mondo, per la difesa delle utilizzazioni agro-silvo-pastorali d’interesse delle popolazioni insediate, per contrastare sia l’irragionevole espansione della “repellente crosta di cemento e asfalto” sia il land grabbing e la sostituzione di colture basate sul valore di scambio sul mercato internazionale anziché sul valore d’uso dell’alimentazione sana e risparmiatrice di energia.

Affrontare congiuntamente i due versanti dell’aggressione all’uso del suolo consentirebbe di rafforzare quello che a me sembra uno degli aspetti decisivi della novità registrata da Lanzani: il fatto che la questione del contrasto al consumo di suolo sia diventata un tema all’ordine del giorno. A mio parere (e dò in tal modo la mia risposta alla domanda che ponevo all’inizio) la novità è emersa per effetto di due tensioni: da un lato, quella positiva espressa dalle migliaia di vertenze che, quasi in ogni regione, sono sorte per rivendicare un uso del territorio alternativo rispetto a quello che ha provocato l’aberrante consumo di suolo che abbiamo conosciuto; dall’altro lato, quella (a mio parere negativa: ma a volte sono un po’ manicheo) esercitata dagli operatori (immobiliaristi e finanzieri, professionisti, amministratori d’ogni ordine e grado) in vario modo legati al mondo del mattone, che avvertono che la bolla si è sgonfiata, che con la prosecuzione del consumo di suolo non si fanno più affari, e che quindi conviene invece spendersi (e guadagnare) recuperando, riqualificando, rigenerando, riprogettando – e mitigando, molcendo, migliorando.

Il Giornale dell’architettura

febbraio 2012

SALVAITALIA

di Arturo Lanzani, geografo e urbanista

Nelle ultimi mesi molti studiosi hanno sottolineato l’urgenza di fermare o almeno rallentare la trasformazione di suolo agricolo e naturale in suolo urbanizzato. La salvaguardia, la cura e la riqualificazione dei grandi spazi aperti è apparsa a molti storici e conservatori come condizione necessaria anche se non sufficiente di tutela del nostro paesaggio storico e precondizione di un modello di sviluppo più attento al ruolo che in esso possono giocare i beni culturali; ma è apparsa anche a molti urbanisti e architetti come punto di partenza di una riqualificazione dei paesaggi contemporanei focalizzata sul progetto di suolo, su un’architettura a volume zero, del riuso e del riciclo. L’arresto del consumo di suolo e della frammentazione degli spazi aperti, che si realizza prevalentemente sulle terre di pianura più fertili, per molti agronomi, ecologi, biologi, geologi, idraulici è una mossa urgente per non penalizzare ulteriormente il settore agricolo, per non incrementare l’effetto serra, per mantenere l’elevato livello di biodiversità e per evitare quella impermeabilizzazione che assieme a una più attenta gestione del bosco di ritorno sulle terre agricole marginali e a un riordino degli insediamenti esistenti è la misura strutturale per ridurre il dissesto idrogeologico ed evitare i ricorrenti disastri ambientali. Parimenti, alcuni economisti hanno sottolineato come la competitività delle nostre urbanizzazioni passa per una loro ricapitalizzazione, per una loro reinfrastrutturazione e per un loro ridisegno qualitativo e non su una crescita estensiva dell’urbanizzato che porta invece a costi di gestione delle reti sempre più elevate e alla realizzazione d’infrastrutture banali. Un punto di vista che s’incontra con chi, nel campo delle politiche dei trasporti, insiste più sulla necessità d’interventi di manutenzione straordinaria, di piccole opere diffuse e d’innovazione di gestione, che non di faraoniche nuove infrastrutture. Infine, alcuni urbanisti e geografi hanno sottolineato come le attuali dinamiche espansive dell’urbanizzazione non siano più legate a una consistente crescita demografica ed economica e a un epocale riassetto della geografia del popolamento e delle imprese, che in passato si sarebbe dovuto orientare ma non certo ostacolare, ma da una spirale dove negli stessi territori abbandono e sottoutilizzo di suoli già urbanizzati si affiancano a nuove urbanizzazioni che consumano suolo. Una spirale alimentata, dal lato dell’offerta, da piani urbanistici che rispondono solo a valutazioni di bilancio e di consenso a brevissimo periodo e, dal lato della domanda, dal riversarsi nell’edilizia di capitali non più reinvestiti in attività industriali competitive, nonché da flussi consistenti di risorse provenienti dall’economia illegale. Una spirale che determina esiti devastanti sulla vivibilità delle nostre urbanizzazioni.

D’altra parte, la drammatica congiuntura economica che sta investendo il nostro paese ha portato in modo diffuso a interrogarsi su come reperire risorse non solo per ridurre i livelli d’indebitamento (senza però penalizzare oltre modo il lavoro e l’investimento), ma anche per promuovere una politica di sviluppo. La lotta alle rendite, e tra queste la vecchia rendita fondiaria, appare allora non solo come una prospettiva di politica economica ampiamente condivisa (almeno in apparenza), ma anche come la possibile congiunzione tra esigenze di risanamento e sviluppo economico del nostro paese e le precedenti riflessioni.

Il decreto «salva Italia» e gli annunciati provvedimenti a favore della crescita da parte del governo Monti non solo non paiono del tutto convincenti rispetto alla difficile inquadratura tra «rigore, equità e sviluppo», ma non sembrano ancora annunciare una nuova stagione d’incontro tra le misure per lo sviluppo e un’attenzione alla qualità dell’ambiente costruito e naturale che allinei le nostre politiche urbanistiche e ambientali a quelle dei paesi europei, facendo propria un’idea di sviluppo che non coincida con la crescita del Pil e preveda infrastrutture effettivamente in grado di riqualificare il nostro territorio. Proviamo allora a delineare una serie di misure che il governo, qualora lo volesse, potrebbe intraprendere per catturare una quota della rendita fondiaria e per «salvare il suolo» sintesi di natura e storia e base materiale del nostro paese.

1. La previsione di nuove aree d’espansione non può più essere definita in maniera esclusiva dalle amministrazioni comunali, ma dev’essere materia di decisione congiunta di comuni e regioni/province e alcune strutture statali (soprintendenze e autorità di bacino). In primo luogo perché lo spazio aperto va inteso come un bene ambientale e paesistico, la cui tutela è costituzionalmente esercitata da regioni e Stato. In secondo luogo poiché la riorganizzazione urbanistica delle aree produttive, d’infrastrutture e attrezzature (l’unica che può esprimere una domanda che non può trovare risposta nel riuso e riciclo dello spazio già urbanizzato) deve procedere, come in quasi tutta Europa, alla scala delle nuove più estese conurbazioni.

2. Superate le logiche particolaristiche nel consumo di suolo va però evitata ogni espropriazione verticistica del suolo non urbanizzato, che è un bene comune. Pertanto ogni soggetto deve poter promuovere una class action in sua difesa secondo lo schema previsto dalla Commissione Rodotà sui Beni pubblici, ad esempio qualora la previsione di nuove urbanizzazioni avvenga in contesti caratterizzati da aree di espansione pregresse inattuate, o dalla presenza di aree dismesse, o da infrastrutture che non paiono di pubblica utilità.

3. Per l’enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti e comunque anche per le urbanizzazioni private del punto precedente va prevista un’imposta da applicarsi quando queste previsioni di edificabilità vengano attuate. Essa deve risarcire le popolazioni locali della rinuncia di una risorsa ambientale a scapito della presente e delle future generazioni. Nello stesso tempo deve riequilibrare il costo-opportunità dell’investimento privato immobiliare sui green field rispetto ai brown field, favorendo questi ultimi. L’imposta deve assommare i differenziali medi di valore nell’acquisto delle aree e i costi di demolizione e smaltimento delle macerie.

4. Le risorse così acquisite devono essere per metà destinate alla riqualificazione dello spazio già urbanizzato (interventi di risanamento dei centri storici e dei monumenti, realizzazione d’infrastrutture innovative quali teleriscaldamento, reti a bande larghe, corsie protette per il trasporto pubblico, metrotranvie, ecc.), ma anche per la semplice manutenzione straordinaria delle infrastrutture tradizionali (scuole, sedi stradali, reti fognarie, idriche, ferroviarie), nonché per un contributo pubblico alle bonifiche di aree dismesse inquinate da riurbanizzare. Per l’altra metà vanno destinate alla riqualificazione degli spazi aperti: realizzando parchi e reti verdi, garantendo manutenzioni alle aree archeologiche, sostenendo l’agricoltura periurbana, rinaturalizzando bacini fluviali, ecc.

5. Per tutte le urbanizzazioni private, ma anche per le opere pubbliche che comportano consumo di suolo, va inoltre prevista una misura di compensazione ambientale sul modello della legislazione tedesca. Per ogni superficie urbanizzata va prevista la cessione o il convenzionamento di pari superfici valorizzate in senso ecologico-paesistico. Nei territori periurbani di pianura queste compensazioni dovrebbero riguardare aree attrezzate ex novo con prati e boschi fruibili, agricoltura urbana e greenways; nelle aree di collina e montagna dovrebbero riguardare un’azione straordinaria di cura e manutenzione dei sentieri, dei boschi e dei prati stabili. Tali compensazioni d’altra parte debbono essere la premessa finanziaria di una progettazione integrata di reti verdi e di reti di comunicazioni, secondo standard europei.

6. Per ogni previsione di piano e per ogni intervento integrato che si realizza nello spazio già urbanizzato che prevede la trasformazione da usi produttivi ad altre più redditizie utilizzazioni o incrementi volumetrici è necessario realizzare un equo riparto della rendita garantendo un certo grado d’indifferenza e concorrenza. L’attuale concertazione a scala comunale e «caso per caso» di oneri o opere aggiuntive da realizzare non ha sempre garantito un riparto sufficiente a favore del pubblico, non ha garantito indifferenza (anzi è spesso stato alla radice di fenomeni collusivi e corruttivi) e ha minato la concorrenza. A tal fine va previsto un onere di urbanizzazione aggiuntivo definito in sede regionale teso a intercettare a vantaggio del pubblico metà della rendita differenziale cosi realizzatasi e da destinarsi a opere infrastrutturali e ambientali. Nello stesso tempo gli oneri di urbanizzazione vanno ridestinati alle sole spese d’investimento.

7. In tutte le aree sottoposte a pianificazione attuativa una quota della volumetria totale dev’essere destinata a edilizia convenzionata o sociale, nelle forme che si sono dimostrate da più di un decennio efficaci e virtuose in Francia e che già trova applicazione in alcuni comuni italiani. Questo provvedimento garantisce che la domanda di edilizia sociale e convenzionata non diventi il cavallo di Troia di nuovo scriteriato consumo di suolo. Esso inoltre favorisce una mixitè sociale all’interno di ogni intervento.

8. In molti casi l’urbanizzazione pregressa ha investito aree particolarmente sensibili da un punto di vista paesistico e/o ambientale: si è costruito negli alvei dei fiumi, o a ridosso di siti archeologici e monumentali, o a pulviscolo nelle campagne ormai intercluse nell’urbanizzato. Per sanare queste situazioni va prevista l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e di costruzione e da ogni altro carico fiscale e un premio volumetrico per tutti i trasferimenti volumetrici da queste aree sensibili ad aree di caduta più appropriate. Una misura che tuttavia non può applicarsi nel caso di edificazioni abusive non condonate.

9. L’ultima misura introduce un criterio di compensazione tra comuni ambientalmente virtuosi e comuni che non ridimensionano le precedenti previsioni di espansioni e/o con elevati livelli di urbanizzazione. Tale criterio di perequazione territoriale dovrebbe applicarsi a una quota parte degli oneri di urbanizzazione raccolti dai comuni «consumatori di suolo» e dei trasferimenti statali verso i comuni con forte livello di urbanizzazione. Le risorse così raccolte dovrebbero essere finalizzate alle sole spese di cura del territorio non costruito dei comuni virtuosi, in parte comuni di montagna e collina, magari di grande estensione territoriale e spopolati, da cui dipende buona parte dell’equilibrio idrogeologico e del bilancio del carbonio del nostro paese.

Note sulle proposte di Lanzani

di Edardo Salzano

1.

Lanzani: La previsione di nuove aree d’espansione non può più essere definita in maniera esclusiva dalle amministrazioni comunali, ma dev’essere materia di decisione congiunta di comuni e regioni/province e alcune strutture statali. […]

ES: E’ esattamente quello che prevede il modello di pianificazione italiano fino alle demolizioni apportate prima e dopo le modifiche alla costituzione (a partire dalle leggi derogatorie dei primi anni 80)

2.

Lanzani: Superate le logiche particolaristiche nel consumo di suolo va però evitata ogni espropriazione verticistica del suolo non urbanizzato, che è un bene comune. Pertanto ogni soggetto deve poter promuovere una class action in sua difesa secondo lo schema previsto dalla Commissione Rodotà sui Beni pubblici, ad esempio qualora la previsione di nuove urbanizzazioni avvenga in contesti caratterizzati da aree di espansione pregresse inattuate, o dalla presenza di aree dismesse, o da infrastrutture che non paiono di pubblica utilità

ES: Forse L. propone di sostituire la class action alle Osservazioni ai piani urbanistici che prevedono ecc. ecc.? La “espropriazione verticistica” nasce da lì. Ma invece della class action bisognerebbe prescrivere forme più incisive di partecipazione.

3.

Lanzani: Per l’enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti e comunque anche per le urbanizzazioni private del punto precedente va prevista un’imposta da applicarsi quando queste previsioni di edificabilità vengano attuate

ES: Preliminarmente, moratoria sull’ “enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti” e cancellazione di tutti quelli che risultano non necessari in base a una rigorosa analisi del fabbisogno. Un’imposta simile incorrerebbe certamente nella censura della Corte costituzionale. La questione dell’appartenenza dell’edificabilità e della tassazione del plusvalore determinato dalle scelte urbanistiche va affrontata in modo complessivo.

4.

Lanzani: Le risorse così acquisite devono essere per metà destinate alla riqualificazione dello spazio già urbanizzato […] Per l’altra metà vanno destinate alla riqualificazione degli spazi aperti […]

ES: La questione è quella della formazione dei bilanci comunali, provinciali, regionali, statali.

5.

Lanzani: Per tutte le urbanizzazioni private, ma anche per le opere pubbliche che comportano consumo di suolo, va inoltre prevista una misura di compensazione ambientale sul modello della legislazione tedesca. Per ogni superficie urbanizzata va prevista la cessione o il convenzionamento di pari superfici valorizzate in senso ecologico-paesistico.[…]

ES: Non conosco la legislazione tedesca in materia. Ma questa “compensazione” che significa? Che se consumo un ettaro con una strada o dei capannoni metto un retino di un ettaro su un’area verde, a ciò destinata dal piano? Oppure che sottraggo un’area alla crosta di cemento e asfalto e la rendo di nuovo permeabile? Per esempio, che il promotore di una qualsiasi operazione prevista dal piano deve cedere al comune un equivalente di terreno che il comune si impegna a destinare a verde pubblico con vincolo permanente?

6.

Lanzani: Per ogni previsione di piano e per ogni intervento integrato che si realizza nello spazio già urbanizzato che prevede la trasformazione da usi produttivi ad altre più redditizie utilizzazioni o incrementi volumetrici è necessario realizzare un equo riparto della rendita garantendo un certo grado d’indifferenza e concorrenza. […] A tal fine va previsto un onere di urbanizzazione aggiuntivo definito in sede regionale teso a intercettare a vantaggio del pubblico metà della rendita differenziale cosi realizzatasi e da destinarsi a opere infrastrutturali e ambientali. Nello stesso tempo gli oneri di urbanizzazione vanno ridestinati alle sole spese d’investimento.

ES: Vedi seconda parte punto 3. Affrontare la questione in questo modo è infantile.

7.

Lanzani: In tutte le aree sottoposte a pianificazione attuativa una quota della volumetria totale dev’essere destinata a edilizia convenzionata o sociale, nelle forme che si sono dimostrate da più di un decennio efficaci e virtuose in Francia e che già trova applicazione in alcuni comuni italiani. Questo provvedimento garantisce che la domanda di edilizia sociale e convenzionata non diventi il cavallo di Troia di nuovo scriteriato consumo di suolo. Esso inoltre favorisce una mixitè sociale all’interno di ogni intervento

ES: Una soluzione simile non sembra affatto in grado di consentire di risolvere il grave problema dell’abitazione in Italia. Si limita a decidere di formare un’ offerta, di dimensioni ignote (e certamente modeste se si vuole interrompere il consumo di suolo), di fronte a una domanda di cui non si sa niente, se non che è legata alle localizzazioni, alle capacità di spesa e a molte altre condizioni che, allo stato delle conoscenze possibili ai livelli locali, non sono manovrabili e neppure conoscibili.

C’è comunque da dubitare che le quantità, disponibilità economiche, caratteristiche sociali della domanda insoddisfatta abbiano una qualche relazione con l’offerta costruita secondo quel modello. Chi si è occupato di edilizia abitative nella logica del “diritto alla casa” negli anni 50, 60, 70 riderebbe di grosso.

8.

Lanzani: In molti casi l’urbanizzazione pregressa ha investito aree particolarmente sensibili da un punto di vista paesistico e/o ambientale: si è costruito negli alvei dei fiumi, o a ridosso di siti archeologici e monumentali, o a pulviscolo nelle campagne ormai intercluse nell’urbanizzato. Per sanare queste situazioni va prevista l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e di costruzione e da ogni altro carico fiscale e un premio volumetrico per tutti i trasferimenti volumetrici da queste aree sensibili ad aree di caduta più appropriate. Una misura che tuttavia non può applicarsi nel caso di edificazioni abusive non condonate.

ES: Sono fortemente perplesso. Inammissibile comunque l’esenzione da tasse e tributi. L’avvenuto condono non giustifica il trattamento comunque non differenziato tra chi ha cstruito lì per colpa del comune e chi ha costruito lì abusivamente. Prima di proporre sanatorie bisognerebbe comunque valutare i dati quantitativi e sociali del fenomeno.

9.

Lanzani: L’ultima misura introduce un criterio di compensazione tra comuni ambientalmente virtuosi e comuni che non ridimensionano le precedenti previsioni di espansioni e/o con elevati livelli di urbanizzazione. Tale criterio di perequazione territoriale dovrebbe applicarsi a una quota parte degli oneri di urbanizzazione raccolti dai comuni «consumatori di suolo» e dei trasferimenti statali verso i comuni con forte livello di urbanizzazione. Le risorse così raccolte dovrebbero essere finalizzate alle sole spese di cura del territorio non costruito dei comuni virtuosi, in parte comuni di montagna e collina, magari di grande estensione territoriale e spopolati, da cui dipende buona parte dell’equilibrio idrogeologico e del bilancio del carbonio del nostro paese.

ES: La compensazione tra comuni posti in condizioni finanziarie differenti dalle diverse politiche urbanistiche, economiche e finanziarie non è certo risolvibile con compensazioni sugli oneri di urbanizzazzioni, ma con politiche, piani, programmi e governi d’area vasta.

Wislawa Szymborska,

Scrivere il curriculum

Che cos’è necessario?


E’ necessario scrivere una domanda,


e alla domanda allegare il curriculum.


A prescindere da quanto si è vissuto


il curriculum dovrebbe essere breve.

E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.


Cambiare paesaggi in indirizzi


e malcerti ricordi in date fisse.

Di tutti gli amori basta quello coniugale,


e dei bambini solo quelli nati.


Conta più chi ti conosce di chi conosci tu.


I viaggi solo se all’estero.


L’appartenenza a un che, ma senza perché.


Onorificenze senza motivazione.

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso


e ti evitassi.


Sorvola su cani, gatti e uccelli,


cianfrusaglie del passato, amici e sogni.

Meglio il prezzo del valore
e il titolo che il contenuto.


Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.


Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.


E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.


Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.

Quali sono gli aspetti che hanno caratterizzato maggiormente il processo di formazione del Piano Paesaggistico Regionale?

La grande visione che aveva Renato Soru in quegli anni. Questa è la cosa più stupefacente. Aveva una idea chiara, lungimirante, assolutamente corretta di cosa significa lo sviluppo reale di un territorio, di una regione, di una società.

Mi colpì enormemente il discorso che fece per l’investitura del comitato scientifico, discorso che ho quasi stenografato e poi ho trascritto. In quel discorso c’erano tutte le idee di fondo che se si fossero seguite, non solo in Sardegna ma anche nel resto del mondo, oggi non ci troveremmo nella situazione in cui ci troviamo.

Una idea del territorio, dell’ambiente, del paesaggio, della cultura, della natura e della storia, l’unica idea capace di dare spazio al futuro; quella è la cosa che mi ha colpito di più.

Mi ha colpito molto l’intelligenza e l’impegno di Renato Soru nella vicenda del Piano Paesaggistico Regionale, il fatto che abbia costituito come prima cosa un Ufficio del piano dentro l’amministrazione regionale, capace di sviluppare un enorme lavoro; che come seconda cosa abbia costruito un pool di esperti che potessero consigliarlo, dargli una mano, dare dei suggerimenti, con una forte attenzione alle diverse competenze specifiche disciplinari, senza fare attenzione a bandiere, agli schieramenti, ai distintivi.

Il lavoro è stato molto faticoso, i punti di vista erano diversi all’interno della Commissione, ma questo è stato molto utile. Un miracolo, riuscire a chiudere il Piano Paesaggistico nei diciotto mesi previsti dalla Legge; è stato un peccato non riuscire ad approvare il Piano anche per le aree interne, peraltro tecnicamente già predisposto dall’Ufficio del Piano.

L’attenzione agli ambiti costieri era assolutamente inevitabile, partire dal territorio più vulnerabile, la parte più aggredita; era inevitabile che fosse così. I sardi hanno sempre avuto timore della costa, storicamente si sono occupati poco della costa e infatti la costa è stata occupata dai pirati di oggi, dai saccheggiatori di oggi, che sono le multinazionali, le imprese di costruzioni, gli immobiliaristi, i politici di quarta tacca, fino al penultimo Presidente del Consiglio. Questi sono i nuovi pirati, coloro che si sono impadroniti delle coste.

Quindi era inevitabile partire dalle coste. Seguendo un strategia che era assolutamente ragionevole, Renato Soru ha fatto la scelta giusta. Prima una grande sciabolata con la protezione, il vincolo, la moratoria assoluta ma temporanea prevista dalla Legge 8/2004, la Legge salva coste. Quindi diciotto mesi per fare il Piano Paesaggistico; diciotto mesi erano una scommessa difficilissima, ma Soru ha vinto, abbiamo vinto.

Questa, secondo me, è in sintesi la storia e la ragione per cui sono molto felice di aver partecipato a questa esperienza. Nel mio ultimo libro, “Memorie di un urbanista”, le uniche esperienze positive degli ultimi decenni che ho raccontato, sono il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Foggia e il Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna.

Quali sono gli aspetti positivi e negativi che rileva nel processo di formazione del Piano Paesaggistico Regionale?

A me non ha mai convinto l’art. 15 della Normativa, riguardante la disciplina transitoria del Piano. Soprattutto perché offre un ampio margine alle manipolazioni dei comuni. Sarebbe utile verificare che cosa è successo, verificare se nel 2004, 2006, 2007 le aree delle lottizzazioni fatte salve erano davvero già urbanizzate secondo le convenzioni approvate. Probabilmente ci sono altri aspetti problematici del Piano, smagliature, sbavature, ma credo che siano del tutto marginali, credo che l’impianto generale del piano regga.

Molto faticoso interpretare gli Ambiti, provo a spiegare il perché. Io credo molto nella logica della Legge Galasso e sono rimasto molto legato al ragionamento della Corte Costituzione riguardante i vincoli ricognitivi. Con le due sentenze del 1968 (la n. 55 e n. 56) il costituente dice una cosa per me molto saggia e molto corretta: il legislatore può benissimo definire gli usi e le trasformazioni consentite a tutti i beni che appartengono a una certa categoria di oggetti a “confine certo”, confini logici, dove per confine ovviamente non si intende un perimetro territoriale, ma una categoria concettuale.

L’individuazione cartografica degli oggetti riferiti a quella categoria può avvenire in una secondo momento attraverso un atto amministrativo, ma intanto il vincolo c’è, ed è insito all’appartenenza di quell’oggetto a quella particolare categoria di beni. Naturalmente per far si che la legge avesse una efficacia immediata, [la legge Galasso] li ha definiti in termini geometrici (fascia costiera dei 300 metri, fasce fluviali, quote altimetriche,...), per poi procedere con la pianificazione e l’identificazione puntuale dei singoli beni.

Il Piano Paesaggistico organizza la disciplina su due distinti livelli: gli Assetti con le diverse categorie di beni e componenti, contenente le prescrizioni, le direttive, gli indirizzi, ecc., e gli Ambiti di paesaggio che rinviano ad una pianificazione successiva, che tenga conto in modo migliore delle interrelazioni fra le diverse categorie di beni, ambientali, storico culturali, insediativi, che costituisce l’anello di congiunzione con le trasformazioni di tipo urbanistico, con l’uso del territorio, con le esigenze di organizzazione dell’habitat dell’uomo.

Questa è la parte più nuova del Piano, ma anche giuridicamente più debole; il PPR tiene aperta questa parte del Piano più sperimentale e rinvia ad una fase successiva la sua pianificazione a livello di Ambito, ma ad una condizione: che la pianificazione al livello di ambito non contraddica le norme relative alle diverse categorie di beni.

Un motivo di rischio esiste non tanto nel Piano quanto nell’indebolimento dell’impianto della copianificazione; io sono fermamente convinto che la collaborazione tra Enti, tra istituzioni dei diversi livelli sia indispensabile e in particolare l’interesse, la competenza e la responsabilità del paesaggio, in questo sono perfettamente d’accordo con Emilio Lussu , sia assolutamente compito di tutte le istituzioni della Repubblica; solidalmente però, nel senso di avere la consapevolezza che ciascuna è più permeabile a interessi diversi. Il comune è una cellula fondamentale della tutela del paesaggio, ma risponde direttamente a interessi locali, che non è detto siano i più lungimiranti; non è detto che quelli dello Stato siano più lungimiranti, ma è proprio l’equilibrio fra i diversi livelli di competenza che può rappresentare la garanzia dell’interesse collettivo.

Da questo punto di vista il fatto che si sia indebolito il peso dello Stato nella co-pianificazione, sostanzialmente limitato dal Codice ai soli beni paesaggistici, secondo me è un fatto molto grave e pericoloso; questo può avere riflessi nella pianificazione degli Ambiti.

Considera adeguate le forme di comunicazione e condivisione in merito a principi e strategie di tutela e salvaguardia paesaggistica, attivate nel corso del processo di formazione del PPR? Quali sono a suo parere gli aspetti del PPR maggiormente condivisi da parte della società locale o oggetto di maggiore conflittualità?

Non ho una conoscenza diretta approfondita; ho partecipato ad alcune assemblee in quattro province diverse, in cui ho illustrato il Piano, ma so che ci sono state moltissime altre occasione di incontro.

Io credo che la partecipazione sia un processo di maturazione molto lento e molto lungo; credo inoltre che la definizione della Convenzione del paesaggio, “il paesaggio è una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”, sia un processo non un dato raggiunto, in questo sono perfettamente d’accordo con Alberto Magnaghi: “non si dà nei territori locali una identificazione stretta fra popolazioni e luoghi: […] ‘abitanti’ significa abitanti ‘locali’ ma anche nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users, presenze multietniche, giovani, anziani, ecc.”.

La pianificazione non può quindi ridursi alla “semplice registrazione di una percezione data, ma un processo euristico di decodificazione e ricostruzione di significati, attraverso l’apprendimento collettivo del paesaggio come bene comune”; quindi guai se la pianificazione si basa oggi sul paesaggio così come è percepito dalla popolazione, in quanto la popolazione oggi è viziata dal fatto dell’immediatezza dell’interesse.

Da pochi anni sono nati questi movimenti per la difesa del territorio, stanno crescendo, si stanno sviluppando, ma non interessano ancora l’intera popolazione; non ho più la speranza nei partiti, nelle università, ho la speranza in questi movimenti, ma è un processo lungo e faticoso e non possiamo correre il rischio che i beni del territorio vengano degradati o dilapidati.

La forza di convinzione dei Berlusconi, dei Barrack, è fortissima; hanno lavorato per far diventare egemonica una particolare ideologia per la quale lo sviluppo non è solo costruire di più, ma avere una disponibilità edificatoria più diffusa. Questo si incontra con un aspetto dell’animo sardo; la mia impressione è che in Sardegna la popolazione, in particolare nelle aree interne, non abbia nessuna intenzione di costruire nel proprio territorio, ma guai se qualcuno gli dice tu non puoi costruire.

Quale relazione pensa che ci sia fra tutela e salvaguardia del paesaggio e sviluppo socio-economico?

Dipende da cosa intendiamo per sviluppo. Sviluppo è un termine terribilmente ambiguo. Per meglio dire, è adoperato in modi diversi, e assume diversi significati. È un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È indubbiamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, lo sviluppo di una amicizia, lo sviluppo del benessere; è indubbiamente negativo lo sviluppo di una malattia, lo sviluppo di una inimicizia, lo sviluppo di un conflitto.

Nel linguaggio comune sviluppo ha perso il connotato di termine generale per indicare il miglioramento o il peggioramento di una condizione; sviluppo oggi significa quasi esclusivamente sviluppo economico, ogni altra connotazione è scomparsa. Ma quando parliamo di sviluppo economico purtroppo siamo costretti a parlare dell’economia data, dell’economia che ha come unico scopo la produzione indefinita di merci, il massimo guadagno di chi investe.

L’economia è una cosa completamente diversa; l’economia è un efficiente rapporto tra i fini e i mezzi; i fini sono alternativi, i mezzi sono limitati. Coordinare le risorse utilizzabili con i fini che ti proponi sono economia, la concezione generale dell’economia. L’equità o iniquità di una economia si valuta dai fini ai quali l’operazione economica è volta. Se i fini sono il raggiungimento del massimo guadagno di chi ha i mezzi per intervenire, allora questa è una economia iniqua. E noi purtroppo viviamo in una economia iniqua.

Uno sviluppo economico in questo contesto non può che essere uno sviluppo sbagliato e iniquo.

Quali prospettive e scenari futuri prefigura anche alla luce del dibattito attuale e dei recenti provvedimenti regionali? Cosa pensa che sia opportuno fare nell’immediato o nel prossimo futuro?

Io credo che oggi noi abbiamo due sole grandi risorse su cui poter sperare. Un accresciuto consenso sulla necessità di passare di nuovo dall’io al noi, che è espressione di questi movimenti; questo è un elemento decisivo, dopo la ventata neo liberista in cui tutto era ripiegato nell’individuo. Oggi, secondo me, la cosa più importante che questi movimenti esprimono, è la voglia di ricominciare a fare politica, lavorando insieme con la consapevolezza che gli interessi sono comuni e che quindi bisogna battersi insieme affinché siano soddisfatti.

La seconda cosa positiva che vedo è la rigidità di un buon assetto legislativo, di un buon ordinamento giuridico di fondo, espresso e rappresentato, tenendo conto delle componenti sociali in campo, dalla magistratura.

Io vedo nel popolo e nella magistratura le due forze che possono riprendere il cammino dal fondo del degrado nel quale il neo liberismo straccione all’italiana ci ha portato. Questa è l’unica speranza che vedo.

GAZZETTA AMBIENTE

Rivista sull’ambiente e il territorio anno XVII – n. 6/2011

La pianificazione del paesaggio in Sardegna

SOMMARIO

1. Introduzione, di Antonia Pasqua Recchia

2. La vicenda paesistica in Sardegna: dalla Legge Galasso all’annullamento dei PTP (1985-2003) , di Paolo Falqui

2.a. I Piani territoriali paesistici della Sardegna

2.b. L’adeguamento della pianificazione urbanistica comunale ai PTP

2.c. L’annullamento dei Piani territoriali paesistici

2.d. I prodromi della tutela paesistica: il Piano territoriale paesistico di Molentargius e Monte Urpinu

2.e. Fernando Clemente: il progetto ambientale e la pianificazione del paesaggio (di Margherita Monni)

Interviste a: Sebastiano Bitti, Stefano Deliperi

3. La formazione del Piano paesaggistico regionale: dal Decreto Soru all’approvazione del Piano (2004-2006), di Paolo Bagliani, Paolo Falqui

3.a. I riferimenti culturali e normativi del Piano paesaggistico regionale

3.b. Evoluzione del concetto di paesaggio (di Margherita Monni)

3.c. Il processo di formazione del Piano paesaggistico regionale

3.d. Principi, opzioni strategiche e struttura del Piano paesaggistico regionale

3.e. Beni e componenti di paesaggio

3.f. Gli Ambiti di paesaggio

Interviste a: Renato Soru, Gian Valerio Sanna, Edoardo Salzano, Giovanni Maciocco, Antonello Sanna, Paola Cannas, Paolo Scarpellini, Giovanni Maria Campus, Alessio Satta

4. L’attuazione del Piano paesaggistico regionale (2006-2011), di Paolo Bagliani, Paolo Falqui

4.a. Strategie e strumenti di attuazione del Piano paesaggistico regionale

4.b. L’adeguamento della pianificazione urbanistica comunale e provinciale al PPR

4.c. L’adeguamento della pianificazione e la Valutazione ambientale strategica(co-autrice Patrizia Sechi)

4.d. Paesaggio storico e identitario (di Laura Zanini)

4.e. Tutela paesaggistica e difesa del suolo (di Maurizio Costa)

4.f. Pianificazione Natura 2000 e Piano paesaggistico Regionale (di Andrea Soriga)

4.g. I Sistemi informativi territoriali e gli strumenti innovativi di supporto al governo del territorio (di Roberto Ledda)

4.h. Politiche regionali per il paesaggio

4.i. La promozione del Piano: il Progetto Itaca

4.l. Premio del paesaggio del Consiglio d’Europa

Interviste a Gabriele Asunis, Arnaldo “Bibo” Cecchini, Maria Assunta Lorrai, Enrico Corti, Franco Cuccureddu, Roberto Tola, Gianni Mura, Sandro Roggio, Corrado Zoppi

5. La revisione del Piano paesaggistico regionale (2008-2011), di Elisa Mura, Clara Pusceddu

5.a. Primo percorso partecipativo per la revisione del Piano1

5.b. Sardegna nuove idee

5.c. La Valutazione ambientale strategica del Piano paesaggistico regionale

5.d. Dal Piano casa alla legge di incentivazione del golf

5.e. Domande e risposte: la comunicazione regionale sulla revisione del PPR

"la Repubblica, 6 febbraio 2012. Anche in eddyburg

"La Repubblica", 30 gennaio 2012. Anche in eddyburg,qui

"La Repubblica,

La Repubblica, 12 novembre 2008

"il manifesto", 7 gennaio 2012. Anche su eddyburg

Ha suscitato scandalo a destra la notizia, diffusa da un autorevole giornale statunitense, che Angela Merkel avrebbe telefonato (come era già noto) a Giorgio Napolitano chiedendogli (come anche era noto) di evitare che Berlusconi continuasse, con la sua presenza, a minacciare l'euro, l'Europa e "quant'altro".

Notizie dai giornali di oggi 29 dicembre 2011

"La Repubblica, 11 dicembre 2011"

La manifestazione antirazzista di Firenze, per ricordare i morti e i feriti

"il manifesto", 13 dicembre 2011, anche in eddyburg.it

dal "manifesto" del 30 novembre 2011, ricordando Lucio Magri, Anche in

Da: E. Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del fòntego, Venezia 2010, p. 21-24

Stava nascendo una nuova rivista, «il Dibattito politico». Due deputati democristiani avevano votato contro l’adesione dell’Italia al trattato militare europeo ed erano stati radiati dal loro partito. Si trattava di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi. Il primo era stato partecipe della Resistenza a Milano; giornalista (aveva diretto «il Popolo», quotidiano della Dc), cattolico di sinistra vicino alle posizioni della rivista «Esprit», fervido antifascista e convinto avversario delle ingiustizie sociali, uomo spiritosissimo ed elegante, avrebbe scritto sulla nuova rivista gustosissimi corsivi firmandosi emme, proseguì più tardi firmando Fortebraccio su «l’Unità». Completamente diverso come cultura e atteggiamento era l’altro compagno d’avventura, Bartesaghi: sindaco di Lecco, austero e rigorosissimo, già accusato nel suo partito di filocomunismo per essere andato con i pescatori del Lago di Como a soccorrere la gente del Delta nell’alluvione del Polesine.

Contemporaneamente, un gruppo di giovani democristiani, esponenti di punta delle organizzazioni giovanili della Dc (Giuseppe Chiarante, Lucio Magri, Ugo Baduel, Umberto Zappulli), da tempo orientati su posizioni di sinistra vicine a quelle del Pci, avevano abbandonato il loro partito. A casa di Franco e Marisa Rodano, che già frequentavano, incontrarono il gruppo (Vittorio Tranquilli, Filippo Sacconi, Tonino Tatò, Giobatta Chiesa, Franco Rinaldini, Ennio Parrelli, Erasmo Valente) che aveva attraversato con Franco la storia dell’opposizione al fascismo e della resistenza, l’esperienza del Movimento dei cattolici comunisti prima, della Sinistra cristiana poi, lo scioglimento di quest’ultima e l’ingresso nel Pci, e infine la vicenda culturale della rivista «Lo Spettatore italiano»: una rivista mensile, edita da Laterza, la cui redazione era formata da Elena Croce e altri dell’area culturale crociana, che si occupavano prevalentemente della parte letteraria, e da alcuni del gruppo di Rodano, che curavano la parte politica.

[…]

I giovani ex democristiani confluiti nel «Dibattito politico» avevano provenienze e abitudini provinciali: Beppe Chiarante e Lucio Magri venivano da Bergamo e da Ferrara, Ugo Baduel da Perugia. La loro cultura politica era sterminata, ma vivevano in un mondo dal quale ogni altra dimensione era estranea: in particolare quella un po’ godereccia e spensierata dei figli della buona borghesia romana.

Abitavano in un appartamento subaffittato da una certa signora Scarponi, vicino alla città universitaria: un paio di stanze ingombre di pile di giornali e di calzini sporchi. Con Rocco decidemmo di estrarli dal loro mondo e di introdurli in un altro, più arioso: almeno la domenica nelle buone stagioni, che a Roma erano molte e lunghe. Così prendemmo l’abitudine di passarli a prendere con la Cinquecento di Rocco (io seguivo in Vespa) e di portarli a Fregene, nella villa dei genitori di Barbara, la Busiriana. Là conobbero altre persone. Trascorrevano ore a discutere di un problema politico che stavano affrontando o di un articolo che stavano scrivendo, passeggiando su e giù per il prato; ma poi chiacchieravano del più e del meno, facevano amicizia, si innamoravano.

DI CHE PARLIAMO

La corruzione non è una novità

La proprietà immobiliare ha sempre condizionato, in misura maggiore o minore, le decisioni pubbliche della pianificazione urbanistica. Di più o di meno, a seconda di due variabili: l’incidenza della proprietà immobiliare nel sistema complessivo degli interessi, la maggiore o minore distanza della pubblica amministrazione dagli interessi immobiliari. In sintesi, dal peso della proprietà immobiliare nell’economia e nella politica.

Il ruolo della pianificazione urbanistica moderna (dal XIX al XX secolo) è sempre stato quello di “regolare” gli interessi immobiliari, perché in gran parte attraverso di essi che nelle economie liberali si costruisce e si trasforma materialmente la città. La pianificazione urbanistica è stata storicamente proprio il sistema di regole mediante il quale le operazioni di trasformazione immobiliare, ciascuna delle quali promossa da un singolo operatore, davano luogo a un progetto complessivo di città. Un progetto del quale facevano parte non solo gli elementi, per così dire, d’interesse immediato dei proprietari immobiliari, ma anche quelli che interessavano gli abitanti della città, i cittadini in quanto tali e i suoi fruitori e visitatori, nonché il complesso delle attività che nella città si svolgono. Un progetto che doveva raggiungere i tre requisiti della funzionalità, del benessere e della bellezza. Un progetto che non poteva traguardare solo al breve termine (quello percepito come rilevante dall’operatore economico), ma doveva riferirsi al lungo termine, peculiare alla dimensione temporale della città (che quindi era percepito come rilevante dal Buon governo).

Naturalmente, poiché il potere politico-amministrativo era determinante nell’assegnare peso economico alle proprietà immobiliari, la contrattazione delle decisioni sul territorio, e la stessa corruzione, non sono mai mancate tra gli ingredienti del sistema delle decisioni. La proprietà immobiliare ha insomma sempre esercitato una pressione più o meno forte sugli amministratori, ma sempre nell’ambito di un dispositivo complessivo nel quale era chiaro che il ruolo del progettista e decisore delle regole della città era il governo pubblico.

Ma l’urbanistica contrattata è un’altra cosa

A un certo punto della nostra storia recente questo è cambiato. La pianificazione espressiva d’una autorità pubblica, quindi rivolta a regolare a priori (secondo un piano, un disegno, un sistema di regole) l’attività degli operatori privati, è stata definita “urbanistica regolativa” e ad essa si è opposta la “urbanistica concertata”, o – più esplicitamente – “urbanistica contrattata”. Il nostro convegno si riferisce a Vent’anni di urbanistica contrattata. In realtà allungherei di un decennio il periodo, poichè è proprio all’inizio degli anni 80 del secolo scorso che collocherei quel tornante.

Prima di ragionare sugli eventi che hanno concorso a quella svolta, e sulle sue conseguenze, credo che sia utile di precisare che cosa intendo per “urbanistica contrattata".

In termini molto sintetici significa sostituire, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica e finalizzate alla realizzazione di un assetto della città e del territorio ordinato a un insieme di obiettivi d’interesse generale, la contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere, e in particolare di quelli che hanno un interesse economico diretto nelle utilizzazioni che saranno consentite alla sua proprietà.

Essa perciò si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, o addirittura sulla base delle proposte di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma chi ha iniziativa è la proprietà, e non il Comune.

UN PO’ DI STORIA

Il contesto della svolta

Il passaggio dall’urbanistica tradizionale all’urbanistica contrattata, avviene come dicevo, nel corso degli anni 80. Si è appena concluso un ventennio sul quale la riflessione degli storici ha gettato molta luce. A una fase nella quale si erano raggiunte grandi conquiste sul terreno dell’organizzazione della città e della società (rilancio della pianificazione urbanistica, politica della casa, standard urbanistici, e insieme istituzione del servizio sanitario nazionale, scuola per tutti, istituzioni per l’infanzia, diritti del lavoro, diritti della donna, …), aveva fatto seguito una fase in cui la pressione delle forze che alle riforme di opponevano avevano incrinato, smantellato, depotenziato i risultati raggiunti.

Nel mondo dominano ormai i tre slogan del neoliberismo: liberalizzazione, deregolazione, privatizzazione. Margaret Tatcher e Ronald Reagan sono i leader incontrastati degli orientamenti che prevalgono nel contesto della globalizzazione. Le politiche keynesiane sono sostituite dall’ideologia e dalla prassi del neoliberalismo.

In altri paesi il neoliberismo trova – almeno nel campo del governo del territorio - gli argini di una forte autorevolezza della pubblica amministrazione e di una consolidata prassi di buona pianificazione urbanistica; in Italia, nonostante le eccezioni, mancano entrambi questi requisiti. Nel Belpaese la spinta al cambiamento (lo chiamano “modernizzazione”) ha la sua forza trainante nel nuovo PSI di Bettino Craxi. Slogan quali “privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via i lacci e lacciuoli” risuonano al centro, a destra e a sinistra: diventano via via pensiero corrente. E alla fine degli anni 70 diviene ministro dei lavori pubblici Franco Nicolazzi, promotore dei primi provvedimenti di liberalizzazzione, deregolamentazione, condono dell’abusivismo.

Intanto i gruppi industriali del “capitalismo avanzato”, che negli anni precedenti avevano dichiarato di essere favorevoli a riforme urbanistiche che riducessero il peso della rendita fondiaria, avevano rapidamente cambiato di spalla al fucile: riducendo l’impegno e l’investimento nelle attività industriali, avevano accresciuto il peso delle attività immobiliari. Ciò era stato favorito dalle trasformazioni strutturali dell’economia italiana. L’accresciuto peso del terziario sulla produzione manifatturiera aveva provocato l’obsolescenza dei grandi complessi industriali, spesso collocati al centro delle città. Ai proprietari e ai gestori dei gruppi industriali che pochi anni prima si erano schierati con l’Espresso nella campagna contro il sacco di Roma e avevano plaudito a una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita fondiaria, parve molto più conveniente speculare sulla rendita immobiliare consentita da un’utilizzazione contrattata dei loro grandi complessi dismessi.

Il ruolo della cultura

Poiché ragioniamo nell’ambito di un’associazione culturale, credo che sia utile domandarsi quale ruolo abbia svolto la cultura in questa svolta. Benché i recinti delle discipline mi siano antipatici, parlerò del campo nel quale opero: l’urbanistica.

Nel cammino verso un’urbanistica contrattata, alle ragioni provocate dalle nuove convenienze per i “padroni del vapore” determinate dalle trasformazioni strutturali e al prevalere di una nuova ideologia a livello mondiale, ha fatto puntuale riscontro una mutazione nella cultura urbanistica. Invero molte novità avrebbero richiesto di aggiornare i metodi e gli strumenti della pianificazione: mi riferisco, oltre alle trasformazioni strutturali cui ho accennato, alla forte riduzione delle necessità d’espansione delle città e, per contro, alla necessità di intervenire nel recupero dell’esistente, all’insorgere e l’affermarsi della questione ambientale e al rafforzarsi della volontà di tutelare il paesaggio e la cultura del territorio.

E tuttavia, mentre alcuni lavoravano per affrontare le questioni nuove nell’ambito dei principi della pianificazione pubblica, altri vedevano nella forza economica delle trasformazioni immobiliari la molla da liberare al massimo grado dai lacci e lacciuoli della regolazione, o almeno da assecondare nei suoi moventi e nelle sue convenienze.

La critica all’efficacia della pianificazione

Il grimaldello attraverso il quale far passare un sistema di principi radicalmente opposto a quello della pianificazione tradizionale fu la critica all’efficacia della pianificazione tradizionale. Questa era giudicata inefficace per il lungo tempo dedicato alla formazione del piano, per le difficoltà della successiva attuazione, per la mancanza di controllo sulla forma della città. Mentre qualcuno proponeva di innovare il modo in cui modificare il sistema della pianificazione restando fedeli ai principi che la sorreggevano (primato del pubblico, carattere sistemico delle regole, coerenza della visione, trasparenza delle procedure), altri proponevano modifiche sostanziali.

Una polemica si aprì, in particolare, tra chi difendeva il piano e chi proponeva di sostituire ad esso il progetto: alla definizione di un sistema complessivo di regole, si voleva preferire interventi limitati a un’area di dimensioni discrete, nella quale il progettista poteva definire l’aspetto finale. Naturalmente, limitare l’intervento urbanistico all’architettura di una singola parte della città senza preoccuparsi della coerenza complessiva dell’organismo urbano rendeva più snelle le operazioni. Consentiva tra l’altro di avere a che fare con interlocutori noti (proprietari e imprenditori), con cui si potevano concordare gli interventi.

A mio parere il modo in cui le critiche alla pianificazione venivano formulate, le strade che si proponevano per superarle, la scarsa chiarezza sui principi, la disattenzione al contesto politico erano molto pericolosi. In un editoriale della rivista dell’INU sostenevo che le iniziative deregolatrici pesantemente avviate dal ministro Nicolazzi trovavano «complicità oggettive anche nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica». Denunciavo l’esistenza di «assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica». Osservavo che, all’interno stesso degli urbanisti, si consideravano quasi con compatimento e distacco e si sorrideva «degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell'lnu anni 50, dei metodi "ingegneristici" di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico».

Il cedimento del PCI

All’interno stesso della sinistra politica era avvenuta una mutazione dello stesso segno. L’ideologia craxiana aveva portato il PSI su posizioni molto distanti da quelle della sinistra lombardiana, e aveva trovato aveva trovato echi significativi nel PCI: da un lato, nelle posizioni di chi sosteneva che la pianificazione delle amministrazioni pubbliche era inefficace e che occorreva sostituirla con una gestione intelligente, flessibile e – naturalmente – concordata con le forze del mercato[1]; dall’altro lato, in quelle di chi difendeva l’abusivismo, soprattutto nelle regioni meridionali, addebitandolo alla rigidezza della pianificazione che conculcava il sano desiderio di possedere un’abitazione[2].

Lo scontro tra gli urbanisti rappresentati dall’INU raggiunse livelli acuti, sia dentro che fuori il Pci. Il responsabile del settore nel PCI, Lucio Libertini, scrive che “si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme perverse di oppressione burocratica”[3]. In una lettera al segretario generale del Pci (Alessandro Natta), e ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche. Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il PCI voleva superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari.

La polemica divampò. Ricordo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna, Giovanni Russo, Cesare De Seta, Fabrizio Giovenale, Vezio De Lucia, Pierluigi Cervellati, Carlo Melograni. A quell’epoca la cultura reagiva tempestivamente alle cattive proposte sul governo del territorio, anche quando provenivano da molto vicino[4].

Il caso Fiat-Fondiaria

Il caso fiorentino dell’area FIAT-Fondiaria, fece balzare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’urbanistica contrattata nel 1988, a causa della telefonata di Achille Occhetto, allora segretario del PCI, che aveva impedito l’approvazione, da parte della federazione di quel partito, allora al governo di Firenze, di procedere nell’approvazione di una variante urbanistica relativa a quell’area. L’operazione era partita diversi anni prima, tra il 1980 e il 1983, con la proposta di un intelligente intellettuale italo-argentino, Thomas Maldonado, elaborata d’intesa con la società assicuratrice Fondiaria e i locali dirigenti del PCI. Riguardava l’urbanizzazione dell’area tra Firenze e Sesto Fiorentino, con la localizzazione di oltre 3 milioni di metricubi di costruzioni. Nel 1984 l'Agip, la FIAT e la Fondiaria, proprietarie di aree e impianti in quell’ambito, manifestano al comune l'intenzione di avviare operazioni immobiliari. Nel 1985 la giunta centrista avvia una variante del piano regolatore per il settore nord-ovest. Si prevede tra Novoli e Castello un sistema di aree terziario-direzionali. Quattro milioni di metri cubi 3.000 miliardi di investimenti.

Iniziano subito le proteste contro l’intervento. Un primo appello è firmato a Firenze da 90 intellettuali (tra cui Pietro Annigoni, Eugenio Garin e Alessandro Parronchi). L’elaborazione della variante procede, mentre parallelamente iniziano i lavori per il nuovo Prg. Ma le proteste aumentano. Italia Nostra è al centro della protesta, che coinvolge moltissime associazioni, comitati, gruppi. Le ragioni dell’opposizione sono ben sintetizzate da Antonio Cederna: «Saldatura a macchia d’olio della squallida periferia occidentale ed eliminazione dell’ultima area libera;disastrose conseguenza sul centro storico; premessa per la creazione di un ininterrotto agglomerato tra Firenze e Prato»[5].

Giovanni Losavio organizza la pubblicazione di un fascicolo speciale del bollettino di Italia Nostra (n. 255/1998), in cui s’impegna particolarmente Antonio Iannello. Manlio Marchetta, da Firenze, cura un numero speciale della rivista Edilizia popolare (n. 204/1988). Si riesce a coinvolgere la segreteria del PCI. Nella sede fiorentina del PCI è intanto in corso un animato dibattito, che la telefonata di Achille Occhetto interrompe. Il PCI ritira il suo appoggio alla variante.

A distanza di tanti anni l’intuizione appare felice. L’intervento dal centro era essenziale, poiché l’operazione FIAT-Fondiaria aveva un significato nazionale. Avallare quel contratto tra proprietà immobiliare e amministrazione avrebbe significato avallare una prassi che sarebbe stata seguita in tutto il paese. L’intervento da Roma era necessario, ma come oggi sappiamo non bastò.

Lacerazioni nell’INU

Il caso FIAT-Fondiaria fu il primo sul quale discutemmo a lungo nell’INU, ma non il solo. Nel 1990 ci apprestavamo a svolgere il XIX congresso dell’istituto. Avevamo deciso di organizzarlo “a tesi”, per agevolare l’emergere delle diverse posizioni che si erano manifestate tra gli urbanisti italiani. C’era molta esitazione a esprimere posizioni nette su alcuni avvenimenti secondo me cruciali: tra questi, proprio sulla questione del rapporto tra pubblico e privato nel governo del territorio. Operazioni di urbanistica contrattata erano progettate anche in altre città.

A Napoli, dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del "Regno del possibile" proponevano al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupero di quasi 70mila alloggi nel centro storico. A Roma, dove l'Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si proponeva come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasformazione della città. Infine a Milano, dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree era divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale. Con una rapidissima sequenza di varianti puntuali si erano infatti autorizzati, oltre 12 milioni di nuove strutture edilizie per il terziario.

La tesi che proponevamo partiva dall’affermazione che il principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana su cui tutti, in teoria, si dichiarano d'accordo «è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, ad opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico». Affermavamo che si contraddice quel principio «quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull'organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell'ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianificazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri». E proseguivamo citando e illustrando i casi che ho appena enunciato

Il consiglio direttivo dell’INU respinse la nostra tesi. Sull’argomento occorreva studiare, approfondire, riflettere: non ci si poteva ancora esprimere. Altri, per fortuna, studiavano, approfondivano, riflettevano: la magistratura. Se la cultura esitava, la giustizia agiva. Esplose lo scandalo di Tangentopoli e si conobbero gli esiti dell’indagine Mani pulite.

Mani Pulite

Fu con l’indagine della Procura della Repubblica di Milano (dal pool composto dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, dal suo vice Gerardo D'Ambrosio e da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Ilda Boccassini) che si comprese ciò che la contrattazione delle decisioni sull’uso del territorio aveva provocato all’insieme dei rapporti sociali, economici e politici. Nel commentare i risultati delle indagini scrivevamo, con Piero Della Seta, che «lo smantellamento delle regole, degli strumenti e delle strutture del governo del territorio sono stati i passaggi obbligati che il sistema politico-affaristico ha dovuto superare per poter perseguire i suoi obiettivi di potenza e di ricchezza». Non a caso, «circa i tre quarti dei fatti svelati riguardano interventi compiuti (o minacciati) sul territorio e sull'ambiente»[6].

Grazie al lavoro compiuto negli anni dalla rivista Urbanistica informazioni potemmo raccontare i principali casi di urbanistica contrattata che si erano registrati, e che emergevano nella loro natura di incubatori del sistema di corruzione. Oltre al caso della Fiat-Fondiaria balzava in primo piano Milano, dove già il bravo sindaco Pietro Bucalossi, molti anni prima, aveva scoperto esterrefatto il rito ambrosiano. A Milano era successo di peggio oltre alle varianti che avevamo denunciato nell’INU. Commentano alla vigilia di Mani pulite Barbacetto e Veltri: «In mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finanziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io amministratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)» contropartite garantite da lettere private, tenute accuratamente segrete.

Difficile credere che, oltre a queste contropartite, l’opacità della contrattazione non ne celi altre[7]. E infatti il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle successive azioni della magistratura.

Profetica ci apparve dopo l’esplosione di Tangentopoli una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto: «Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca» [8]. Così era, a Milano, e non solo a Milano.

Firenze, Milano, Napoli, Roma. Ma in tantissimi luoghi, a Duino Aurisina e a Trieste come a Palermo, al nord come al sud. In molte città grandi e piccole, la polpa degli affari e della contrattazione discreta sono le aree dismesse dalle industrie, dai militari, dalle ferrovie. Grandi occasioni per riorganizzare le città a vantaggio di tutti i cittadini, per restituire verse, spazi pubblici, attrezzature sociali, aria, verde, salute. Trattate una per una, in un rapporto esclusivo col possessore e con l’obiettivo della “valorizzazione economica” (di cui la collettività otterrà una briciola[9] e l’amministratore, o il suo partito, una tangente) si perde in quegli anni la grande opportunità di ridisegnare le città nell’interesse dei cittadini, anziché dei proprietari immobiliari. di

Mani Pulite riesce a determinare uno scossone nell’opinione pubblica, che conduce alla liquidazione dei gruppi politici più direttamente implicati nelle conseguenze aventi rilevanza penale dell’urbanistica contrattata: nella corruzione. Ma non scalfisce la concezione del rapporto tra pubblico e privato che è alla base di quel modo di gestire le trasformazioni del territorio.

ANCORA PEGGIO

Roma e i “diritti edificatori”

Due capitoli della storia dell’urbanistica italiana, che qualcuno dovrà scrivere, testimoniano una svolta preoccupante: l’uno a Roma, l’altro a Milano. Due capitoli già trattati stamattina, da Paolo Berdini e da Giuseppe Boatti, di cui vorrei riprendere alcuni elementi.

A Roma, mentre lo slogan dl “pianificar facendo” può essere benevolmente considerato un cedimento intellettuale al linguaggio e alle prassi neoliberiste, che ha aperto ulteriormente spianato la strada all’urbanistica cotrattata, l’invenzione dei “diritti edificatori” ha significato conferire alla proprietà immobiliare un potere contro le decisioni pubbliche che nessuno si era mai sognato di dar loro. Conoscete la tesi, propugnata da un urbanista che è stato maestro di molti di noi. É alla base delle scelte devastanti del PRG del 2003.

Secondo quella tesi, una volta che un piano urbanistico abbia assegnato l’edificabilità a un’area, questa diventa un titolo che al proprietario non può venir tolto senza indennizzarlo adeguatamente. Era stata inventata l’espressione “diritti edificatori”, mai adoperata prima nello jure italiano. Italia Nostra organizzò un convegno a Roma, per discutere il PRG. Preparai una relazione; colsi l’occasione per comprendere come la giurisprudenza aveva trattato la questione. Scoprii che le cose erano radicalmente diverse da quanto gli autori del Prg di Roma sostenessero. Era giurisprudenza costante che il comune potesse, con un piano successivo, modificare ampiamente le previsioni di un piano precedente. Non soltanto nel caso di un piano generale (come il Prg) ma anche di un piano di lottizzazione privata per il quale sia già stata stipulata con i proprietari una convenzione a norma di legge. In questo caso, ovviamente, è necessario indennizzare il proprietario per le spese che ha legittimamente sostenuto, e che è in grado di documentare, relative all’attivazione dl piano.

La presidenza di Italia nostra chiese un parere pro veritate al prof. Vincenzo Cerulli Irelli, illustre esperto di diritto amministrativo e forse massimo conoscitore italiano del diritto urbanistico. Le nostre convinzioni furono presentate al sindaco Veltroni, il quale andò avanti per la sua strada. Ma l’azione di Italia nostra e di chi, come eddyburg, aveva sollevato la questione e dimostrato le devastazioni che il Prg avrebbe provocato stimolarono il sorgere o il rafforzarsi di decine e decine di comitati, associazioni, gruppi di cittadini, che costituiscono una delle non molte speranze per una Roma migliore.

I piani anomali

La presunta impossibilità di cambiare le decisioni passate aveva fornito un ulteriore decisivo sostegno a favore di un modo nuovo di pianificare, basato esclusivamente, o principalmente, sulla contrattazione con la proprietà privata. Strumento di questo modo, ed effetto amministrativo della querelle del “progetto” contro il “piano”, fu l’invenzione di piani “anomali”, derogatori della classica pianificazione urbanistica, elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli e approvati a getto continuo negli anni immediatamente successivi. Ciò che accomuna la quasi totalità di questi “piani anomali” è che “enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini).

Milano e la flessibilità per i potenti

L’episodio romano era stato preceduto da una iniziativa del comune di Milano, tesa a superare in modo ancora più esplicito i principi e il metodo della pianificazione pubblica mediante l’accordo preliminare con la proprietà immobiliare, teorizzandolo con chiarezza.

Un colto e intelligente urbanista, Luigi Mazza, consulente del comune di Milano, aveva proposto agli amministratori un modello alternativo alla pianificazione “tradizionale” consistente nel decidere le trasformazioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inquadrate in un documento “strategico” a maglie larghissime, poco più di un ideogramma. Il comune aveva seguito il suggerimento e approvato un documento, "Costruire la grande Milano”, sul quale si aprì subito una vivace polemica. Svolsi una relazione in un convegno dell’associazione Polis, poi intervenni in un seminario alla facoltà di architettura di Roma Tre, in cui Mazza, nel giugno 2001, illustrò il documento. Lo criticai, sostenendo che il nuovo modello proposto “si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato” e che ciò avrebbe provocato una giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a danno dell’interesse generale. Precisai il mio punto di vista in un ampio articolo sulla rivista “Urbanistica”, in contraddittorio con Mazza[10]. Pochi intervennero criticamente: l’innovazione milanese incontrava lo spirito dei tempi, cui l’accademia era sensibile.

Le parole chiare di Maurizio Lupi

Il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle scelte sulla città e il territorio è costituito dalla proposta di legge per il governo del territorio dell’on. Maurizio Lupi, di Forza Italia. Quella proposta chiariva definitivamente il senso dell’urbanistica contrattata. Proponeva il ribaltamento dei principi che da sempre avevano retto la pianificazione urbanistica con la seguente affermazione, semplice e chiara. Proponeva di stabilire che le funzioni amministrative delle istituzioni pubbliche, tra cui la pianificazione urbanistica, «sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l'adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti istituzionali e fra questi e i soggetti interessati, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti» (articolo 3, comma 3). Naturalmente i “soggetti interessati” sono i padroni della città, la proprietà immobiliare.

Il successivo dibattito parlamentare condusse a un testo unificato, su cui si era manifestato un consenso ampio (che comprendeva l’INU), e al quale si oppose un fronte che conobbe al convegno di Italia nostra (Roma 28 gennaio 2005) un suo momento rilevante. In quella sede fu presentato e approvatoun appello, sul quale si raccolsero successivamente moltissime adesioni. Nel documento si protestava perché la proposta di legge «sopprime il principio stesso del governo pubblico del territorio, che rappresenta una della principali conquiste del pensiero liberale e accomuna tutti i paesi sviluppati, e cancella i risultati di importanti conquiste per la civiltà e la vivibilità della condizione urbana e la tutela del territorio ottenute nell’ultimo mezzo secolo dalle forze sociali e politiche e dalla cultura italiana. Nella legge – prosegue l’appello - si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato».

Grazie all’intelligente azione di filibustering promosso da una minoranza attiva, di cui Italia nostra fece parte a pieno titolo, la legge non fu approvata (grande merito va in particolare a Sauro Turroni, allora senatore del gruppo dei Verdi). Ma l’obiettivo che denunciavamo è ancora dominante. Gli eventi successivi sono andati tutti nella direzione predicata dai più schietti difensori dell’urbanistica contrattata: un diritto collettivo viene sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. E i luoghi della vita comune, le città e il territorio, vengono affidati alle convenienze del mercato.

PER CONCLUDERE

Il trionfo della rendita

Ho solo accennato alla questione della rendita. Parlarne di più avrebbe reso ancora più pletorica questo intervento. Non posso però, per chiudere il quadro, trascurare di riferirmi alle lucide osservazioni svolte da uno dei pochi che oggi dedicano attenzione a questo argomento, Walter Tocci, nel ssuo saggio ascesa della rendita urbana.

Per una lunga fase della nostra storia avevamo vissuto nella convinzione che, essendo la rendita la componente parassitaria del reddito, era possibile, nel corso di una modernizzazione sana dell’economia italiana, ridurne pesantemente il peso ricorrendo alla comune convenienze delle classi produttrici: i possessori del lavoro e quelli del capitale. Tocci ci rivela che le cose sono radicalmente mutate. Oggi la rendita immobiliare è diventata un elemento essenziale, e trainante, dell’intero sistema economico: un sistema economico ormai totalmente artificializzato, reso cartaceo e virtuale, legato al gioco della finanza e non a quello della produzione di beni e servizi.

E’ dagli anni 70 che si parla dei rapporti mutevoli tra profitti e rendita, e io stesso ne ho accennato proprio a proposito dell’atteggiamento della Fiat in quegli anni. Ma adesso non solo c’è un’integrazione piena, c’è addirittura – per esprimermi col massimo di sintesi – un dominio della rendita sul profitto (e di entrambe sul salario, ma questo è un altro discorso).

Sono convinto che questo non debba far mutare il nostro giudizio negativo sul peso della rendita nelle trasformazione della città e del territorio, ma deve anzi richiederci un di più di attenzione, di rigore, di capacità di analisi, di critica, di contrasto nei mille episodi in cui la forza della rendita minaccia i valori nei quali crediamo.

Le due città

Vorrei precisare che quanto parlo di città dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città” sia la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello rurale. Credo che oggi si debba parlare di due città, o se volete due progetti di città antitetici, dei quali bisogna assumere consapevolezza per poter agire con efficacia. Le definirei la città della rendita e la città dei cittadini.

Conosciamo bene la città della rendita. É quella alla quale si applicano le pratiche dell’urbanistica contrattata, e che è stata ampiamente formata da essa. É quella che denunciamo e soffriamo ogni giorno, in tutti gli episodi di distruzione, di degrado, di bruttificazione e disfunzione. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse, distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.

Per i promotori, produttori e facilitatori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene che può essere utile ad altri.

In esplicita antitesi della città della rendita si è affacciata sulla scena una città alternativa: quella che definirei “la città dei cittadini. É quella che emerge dalla miriade di vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e quartieri, per rivendicare qualcosa he si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative che caratterizzano la vita sociale in questi anni.

Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo “sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni della “città infinita” … Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di città.

Non sono chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione.

Un diverso rapporto tra città e campagna, tra urbanizzato e non urbanizzato, (bellezza, storia, identità, alimentazione sana e filiere corte, aria luce sole, ricreazione e distensione, …)

Una più ricca dotazione di utilities e commodities, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli, risparmiatrici d’energia, utilizzabili da tutti, … (welfare urbano ma non solo, socialità, condivisione…)

La possibilità di accedere all’uso di un’abitazione, collocata e servita nel modo giusto, a un prezzo commisurato al reddito.

Il diritto da parte di tutti i cittadini di partecipare alla costruzione/trasformazione della città, di conoscere in anticipo i progetti di trasformazione, di comprenderne le conseguenze, di concorrere alle scelte

La mia tesi (o se volete la mia speranza) è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni ecc.

Il ruolo della cultura, oggi

La cultura e le sue istituzioni svolgono un ruolo rilevante nella formazione degli eventi. Ricordiamo tutti gli episodi degli anni 50 e 60, lo stimolo critico e la capacità propositiva delle istituzioni della cultura urbanistica e quelle neonate del protezionismo. Anche in quegli anni, molto più per l’iniziativa volontaria di persone dallo spirito indipendente che per quella dell’accademia.

Ho accennato al ruolo che questo stesso mondo ha svolto negli anni in cui si è conformato il modello d’intervento sul territorio che è riassunto dell’espressione urbanistica contrattata. Un ruolo non sempre positivo. O meglio, negativo per alcuni (l’Inu è arrivato a difendere la legge ispirata da Lupi), positivo per altri. In particolare, per Italia Nostra.

Mi riferisco, in particolare, alle esperienze nelle quali ho più direttamente collaborato con gli organi nazionali di Italia Nostra per svelare e contrastare lo stravolgimento delle regole della buona pianificazione e per proporre le regole giuste. Ho ricordato la partecipazione di Italia Nostra alla denuncia dello scandalo dell’area Castello di Firenze, giustamente interpretato come il prodromo di una pratica, la “urbanistica contrattata”, pericolosissima per la città e il territorio. Ho ricordato l’iniziativa che Italia Nostra ha assunto sul PRG di Roma – un PRG che aveva autori politici e professionali vicini all’associazione, e che perciò è stato ancora più meritorio criticare - individuato come deleterio non solo per le vaste distruzioni dell’Agro romano che consentiva, ma per l’aberrante principio (l’esistenza di i “diritti edificatori”) che introduceva. E ho ricordato il tenace contributo che Italia Nostra ha dato alle iniziative per contrastare la legge Lupi e i suo successivo travestimento nel formato Lupi-Mantini, largamente condiviso anche nell’ambito dell’ambientalismo. Voglio ricordare ancora il lavoro svolto da Italia Nostra per contrastare il consumo di suolo promuovendo la tutela dell’agricoltura e, più generalmente, del territorio rurale, che condusse alla proposta di legge che elaborammo insieme e alla quale Luigi Scano, proprio in ambito Italia Nostra, collaborò con la geniale proposta di introdurre il territorio rurale tra le categorie di beni tutelati ope legis ieri dalla legge Galasso, oggi dal Codice del paesaggio.

Non sempre le battaglie culturali di Italia nostra hanno avuto riscontro immediato nell’opinione pubblica, neppure in quella “colta” e in quella “ambientalmente orientata”. Ricordo il caso emblematico dell’auditorium di Ravello, nel quale Italia nostra difendeva, quasi sola, il paesaggio e la legalità urbanistica contro il potere di un satrapo e l’immagine di una Grande Firma. Ma per chi pensa che la cultura sia un lievito, e non un miscuglio di acqua e farina con cui formare una pizza, questo appare come un prezzo da pagare per la verità. Un prezzo che verrà rimborsato a usura dalla storia, se si avrà il coraggio di sottoporre in ogni momento a discussione i propri principi, ma di conservarsi fedeli a essi con rigore e con chiarezza finché principi diversi non saranno stati elaborati e condivisi. E la cultura ha il compito – quando ne ha gli strumenti – di diffondere questa sua conoscanza, i frutti della propria capacità critica.

Il nostro compito

Compito essenziale della cultura è quello di scrutare ciò che accade, cercar di intravedere ciò che gli eventi dell’oggi preparano, valutare criticamente la realtà di oggi e quella che si prepara, comprendere chi e che cosa, dalle trasformazioni che avvengono o avverranno, guadagna, e chi e cosa ci rimette, perde. Non c’è trasformazione in cui non ci sia qualcuno che guadagna e qualcuno che perde.

Se si accetta l’assunzione della legge del mercato come unica legge valida per decidere sulla trasformazioni del territorio – se si accetta l’urbanistica contrattata – è chiaro che è sconfitta la città dei cittadini. E allora non si possono avere esitazioni, incertezze, ambiguità nel giudicare. Con i portatori di tesi diverse si può discutere, anche perché questo conduce spesso ad affinare i propri argomenti e a rendere più convincenti le proprie idee, ma non si può derogare, o transigere, sui principi – finchè questi non sono sostituiti da altri, esplicitamente formulati e condivisi.

E a mio parere è sul rigore nell’affermazione dei principi che condivide che un’istituzione culturale (e un intellettuale) deve esprimersi con chiarezza.

Io credo che tra i principi, a proposito del territorio – dell’habitat dell’uomo e nel deposito della sua storia – il primo principio che debba essere stabilito è che l’uso del territorio, e le sue trasformazioni, devono essere ordinati al maggior benessere di tutti gli abitanti del pianeta, presenti e futuri: la città dei cittadini, e non la città della rendita.

Il secondo principio che a mio parere va ribadito riguarda il metodo e l’insieme di strumenti che, in una civiltà complessa quale la nostra: la pianificazione urbanistica come operazione d’interesse collettivo, quindi necessariamente affidata alla mano pubblica. Assumerei senza esitazioni la definizione che ne dava Antonio Cederna: «La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica». Certo, il termine “coercitivo” può sembrare un po’ forte. Ma oggi la coercizione è esercitata chi ha ridotto la città, e ogni sua componente, a merce, sottraendola ai suoi legittimi proprietari, i cittadini e degradandone le qualità naturali, storiche, sociali.

Postilla

Non ho detto nulla della vicenda che ha portato gli eredi di Antonio Cederna a ottenere il ritiro del libro pubblicato dalla sezione lombarda di Italia Nostra, né di quella che ha portato alle dimissioni di Vezio De Lucia. E nulla di più credo necessario aggiungere dopo le molte parole che pronunciato. Se non riprendere la speranza, che Vezio esprimeva, che l’intera vicenda, e questo stesso convegno, servano ad aprire una discussione autentica, dentro e fuori l’associazione. Perché se ci si chiude si è inevitabilmente condannati alla sterilità e alla sconfitta.

Grazie

[1]Ricordo la discussione che si aprì sulle pagine de l’Unità, nell’agosto 1983 tra Maurizio Mottini, assessore a Milano, fautore del mercato e Raffaele Radicioni, assessore a Torino, fautore della pianificazione.

[2]Principale interprete di questa linea fu Lucio Libertini, che divenne responsabile del settore che comprendeva lurbanistica nella direzione del PCI.

[3]L. Libertini, Nicolazzi non passerà, “Urbanistica informazioni”, n. 75, maggio-giugno 1984

[4]Questi episodi sono raccontati con maggiore ampiezza nel mio libro Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del Fontego, venezia 2010

[5]Vezio De Lucia, Le mie città, Diabasis, Reggio Emilia 2010, p. 65.

[6]P. Della Seta, E. Salzano, l’Italia a sacco. Come negli incredibili anni 80 nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma 1993

[7]Gianni Barbacetto, Elio Veltri, Milano degli scandali, prefazione di Stefano Rodotà, Laterza, Bari, 1991, p.55.

[8]Ibidem, p.51.

[9]Vedi i lavori di Roberto Camagni e Cristina Gibelli.

[10]E. Salzano, Il modello flessibile a Milano in "Urbanistica", n. 118, (gennaio-giugno 2002).

Il convegno “Prato della Valle. Dal restauro del monumento alla rivalutazione dell’area”, , è stato organizzzato dale associazioni Amissi del Piovego, Comitato Memmo, Italia Nostra, Lega Ambiente di Padova, e si è svolto all’Accademia galileiana il 27 novembre 2010. Qui il link al dossier presentato da Sergio Lironi, Legambiente di Padova

Quattro passi per Pra’ della Valle

“Dal restauro del monumento alla rivalutazione dell’area”: questo è il tema del nostro incontro, e l’obiettivo al quale miriamo. Un obiettivo che ci sembra del tutto ragionevole. Esso può essere articolato in quattro proposizioni.

1. Vogliamo che la città riconosca il gioiello che ne caratterizza l’identità, il Prato della Valle, assumendolo come il suo bene più prezioso.

2. Vogliamo che la città – i suoi cittadini – prenda atto del degrado che caratterizza oggi questo bene.

3. Vogliamo che, sulla base di questo riconoscimento e di questa presa d’atto, la città, i cittadini, i loro attuali governanti assumano quale loro impegno prioritario il restauro di quel bene.

4. Vogliamo, infine, che questi tre primi passi – il riconoscimento, la presa d’atto, il restauro – siano considerati e costruiti come l’avvio di una rivalutazione dell’intera area centrale della città, e del territorio di cui essa è parte.

Gli interventi che seguiranno il mio argomenteranno, con rigore e con passione, le quattro proposizioni che ho formulato. Essi riveleranno anche quale sia l’ingombrante ostacolo che si frappone al raggiungimento del nostro obiettivo: la presenta di un devastante progetto di “valorizzazione” dell’area gravitante su Pra’ della Valle: un progetto che ha il suo nocciolo duro sulla realizzazione di un parcheggio interrato nell’area del Foro Boario, da realizzare con la formula del project financing. Una formula che – soprattutto nella sua declinazione italiana – mette nelle mani degli interessi privati le decisioni e i vantaggi del destino della città.

Due vizi dei governanti

Come si afferma nel dossier elaborato da Sergio Lironi e Lorenzo Cabrelle quel progetto rivela due gravi vizi che, nei trent’anni che sono alle nostre spalle, caratterizzano il modo in cui il decisore pubblico interviene sulla città. Chi ci governa (non solo a Padova, in quasi tutte le città italiane) è mosso da due preoccupazioni che annebbiano ogni altra esigenza, ragionamento, ricerca:

- dimostrare di essere iscritti a quel “partito del fare”, che ha oggi nel Presidente del consiglio dei ministri il suo più autorevole esponente;

- “lasciare il segno”, conferire visibilità al proprio operato mediante la realizzazione di opere “innovative” – chissà perchè sempre cementizie.

Per chi è delegato dagli elettori a governare, il fare è certamente importante. Ma ancora più importate è che, prima del fare, ci sia stato il pensare, il riflettere, il ragionare. Ancora più importante è che – quando il fare comporta trasformazioni irreversibili dell’assetto e l’oganizzazione della città, qundo il gfare qualcosa di nuovo comporta la cancellazione di qualcosa che c’era – si sappia dimostrare che ciò che si fa di nuovo è meglio di ciò che c’era prima.

Questa dimostrazione, questa testimonianza di aver pensato, non c’è: non è stata riconosciuta da quanti hanno studiato, con serietà e rigore, le proposte avanzate. La realizzazione del progetto a Piazza Isak Rabin è fortemente peggiorativo non solo dell’area di Pra’ della Valle, ma dell’intero assetto attuale e futuro della città.

Il segno che gli amministratori lasceranno – ad esaminare con attenzione gli atti della proposta – è costituito da molti elementi negativi:

- la rinuncia a ripristinare un corretto rapporto tra la terra e l’acqua nell’area centrale di Padova,

- l’aggravemento della situazione di degrado dell’Isola Memmia,

’ulteriore peggioramento della situazione del traffico (e quindi del’inquinamento e dello spreco energetico) con l’incentivo alla motorizzazione privata: il cancro che corrode la città,

- la subordinazione degli interventi, anche futuri, di organizzazione della mobilità agli interessi economici degli investitori privati.

Che cosa c’è dietro

Tornerò poi, seppur brevemente, sulle questioni relative all’area del Pra’ della Valle. Ma vorrei prima inquadrare la questione in un contesto più generale. Anche perchè non credo affatto che Padova abbia oggi amministratori particolarmente perversi o incapaci. Credo che gli atteggiamenti e i comportamenti, i progetti e le azioni siano sempre il portato di un modo di pensare la città, e quindi di agire su di essa. Sono convinto insomma che le azioni nascano sempre da un pensiero, da un modo di vedere e affrontare le questioni che è tale da indurre chi agisce a vedere certe cose e ignorarne altre, a considerare prioritarie certe esigenze e a sacrificarne altre.

Oggi prevale un modo nuovo – rispetto a qualche decina d’anni fa – di pensare la città, e quindi di agire su di essa.

Oggi la città non è pensata come la “casa della societa”: come un luogo nel quale una parte dell’umanità abita, lavora, incontra, ama, gioisce, si nutre e si riposa, si cura e si diverte. Ciascuno con le sue esigenze e I suoi mezzi, ciascuno titolare di diritti magari non da tutti ugualmente esercitabili, ma tutti ugualmente meritevoli di considerazione.

Oggi la città è pensata come uno strumento economico, finalizzato ad acrescere una ricchezza che non è di tutti, e che è costituita da uno solo degli elementi di cui è costituita la riccheza di una nazione – o di un popolo, o di una società: la ricchezza misurata in termini economici.

La città è considerate, dal pensiero comune, come uno strumento da impiegare per accrescere il Prodotto interno lordo: quell PIL – vero feticcio della religione corrente – che, come diceva Robert Kennedy,

«mette in conto l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze necessarie per ripulire le nostre strade dalle carneficine. Mette in conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le infrangono. Mette in conto la distruzione dei boschi sempreverdi e la perdita delle nostre meraviglie naturali nel caotico sprawl. Mette in conto il napalm e le testate nucleari e i carri armati che la polizia usa per combattere le rivolte nelle nostre città. Mette in conto i fucili Whitman’s e i coltelli Speck’s, e i programmi della televisione che glorificano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini».

Quel Prodotto Interno Lordo, prosegue l’invettiva di Robert Kennedy, che

« non mette in conto la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione o la gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità delle nostre famiglie, l’intelligenza dei nostri dibattiti e l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né la nostra intelligenza né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né il nostro sapere, né la nostra compassione né la nostra dedizione al nostro paese. In sintesi, misura tutto, fuorché quello rende la vita degna d’essere vissuta».

La rendita: “componente parassitaria del reddito”

Ora si dà il caso che la ricchezza economica della città (cioè la somma del denaro che percepiscono i suoi operatori economici) oggi è in gran parte costituita dalle rendite, e in particolare dalla rendita immobiliare, cui si aggiungono dalla rendite costituite dalla gestione monopolistica dei servizi urbani (come i parcheggi, o come la gestione dei servizi ospedalieri realizzati con il project financing).

Non dimentichiamo che la rendita è quella che gli economisti liberali defnivano “la componente parassitaria del reddito”:non è il compenso di un’attività svolta, ma solo la remunerazione del privilegio proprietario.

Non dimentichiamo che la rendita è prodotta dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ed è percepita dai proprietari immobiliari.

In Italia la rendite urbane crescono in misura incredibile. Ciò ha provocato il degrado delle città e la loro crescente invivibilità. Ha indotto i grandi gruppi industriali (la Fiat, la Pirelli, la Benetton, per non citare che le più grosse) a investire nel mattone e nei monopoli pubblici anziché nell’innovazione e nella ricerca, nel miglioramento della competitività dell’industria manifatturiera.

Trent’anni fa la rendita immobiliare era un avversario che non solo gli urbanisti, ma anche gli amministratori e i politici di un arco di forza vasto si sforzavano di combattere, di contenere. Oggi è consideratail motore dello sviluppo. Di quello sviluppo della ricchezza cartacea, della ricchezza volatile, che ha portato il mondo a una crisi dalla quale non si vede uscita.

Il saccheggio e la sua strategia

Ciò che accade alle città è sua volta parte di un contesto più ampio. Un contesto caratterizzato da un obiettivo sistematicamente perseguito da chi ha oggi il maggior potere: il sistema economico del capitalismo globalizzato.

L’obiettivo è far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.

Per raggiungere quest’obiettivo le componenti della strategia sono chiare.

Bisogna inculcare l’idea che unica scienza valida è l’Economia: quella economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, e nella crescita del PIL l’unico termometro capace di misurare il valore delle cose.

Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico, e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte.

Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.

I beni che si vogliono ridurre a merci, i “comuni” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza:

- Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia.

- Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose.

- I servizi pubblici, come l’università e la sanità, ridotte ad “aziende” i cui frequentatori diventano “clienti”, e non più studenti o pazienti

- Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia.

- I beni culturali: non a caso si sceglie un esperto della vendita delle polpette come massimo dirigente del ministero della cultura.

- Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Che fare?

E’ possible reagire a questa strategia, e alle trasformazioni che essa induce nel territorio e nella città, nei nostri pensieri e nelle nostre vite? Io credo di si, e questa stessa iniziativa ne dà testimonianza.

E’ lo stesso disagio provocato dal saccheggio che provoca resistenze e reazioni. In mille parti d’Italia si sviluppano iniziative e nascono comitati, movimenti, gruppi di volontariato e gruppi di cittadinanza attiva, o si rafforzano asociazioni che operano da tempo a livello nazionale o locale: come quelle che hanno promosso e organizato questa iniziativa. Dovunque essi cercano l’incontro tra cittadini ed esperti, perchè non vogliono limitarsi a contrastare, vogliono comprendere perchè quell’iniziativa, quel progetto sono nati, e vogliono contrastarli anche proponendo alternative giuste.

Si dice spesso che le iniziative che nascono dal basso si limitano a pronunciare dei NO, e con questo si tenta di screditarli dinnanzi all’opinione pubblica (che in genere viene tenuta all’oscuro delle ragioni delle proteste). Ora è chiaro che per chi non ha il potere di fare (chi non ha uffici, competenze formali , informazioni, finanziamenti) difficilmente riesce a proporre alternative convincenti. Chi è piccolo e fuori dale istituzioni riesce difficilnemente a contrapporre la sua proposta a quell ache nasce dall’istiituzione e dal potere economico. Eppure, a volte ci riesce, come testimonia questa bellissima iniziativa alla quale mi avete invitato a partecipare.

Qui avete la forza di una proposta. Una proposta progettuale – un’idea di città e una proposta per l’area e il suo disegno – e un’idea culturale e politica – quali interessi privilegiare, quail priorità stabilire.

E mi sembra particolarmente interessante che il cuore della proposta sia il recupero della memoria: il restauro del Pra’ della Valle, la riapertura dell’Alicorno, il ricongiungimento dell’Isola Memmia al Parco dei bastioni e delle acque. Credo che la ricognizione attenta dei lasciti della storia, il loro recupero, la loro messa in valore (che non significa “valorizzazione” nel senso in cui questo termine viene usato nella logica economicista, sviluppista e immobiliarista), in vista della loro fruizione aperta a tutti, è il primo passo di ogni virtuosa politica del territorio e della città.

Solo comprendendo il passato possiamo valutare criticamente il presente e costruire un futuro migliore.

The Atlantic, 22 novembre

Una città unica al mondo

Il conflitto a Venezia è come in molte altre città italiane: tra la difesa del bene comune e il dominio dei poteri forti. Questi ultimi, dove governa il centro destra sono smaccatamente nella sala di comando, mentre dal centro sinistra sono privilegiati nella ricerca del consenso. Nella Laguna veneziana questo conflitto ha una luce particolare, perché particolarissime sono le caratteristiche assunte dal bene comune.

Domandiamoci perché Venezia (come si dice) è una città unica al mondo. Perché è una città che ha conservato quasi intatta la sua forma: le grandi trasformazioni avvenute negli ultimi due secoli, se l’hanno indubbiamente guastata, non hanno cancellato il predominio dell’immagine progressivamente composta nel corso di un millennio. Perché è una città ancora viva: non solo un palcoscenico sul quale recitano compagnie forestiere, e neppure ridotta a parte (“centro storico”) imbalsamata o irrimediabilmente trasformata a frazione di un’area urbana più vasta, ma una città dove cittadini stabili abitano, lavorano, si incontrano, si sentono (ancora) cittadini normali di quel luogo millenario. Perché, infine, è una città che testimonia ancora, nella sua forma e nella sua vita, una capacità di governare il rapporto tra intervento dell’uomo e ambiente utilizzando la natura – la sua forma come le sue risorse, la trama del suo disegno come i suoi elementi – senza negarla, senza violentarla, senza distruggerla né degradarla.

Tensioni distruttive

Questa singolarità di Venezia l’ha resa soggetta a due grandi tensioni di trasformazione.

Da una parte, come ogni luogo eccezionalmente dotato di qualità particolari, è divenuta il bersaglio di correnti di visita e d’interesse sempre più vaste. Il turismo d’élite dei tempi di Thomas Mann si è rapidamente trasformato (soprattutto nell’ultimo mezzo secolo) in un turismo di massa sempre più devastante: sia per l’incompatibilità dei grandi numeri (oramai oltre dodici milioni di presenze all’anno) con le dimensioni limitate, spesso anguste, comunque commisurate all’uomo, della città e dei suoi spazi; sia per gli effetti che esso provoca – attraverso la mediazione dell’economia – sulla vita stessa della città. La fortissima riduzione delle case in affitto, la scomparsa dei negozi legati alla vita quotidiana, l’aumento dei prezzi al consumo, l’impoverimento della qualità dei servizi di cittadinanza, tutto ciò contribuisce a impoverire la vita sociale della città e a ridurla al rango di una qualsiasi San Marino: vuoto presepio mantenuto a vita artificiale per la rappresentazione turistica.

Dall’altra parte, la costante tendenza all’omologazione della città e del suo territorio ai modelli d’intervento caratteristici del resto del mondo. Mi riferisco soprattutto al particolarissimo rapporto che lega storicamente Venezia e il suo governo all’ambiente ambiente (alla Laguna), che è un possibile modello per uno sviluppo della società in armonia con la natura, e che negli ultimi secoli è stato sistematicamente violentato: negato nella sua autentica modernità in omaggio a una mercantile modernizzazione. Ma su questo punto conviene soffermarsi.

La Laguna

Venezia non è comprensibile e governabile senza la sua Laguna: ignorare questo sarebbe come ragionare su Roma riducendola al Colosseo. La Laguna è un sistema unico al mondo, in equilibrio instabile tra i suoi due possibili destini (un braccio di mare, o una distesa di terra), Un sistema la cui sopravvivenza è stata garantita per quasi un millennio da un governo assiduo delle acque e delle terre, orientato ad adoperare le forze della natura guidandole accortamente.

Le tre parole d’ordine, che costituivano precise direttive per i governanti della Serenissima, erano: sperimentalità, cioè studiare, verificare, monitorare, provare anche per decenni; gradualità, cioè progettare gli interventi in modo che la loro attuazione nel tempo avvenga per successione di elementi discreti; reversibilità, cioè possibilità, in ogni momento, di ripristinare la situazione preesistente. Parole d’ordine d’un ambientalismo ante litteram, rivelatrici di un’attenzione agli ecosistemi naturali e alle condizioni del loro uso da parte dell’uomo che appaiono oggi d’una modernità sconcertante: una sapienza da riscoprire.

Caduta la Serenissima, le logiche della “modernizzazione” otto-novecentesca hanno provocato un degrado costante: con opere pubbliche coerenti con la mentalità cementizia, con l’abbandono dell’attività diuturna e severa di manutenzione dell’ambiente, con l’interramento e la privatizzazione (la sottrazione alla natura e al governo pubblico) di vaste porzioni di Laguna. L’alluvione del 1966 ha svelato gli effetti del malgoverno ma ne ha prodotto altri, più devastanti: la decisione del governo nazionale (ministro Nicolazzi) di affidare a un consorzio di imprese, sostanzialmente edilizie, i compiti di studio, progettazione, sperimentazione e attuazione degli interventi sulla Laguna, sostanzialmente costituiti dai faraonici interventi alle “bocche di porto”: il cosiddetto progetto Mo.S.E. (acrostico di Modulo Sperimentale Elettromeccanico). Questo consorzio è diventato il vero padrone della città, indubbiamente il più forte dei poteri che in essa (e su di essa) agiscono. Rispetto ad esso e alle sue scelte le forze che hanno governato la città hanno dimostrato una debolezza sconcertante, a volte si sono rivelate apertamente complici.

Riprendere una vigorosa iniziativa politica contro il Mo.S.E., denunciare i suoi primi devastanti effetti, documentarli sollecitando una presa di coscienza dell’opinione pubblica nazionale e internazionale (assolutamente disinformata della reale consistenza dei problemi e della pericolosità delle soluzioni in atto), sostenere le iniziative delle associazioni ambientaliste che tentano di contrastare i malanni, lanciare iniziative che rendano esplicita la possibilità di vivere la ricchezza paesaggistica, ambientale, culturale della Laguna in modo compatibile con la sua sopravvivenza, sperimentare in questo la possibilità di ricostruire un rapporto equilibrato tra uomo e ambiente: questo dovrebbe essere l’impegno centrale di un governo intelligente di Venezia, che voglia sottrarre il bene comune della città e del suo ambiente al dominio dei poteri forti, per conservarlo intatto nell’interesse dell’umanità.

Il turismo e la casa

Turismo e residenza sono due aspetti, strettamente connessi, della vita sociale della città e, oggi, del suo degrado. Per combattere quest’ultimo è in primo luogo necessaria una politica del turismo che lo renda compatibile con la città (e quindi capace di contribuire alla ricchezza dei suoi cittadini ma non distruttivo della risorsa di cui si nutre). Ciò richiede la definizione e l’attuazione di una rigorosa politica di “razionamento programmato dell’offerta turistica”, quale fu proposta ai tempi della battaglia contro l’Expo. Si tratta di una linea che è indispensabile praticare per contenere un’invasione ormai insostenibile. Per farlo, bisognerebbe cominciare a rinunciare a tutti quegli eventi e quelle opere che accrescono il richiamo di Venezia sulle correnti turistiche: dai “grandi eventi” (la città seppe opporsi all’offerta di un Expo, e vincere la sfida), dall’apertura a ogni iniziativa commerciale che si proponga di utilizzare lo scenario offerto dalla città per celebrare i suoi prodotti, dall’ipotesi folle di una metropolitana sublagunare che accrescerebbe l’afflusso di massa dei visitatori.

La difesa della residenzialità “normale” aveva costituito a Venezia una linea costante delle forze politiche della sinistra e del centro, dagli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta. La chiave di volta era stata quella di privilegiare l’intervento pubblico, in particolare nel campo delle nuove costruzioni, di arricchire il patrimonio abitativo pubblico, di difendere la residenza contro ogni cambiamento delle destinazioni d’uso. In quegli anni, tutti i partiti hanno rigorosamente tenuto fede all’impegno ”neppure una nuova costruzione per abitazioni a Venezia che non sia pubblica e destinata ai veneziani”.

A partire dagli anni Novanta il governo cittadino ha operato un drastico mutamento di rotta. Non si è fatto nulla per la programmazione del turismo, cedendo invece a ogni iniziativa di commercializzazione, e anzi stimolandole: dalle esposizioni di automobili nel “luogo sacro” di piazza San Marco alla proposta di una metropolitana sublagunare. Si è condotta una politica della casa pienamente coerente con quella sintetizzato nello slogan “meno Stato e più mercato”, che si manifestava in quegli anni nella sinistra a livello nazionale. E si sono frettolosamente smantellati tutti gli strumenti che avrebbero consentito di controllare le destinazioni d’uso: dalla revoca della delibera comunale di recepimento della legge nazionale sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici, al piano regolatore della città storica, profondamente snaturato proprio sulla sua capacità di controllo delle utilizzazioni degli spazi edilizi.

Controllare l’uso degli spazi, per finalizzarne l’utilizzazione all’interesse comune: questo è ciò che la Repubblica Serenissima ha saputo fare per secoli, e che ha prodotto il miracolo espresso nel nome di Venezia. Riprendere nelle proprie mani il controllo, contrastando i reiterati tentativi di adoperare privatizzazioni e commercializzazioni come motori di uno sviluppo misurato sul metro esclusivo della rendita: questa è l’unica strada che può consentire al mondo di utilizzare il laboratorio che la città e la sua Laguna possono diventare, nel faticoso tentativo della civiltà di recuperare, dopo i secoli dell’illusione sulle “magnifiche sorti e progressive” d’uno sviluppo affidato alla sfida tecnologica alla natura, gli insegnamenti di una raffinata esperienza di collaborazione tra storia e natura, tra sviluppo e ambiente.

Qui il sommario del numero del mensile Carta etc. n. 1 luglio 2005

Qui un saggio su

“Spazi pubblici: declino, difesa, riconquista”. Questo è il titolo della quinta edizione della scuola estiva di pianificazione - Scuola di eddyburg, e di questo libro. Ogni volta siamo partiti dai quattro giorni di lezioni, incontri, dialoghi tra docenti e studenti attorno a un tema e poi, dalle cose che sono state dette, abbiamo cercato di ricavare un libro. Con molte connessioni tra l’uno e l’altro elemento, ma anche con una certa autonomia dell’uno e dell’altro. Così anche in questo libro. Fabrizio Bottini ne ha spiegato la logica e le ragioni, io cercherò di trarne le conclusioni dal punto di vista della scuola e del processo formativo di cui la V edizione è un tassello importante.

Quest’anno il tema era di particolarmente rilievo. Siamo infatti convinti che lo spazio pubblico, la città e la società siano cose strettamente intrecciate. Anzi, che lo spazio pubblico sia proprio la cerniera che tiene stretti la città e la società: i due momenti essenziali dell’attenzione di ogni urbanista e studioso della città – come di ogni cittadino. Una cerniera cui bisogna porre particolare attenzione in questo momento: in questi very hard times, tempi davvero difficili, per ricordare Charles Dickens.

1. LA CITTÀ NASCE CON LO SPAZIO PUBBLICO

Nel suo contributo Mauro Baioni, il direttore della Scuola, cita una frase dell’architetto danese Jan Gehl: “First life, then spaces, then buildings – the other way around never works”. Questa idea esprime bene il conflitto tra ciò che, nel nostro paese, dovrebbe essere e ciò che invece è. La città contemporanea, quella che vediamo crescere come un blob sotto i nostri occhi inglobando e divorando ogni preesistenza, esprime proprio “the other way around”. La città della storia, quella per cui è nato il mestiere dell’urbanista, quella che in altri più fortunati paesi si tenta ancora di regolare e trasformare, è espressa da quella sequenza: prima la vita, la società di cui la città è strumento; poi gli spazi dove la società può vivere, esprimersi, regolare i propri conflitti, poi le altre costruzioni.

La città (questa è stata la premessa della nostra scuola) nasce con gli spazi pubblici. Nasce quando l’uomo, nel suo sforzo di costruire la sua “nicchia ecologica”, ha bisogno di realizzare spazi e luoghi finalizzati alla soddisfazione di esigenze comuni. La specie umana ha generato la città precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che potessero servire l’insieme della società (Salzano 1969, 2004).

La piazza, archetipo dello spazio pubblico, è il luogo dell’incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). É il luogo e il simbolo della libertà, l’emblema dell’antico brocardo medioevale Stadtluft macht frei (ma “l’aria della città rende ancora liberi?” - Gibelli, infra). É l’espressione della mixitè, della mescolanza di ceti, età, mestieri, appartenenze diverse (qualcosa che oggi dobbiamo difendere contro le segregazioni e i recinti, che dobbiamo tutelare come nella natura tentiamo di proteggere la biodiversità).

É nella piazza che i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità aperta. É lì che si fa “pratica di cittadinanza (Mazzette, infra). Lì celebrano i riti religiosi, s’incontrano e scambiano informazioni e sentimenti, cercano e offrono lavoro, accorrono quando c’ è un evento importante per la città. E il ruolo che svolge la piazza è sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui sono riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.

La piazza non è solo un luogo aperto, fine a se stesso. Costituisce lo spazio sul quale affacciano gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il suo ruolo sarebbe sterile se non fosse parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al “consumo comune” dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.

Dall’area delimitata della piazza e del sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, il concetto di spazio pubblico si allarga. Anche qualcos’altro è pubblico, collettivo, comune: precisamente il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengono ordinati. Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Dallo spazio pubblico passiamo decisamente alla sfera pubblica, per adoperare un termine sul quale si è ragionato in questo libro (Boniburini, Mazzette, Sebastiani).

2. SPAZIO PUBBLICO E CITTÀ DEL WELFARE

I due effetti del capitalismo

Così la città nella storia. La dinamica del rapporto tra dimensione privata e dimensione pubblica, tra momento individuale e momento collettivo, e tra spazio privato e spazio pubblico, è mutata nel tempo. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese ha assunto una configurazione particolarmente rilevante per la città, in negativo e in positivo .

Il prevalere dell’individualismo, tipico di quel sistema, ha portato a conseguenze negative, tali da indebolire la sfera pubblica: sia sul versante dell’ideologia, dove ha condotto all’affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza, sia sul versante della struttura, dove ha condotto alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando la base della capacità regolativa della polis.

Ma dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica hanno provocato effetti di segno opposto. L’inclusione di tutti i portatori di forza lavoro - i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città, la cui aria li ha resi liberi - ha posto le premesse materiali all’allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe proprio di quel sistema ha condotto al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Si può dire che si è indebolita la solidarietà cittadina, ma è certamente nata e irrobustita la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, ha germogliato una nuova domanda di spazio pubblico.

Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica è nata, nel XIX secolo, la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia. Attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze sono entrate nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse. L’incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali è riuscito, nel secolo successivo, a incidere in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Si è visto nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. E si è visto nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare. Certo, ciò è avvenuto solo nell’ambito di quella parte del mondo chiusa nel recinto della civiltà atlantica, escludendo da ogni privilegio i paesi esterni a quel recinto, esportando in essi le proprie contraddizioni e saccheggiandone le risorse.

Gli “standard urbanistici”

In Italia le condizioni per la conquista degli elementi essenziali del welfare urbano si sono raggiunte negli anni Sessanta del secolo scorso, e si sono progressivamente affermate nel decennio successivo nel vivo di un conflitto molto aspro. Si è ottenuto in particolare il diritto di ogni abitante della città ad avere almeno una determinata quantità (“standard”) di spazi pubblici e d’uso pubblico, nell’ambito dei piani urbanistici. Un risultato “solo” quantitativo, hanno affermato alcuni dimenticando che “la contrapposizione tra quantità e qualità è artificiosa” (Baioni infra), e minimizzando invece la grande conquista raggiunta sul terreno del “diritto alla città”. Un risultato che ha avuto effetti positivi dove è stato applicato come strumento per migliorare le condizioni di vita in un regime di equità e di difesa delle categorie più deboli, come testimonia l’esperienza illustrata da alcuni urbanisti dell’Emilia Romagna (Malossi infra).

Le condizioni sociali e politiche che consentirono di raggiungere quella conquista, l’intreccio tra azione sociale, pensiero esperto e sintesi politica che fu necessario, e la preziosa sostanza del patrimonio di diritti sociali e di consolidamento della sfera pubblica che in Italia si raggiunsero in quei decenni sono emersi con chiarezza nel dialogo a più voci con Marisa Rodano, Oscar Mancini e Vezio De Lucia, raccolto e rielaborato in questo libro (Salzano infra). É un dialogo nel quale si raccontano esperienze, vicende, riflessioni che gettano una luce del tutto controcorrente su anni (la sesta e la settima decade del XX secolo) che trasformarono profondamente la società italiana e la dotarono di strumenti essenziali per un ulteriore progresso: strumenti che da allora si tentò in tutti i modi di cancellare, e che costituiscono ancora oggi le trincee della resistenza e i capisaldi di una possibile ripresa di un processo riformatore.

Non si tratta solo degli standard urbanistici, della politica della casa (con tutto l’arco dei provvedimenti che vanno dalla legge 167/1962 fino alla legge per l’equo canone), della generalizzazione della pianificazione urbanistica. Questi risultati si aggiungono e s’inquadrano a quelli, rilevantissimi, ottenuti su altri terreni: dallo statuto dei diritti dei lavoratori al servizio sanitario nazionale, dalla libertà di interrompere la gravidanza all’introduzione degli asili nido e delle scuole materne, dal voto ai diciottenni all’estensione dell’obbligo scolastico. Occorre riflettere oggi soprattutto sulle condizioni che, allora, resero possibili i risultati positivi.

Illuminante per il nostro futuro è ricordare il ruolo allora svolto dalle componenti più attive della società civile: il movimento per l’emancipazione della donna, negli anni dal 1962 al 1968, le lotte studentesche e quelle operaie dopo il 1968. É significativa la testimonianza del modo in cui nuove esigenze sociali (la liberazione dal lavoro casalingo, la conquista del diritto ad abitare la città) abbiano trovato negli esperti le parole mediante le quali esprimersi, nella politica e nelle istituzioni gli strumenti per tradurre le parole in norme e politiche.

3. IL DECLINO DELLO SPAZIO PUBBLICO

Oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diversi da quelle che la storia della città e della società ci suggeriscono. Tutte le riflessioni e le testimonianze lo confermano: il carattere pubblico della città è profondamente in crisi, è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Gli standard urbanistici sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario originariamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Si sono svuotate le piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana. E si è fatto invece ogni sforzo per attirare le persone nei “non luoghi” tramutati in “superluoghi”: le grandi strutture esplicitamente finalizzate al consumo (i centri commerciali, i mall, gli outlet), oppure quelle nate per altri ruoli (aeroporti, stazioni ferroviarie, ospedali, stadi) e “arricchite” da funzioni commerciali. Strutture in tutti i casi caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’ interesse del frequentatore all’ acquisto di merci (per di più sempre più superflue).

Ha certamente aiutato in questa operazione, contribuendo alla generale decadenza della città e della società, il diffondersi di quelle “variegate forme di dispersione urbana” (Mazzette infra) che sempre più caratterizzano l’habitat dell’uomo. Uno sprawl in gran parte causato dall’abbandono della pianificazione, dalle distorsioni di un mercato immobiliare deformato dalla rendita urbana, dalla costruzione di nuovi immaginari collettivi creati dalla propaganda (Somma infra). É un tema che, come Scuola di eddyburg, avevamo esplorato nella nostra prima sessione, sottolineando un problema grave fino allora ignorato dalla cultura urbanistica ufficiale, e naturalmente dalla politica dei partiti (Gibelli-Salzano 2006).

In questa operazione di mutazione delle basilari regole di vita della città il decisore effettivo – chi aveva il potere di utilizzare la città come strumento per accrescere la sua ricchezza - ha saputo cogliere strumentalmente quanto del passato permane nell’immaginario collettivo, scimmiottandone le forme. Si è finito così “per produrre e perfezionare spazi che forse assomigliano vagamente a un modello urbano, ma certamente nulla hanno a che spartire coi comuni processi di conflitto, sedimentazione e consenso collettivo che caratterizzano l’evoluzione della città” (Bottini2 infra). Si è ridotto il cittadino a cliente, il portatore di diritti a portatore di carta di credito.

Ci siamo ovviamente domandati perché tutto questo sia successo. La ragione di fondo sta nel mutato rapporto tra uomo e società. L’aspetto centrale è la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. É quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.

In effetti, negli ultimi decenni è giunto a un punto di svolta un processo avviato molti secoli fa. Mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, si sono liberate le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dall’altro lato si è smarrita la consapevolezza dell’essenzialità, per lo stesso equilibrio della persona, della dimensione sociale.

Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.

Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.

Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’ è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. La tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’ assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti. La progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti: quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni; quando il crollo delle Twin Towers e il riemergere, in Italia, della xenofobia e del razzismo hanno fornito la giustificazione – o l’ alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.

Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.

4. TENSIONI POSITIVE VERSO LA RICONQUISTA

L’analisi della realtà rivela anche, nell’odierna città del neoliberismo, tensioni e pulsioni che reagiscono al maistream e attivano pratiche nuove non solo di difesa dello spazio pubblico, ma di conquista di nuovi spazi. É il caso di numerose storie di formazione di “spazi pubblici non intenzionali” (Boniburini infra), nelle quali si esprimono sollecitazioni diverse, non sempre complementari: l’insopprimibile tendenza, soprattutto da parte dei gruppi sociali che la città neoliberista tende a emarginare, di trovare i luoghi nei quali con-vivere, riconoscersi, difendersi, passare dall’Io a un primo livello del Noi; la ricerca di alternative al fatto che la maggior parte degli spazi è stata chiusa perché adibita a specifiche ed esclusive funzioni settoriali (Sebastiani infra); l’aspirazione di uno spazio loose “uno spazio sciolto, non imbrigliato, libero, indefinito e in quanto tale passibile di una pressoché indefinita varietà di significato e usi” (Forni infra). Ed è il caso delle esperienze, che sono emerse soprattutto nel convegno conclusivo della Scuola e alimentano la terza parte di questo libro, dove sono raccontate le attività di gruppi di cittadini attiva: comitati sorti spontaneamente, o strutture consolidate che esprimono un rinnovato impegno nelle pratiche territoriali. Ne vogliamo ricordare due, particolarmente emblematiche: la conquista, a Caserta, di un ampio spazio patrimonialmente pubblico destinato ad attività militari, rivendicato e conquistato per riempire, almeno in parte, il pauroso deficit di standard urbanistici (Caiola infra); la difesa, a Giulianova (TE), di una piazza che l’amministrazione comunale voleva, per fare cassa, vendere a privati (Arboretti infra). Da entrambe le esperienze è nata la formazione di liste civiche, che hanno conquistato un seggio nel consiglio comunale e hanno così guadagnato nuove armi per la battaglia di difesa e riconquista dello spazio pubblico.

Esiste insomma nella società - a saperla guardare con intelligenze attente, libere dalle angustie dei recinti disciplinari, aperte alle voci che si esprimono con linguaggi inconsueti - una tensione verso la riconquista di spazi pubblici nei quali esercitare pratiche di cambiamento. Spazi pubblici da difendere, o riconquistare, o conquistare ex novo per avviare un percorso di ricostruzione della città – e della società.

5. CHE FARE PER RICONQUISTARE?

Non meravigli il linguaggio militare che in questa narrazione è spesso adoperato. Una “guerra per lo spazio pubblico” questo è l’evento in corso, ed è per questo che bisogna attrezzarsi. Dobbiamo imparare: chi ha scatenato l’offensiva per impadronirsi dello spazio pubblico adopera la propaganda come uno degli strumenti principali, perciò che chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra” (Somma infra). L’informazione è il primo passo della formazione. Non è infatti dall’informazione mediatica che è partita quella trasformazione dei cervelli che ha ridotto l’Essere all’Apparire magistralmente illustrata dal film di Eric Gandini, Videocracy?

Di fronte all’ideologia corrente, che domina nello spazio pubblico usurpato dalla comunicazione mediatica, la costruzione di immaginari e pratiche contro-egemonici sta forse già iniziando nelle diverse azioni che hanno per oggetto lo spazio pubblico (Boniburini infra). I primi materiali che abbiamo raccolto in questo libro sono l’inizio di un lavoro di documentazione che è necessario proseguire, e in cui eddyburg.it vuole impegnarsi. Ma accanto a questo è necessario utilizzare anche un altro percorso: occorre partire anche dalla riconquista della storia.

Un grave danno è stato provocato alla coscienza civile dell’Italia da quella rimozione della memoria che è stata compiuta negli ultimi decenni. Marcuse affermava che “il ricordare è un atto sovversivo, perché evidenzia il distacco tra il reale e il possibile (Valentini, infra). Cancellare il passato, la nostra storia, è particolarmente grave se ci si propone di costruire un futuro diverso dal presente, come oggi è indispensabile. Quindi per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, delle nostre radici, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.

Come tener conto oggi dei suggerimenti della storia, senza appiattirsi sulla stanca ripetizione del passato o sull’ingannevole nebbia della nostalgia? Occorre in primo luogo individuare i nuovi bisogni che nascono dalla società di oggi, e che esprimono la necessità di una società nuova. Con quali gambe, però, camminare nella direzione giusta?

Ricostruire la politica

É alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime, per il tramite di quelle strutture organizzative che sono i partiti – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo, un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Oggi non si può fare affidamento alla politica dei partiti. Nessuno dei partiti esistenti ha le carte in regola. Oggi occorre ricostruire la politica. Per farlo bisogna lavorare su due fronti, guardare a due tipi di interlocutori.

In primo luogo – già ne abbiamo accennato - i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Il lavoro molecolare dei gruppi di cittadinanza attiva costituisce un modo di ricostituire la politica che è già in atto. É già “politica”, nel senso proprio di volontà e, non raramente, di capacità di partecipare al governo della cosa pubblica. É già politica, se questa è “la pretesa e la capacità di definire collettivamente i beni comuni e di agire d’intesa per produrli” (Sebastiani infra). Confessava del resto, agli albori del Sessantotto, un allievo della Scuola di Barbiana: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica” (Milani1967:14) .

Il lavoro

Il quadro temporale nell’ambito del quale ci muoviamo sollecita anch’esso in questa direzione. La crisi che investe l’intero mondo non è solo una crisi finanziaria: è una crisi di sistema, nella quale disastro dell’economia data, disastro del pianeta Terra e disastro della democrazia sinistramente si congiungono, e devono essere affrontati insieme (Mancini infra). Il disagio che nasce dal degrado dell’ambiente naturale e di quello antropizzato (di cui la città è componente essenziale) si lega strettamente a quello che nasce dalla condizione sempre più umiliata che viene fatta al lavoro, “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” (Napoleoni 1980:4) e mediante il quale può conoscere il mondo e trasformarlo. Si può dire che il lavoro è anch’esso un bene comune, oggi pesantemente minacciato. Hanno minato gli strumenti che nel corso di qualche secolo erano stati costruiti per difenderlo: addirittura il diritto di sciopero – l’unica arma di cui i possessori della forza lavoro dispongono per contrattare, con i possessori del capitale “morto”, le condizioni del loro sfruttamento. Ma prima ancora la difesa del lavoro era stata indebolita dalla sua precarizzazione, dalla dispersione sul territorio, dalla tendenziale liquidazione di quella condizione originaria per difesa di classe che è la solidarietà di fabbrica. Il valore della “contrattazione territoriale”, rilanciata nel 2004 dalle Camere del lavoro e oggi rientrata al centro dell’attenzione della Cgil costituisce un’importante ragione della collaborazione tra sindacato dei lavoratori e persone che si aggregano attorno a eddyburg e alla Scuola, come testimonia questo libro, e le altre attività condotte congiuntamente da Cgil ed eddyburg

Le istituzioni

L’altro interlocutore essenziale di un’azione volta a difendere e riconquistare lo spazio pubblico è costituito dalle istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Nel confronto con le istituzioni locali, e nel tentativo di spingerle a un’azione virtuosa, l’ostacolo maggiore che si incontrerà sarà costituita dal profondo dissesto delle finanze locali, provocato dalla strozzatura operata dai poteri centrali, nella logica – ahimè bipartisan - del “privato è bello” e del “meno stato e più mercato”. A questo si aggiungono i perversi effetti della teoria secondo la quale tra le città deve esercitarsi la “competizione”, anzichè la pratica, storicamente rivelatasi vincente, della collaborazione e cooperazione, e del funzionamento “a rete”. Anche con gli amministratori, lo sforzo deve essere diretto a convincerli delle ragioni più profonde delle scelte, che è nel rifiuto dei modelli di comportamento della “società opulenta”.

Gli intellettuali

Un compito grande spetta agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Gli intellettuali sono depositari d’un sapere che devono amministrare al servizio della società. Devono saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta.

Devono innanzitutto demistificare: rivelare in che modo le scelte sul territorio ordinate a fini diversi da quello del benessere dei suoi abitanti siano perniciose. In questo senso l’azione svolta da esperti che militano nei movimenti sociali è particolarmente utile. In questo libro se ne registrano buoni esempi (Lironi infra). E devono proporre. A questo proposito è utile ricordare che oggi più che mai se le dinamiche di mescolanza, inclusione, coesione sociale devono riacquistare rilevanza, e contribuire alla ripresa della democrazia e della civiltà, è essenziale che continuino “a esserci spazi pubblici accessibili e liberi da impedimenti” (Mazzette infra).

Aiuta in questa direzione il confronto con le esperienze di altri paesi europei. Quelle che conosciamo testimoniano come le istituzioni, là dove la politica assume la questione dello spazio pubblico come tema centrale, possono fare molto, sia a livello statale che a livello locale.

Vi sono due insiemi di aree che vanno tutelate e aperte all’uso pubblico: quelle necessarie per lo svolgimento di determinate funzioni urbane, e quelle che meritano la tutela e l’accessibilità pubblica per le loro caratteristiche intrinseche. Due insiemi, che possono anche coincidere in talune parti, in uno dei quali prevale l’esigenza della funzionalità del servizio reso, nell’altro la tutela e la fruizione responsabile delle qualità intrinseche.

In numerosi dei testi qui raccolti emergono indicazioni di lavoro utili ad avviare un cammino nuovo rinnovando e generalizzando itinerari già esplorati: “suggerimenti di buone pratiche” che possono essere applicate a differenti contesti (Gibelli infra), non dimenticando che il territorio è un sistema e che il governo delle sue trasformazioni spetta alla mano pubblica, e che perciò è essenziale riportare gli spazi pubblici all’interno della pianificazione: anzi, porli al suo centro (Baioni infra).

Parlare di pianificazione della città e del territorio oggi può apparire – ed è – singolarmente controcorrente. Come lo è del resto parlare di difesa e riconquista dello spazio pubblico, di riscatto del (e non “dal”) lavoro, di rivendicazione di un Noi divorato dall’individualismo. Ma la corrente oggi egemonica, se non viene arrestata, conduce alla morte dell’umanità: di quella che è in ciascuno di noi, come di quella che popola il pianeta Terra.

La vignetta di Altan (la Repubblica, 9 novembre 2011) è il commento più efficace. Il testo integrale è scaricabarile dal sito di Luciano Mulhauser , che ringraziamo

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