azione è dell'autore. In appendice una nota di Peter Kammerer, da Il Passaggio, anno VI, n 2, marzo/aprile 1993
di Peter Kammerer
La figura di "Alì dagli Occhi Azzurri" è una figura emblematica per il Pasolini degli anni 1962-1965, impegnato in una riflessione esistenziale sul rapporto fra Nord e Sud e fra cristianesimo e marxismo. Per Pasolini le due questioni si incrociano e il punto focale della sua analisi poetica, la poesia "Profezia", è scritta in modo da formare una croce. Ma tutte le sue opere di allora, dalla "Ricotta" (1962) alla "Poesia in forma di rosa" (pubblicata nel 1964), dal film "La Rabbia" (1963) al "Vangelo secondo Matteo" (1964) fino a "Uccellacci e uccellini" (1965/66) risentono di questo travaglio. Poi "Uccellacci e uccellini" chiude un` epoca e ne apre un` altra (1).
Incontriamo "Alì dagli Occhi Azzurri" per la prima volta nella poesia "Profezia", scritta probabilmente già nel 1962 e pubblicata nel volume "Poesia in forma di rosa". Una dedica recita: "A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri". "Poesia in forma di rosa" esce nel 1964, ma nello stesso anno Pasolini scrive ancora una seconda versione della "Profezia" (peggiorata secondo me) e la mette nella importante raccolta di racconti, sceneggiature e progetti di film che va dal 1950 al 1965. Al volume, pubblicato nel 1965, l`autore addirittura dà il titolo di "Alì dagli occhi azzurri" collocando così tutto il materiale in una prospettiva sorprendente e nuova. Il titolo viene spiegato alla fine in una "Avvertenza" che descrive l`incontro con Ninetto in un cinema romano. Ninetto è un "messaggero" e parla dei Persiani. "I Persiani, dice, si ammassano alle frontiere./ Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati,/ sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409...... Il loro capo si chiama:/ Alì dagli Occhi Azzurri" (2).
Versi della "Profezia" ne troviamo infine nella predica di S. Francesco nel film "Uccellacci e uccellini" (girato nell` inverno 1965/66). La citazione fatta nel film nella sceneggiatura non c`è, ma fu inserita più tardi, probabilmente durante il doppiaggio. Nella sceneggiatura la predica di S. Francesco agli uccelli è quella della tradizione: "Molto siete tenuti di lodare e benedire Iddio......perchè vedendo questo, gli eretici si possono convertire e ritornare alla vera fede..." (3). Una visione di San Francesco piuttosto scontata, arciconosciuta, quasi noiosa, direi. Pasolini probabilmente ha capito questo e gli è venuta l`idea di mettere in bocca a S. Francesco alcuni versi della "Profezia". Così il santo si rivolge agli uccelli con ben altra forza: "Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta ai piedi del mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi". Ecco il terzo mondo nella sua crudele innocenza, nella sua feroce irrazionalità e nella sua esistenziale alterità. Come porsi di fronte a questa alterità? San Francesco coglie il problema e continua la sua predica così: "Noi possiamo conoscervi solo attraverso Dio perchè i nostri occhi si sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Cristo ai fedeli inariditi, con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede".
L`indicazione è precisa: Ci troviamo di fronte ad una aporia, ci scontriamo con una pietra dello scandalo. L`esistenza del terzo mondo per il mondo industrializzato è scandalo, perchè pone il problema non del concepire, ma del "ri-concepire" l`altro, cambiando i "nostri occhi troppo abituati alla nostra vita", cosa che si può fare "solo attraverso Dio". Per vedere giusto ci vuole qualcosa che trascenda la nostra situazione. Dio è una specie di punto di Archimede, dal quale diventa possibile muovere il mondo. La leva della rivoluzione posa su questo punto.
Nè la sinistra (ufficiale e non), nè la chiesa ufficiale (nonostante gli sforzi compiuti durante il Concilio Vaticano II) erano allora pronti a riconoscere la necessità di "ri-concepire" la presenza del terzo mondo come fatto organico, non separabile dalla nostra vita. D`altra parte era difficile cogliere allora il senso del concetto pasoliniano di "sottoproletariato". Come concetto sociologico faceva acqua da tutte le parti, ricorda Goffredo Fofi più volte (4); come concetto politico pure, sostiene Salinari, che critica nel 1966 sull`Unità le posizioni di Pasolini come "terzomondiste" scrivendo: "Sì al coraggio con cui Pasolini ... ci ricorda l`esistenza di tanta parte dell`umanità assillata da problemi diversi; diremo no al suo voler considerare proprio le zone sottosviluppate come i centri motori della rivoluzione". E Pasolini gli risponde: "Ma io ho fatto mai affermazioni di questo genere" e insiste sul "rapporto dialettico `scandaloso` dei popoli arretrati o sottosviluppati con la razionalità dei centri del neocapitalismo" e sul fatto che "un` unica linea così sembra unire i nostri sottoproletariati urbani e agricoli... con le tribù africane" (5). Pasolini rivendica un significato sociologico e politico al suo concetto di sottoproletariato, ma sa bene che esso non è riducibile nè alla sociologia, nè alla politica. Il sottoproletariato di Pasolini è un concetto altrettanto teologico. La rappresentazione del sottoproletariato nel sacrificio e nella crocefissione è rievocazione di un mito, ma anche descrizione di una attualità bruciante: un passato che non è passato, ma che ogni giorno si rinnova. In parole povere: il terzo mondo non ricorda solo il nostro passato, ma lo è nel presente della società industriale.
3) La profezia
In questa poesia Pasolini predisse trent`anni fa una specie di invasione di "extracomunitari" la quale poi si è verificata realmente. Scrive Pasolini:
La dedica chiama in causa Sartre, al quale Pasolini deve la storia di Alì dagli Occhi Azzurri. Pasolini lo ricorda allo stesso Sartre in un altro colloquio avvenuto nel dicembre 1964. Ne era testimone M.A. Macciocchi, che pubblica un resoconto sull`Unità del 22.12.64.
Pasolini si trova a Parigi per far vedere Il Vangelo, resta fortemente deluso per non dire offeso dalla reazione degli intellettuali francesi marxisti. Sartre lo consola e Pasolini dice: "Ho dedicato a Lei, Sartre, una poesia, "Alì dagli Occhi Azzurri", sulla base di un racconto che lei mi fece a Roma...". E Sartre: "Sono del suo avviso che l`atteggiamento (della sinistra) francese di fronte al Vangelo... è un atteggiamento ambiguo. Essa non ha integrato Cristo culturale. La sinistra lo ha messo da parte. Nè si sa che fare dei fatti che concernono la Cristologia. Hanno paura che il martirio del sottoproletariato possa essere interpretato in un modo o nell`altro nel martirio di Cristo". In "La ricotta" Pasolini ha dato proprio questa interpretazione e la reazione della destra alla demistificazione dell`iconografia tradizionale è stata violenta (7). Ma ora, nella "Profezia", il poeta va ancora avanti e insiste sull`altro significato della croce, quello della redenzione/ resurrezione.
La poesia apre subito in tono biblico, racconta di "un figlio" che scende nella Calabria arida, dove:
Ci troviamo nella Calabria della riforma agraria e l` amore poteva cominciare, perchè
"... Era il tempo
quando una nuova cristianità
riduceva a penombra il mondo
del capitale... "
Già di Engels e di Kautsky è la concezione del primo cristianesimo come precursore del movimento operaio (8). Con una delle sue tipiche forzature Pasolini la capovolge parlando di "nuova cristianità". Ma il tempo non si compie e il figlio "tremava d`ira". Conosciamo dal Cristo del Vangelo pasoliniano questa ira. Un Cristo che non sorride quasi mai.
".... Se egli non sorride
è perchè la speranza per lui
non fu luce ma razionalità."
"... Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere/ è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall`Africa/"
Irrompe nel nostro mondo un altro sapere, quello dell` irrazionalità (10), sbarca il terzo mondo non addomesticato e ci costringe ad un confronto con una concezione antitetica della vita (11), arrivano
"essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare/ essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi/ in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo/"
ai quali si rivolgeva -come abbiamo visto sopra- la predica di San Francesco, un santo mistico, impregnato di "oriente" (12).
"-distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno come zingari
su verso l`Ovest e il Nord
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento..."
Note:
1) vedi Peter Kammerer, "L'uccellaccio vola alto" in: Il Passaggio, anno V, N 4-5, Roma 1992
2) Anche nel primo episodio della sceneggiatura di "Uccellacci e Uccellini" Ninetto svolge un ruolo di "messaggero" o di "mediatore" fra la Koine dei dialetti e la lingua ufficiale del razionalismo europeo, il francese.
3) Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, a cura di Giacomo Gambetti, Milano 1966, 115
4) Recensendo il "Vangelo secondo Matteo" Goffredo Fofi scrive: "Ma è sempre più chiaro però che egli ha scelto il mondo del passato, un mondo che non è più il nostro, e che ha rifiutato di portarvi lo sguardo di chi abbia almeno una certa visione complessiva, di chi almeno un`occhiata abbia saputo rivolgerla anche a quello che è il mondo delle società cosiddette sviluppate, industriali." G. Fofi, La mostra cinematografica di Venezia, in: Quaderni Piacentini, n 17-18, 1964; ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 34; La reazione di Pasolini fu molto risentita, vedi le due lettere scritte a Piergiorgio Bellocchio nell` ottobre 1964 in: P.P. Pasolini, "Lettere 1955-1975", Torino, 1988. Sette anni più tardi in occasione del "Decameron" Fofi insiste: "Come Napoli sta scomparendo e delle contraddizioni di questa metamorfosi, del suo intricarsi nelle fabbriche del Nord o dell`intricarsi della sua economia con lo sregolato sviluppo e la perenne crisi del Sud, dei modi in cui questo enorme processo avviene perlomeno dal `60 in avanti o delle sue prospettive, a Pasolini non sembra fregargliene molto. Canta dunque un popolo di ieri, una forma di "gioia di vivere" naturale...". In: Quaderni Piacentini, n. 44-45, 1971, ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 241
5) "Libri-Paese Sera" del 23.3.1966. Non solo oggi, ma già nell`Italia del dopoguerra suonava come un insulto l`affermazione delle strette parentele culturali di vaste parti dell`Italia preindustriale con l`Africa del Nord o il Medio-Oriente ecc. Vedi le vicende del libro di Franco Cagnetta, Banditi a Orgosolo, denunciato e processato nel 1954/1955. Tutti vogliono essere parenti solo dei ricchi fratelli "mittel-europei".
6) La poesia fa parte di un capitolo "Il libro delle croci" che antepone alla "Profezia" un altra poesia, "La nuova storia", della quale purtroppo non teniamo conto in questa sede.
7) Vedi "Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte", Milano 1977 (Garzanti) e di recente, in occasione della candidatura del magistrato Di Gennaro alla Direzione nazionale antimafia l`articolo di Enzo Golino: "Di Gennaro contro Pasolini", Repubblica del 13. agosto 1992
8) Friedrich Engels, Zur Geschichte des Urchristentums, 1894; Karl Kautsky, Der Ursprung des Christentums, 1909 (seconda edizione ampliata)
9) Come una gran parte della storiografia dell`epoca anche Pasolini vede la riforma agraria come frutto delle lotte sociali del Nord sottovalutando il grande contributo dato dal movimento contadino meridionale; vedi ad es. Paolo Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria 1943/1953, Milano 1977
10) "L`elemento irrazionalistico e religioso è un antico elemento che mi accompagna come uomo e come scrittore da quando sono nato", Pier Paolo Pasolini in: "Una discussione del `64", AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amm.ne Provinciale di Pavia-Comune di Alessandria, 1977, pag 93, ristampato in: Pier Paolo Pasolini, Le regole di un`illusione, a cura del Fondo Pier Paolo Pasolini, Garzanti 1991, pag. 103
11) Pier Paolo Pasolini, L`Aigle, in: Vie Nuove del 29 aprile 1965, ristampato in: Le belle bandiere, Roma 1978, pag. 322
12) Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Adriana Zarri in: "Lo scandalo di Francesco" dibattito in: Orizzonti, 5.6.1966; Pasolini critica il film "Francesco" della Cavani dicendo: "Ha `occidentalizzato` al più possibile Francesco. Ha tolto al suo Medioevo quel tanto di orientale che esso, oggettivamente, aveva nelle sue reali condizioni sociali ed economiche. Ha staccato gli elementi orientali... che erano nel mondo di Francesco..."; e ancora: "Direi che, a un non credente, piace di più un San Francesco che parla agli uccelli e fa i miracoli. La religione occidentale, impermeata di laicismo che essa crede rivoluzionario
rispetto al proprio spirito clericale e si sbaglia, tende a mostrarsi scettica e ironica rispetto ai miracoli. Ma i miracoli sono la religione".
13) in: "La Rabbia", film del 1963; e anche: "Il nuovo papa nel suo dolce misterioso sorriso di tartaruga pare aver capito di dover essere il pastore dei miserabili, perchè è loro il mondo antico, e sono essi che lo trascineranno avanti nei secoli con la storia della nostra grandezza" (preso dalla colonna sonora inedita del film).
14) Benjamin era quasi sconosciuto in Italia fino al 1962, anno in cui esce
Huffington post, dal blog Sans Décliner, Snarclens della giovane femminista ginevrina
Vorrei essere un uomo. Solo per un attimo. Per riposarmi.
Mi piacerebbe credere che il sessismo non sia una cosa seria, o almeno, considerarlo alla stregua dell'AIDS o della fame nel mondo. Una cosa grave, ma che colpisce gli altri e di cui io non sono responsabile, io sto bene. Sarei in grado di elargire consigli freddi e distaccati, quindi molto attendibili, sulla causa da portare avanti e sarei ascoltato, rispettato, come si addice ad un uomo.
Vorrei vivere la mia sessualità, senza stigmatizzazioni, fare sesso con chi voglio e quando voglio (sempre ammesso che lei o lui sia d'accordo), senza il rischio di rovinarmi la reputazione, senza dare l'idea di una persona che cerca disperatamente affetto e attenzione. Vorrei che le mie azioni non fossero sottoposte all'interpretazione e al giudizio altrui. Che mi lascino fare l'amore tranquilla.
Vorrei giocare un ruolo nella cultura. Essere ovunque, sentire riecheggiare le mie parole di continuo. E, a forza di ascoltarle, convincermi che quello che dico è saggio, giusto e che le opinioni altrui sono trascurabili. Che tutti gli altri ronzano intorno alla mia idea. Che io sono al centro e che tutti gli altri sono ai margini.
Vorrei poter dire la mia. Far sentire la mia voce liberamente e parlare di ciò che mi sta a cuore. Sarebbe molto più semplice discutere d'amore, di sesso, d'invidia, di speranze, di nero, di bianco. Sarebbe molto più facile esprimere la mia opinione, parlare delle mie volontà e dei miei interessi. Se avessi davvero questa possibilità, verrei ascoltata.
Vorrei poter pensare che non ho una data di scadenza. Non vedere la vita come una clessidra. Pensare che fra dieci anni sarò più attraente di oggi. Credere che l'amore non sia qualcosa a cui dovrò rinunciare, quando avrò superato i trent'anni. Non avrei paura della vita, se sapessi per certo che, sfiorita la mia bellezza, i veri segnali del mio fascino saranno la forza e il carisma.
Vorrei essere un uomo e scrivere di altre cose. Un romanzo, una poesia. Di certo direbbero che ho talento. Sarebbe bello, solo per un momento.
Questo post è apparso sul blog Sans Décliner, Snarclens, di proprietà dell'autrice è stato pubblicato su HuffPost Francia e tradotto da Milena Sanfilippo.
Il 31maggio voteremo, in molte città e regioni. Nei giorni successivi i mass media daranno grande evidenza ai risultati, per lo più nello spirito binario tipico degli italiani: ha vinto il papa o l’imperatore, Coppi o Bartali, i Bianchi o i Rossi, Renzi o Grillo? Questa volta l’implacabile ascesa di Matteo Renzi ne fa il competitore designato a vincere. Agli organi di formazione dell’opinione pubblica nazionale importerà poco chi è diventato sindaco a Venezia o a Trento, chi è il presidente della Toscana o quello della Puglia. La domanda sarà: Renzi ha vinto o no? (leggi tutto)
Questa volta Renzi non ha un antagonista. La destra di Berlusconi l’ha disgregata assumendone valori, principi, e soprattutto interessi. La Lega è lacerata, il grillismo si sfalda ogni giorno. Sembra, in larga misura, che i giochi siano già fatti. Ma la speranza è l’ultima a morire. Forse basterebbe che gli elettori si rendessero conto di qual è il significato nazionale delle prossime elezioni, e che cosa accadrà se Renzi vincerà
Non c’è bisogno di zingare per immaginarlo, né di Cassandre. Basterebbe ricordare che cosa Matteo Renzi abbia fatto, come si sia impadronito di quel conglomerato a pasta molle che era il PD e lo abbia ridotto a partito personale, come abbia rovesciato i rapporti tra le istituzioni così come erano stati organizzati nella democrazia liberale, attribuendo cioè al potere esecutivo, dominato da se stesso, il potere legislativo. E come abbia infine “scavalcato a destra” la stessa Unione europea nell’applicare un’austerity a senso unico (premi ai ricchi e punizioni ai poveri).
Ma l’orizzonte che si apre per il nostro futuro nel caso che Renzi vinca è ancora più drammatico del recente passato. Eppure è anch’esso già scritto, in gran parte in quella nuova legge elettorale che meriterebbe il nome di Tirannicum, la quale governerà i rapporti tra i cittadini e il potere nei prossimi anni. Una sintesi efficace di ciò che Renzi potrà fare l’ha scritta Alberto Burgio. La riprendo.
Nel 2016, appena la legge sarà entrata in vigore, Renzi e la «grande stampa» troveranno facilmente un pretesto per indire nuove elezioni. Le liste dei candidati sono formate in modo che il capopartito è sicuro che la stragrande maggioranza degli eletti saranno persone da lui scelte: la formazione dei collegi e il privilegio assegnato ai capilista è fatto apposta. Nella situazione attuale gli unici due partiti che potranno partecipare al ballottaggio, e diventare padroni del Parlamento, saranno quello di Renzi (destra-centro-sinistra) e uno a guida razzista. La vittoria, per Renzi, sarà facile. Padrone del Parlamento, l’Eletto potrà tranquillamente modificare la Costituzione.
E' evidente quali leggi usciranno dal nuovo parlamento. Il territorio sarà ancora più pesantemente distrutto di quanto abbiano fatto la berlusconiana "Legge obiettivo", rilanciata dal suo erede, e il decreto "Slocca Italia", creatura del "piccolo Caudillo". Le conquiste del "ventennio della "speranza saranno erose a vantaggio del "mercato" , il lavoro ancora più subordinato alla rendita e al profitto, la forbice tra i più ricchi e gli altri sempre più aperta, e via piangendo.
Mi chiedo se a questo punto non sia possibile comprendere meglio quale sia il disegno che sta dietro alle iniziative di Renzi: quelle che attua come potere legislativo e quelle che attua come potere esecutivo. Il principio base è quello che è felicemente espresso nel Tirannicum: la governabilità è preferibile alla democrazia, questa è sacrificabile.
Per far vincere la governabilità sulla democrazia occorre però individuare un modello di rapporti tra governante e governati che sia diverso da quello inventato dai liberal-borghesi del XVIII e XIX secolo, e allargato nel XX. Dà voce a voci che sarebbe meglio tacessero, rivela conseguenze e risvolti che potrebbero non piacere a molti, e per di più richiede pazienza, argomentazioni, fa perdere tempo.
Ma non è dalle spoglie vuote dei vecchi “contenitori” della politique politicienne che potrà venire la salvezza. Per troppo tempo i suoi componenti hanno esitato a comprendere che cosa il dominio di Renzi significa. La speranza non viene da lì, viene dai servi della gleba, e dai pochi “liberi” che sono rimasti tali e sono disposti ad aiutarli.
La tragedia delle centinaia di migranti scomparsi nei flutti del Mare nostrum alle soglie della salvezza ha riproposto con forza un tema al quale i nostri tempi non possono sfuggire. I commenti spaziano dalla ragionevolezza preoccupata di molti osservatori che non hanno rinunciato a usare il cervello e il cuore, fino alle più barbariche espressione del “razzismo sociale” (se è lecito definire così il pregiudiziale disprezzo per i più poveri) di chi ragiona solo con le viscere. (segue)
Questi ultimi, è ovvio, chiedono che le barriere sul Mediterraneo siano le più ferme possibili, meglio se armate. L’italiano Salvini si schiera decisamente tra questi. Il nostro presidente del consiglio sembra distaccarsene, ma invoca anche lui, a botta calda, un blocco navale: portaerei, fregate e cacciatorpediniere schierati tra il piede della Penisola e le coste nord dell’Africa. Ma dai giornali di oggi apprendiamo che ha scoperto che il blocco navale è impossibile e ha individuato il suo obiettivo: bisogna colpire gli scafisti.
Qualche giorno fa ha detto che non conosceva Pompei. Oggi mostra che non ha capito che cos’è il fenomeno tragico delle migrazioni di questi anni. Come non sembrano averlo capito molti che da Bruxelles, dove si dovrebbe decidere, additano i trafficanti come la causa della tragedia. Costoro non si rendono conto che gli scafisti e gli altri trafficanti, come ha denunciato Barbara Spinelli qualche giorno fa,«non fanno che riempire un vuoto: non esistono vie legali di fuga, quindi l’illegalità si installa e prospera». Dovrebbe essere evidente a tutti che si riuscirà a eliminare il “servizio” criminale che gli scafisti forniscono alla disperazione dei migranti solo affrontando il problema alle radici. Senza un’analisi corretta nessuna soluzione è adeguata.
Occorre allora innanzitutto essere consapevoli che l’onda migratoria che spinge milioni di persone dalle aree a sud del Mediterraneo non è arrestabile nel breve periodo. Trasformare il Mediterraneo in una barriera (è la risposta che danno i neonazisti italiani ed europei) non significa solo diventare complici di uno sterminio di massa, di fronte al quale l’Armenia e la stessa Shoa impallidiscono. Che lo sterminio che avviene nel Mediterraneo non sia volontario e programmato come quello dei “giovani turchi” e quello dei nazisti trasforma il crimine dell’Unione europea da doloso a colposo, ma non ne riduce la gravità.
Occorre poi ricordare che, se l’Africa e il Medio Oriente sono diventate un inferno dal quale centinaia di persone tentano di fuggire a prezzo della vita, una responsabilità pesante risiede nelle politiche, antiche e recenti, del Primo mondo. A partire dal colonialismo dei secoli più lontani della storia europea, proseguendo con il colonialismo altrettanto rapace (sebbene camuffato nelle sue forme) della globalizzazione capitalista, concludendo - dopo l’attentato alle Twin Towers - con la destabilizzazione dei complessi equilibri politici e sociali nel Medio oriente. E come non mettere nel conto delle responsabilità anche il crescente squilibrio tra le grandi ricchezze e le profonde ed estese povertà provocato dal neoliberalismo, che ha spento in grandissima parte del mondo la speranza per un futuro migliore?
Le responsabilità del primo mondo richiedono un impegno serio e di lunga durata, non la recitazione di qualche giaculatoria. Non serve certamente assumere a bersaglio delle politiche europee i trafficanti di schiavi che noi stessi abbiamo contribuito a rendere tali. Così come serve a poco voler interporre (come sembrano proporsi i politici dell’UE) filtri alle frontiere dei paesi d’esodo per selezionare tra i fuggiaschi quelli che migrano perché soggetti al rischio di persecuzioni per ragioni politiche, o etniche o religiose, e quindi hanno diritto d’asilo, e chi fugge per la disperazione della miseria e della fame, e può essere ricacciato nel suo inferno quotidiano.
Occorre garantire vie d’accesso sicure a chi vuole evadere dal terrore e dalla miseria. E occorre creare condizioni di vita soddisfacente nelle regioni oggi sicure e consentire ai migranti di trovarvi la loro nuova patria. Il lavoro degli uomini e le donne è una risorsa preziosa per l’umanità. Se l’attuale sistema economico-sociale non è in grado di utilizzarlo, ecco una ragione in più per impiegare l‘intelligenza e la creatività nella costruzione di un sistema meno disumano.
Il manifesto, 14 marzo 2015
Era un canto, una ballata di racconto e di riflessione, una voce che raccontava una storia comune, sua e del pubblico che come lei vedeva, capiva e lottava. L’Italia in lungo e in largo è l’attacco di una famosa composizione di Giovanna Marini, vivida e pungente nonostante l’apparente nonchalance con cui l’autrice passava in rassegna un paese pieno di contraddizioni, sofferenze e anche involontario umorismo. Era come il film delle sue «tournée», che erano veri viaggi di tenace militanza fatti su pulmini sgangherati e treni ansimanti e affollati. Quell’attraversamento di una condizione, sentimentale sociale e politica (una sorta di inno nazionale alternativo allora, quando l’ascoltammo le prime volte) torna ora, dopo più di quarant’anni, a raccontare un paese che nel profondo non è cambiato nelle sue sofferenze, a dispetto delle molte trasformazioni, spesso solo superficiali.
E torna anche, quell’attacco, a dar titolo a un cd (appena pubblicato da Finisterre e distribuito da Egeamusic) in cui Giovanna Marini, assieme, in accordo o in controcanto, con la più brava e solida delle sue allieve, Francesca Breschi, raccoglie molti brani di quegli anni e degli anni successivi, alcuni divenuti famosissimi come I treni per Reggio Calabria, unica documentazione di una vera epopea liberatoria, e altri rimasti in una dimensione più intima come Lamento per la morte di Pasolini o Ragazzo gentile. Canzoni bellisime tuttora, Commoventi fino alle lacrime, eppure rasserenanti per il fatto di essere storica testimonianza di fatti molto importanti.
Giovanna Marini ha il dono della poesia, che non viene minimamente scalfito dal passare del tempo, e dei gusti e delle mode. È uno straordinario monumento musicale del nostro tempo e della vita quotidiana, senza alcuna retorica, e senza per altro alcun riconoscimento dalla cultura «ufficiale», o tanto meno di governo. Eppure il titolo di quella ballata, l’altra sera in una sala dell’Auditorium al Parco della musica romano, era ancora l’occasione di un viaggio, possibile e lucidissimo, nell’umanità che questo paese è stato capace di elaborare e modulare. Una Italia in lungo e in largo che aveva come cabina di comando le due cantanti, consapevoli e emozionanti, ma ha anche voluto assumere il corpo storico e musicale di una comunità femminile davvero fuori dell’ordinario, le donne di Giulianello.
Che è un paesino rurale in provincia di Latina, dove però da sempre viene coltivato il canto corale, e di origine religiosa, che si allarga ad abbracciare, e immortalare, ogni aspetto, bisogno, speranza della vita. Racconta la Marini che la prima volta che le incontrò, tanti anni fa durante le sue indagini musicali sulla scia di Ernesto De Martino e Diego Carpitella (cui la serata è stata affettuosamente dedicata), se le vide arrivare su un carrello trainato da un trattore, e cantavano senza sosta. Il canto, per le donne di Giulianello, è una attività a tutto campo, che quasi armonizza e rende possibili tutte le altre fatiche. La loro «leader» Lalla ha appena compiuto 93 anni, ma non si nega virtuosismi vocali di alto respiro. Con quel contraltare vivente che dava spessore e radici alle loro voci, Giovana Marini e Francesca Breschi hanno fatto balenare per una sera una Italia che possa ancora oggi essere attraversata, nella profondità del cuore, vincendo gli ammennicoli e i soprammobili e gli orrori che che tante volte la rendono irriconoscibile e orrendamente sporca.
Le biografie degli autori degli attentati terroristici di Parigi, in cui diciassette persone hanno perso la vita, rimandano alla banlieue, e a parole come ghetto, segregazione o apartheid utilizzate dal premier Manuel Valls per indicare la natura di un problema non risolto. Precedentemente all’incarico di primo ministro del governo francese, Valls era stato sindaco di Evry, una delle ville nouvelle costruite a partire dagli anni sessanta per decongestionare la capitale francese, di fatto assimilabili alle periferie che la circondano. In occasione della rivolta delle banlieue, quando guidava l’amministrazione di questo centro di 50.000 abitanti che dista 25 chilometri da Parigi, Valls aveva già avuto modo di usare quelle parole che di nuovo ha speso per sottolineare quanto i mali che affliggono le periferie dalle quali provenivano gli attentatori siano ancora tutti da affrontare.
«La fratture, le tensioni che covano da troppo tempo e delle quali si parla ad intermittenza sono ancora presenti. Chi si ricorda dei disordini del 2005? Eppure le cicatrici sono ancora lì» ha ricordato Valls, insistendo sul concetto di ghetto insito nell’essere relegati nei contesti periurbani, ai quali non sfugge la città dell’Ile de France della quale è stato sindaco. «Si deve parlare di cittadinanza, non di integrazione – dimentichiamo le parole che non vogliono più dire nulla - ed essa ha bisogno di essere rifondata, rinforzata, rilegittimata. (…) Il problema non è il rinnovamento urbano. Molto è già stato fatto con l'Agenzia nazionale per la riqualificazione urbana, ma dobbiamo anche porre la questione della diversità urbana. Se non si cambia la popolazione si rischia di creare dei ghetti».
Per Manuel Valls il termine “ghetto” ha un’accezione diversa da quella attribuitagli da Nicolas Sarkozy, ministro dell'Interno e poi presidente della Repubblica, che l’ha utilizzato più volte tra il 2007 e il 2012 per indicare zone dove il diritto è assente, fortemente caratterizzate dalla delinquenza. L’uso del termine è stato spesso criticato in Francia, specie a confronto con la situazione delle città statunitensi, contraddistinte da un livello di segregazione etnica significativamente superiore. Tuttavia, la pubblicazione nel 2008 di Ghetto urbain di Didier Lapeyronnie ha sconvolto le convinzioni della sociologia francese, mostrando la natura di “contro-società” delle banlieue e l’esistenza di frontiere invisibili in seno alle città francesi.
Scriveva Louis Wirth, uno dei sociologi della scuola di Chicago, nel 1928: «Se conosciamo l’intera biografia di un individuo collocato nel suo contesto sociale, probabilmente conosceremo la maggior parte di ciò che val la pena di essere conosciuto sulla vita sociale e sulla natura umana. Se conoscessimo l’intera storia del ghetto, il sociologo disporrebbe di un esemplare da laboratorio che incarna tutti i concetti e i processi del suo vocabolario professionale». Per Wirth studiare il ghetto significa comprendere gli effetti dell’isolamento, e più precisamente del «tipo di isolamento prodotto dalla mancanza di inter-comunicazione che deriva dalla differenza di lingua, di costumi, di tradizioni e di forme sociali. Il ghetto, come lo abbiamo considerato, non è tanto un fatto fisico, quanto una forma mentis».
Per la Francia la questione banlieue sembra ormai coincidere con «l’apartheid territoriale, sociale ed etnica» di cui parla Valls. Il termine apartheid indica apertamente il concetto di segregazione ed evoca il fallimento delle politiche urbane degli ultimi decenni. Non è stata solo la crisi ad aver segnato un indebolimento dell’azione pubblica, in particolare nei settori degli alloggi, dell'istruzione e del lavoro: utilizzandolo, si sottolinea quanto ci sia stato di deliberato nell’aver segregato i poveri ai margini della città e nell’averli esclusi da un concetto di cittadinanza che si applica solo entro i suoi confini storici, quelli che a Parigi, ad esempio, sono ancora segnati dall’antico sedime delle mura sulle quali è sorto il Boulevard Périphérique.
Questo anello stradale di scorrimento del traffico veicolare, costruito a partire dal 1956 sul tracciato dell’ultima cerchia di fortificazioni a ridosso della quale il Barone Haussmann aveva portato i confini comunali, è ancora il confine tra città e banlieue. Anche se la costruzione del raccordo anulare era inserita in una visione più complessa della Grande Parigi, nella quale l’integrazione del verde urbano, del sistema di trasporto pubblico e degli insediamenti residenziali pianificati doveva servire a contrastare la crescita suburbana disordinata, al di là del Périph’ la banlieue parigina dei grandi complessi di edilizia popolare e delle ville nouvelle non ha saputo integrarsi con la città in un conseguente disegno metropolitano.
La storia del ghetto come dispositivo dell’isolamento, che secondo Wirth rappresenta «uno specifico ordine sociale», ha quindi ancora molto da raccontare a proposito delle periferie, indipendentemente dalle loro caratteristiche spaziali. Queste ultime - Valls fa bene a ricordarlo - per troppo tempo sono state l’unico oggetto delle politiche d’intervento. Le parole del primo ministro francese dovrebbero dire qualcosa anche a noi in Italia, dove sulla questione periferie sembra abbia voce in capitolo solo qualche archistar.
D’altra parte la tendenza a ridurre il problema della marginalità sociale ad un uso più o meno sapiente dell’architettura a servizio delle politiche urbane sembra accomunare i due paesi divisi dalle Alpi. Ne è una dimostrazione la recente costruzione della Philharmonie di Parigi, la sala da concerti progettata da Jean Nouvel ai margini del Parc de la Villette sul confine nord-orientali della città, in quello stesso 19° Arrondissement dove sono cresciuti i due fratelli attentatori di Charlie Hebdo. Presentare l’opera dell’archistar di turno come un ponte per l’integrazione culturale e sociale della banlieue, che sta dall’altro lato dell’autostrada urbana, vuol dire ancora una volta ignorare le responsabilità che anche gli architetti hanno avuto nella costruzione di un’idea antropologica di periferia come concentrato – ci ricorda Valls - della «miseria sociale, alla quale si aggiunge quotidianamente la discriminazione per non avere il cognome o il colore della pelle giusti o perché si è donna».
Riferimenti
LA RENDITA FONDIARIA URBANA
Il testo che segue tratta i seguenti argomenti: :
1. Andamento del valore degli immobili: dei manufatti e del suolo.
2. Gli effetti sul sistema urbano: il mercato degli alloggi, il decentramento industriale, i luoghi centrali; in generale il trasferimento di ricchezza dalla mano pubblica a quella privata.
3. Le possibilità attuali di ICI, IMU;
4. Principi e direzioni di marcia per avocare alla collettività i valori della rendita urbana;
5. Considerazioni finali.
1. Andamento del valore degli immobili: dei manufatti e del suolo
I rilievi, raccolti in Italia (analoghe conclusioni si potrebbero trarre anche per paesi esteri) in varie epoche e da varie fonti, circa l’incidenza dei valori fondiari sul prezzo degli immobili urbani, riscontrano che i valori delle aree fondiarie urbane sopravanzano di gran lunga, il valore della moneta corrente. Questa tendenza costante al rialzo nel medio lungo periodo presenta indubbiamente andamento ciclico: la tendenza generale è caratterizzata da punte di incremento anche consistente dei valori, seguite da cedimenti, in corrispondenza di periodi di crisi economica o comunque di riduzione della domanda solvibile di beni immobiliari.
«L’analisi complessiva dei fattori di produzione, ai quali sono stati aggiunti gli oneri finanziari e i costi di commercializzazione e gestione, hanno evidenziato come la redditività di investimento nella promozione immobiliare possa passare dal 30% al 320%. Con punte nelle grandi città anche decisamente maggiori….Le maggiori redditività si ottengono nelle aree di maggiore concentrazione della domanda. La rendita fondiaria ha giocato un ruolo rilevante nel ciclo di accumulazione degli anni Duemila, favorita dal forte processo di espansione urbana dovuta ai flussi demografici (domanda primaria) e dal processo di sostituzione che hanno visto crescere il ruolo del venditore-compratore. In sostanza in molte aree del paese, certo in quelle di maggiore peso insediativo, i rendimenti sono stati così elevati da consentire di affrontare anche l’eccezionalità della caduta del prezzo e delle compravendite della crisi successiva….non si sono mai compravendute tante abitazioni – in dieci anni è stato compravenduto il 30% dello stock abitativo del paese - e non sono mai costate così tanto come nei primi dieci anni del XXI secolo…… Senza ombra di dubbio l’immobiliarista è stata la figura emergente degli anni Duemila insieme ai manager della finanza. Ma l’esuberanza non aveva solo basi irrazionali. Sono state quattro diverse tipologie di domanda crescenti e concomitanti a determinare il gonfiarsi della bolla speculativa degli anni Duemila: la domanda di case legata al boom demografico delle famiglie italiane e straniere (di cui pochi si rendono ancora conto); la domanda di qualità, dovuta a una sorta di “ascensore sociale” che famiglie già proprietarie hanno intrapreso con dimensioni diverse rispetto al passato…; la domanda dei “city users”, dei temporanei, che sempre più pesano sul mercato della casa delle città maggiori; la domanda speculativa di investimento.»[1]
Il Valore unitario Va di un fabbricato di nuova realizzazione (per metro quadrato utile, per metro cubo) è costituito dalle seguenti componenti:
Cc costo di costruzione, comprensivo di utili, di spese di costruzione, tecniche, generali, finanziarie;
Ct costo del suolo a valori di “libero mercato”, comprensivo delle spese tecniche, generali, finanziarie, relative al periodo necessario per la costruzione;
Cu costo eventuale delle opere di urbanizzazione, comprensivo delle spese tecniche, generali, finanziarie, relative al periodo necessario per la costruzione.
Quindi, il costo complessivo unitario del fabbricato è dato da: Va = Cc + Ct + Cu.
Il fabbricato, al termine del periodo di costruzione, è immesso sul mercato, per l’affitto o per la vendita. Alla prima vendita il costo e il valore del fabbricato tendenzialmente coincidono. Alla seconda..., all’ennesima vendita: delle tre componenti i valori di due (Cc e Cu) tendono a “decadere” (a ridursi), al pari di tutti i manufatti prodotti: le auto, le macchine strumentali, i natanti, i mobili, i cellulari, gli elettrodomestici, gli indumenti; a meno che non passino dalla categoria dei “beni a termine” alla categoria dei “beni artistici e storici”; in quel caso essi assumono valori di affezione a causa della loro rarità.
La rendita a sua volta si compone di due entità:
La rendita assoluta, corrispondente all’aumento dei valori fondiari in un determinato intorno urbano, è indotta dall’esistenza del sistema economico, che caratterizza l’intorno stesso.
La rendita differenziale, conseguente agli investimenti, alle caratteristiche ambientali di luoghi “differenziati” della città. La rendita differenziale caratterizza, infatti, le località centrali della città, dove si addensano in particolare le funzioni di comando a “gerarchia non uniforme”: la finanza, l’amministrazione centrale, il commercio specializzato, la cultura, lo spettacolo, l’esposizione museale, ecc.
Quando in precise località della città, l’accumulazione dei valori di rendita, nella sua marcia irrefrenabile, assume valori unitari del suolo, tali, da superare il valore unitario “ad assiti e cemento” dei fabbricati soprastanti, si danno due effetti fra loro collegati:
1) La convenienza per la proprietà di ricercare destinazioni alternative, rispetto a quelle originarie, vale a dire: strati sociali dotati di maggiore capacità di spesa, o attività economiche (il terziario), in grado di sostenere il valore di rendita nella sua marcia incrementale; di qui l’allontanamento (l’escomio) o il trasferimento delle famiglie e delle attività, dotate di disponibilità economiche inadeguate: caso tipico è rappresentato dagli interventi nei centri storici, o comunque nelle località centrali, attraverso il manifestarsi di spinte continue, capillari, invisibili, affidate alla logica economica puntiforme, costante, tale da modificare in tempi, anche medio lunghi, la composizione sociale della popolazione insediata e la gerarchia delle attività economiche.
2) Il superamento marcato del valore unitario del suolo, rispetto al corrispondente valore unitario dei fabbricati sovrastanti. Tale condizione rappresenta l’obsolescenza, il degrado, in genere lo scostamento delle tipologie e delle dotazioni qualitative degli edifici originari, rispetto ai nuovi modelli edilizi, affermati nel settore delle abitazioni o delle attività economiche, che, nell’insieme, non garantiscono più la remunerazione attesa. Questo è il caso, in cui s’impone la demolizione dell’edificio o la sua radicale trasformazione, salvo che ad esso non sia riconosciuto un valore storico, artistico, ambientale. Quando si arriva, alla demolizione, con conseguente trasformazione (“la ristrutturazione edilizia o urbanistica”, come definite dalla normativa attuale), la ricostruzione comporta pressoché sempre l’aumento rilevante della densità edilizia, al fine di remunerare il valore unitario del suolo, che, grazie all’operazione intrapresa, libera incrementi anche consistenti di valore dell’incidenza del suolo su l’unità di nuova edificazione.
2. Gli effetti sul sistema urbano: il mercato degli alloggi, il decentramento, i luoghi centrali; in generale il trasferimento di ricchezza dalla mano pubblica a quella privata
Da quanto esposto emerge come la rendita costituisca un sistema decisivo per il governo della città: è funzionante e coinvolge tutti (famiglie e imprese) in termini assai concreti e stringenti.
La rendita costituisce un settore molto ampio del risparmio delle famiglie: specie dagli anni ‘70 e ‘80 del XX secolo la proprietà della casa (anche sotto lo stimolo dell’equo canone) ha assunto percentuali elevatissime, in generale in Italia dell’ordine del 70, 80 per cento dell’intero patrimonio abitativo italiano, in particolare nelle grandi concentrazioni urbane. Quel fenomeno può definirsi come “risparmio e sicurezza, collocati nel mattone”.
Una parte consistente del risparmio, a garanzia degli istituti, che erogano le pensioni, è investito obbligatoriamente negli immobili. Da tale constatazione emerge quanto possa rivelarsi delicata la manovra, che eventualmente si intenda predisporre per avocare allo stato i valori di rendita.
Una quota consistente delle imprese grandi, medie e piccole si serve dei valori fondiari di proprietà per garantire, presso gli istituti finanziari, quote importanti del credito, eventualmente necessario per finanziare ammodernamenti, trasferimenti, potenziamenti dell’attività produttiva. Talvolta le risorse, ricavate dai valori fondiari (cioè dalla rendita urbana), sono impiegate per trasferimenti delle imprese (caso tipico a Torino il trasferimento in quel di Nichelino della Viberti) o per l’ammodernamento degli impianti. In questi casi a difensori delle risorse, derivanti dalla rendita a favore delle imprese, sono impegnati anche, se non in primo luogo, le organizzazioni sindacali, per ragioni collegate alla garanzia dell’occupazione: l’adagio delle proprietà non di rado è il seguente: “Ricavo risorse dalla vendita del suolo, su cui sorge l’azienda, quindi reinvesto e mantengo l’occupazione; poi se non avviene così pazienza”.
L’incremento della rendita è alla base dell’aumento del costo degli affitti; questo è proporzionale di nuovo a tre componenti (costo di costruzione e urbanizzazione, costo del suolo e costo di manutenzione), una delle quali, come si è detto, aumenta a ritmi elevati. Il mercato si adegua, anche se non immediatamente o totalmente, e quindi tende a elevare il prezzo dell’affitto in una situazione, nella quale rari e stentati sono gli interventi calmieratori della mano pubblica.
La rendita, specie per le grandi concentrazioni immobiliari costituisce una risorsa potente, con la quale intervenire sugli enti pubblici (da tempo soggetti al taglio delle disponibilità̀ finanziarie) per decidere dove, come, quando costruire o trasformare il territorio (un esempio: le aree già occupate dalla grande industria, la “Spina centrale” a Torino).
Il costo dei suoli urbanizzati per la piccola impresa, soprattutto artigianale, è d’impedimento o di ritardo per poter operare ampliamenti, ammodernamenti, trasferimenti. Caso indicativo è quello delle piccole imprese (ad esempio di manutenzione dell’auto), che spesso operano sistematicamente sul suolo pubblico, in scarsità di risorse, da destinare all’acquisto o all’affitto di spazi dedicati.
Intervenire sulla rendita significa in primo luogo operare concretamente in due direzioni, fra loro strettamente collegate: governare la formazione della rendita urbana da un lato, acquisire alla collettività la rendita stessa, valore economico che, in ogni caso, si forma nelle aree urbane, indipendentemente dai regimi politici in atto.
La formazione della rendita è funzione prevalente, se non esclusiva, delle scelte della collettività; quindi il governo della formazione si ottiene (o meglio si potrebbe perseguire) attraverso la pianificazione ai vari livelli: nazionale, regionale, provinciale (ove l’istituzione relativa possa ancora esistere), comunale. Negli ultimi trenta – quaranta anni la cultura della pianificazione è stata devastata; si è teorizzato con successo (e si teorizza tuttora), nella cultura e nella pratica, il caso per caso, la decisione estemporanea, spesso strumentale per fini non dichiarati, trasferendo di fatto e di diritto, in capo ai fruitori della rendita, il potere di decidere qualità e caratteri delle città.
L’acquisizione, a sua volta, si può ottenere in più modi, variamente graduabili. Qui si accenna a due modalità, ovviamente funzione delle finalità e delle possibilità politiche e culturali impiegate: l’utilizzo di strumenti ora esistenti, oppure la formazione in tempi non immediati e con strumenti operativi e culturali adeguati, volti al trasferimento, a favore della collettività, del valore della rendita urbana, al fine di conferire alle istituzioni democratiche uno degli strumenti decisivi per il governo delle aree urbane.
3. Le possibilità attuali di ICI, IMU
In Italia negli ultimi trenta – quaranta anni si sono sviate forme di prelievo della rendita, almeno quelle finalizzate in modo esplicito a tale scopo. Caso significativo è rappresentato dalla istituzione della imposta ICI e poi IMU (con variante TASI per l’abitazione in proprietà). Si tratta come ognuno ben sa, di imposta sul patrimonio e non sul reddito. Tuttavia lo scopo indubbio di tale imposta, specie nell’edizione IMU, istituita nel 2012 dal governo Monti, ebbe lo scopo principale di rastrellare in breve tempo risorse ingenti, per far fronte al pericolo, ritenuto imminente, di deragliamento del bilancio dello Stato; non certo per colpire i valori di rendita urbana.
In ogni caso, ove si volesse intervenire sulla rendita attraverso le imposte, per consentire agli enti pubblici (comuni e stato) oltre che di incamerare risorse, di governare, almeno in parte, i processi di trasformazione urbana, si dovrebbe graduare il prelievo impositivo, del tipo ICI o IMU, anche in funzione degli obiettivi, derivanti dalle scelte della pianificazione territoriale: questa scelta potrebbe significare ad esempio elevare le aliquote impositive nei confronti degli immobili, siti nelle località, nelle quali il piano intenda scoraggiare l’addensarsi delle centralità urbane; al contrario ridurre le aliquote, ove il piano voglia rafforzare le centralità (certo assieme ad altri provvedimenti, quali l’intervento massiccio sul sistema dei trasporti). Tale manovra ovviamente dovrebbe prendere le mosse dalla conoscenza dettagliata delle condizioni economiche e ambientali della città. Questo oggi non avviene in quanto, a parte le ragioni di cassa e non di governo, i provvedimenti impositivi non sono accompagnati da alcuna forma d’integrazione culturale e normativa fra pianificazione e governo dell’economia dello spazio.
4. Principi e direzioni di marcia per avocare alla collettività i valori della rendita urbana
Il fine dell’intervento qui delineato, è quello di avocare alla collettività il valore della rendita sui territori, investiti dall’espansione o comunque dalla concentrazione delle destinazioni urbane, con esclusione delle parti destinate, o meglio, occupate da attività di produzione agricola, parti che, specie se interessate da produzioni specializzate o di pregio, sono sottoposte a regimi specifici e comunque assai diversi, rispetto a quelli qui delineati.
Senza escludere che i modi, attraverso i quali perseguire il fine esposto ( e cioè governare la formazione della rendita urbana e acquisire alla collettività la rendita stessa), possano risultare differenti e numerosi, si elencano alcune linee di azione, che ovviamente richiederebbero integrazioni, anche importanti, di carattere tecnico.
I passi principali, che si propone di seguire, sono:
- Come già detto, il primo passo è costituito dal controllo sulla formazione della rendita, che deve essere ricondotta alla coerenza con i fini assegnati dall’attività di programmazione e pianificazione, che i vari livelli istituzionali dovrebbero perseguire.
- La manovra è fondata in primo luogo sull’uso generalizzato del Catasto urbano, aggiornato e integrato, anche nei vari settori territoriali, nei quali l’aggiornamento è tuttora incompleto. Tale operazione richiede tempi non brevissimi (3 – 5 anni?) e soprattutto l’adozione di strumenti tecnici aggiornati.
- Nella valutazione degli immobili è indispensabile introdurre la distinzione fra i due valori fondamentali: quello del suolo e quello degli edifici, o comunque dei manufatti (ove esistenti).
- Dalla data di avvio del provvedimento (tempo T0) è necessario congelare il valore stimato del suolo, da attribuire interamente alla proprietà (oltre ben inteso il valore del manufatto), al fine di non dare luogo alla confisca del bene, anziché alla sottrazione del valore di rendita, che come detto, continua ad accumularsi, almeno nel medio lungo periodo, nelle località non in declino.
- Ad ogni trasferimento del bene (in tempi cioè T1, T2,..Tn) è escluso, a vantaggio della proprietà, l’incremento reale del valore del suolo, formatosi, rispetto al valore reale, riconosciuto al tempo T0 di avvio del provvedimento; alla proprietà è imputata altresì la differenza (positiva o negativa se l’immobile è stato interessato da degrado fisico) fra valore reale dell’edificio, stimato al momento t0, e valore reale, stimato all’atto della vendita, documentando gli eventuali interventi di manutenzione straordinaria o di trasformazione, attuati fra T0 e T1, T2,.. Tn.
- Importanti e delicate sono entità e modalità di determinazione dell’ammontare dell’affitto, in quanto due elementi sono decisivi per la definizione di tale importo, relativo a ciascun immobile, compreso nell’area urbana di riferimento. Nell’ammontare dell’affitto si congiungono, infatti, seppure per quote parziali, le variazioni delle due quote di remunerazione dei valori fondamentali: del suolo e del fabbricato.
- La definizione dell’ammontare dell’affitto avviene con riferimento ai valori di mercato. In occasione dell’offerta in affitto del proprio immobile, il proprietario, definite le quote, corrispondenti alla remunerazione dei due valori fondamentali (suolo ed edificio), pubblicizza, nel modo più ampio, l’entità dell’affitto, che intende praticare. A data definita, fra i vari interessati il proprietario concorda l’ammontare dell’affitto, ritenuto più conveniente.
- Una quota, rappresentata dal valore reale del suolo, stimato al tempo T0, è attribuita alla proprietà; tale quota è integrata dal valore reale dell’edificio (o del manufatti). La quota di valore del suolo, corrispondente alla variazione, intervenuta fra T0 e il momento della maturazione della quota di affitto, è inviata all’ente locale o, come avviene per la riscossione dell’IMU, parte all’ente locale e parte allo stato. Eventuali scostamenti, che avvengano fra entità dell’affitto richiesta e valore definitivamente concordato, garantite le quote competenti agli enti pubblici percettori, se si manifestano sovrappiù questi competono alla proprietà.
- Pure lasciando alla proprietà (o ad enti terzi, professionalmente abilitati alla definizione degli ammontari sopra richiamati) è cura in ogni caso degli enti competenti svolgere gli opportuni accertamenti.
- Con analogo trattamento sono definite le quote, corrispondenti all’affitto, a carico di coloro, che occupano edifici in proprietà.
5. Considerazioni finali
Malgrado le preoccupazioni o le diffidenze, che questa proposta (come altre eventuali) possano suscitare in forze politiche, per la sottrazione di quote consistenti di valori di rendita, a carico di una proprietà immobiliare in Italia particolarmente estesa, si tratta di capire se la fase economica e sociale attuale possa rivelarsi quasi eccezionale, forse unica, almeno per qualche tempo, a favore di azioni politiche e culturali, volte al perseguimento del fine, enunciato nella presente nota. Questo perché l’azione congiunta della crisi economica e sociale in atto e dell’applicazione dell’IMU ha indotto l’attenuazione rilevante della domanda di acquisto e di affitto, con conseguente riduzione del rendimento degli immobili.
E’ appena il caso di notare in fine che, ove fosse applicato un provvedimento di trasferimento a favore della collettività del valore della rendita urbana, dovrebbe cadere ogni forma d’imposizione immobiliare, oggi esistente, di rilievo sia locale che nazionale
Inseriamo questa volta comeeddytoriale il contributo del direttore di eddyburg al prezioso libro, RottamaItalia, inventato e curato da Tomaso Montanari e Sergio Staino, e gratuitamenteedito e distribuito da Altreconomia. Rispetto al testo riportato nel libro abbiamo aggiunto alcune note a pie' di pagina
Altreconomia.it 19 settembre 2014
«I romani considerarono tutte le res in publicu usi, le cose di uso comune, come beni appartenenti al popolo, ed extra commercium. Essi ci hanno insegnato che per tutelare un bene di uso comune, cioè in proprietà collettiva del popolo, occorre porlo fuori commercio. L’esempio moderno di questa concezione è dato dai beni demaniali, che sarebbero pertanto inalienabili, inusocapibili e inespropriabili. Questo principio è tuttavia oggetto di una serie di travisamenti, fino ad arrivare al decreto legislativo 85/2010, il cosiddetto “federalismo demaniale”, che ha trasferito i demani statali, idrico, marittimo, minerario e culturale alle Regioni, e disposto che queste -dopo aver valorizzato i beni- li possano vendere a privati. Quanto disposto è oggi in via d’attuazione, e noi vediamo che sono state vendute a privati quasi tutte le isole della Laguna veneta, che è in vendita il monte Cristallo sopra Cortina d’Ampezzo, che in Umbria è in vendita la tenuta di Caicocci. Questo provvedimento è palesemente incostituzionale, ma nessun soggetto deputato a farlo (le Regioni) ha fatto ricorso alla Corte ‘in via principale’».
In che modo il diritto romano può rafforzare la “dottrina dei beni comuni”?
Il territorio dal punto di vista fenomenico è un luogo, dal punto di vista della qualificazione giuridica se ne è parlato invece in dottrina di “bene comune”. La teoria dei beni comuni, che ha avuto un forte impatto sull’immaginario collettivo, non prende tuttavia in considerazione il fenomeno giuridico essenziale dell’appartenenza del bene, e si preoccupa solo della sua destinazione ad uso pubblico, dichiarando che non è importante stabilire se è in proprietà pubblica o privata. A me sembra, invece, che occorra partire dall’idea che l’intero territorio appartiene al popolo, a titolo di “sovranità”, e che la proprietà privata è una cessione di parti del territorio che il popolo sovrano fa a singoli soggetti.
Che cosa comporta questa sovranità popolare?
L’appartenenza del territorio al popolo implica che le leggi contribuiscano a una distribuzione equa dello stesso tra demanio diretto, ad uso pubblico della comunità, e territorio in proprietà privata. Oggi, invece, la proprietà privata è di gran lunga superiore a quella demaniale, e come se ciò non bastasse si provvede vorticosamente alla sdemanializzazione degli ultimi beni. Questo appare in contrasto con l’articolo 42 della Costituzione, che distingue la proprietà in pubblica e privata, intendendo con l’uso dell’aggettivo pubblico -come precisò l’illustre giurista Massimo Severo Giannini- proprio i beni demaniali.
Poi, però, l’Assemblea costituente ha modificato questa situazione: in che modo?
Questa scissione, foriera di danni incalcolabili per la collettività, è stata ricomposta dalla Costituzione repubblicana, la quale all’articolo 42 riconosce la proprietà collettiva demaniale, e si preoccupa di condizionare alla funzione pubblica la proprietà di quei beni che producono utilità eccedenti le strette necessità individuali e familiari. Sicché, oggi, la Costituzione riconosce come inviolabili soltanto i diritti di proprietà privata cosiddetti personali, come il diritto ai vestiti, alle scarpe, ad una utilitaria, alla prima casa, alla minima unità colturale, alla coltivazione diretta, mentre la grande proprietà privata -quella dell’industria e quella agricola- che produce utilità eccedenti i bisogni individuali resta sottoposta a una “funzione sociale”, cioè alla necessaria redistribuzione di utilità fra tutti i cittadini. Ciò è ribadito anche dall’articolo 41, che afferma che l’iniziativa economica privata è libera, ma non può essere in contrasto con l’utilità sociale né recare danno alla sicurezza alla libertà e alla dignità umana.
La tutela giuridica, poi, non c’è per un “diritto a costruire” che non esisterebbe proprio. La maggioranza dei cittadini è convinta che la proprietà privata abbia come contenuto del suo diritto uno ius edificandi, che però è falso. Poiché il diritto di modificare un territorio costruendo, cementificando e impermiabilizzando spetta a chi ne è proprietario, cioè è uno dei poteri sovrani del popolo, di fronte alla distruzione del paesaggio ogni cittadino può opporre la propria azione popolare sovrana.
Riferimenti
Sull'argomento si veda su eddyburg la recensione al libro di Paolo Maddalena Il territorio bene comune degli italiani, di Francesco Erbani , Quel bene di tutti chiamato paesaggio. Inoltre Il consumo di suolo e la mistificazione del ius aedificandi e Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria.Contributo alla teoria dei beni comuni di Paolo Maddalena.
La Repubblica, 13 settembre 2014 (m.p.r.)
Comunicazione è una parola di cui tutti credono di conoscere il significato e viene usata nelle circostanze più diverse… Per esempio, sin da tempi immemorabili, si è parlato di vie di comunicazione, come le strade romane, e di mezzi di comunicazione per quelli che si chiamano anche mezzi di trasporto, come i carri, le navi, i treni e gli aerei. Pensate alla sorpresa del turista che ad Atene vede grandi automezzi con sopra scritto metaphora. Dapprima si ammira la grandezza umanistica di quel popolo, poi ci si accorge che si tratta di automezzi che si occupano di traslochi: E infatti trasporto è stato chiamato nel mondo classico l’artificio metaforico che traspone il significato di un termine letterale a un termine figurato. Quindi si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano e Roma.
Il testo di Umberto Eco è un capitolo dell’intervento tenuto ieri a Camogli, al Festival della Comunicazione e intitolato “Comunicazione: soft e hard”. Fra gli ospiti del festival (che si chiude domani), Augias, Bartezzaghi, Calabresi, Deaglio, Freccero, Lerner, Gubitosi, Ottone, Rampini, Settis
L’ultimo episodio (dopo il risibile tentativo di giustiziare Barbara Spinelli per il presunto reato di assenteismo dalle sedute del Parlamento europeo) è una polemica sorta per il fatto che Nichi Vendola, uno dei sostenitore della lista "L’altra Europa von Tsipras” avrebbe espresso la sua disponibilità, in quanto Presidente della Regione Puglia, a in insediamento petrolifero a Taranto. Quest’ultimo episodio mi sollecita a esprimere qualche considerazione che da tempo vorrei condividere: con i lettori di eddyburg, con chi ha aderito alla lista “con Tsipras” e vorrebbe, come me, proseguire quel fecondo tentativo nel contesto nazionale, nonché con chiunque altro sia interessato.
1. Una premessa
Ho aderito con entusiasmo all’avventura della lista “L’altra Europa con Tsipras” e sono stato molto soddisfatto del suo successo – pur consapevole dei limiti, di qualche errore, e delle conseguenti difficoltà che si preannunciavano per la sua prosecuzione in un orizzonte non più europeo ma solo italiano. Non enuncerò le ragioni di questi sentimenti perché le ho trovate espresse in modo limpido e acuto nell’intervento di Marco Revelli del 19 luglio 2014, che proprio perciò ho inserito con evidenza in eddyburg.it.
Ho seguito, seppure con molte difficoltà e quindi con intermittenza, il dibattito che si è sviluppato successivamente, condividendone l’orientamento generale (come riprendere e consolidare l’esperienza europea nell’ambito nazionale), ma rimanendo spesso smarrito e perplesso per la sua confusione, per la frammentarietà, per la frequente presenza di accenti inutilmente polemici, inquinati da personalismi e sospetti a mio parere immotivati, spesso viziati da piccole faziosità di parte o di particina. In una parola, ho visto in quel dibattito l’espressione quella litigiosità che ha impedito che – dopo la scomparsa del PCI – nascesse in Italia di una nuova formazione politica antagonista di quelle dominanti (oggi sostanzialmente unite all’insegna delle “larghe intese” del renzusconismo).
Non c’era e non c’è solo questo, evidentemente, in quel dibattito nella mailing list L’Altra Europa. Se avessi pensato così mi sarei ritirato. C‘erano anche – e ci sono – perle non infrequenti di saggezza, di lucidità, di pazienza e di speranza. Soprattutto da parte di chi aveva promosso l’iniziativa europeista e vi era rimasto dentro, coraggiosamente, fino alla fine, chi l’aveva nutrita con la sua riflessione analitica e propositiva fin da prima che essa si concretizzasse “con Tsipras”, e chi aveva con volontà, spirito e capacità di sacrificio e apertura mentale, condotto concrete azioni di lotta e di organizzazione sul territorio.
2. Alcune sintetiche considerazioni sull’oggi
“L’altra Italia” non è ancora una formazione politica, e neppure un “soggetto politico”, se a questo termine vogliamo dare un significato diverso da quello di “nebulosa” o di “arcipelago”. E’, a mio parere, l’indicazione di un percorso difficile, accidentato, lungo, nel quale è indispensabile cimentarsi se si vuole che l’umanità sopravviva.
Questo percorso ha origine e speranza nel suo punto di partenza, che è appunto quella nebulosa (meglio, quell’arcipelago). Esso era (è ancora) composto da tre elementi: (1) un piccolo gruppo di intellettuali accomunati da un giudizio critico dell’attuale sistema economico sociale ( finanzcapitalismo, neoliberismo, neoliberalism…) e dalla volontà di individuare le tappe (teoriche e politiche) per costruire un’alternativa; (2) un insieme vasto e composito di “gruppi di cittadinanza attiva” (comitati, associazioni o parti di esse, movimenti dai contorni più o meno fluidi) spinti a critiche e proposte alternative rispetto ad azioni, progetti o proposte minacciosi nei confronti di beni ritenuti essenziali (risorse naturali o territoriali, salute, formazione, lavoro, democrazia, ecc.); (3) due partiti politici, residui del disfacimento dei grandi partiti della sinistra storica, entrambi caratterizzati, sia pur diversamente da una medesima tensione anticapitalistica.
La diversità tra queste tre componenti è la ragione principale sia degli aspetti positivi che di quelli negativi della prosecuzione dell’iniziative “con Tsipras”. La presenza di PRC e di SEL nella lista “con Tsipras” ha probabilmente scoraggiato molti a votare per essa; ma è certo che senza il contributo dell’organizzazione e dei militanti di quei partiti il risultato elettorale, e la stessa partecipazione al voto, non ci sarebbero stati. Lo stesso, ovviamente, si potrebbe dire per ciascuna delle altre componenti.
Ciò detto, peraltro, penso che il problema rimanga aperto. L’aspirazione a costruire un nuovo soggetto politico, e addirittura una nuova formazione politica (dotata perciò di una propria riconoscibile ideologia, una propria strategia politica, un proprio programma a lungo e a breve termine, una propria organizzazione) confligge con la presenza, all’interno della nuova formazione, di strutture da essa differenti. E la diversità tra le tre componenti non sopporterebbe lo scavalcamento del problema mediante la formazione di una “federazione”.
Se da una parte è auspicabile lo “scioglimento” di SEL e PRC nell’”Altra Italia” (ma allora perché non anche lo scioglimento delle altre strutture “non-partitiche” che hanno nutrito la lista “con Tsipras”), dall’altra parte, come si può ragionevolmente chiedere ai militanti di formazioni politiche esistenti di abbandonarle per aderire a una che ancora non esiste? Dobbiamo mantenere aperta la contraddizione, lavorare per risolverla, affrontarne con pazienza le conseguenze e, soprattutto, lavorare con coraggio per costruire le condizioni per superarle.
3. Quali sono le condizioni
La condizione essenziale è che si riesca davvero a dar vita a una nuova formazione politica. Per tale intendo un gruppo di persone che sia dotato di:
1. una propria riconoscibile ideologia, cioè, per dirla con A. Asor Rosa, di un «sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si muove in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro», oppure, per adoperare le parole di T.A. Van Djik, «un insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri, che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali».
2. Una propria strategia politica, cioè una visione chiara dell’obiettivo che su vuole raggiungere (il progetto di società) della distanza che c’è tra quel progetto e il contesto nel quale si opera, e dei passaggi che sono necessari per realizzarlo a partire dalla condizione data.
3. Un proprio conseguente programma a lungo e a breve termine, capace di precisare e via via realizzare nel tempo il proprio progetto, conquistando progressivamente le forze (ideali, culturali, materiali, sociali) capaci di condurre a compimento il progetto.
4. Una propria organizzazione, capace di seguire il percorso assicurando due necessità non eliminabili: quella di contrastare e prevalere su progetti di società alternativi; quella di durare nel tempo.
Sono convinto che fuori da un quadro siffatto non ci sia politica, ma solo testimonianza: quindi solo nobile espressione della volontà e necessità di cambiare il mondo, non reale capacità (o almeno speranza) di poterlo fare.
4. Che fare subito
La prima cosa da fare è non agire come se oggi già esistesse la nuova formazione italiana che vorremmo. L’altra Italia come soggetto politico in grado di competere con gli altri non esiste ancora, quindi è inutile chiedere che essa si pronunci su ciò che accade hic et nunc, e neppure su ciò che fanno, propongono, sostengono, difendono o contrastano i singoli componenti dell’avventura della lista "L’Altra Europa con Tsipras".
Possiamo – e anzi dobbiamo – chiedere alle persone che abbiamo eletto al Parlamento europeo di essere, loro si, fedeli al mandato che hanno ricevuto sulla base dei principi e interessi, delle analisi e sulle proposte strategiche e programmatiche che hanno dato vita e consensi a quella lista. Mi sembra che abbiano iniziato a farlo senza bisogno di sollecitazioni “dal basso” (le quali comunque sono sempre utili).
Possiamo e dobbiamo chiedere a loro, e a quanti hanno concorso a promuovere e a portare al suo risultato la lista “con Tsipras” di aiutarci con la loro azione e tutte le loro risorse a procedere nel programma di costruzione della nuova formazione politica. Ma anche questo mi sembra lo stiano già facendo egregiamente.
Dobbiamo essere più trasparenti nel nostro lavoro. Teniamo conto che “trasparenza” non significa solo esibizione senza veli di ciò che si pensa, dice, fa, ma è in primo luogo chiarezza, capacità di parlare con tutti e da tutti farsi comprendere. Da questo punto di vista mi sembra che la mailing list chiusa non sia un elemento positivo, ma che non aiuterebbe affatto il renderla “aperta” così com’è.
Occorre un nuovo strumento, strutturato, e costruito a partire da ciò che era il sito web della Lista con Tsipras, ristrutturandolo in funzione delle nuove esigenze, affidandone la responsabilità a una piccola squadra che dovrebbe lavorare a termine, essere valutata e, a secondo dei giudizi, confermata o rinnovata;magari, se vi è la disponibilità e il consenso, a partira da chi attualmente si occupa di comunicazione
La trasparenza dovrebbe far conoscere, a noi stessi e al mondo, tre ordini di questioni: (1) il lavoro che stanno facendo i nostri eletti della lista “con Tsipras” nel Parlamento Europeo e ciò che si prepara nelle cucine di Bruxelles e Strasburgo; (2) i documenti fondamentale del nostro percorso, a partire da quelli prodotti, in Europa e in Italia, in vista delle elezioni europee(3) i materiali che si stanno preparando e discutendo ne vari tavoli, laboratori, cantieri nei quali si sta lavorando per “L’altra Italia”, arricchiti dai commenti critici e propositivi formulati al loro riguardo; (4) quanto di interessante e utile si sta dicendo, scrivendo, facendo e proponendo in Italia e nel mondo, di positivo o di negativo, in relazione ai temi che ci interessano
Io vedrei il nostro sito come un elemento, per noi centrale, di una rete costituita utilizzando anche i numerosissimi strumenti di comunicazione informatica strutturati, gestiti da numerosi gruppi, comitati, associazioni ecc.Ve n'è un'infinità, molti anche ben strutturati, sistematicamente aggiornati, dotati di un target non sempre solo locale ma sempre strettamente legato al territorio e polarizzato sui diversi aspetti del disagio provocato da nostro comune avversario. Una simile rete (i cui nodi manterrebbero ovviamente la loro autonomia) servirebbe, al tempo stesso, come strumento di diffusione e di alimentazione del nostro sito web "L'altra Italia". (Per quanto riguarda eddyburg.it sono ovviamente disposto a collaborare. I 2mila clic al giorno che posso aggiungere agli altri sono pochini, ma è l’unione che fa la forza).
5. Concludo
Concludo tornando all’episodio che mi ha spinto a scrivere questo testo. Se L’Altra Italia non è oggi un soggetto politico, né un’associazione, né un club, né una testata giornalistica, ma solo una speranza e un percorso, che senso ha esprimersi come se fossimo qualcosa che non siamo? Con che senso giudichiamo le azioni di quelli tra i partecipanti all’avventura della lista “con Tsapris” che, secondo noi, sbagliano? E perché tenere sotto il mirino solo alcuni dei partecipanti a quell’evento e non tutti?
Dovremmo innanzitutto domandarci chi farà parte del futuro, costituendo nuovo soggetto politico, equali regole dovrà rispettare nei suoi comportamenti pubblici. Dobbiamo insomma innanzitutto concludere in modo chiaro la fase costituente in corso definendo - sia pure provvisoriamente e sperimentalmente - gli essenziali elementi di una formazione politica democratica. Cercando di essere in questa fase più inclusivi che esclusivi, visto che siamo ancora molto meno di quanti potremmo essere. Se, almeno, vogliamo fare politica e non solo testimonianza.
Questo ci renderà oggi più difficile, o addirittura impossibile, partecipare alle prossime scadenza politiche nazionali come espressione della lista “L’altra Europa con Tsipras”? Può essere. Ma se davvero vogliamo cambiare il mondo dobbiamo sapere che ciò richiede un lavoro di lunga lena, e che non abbiamo la forza di imporre alla storia, da soli, le accelerazioni che vorremmo.
P.S.
Potete commentare questo testo usando la finestrella "aggiungi un commento" che c'è in fondo a ogni articoli. Non prometto di rispondere a tutti (il tempo che mi lascia la gestione quotidiana di eddyburg è poco), ma di leggervi si; e magari potrò chiedervi di sviluppare le vostre argomentazioni. Grazie comunque dell'attenzione e.
nella traduzione di Pietro Marchesani, la rubiamo dal blog di Paola Somma (http://amoscrivere1258.wordpress.com/)
Contributo alla statistica
Su cento persone:
corruzione, le Grandi opere, il nuovo sistema di potere. Esaminiamoli brevemente
La corruzione
Il primo versante, che ha avuto il maggiore peso nei mass media, è quello della corruzione. I risultati dell’indagine sono davvero strabilianti. Le somme di denaro distratte e impiegate per essere impiegate nelle varie forme, legittime e illegittime, è stupefacente. La pervasività della corruzione è un segnale preoccupante sull’ampiezza sociale del morbo: sembra che in Italia corrompere o essere corrotti sia la regola, e l’essere onesti l’eccezione. Già trent’anni fa Edoardo Detti, glorioso presidente dell’INU, diceva che «l’Italia è quel paese dove se vuoi rinnovare la carta d’identità devi portare al segretario comunale due polli». Per molti adempiere a un dovere d’ufficio non era un obbligo ma un piacere, che doveva essere ricambiato. Ma nell’ultimo trentennio quel “vizietto” originario è cresciuto in modo abnorme: come se fosse stato un effetto secondario della crescita della società opulenta e del disfacimento delle ideologie (cioè della capacità di credere in un progetto di società da costruire con gli altri). L’indagine giudiziaria Mani pulite svelò l’inferno in cui l’Italia era precipitata e condusse alla crisi di quella politica che aveva promosso e alimentato Tangentopoli.
Ma non riuscì a manifestarsi, contro la vecchia cattiva politica, una nuova buona politica. Poche novità positive furono introdotte per riparare i danni. Fra le poche, la buona legge Merloni per gli appalti delle opere pubbliche. Fu subito annacquata e, poco a poco, interamente rimossa. Il primo impegno che dunque si pone è, a livello nazionale, quello di restaurarla. Ma quale legislatore ha la forza, la competenza e la volontà di farlo? E quale istituzione a livello subnazionale compirà il primo passo necessario, quello di esautorare dal loro potere istituzionale quelli che sono fortemente indiziati di “complicità col nemico”, a partire dal sindaco di Venezia?
Il secondo versante è quello delle Grandi opere. Molti dicono oggi: le grandi opere sono necessarie, non si può rinunciare a farle. E dicono: non è la grandezza dell’opera che la rende necessariamente fonte di corruzioni. Quindi, avanti con le grandi opere limitandoci a colpire solo quelli che Benito Craxi chiamava “marioli”.
Ma bisogna uscire dalle affermazioni generiche ed esaminare i casi concreti. Se si farà così si scoprirà subito che c’è un nesso profondo tra corruzione e grandi opere: più grande e costosa è un’opera, più è complessa, più è necessario l’asservimento del decisore formale (il partito, l’istituzione) agli interessi dell’impresa (dispiace adoperare questa parola per indicare gli squallidi faccendieri cui è affidata la promozione e l’attuazione delle Grandi opere): è necessario ungere rotas, distribuire tangenti reali (moneta) o virtuali (assunzione di amici e parenti, viaggi e altri sollazzi). Ma le tangenti sono solo una determinata percentuale della somma incassata dall’”impresa”. Più l’opera cresce, più risorse ci sono per ungere le ruote. I due interessi del donato e del donatore s’incontrano: più l’opera è grande più ciccia c’è per i gatti.
Lo strumento che più spesso viene adoperato per rendere Grandi le opere è l’emergenza. Già lo si vide ai tempi di Tangentopoli. L’alibi sistematico è la rigidità del sistema delle garanzie, la conseguente lungaggine delle procedure, la sovrabbondanza di controlli. Invece di metter mano a una seria riforma delle procedure, e dei conseguenti apparati tecnici e amministrativi che devono gestirle, per scavalcare i controlli si inventano le deroghe. Anziché riformare lo Stato, che si è proceduto astutamente a imbastardire, se ne pratica lo smantellamento: “via lacci e laccioli”, “meno Stato e più mercato”, “privato è bello”.
In questa logica l’effettiva utilità dell’opera ai fini dichiarati non conta nulla, né contano i suoi “danni collaterali”, e neppure la sua priorità. L’unica utilità presa in conto è nella dimensione e nella possibilità di giustificare l’impiego di procedure eccezionali, dotate di due requisiti: l’opacità e la discrezionalità.
Basterebbe tornare alle analisi già fatte per le grandi opere per rendersene conto. Eddyburg gronda di documenti in proposito: dal Mose al Ponte sullo stretto, dalla Tav Val di Susa alle decine di autostrade, bretelle, tangenziali, raccordi, ai nuovi ospedali e parcheggi e stadi. In quasi tutti i casi l’analisi dimostra che la Grande opera provoca più danni che vantaggi, che essa è del tutto inutile oppure che quella esigenza cui l’opera finge di voler rispondere potrebbe essere soddisfatta con una spesa pubblica minore oppure che non è prioritaria rispetto ad altre più pressanti esigenze.
Una moratoria di tutte le Grandi opere in corso di esecuzione o decisione e un attento esame, a partire dalla legittimità, della necessità, del danno e delle alternative possibili: queste sono le decisioni che in un paese civile dovrebbero esser prese. Ma l’Italia è un paese serio? Da decenni le cassandre dicono di no; e Cassandra, come è noto, ci azzeccava sempre.
Il terzo versante sul quale lo scandalo veneziano deve essere valutato, e utilizzato per tentar di correggere le storture che ha reso evidenti, è il sistema di potere che ha svelato. L’indagine non è ancora conclusa e si spera che vada fino in fondo. Ma già da quanto ha svelato appare chiaro che le decisioni sugli interventi che trasformano il territorio, (la vita che su di esso si svolge, le stesse direzioni dell’economia, il sapere e la ricerca) non erano assunte dai poteri istituzionali, che avrebbero dovuto (è amaro dover adoperare il condizionale) esprimere l’interesse generale, o almeno quello della maggioranza degli elettori, ma da un gruppo di aziende private: aziende che, avendo abbandonato ogni spirito correttamente “imprenditoriale”, aveva sostituito al “libero mercato” una spietata oligarchia.
E’ interessante osservare che al centro di quella oligarchia c’era inizialmente un’ Azienda (la FIAT con la sua Impregilo) che, negli anni Settanta, era stata la prima ad abbandonare il suo impegno nel campo della ricerca e dell’innovazione – essenziale per una moderna politica industriale – per dedicarsi ai settori delle speculazioni immobiliari e finanziarie, trovando più facile raccogliere rendite che rischiare nella ricerca del profitto imprenditoriale. La FIAT-Impregilo, fu tra i primi e più potenti gruppi che costituirono, con il patrocinio dei ministri “riformisti” Nicolazzi e De Michelis, il Consorzio Venezia Nuova, ed è stata poi sostituita dalla Mantovani, oggi al centro della bufera giudiziaria.
L’indagine aperta dai magistrati veneziani illumina però una parte soltanto del gruppo potere politico-economico che domina lo scenario veneto. Sarebbe umiliante per loro non riconoscere il ruolo notevole che hanno svolto altri soggetti: altre grandi potenze pubblico-privato con i quali la politica ha dovuto spesso fare i conti: come l’ente Porto di Venezia, accanito promotore di una nuova Grande opera che sventrerebbe ulteriormente la Laguna di Venezia, e come la SAVE, padrona degli aeroporti di Venezia e Treviso e promotrice dell’operazione immobiliare Tessera city, sul bordo Nord-Est della Laguna.
Così come sarebbe difficile comprendere l’egemonia che il CVN ha conquistato nell’opinione pubblica veneziana e veneta, nazionale e internazionale senza indagare nella trama dei rapporti tra il mondo delle attività immobiliari, quello delle banche e relative fondazioni, quello dei mass media e – last but not least, quello della cultura e dell’università. Per costruire una mappa precisa del potere a Venezia e nel Veneto non sarebbe però giusto affidarsi solo al lavoro alla magistratura, la cui responsabilità si arresta al limite tracciato dalle azioni contrarie alla legge. Ora non sono solo le truffe e la corruzione diretta le uniche armi di cui dispongono i poteri economici per conquistare il consenso e impadronirsi del dominio.
Nel primo polo dominano l’ideologia e la prassi del neoliberismo tatcheriano e reaganiano, che ha pervaso grandissima parte della partitocrazia europea. Esso costituisce il puntello istituzionale di quei “poteri forti” che hanno provocato la crisi finanziaria e pretendono di uscirne estendendo il saccheggio dei beni comuni – dal lavoro all’ambiente, dalla cultura ai diritti personali.
Nel secondo polo, il Parlamento eletto direttamente dai cittadini europei, possono esprimersi posizioni ideali e pratiche diverse: possono ottenere visibilità e guadagnare consensi le voci nelle quali si manifesta il disagio per le condizioni materiali e morali che il neoliberismo ha provocato. Oggi i poteri del Parlamento europeo sono fortemente limitati. Rimuovere questi limiti significa anche dare peso alla dimensione politica dell’Europa che soffre e che vuol cambiare.
La terza ragione è che l’Unione europea ha poteri in molte materie che condizionano direttamente le condizioni d vita delle popolazioni di tutti i popoli dell’Europa – nonché quelli di molti popoli che verso l’Europa si affacciano, a partire dal Mediterraneo. Pensiamo a temi e materie come l’agricoltura e l’ambiente, le grandi reti infrastrutturali e l’energia, la difesa (lo stesso scandalo dei micidiali e costosissimi F35 è un programma targato Europa) e le politiche migratorie (oggi dominate dai due mostri della repressione e dello sfruttamento).
E pensiamo al tema, secondo me rilevantissimo, della formazione e della ricerca, campi nei quali l’orientamento delle politiche e dei finanziamenti europei ha un fortissimo peso. E’ perciò a cominciare dall’Europa che dobbiamo porci un interrogativo essenziale per il nostro futuro: vogliamo che formazione e ricerca siano orientati a facilitare, consolidare, propagandare, radicare ulteriormente l’ideologia e i meccanismi utili al finanzcapitalismo, oppure vogliamo che siano dirette a studiare, proporre e sperimentare i modi per costruire un mondo più buono e più giusto, più amichevole e più durevole?
Infine, le elezioni del 25 maggio ci danno una grande occasione per tentare di costruire, in un’Italia, meno chiusa tra i suoi confini nazionali, una nuova forza politica, nettamente alternativa a quelle che da trent’anni (diciamo da Craxi a Renzi) dominano incontrastate nel nostro Paese: una sinistra “radicale” perché vuole correggere i mali, le inequità, le distorsioni andando alle loro radici.
Il programma
Non ho intenzione di riassumere in poche righe il programma politico della lista “l’altra Europa con Tsipras”. Mi limito a commentarne alcuni punti
«Porre fine all’austerità e alla crisi» è la prima delle priorità politiche della lista Tsipras». Impossibile non essere d’accordo. Infatti nell’accezione neoliberista, fatta propria dai governi europei e da Bruxelles, “austerità” altro non significa che accrescere ed estendere il potere e la ricchezza dei poteri forti del finanzcapitalismo, proseguendo nel processo di privatizzazione, mercificazione, dissipazione dei beni comuni essenziali alla civiltà – e alla stessa sopravvivenza dell’umanità: dall’acqua alla cultura, dall’arte al lavoro, dalla salute alla sicurezza. Questa è l’austerity contro cui vogliamo combattere.
Ma nella cultura della sinistra radicale italiana c’è un’altra idea di austerità: quella proposta da Enrico Berlinguer. Un concetto di austerità che – per sintetizzarlo al massimo – significa sfuggire alla spirale infinita e mortifera dello sviluppo opulento, nel quale la produzione di plusvalore (di sfruttamento del lavoro) viene alimentato dall’induzione di bisogni sempre più lontani dalle reali esigenze delle persone, per poter in tal modo contribuire a sollevare dalla miseria i popoli dei “terzi mondi”.
La seconda priorità politica della lista Tsipras è «mettere in moto la trasformazione ecologica della produzione». Lavoro e ambiente sono i due beni comuni più direttamente minacciati dallo sviluppo capitalistico, e quindi la conversione della produzione (cioè dell’impiego del lavoro) per renderla compatibile con i limiti posti dalle risorse del pianeta Terra è un passo essenziale. Ma analoga conversione è necessaria sull’altro corno dell’economia: il consumo. E’ insomma l’economia nel suo complesso che deve essere resa compatibile con quei limiti.
La terza priorità politica della lista Tsipras è costituita dalla «riforma della struttura dell’immigrazione in Europa». Si apre qui una questione che mi sembra di grande rilievo per almeno due aspetti: il primo è quello dei diritti dei migranti, il secondo è quello dei confini dell’Europa.
Un ultimo punto vorrei toccare e riguarda la proposta programmatica di un «new deal europeo». Ciò di cui abbiamo bisogno è di qualcosa di analogo a quel Piano del lavoro che la CGIL, allora guidata da Giuseppe Di Vittorio propose nel 1948 . Se il lavoro, come credo, non è una merce ma un bene, se il lavoro è, come ha scritto Claudio Napoleoni, «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini», se è lo strumento mediante il quale l’uomo puà comprendere e trasformare il mondo in tutte le sue dimensioni, allora dobbiamo decidere oggi quali sono i fini che riteniamo oggi socialmente essenziali.
Dobbiamo proporre, in Europa e in Italia, un programma che consenta di impiegare tutta la forza lavoro disponibile per le opere necessarie per assicurare al nostro territorio, alla porzione dell’"habitat dell’uomo” che ricade sotto il nostro governo, la tutela e lo sviluppo delle qualità naturali, storiche, sociali già presenti. Autorevoli promotori della lista Tsipras, come Guido Viale e Luciano Gallino hanno reiteratamente argomentato e proposto i contenuti d’un nuovo Piano del lavoro, finalizzato al raccordo tra due grandi patrimoni: su un versante, la disponibilità di forza lavoro qualificata, a tutti i livelli e con tutte le articolazioni necessarie, sull’altro versante, la gigantesca fame di attività necessarie per affrontare i problemi impellenti della stabilità idrogeologica, della messa in valore dei nostri patrimoni naturali e culturali, dell’apprestamento delle opere e dei servizi necessari per la formazione, la salute, l’assistenza, il risanamento e l’utilizzazione equa del patrimonio immobiliare pubblico e privato.
Quali risorse utilizzare per realizzare un simile programma? Anche su questo argomento non mancano le proposte. Innanzitutto la drastica riduzione delle spese militari nel rispetto dell’art. 11 della Costituzione, a cominciare dall’arresto del programma degli F35, e delle nuove fregate multimissione. Poi la riconversione dei finanziamenti destinati alle grandi opere inutili e dannose. Last but not least, la realizzazione di una fiscalità conforme alla Costituzione, quindi realmente progressiva, estesa, che colpisca gli evasori piccoli e grandi, che tosi i patrimoni ottenuti con la speculazione immobiliare e finanziaria e ne impedisca l’ulteriore accrescimento.
Concludo con le parole di Alexis Tsipras:
Per rendere possibile il cambiamento che vogliamo «dobbiamo alterare l’equilibrio del potere politico. Il neo-liberismo non è un fenomeno naturale ne qualcosa di invincibile. È solo il prodotto di scelte politiche in un particolare equilibrio storico di forze. E’ questo equilibrio di forze che dobbiamo concorrere a mutare».
ASSIDUA RICERCA
Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze
le lucide menti
le lotte senza respiro
l’assidua ricerca del vero
hanno nutrita.
Con l’altrui dolore
l’umano confronto
e le parole dette
sul pane, la casa, la pace per tutti
non bastarono
come le lacrime che lavano l’offesa
e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.
Un canto ci voleva per tutti i petti
Postilla
Questa poesia l'avevamo scelta un paio d'anni fa (la trovate anche nell'archivio del vecchio eddyburg) tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padova 2011, editrice Il Torchio.
E’ una poesia scritta negli anni anni in cui dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché , come ha scritto Busetto, «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu. Gli anni che stiamo attraversando sono solo "diversamente brutti". Speriamo che quel canto oggi ci sia... o magari domani.
I ladri di parole sono ladri di pensieri, perché i pensieri sono fatti di parole: quindi ci rubano uno dei tesori più preziosi che abbiamo.
I ladri di parole parlano e scrivono all’unico scopo di incrementare i loro effetti predatori: più parlano e scrivono, più rubano parole.
I ladri di parole spesso usano l’artificio della ripetizione all’infinito di una parola rubata per sottrarla gradualmente ma completamente al suo significato originario e farne qualcosa d’altro a cui in molti finiamo per credere: rubando così – appunto – anche i nostri pensieri.
I ladri di parole insomma sanno ingannare con le parole truccate, anche perché spesso comandano nei media e non solo.
I ladri di parole chiamano libertà la loro estensione di dominio; per converso, chiamano lacci e lacciuoli qualsiasi ostacolo possa moderare detta estensione.
I ladri di parole chiamano moderazione la loro onnipotenza, chiamanomercato la loro ingordigia, chiamano ordine e stabilità il loro dominio.
I ladri di parole chiamano sicurezza la sorveglianza; e quanto alla sicurezza vera, quella ad esempio sul lavoro, vale quanto detto sopra a proposito dilacci e lacciuoli.
Il ladri di parole chiamano flessibili coloro che invece spesso si spezzano: e in realtà sono totalmente ed etimologicamente precari, cioè costretti alla preghiera, alla supplica.
I ladri di parole chiamano segnalazioni o – peggio – sensibilizzazioni quelle che invece sono e restano le classiche raccomandazioni.
I ladri di parole, se fanno i top manager o i mega imprenditori, chiamanocriticità i buchi di bilancio che hanno creato; nel caso, implorano il sostegno dello Stato, dimenticandosi all’improvviso i lacci e lacciuoli di cui sopra.
I ladri di parole a volte non si rendono neppure conto di essere un po’ ridicoli: come quando chiamano azioni quelle fonti di guadagno che invece non implicano nessun agire; o società un’azienda in cui comandano da soli; ofinanza una prassi che al contrario vorrebbero infinita, nelle quantità così come nel tempo; ma è buffo anche il destino di economia, che conterrebbe in sé il concetto di regole, nomia, invece è stato ribaltato affinché queste, in economia, siano sempre meno.
I ladri di parole però a volte le regole le invocano, come ad esempio quando si occupano di Internet: in questo caso, chiamano pirati i ragazzi che scaricano un film, ma mai le corporation che hanno sottratto una storia o un personaggio alle fiabe popolari per imprigionarli nel proprio copyright.
I ladri di parole tuttavia non abitano solo in detta economia, ma (assai densamente) anche in politica: altra parola rubata, dato che contiene in sé l’attenzione al destino della polis e non di chi la comanda e, spesso, la distrugge; a questo proposito è stato interessante, di recente, l’uso spericolato dei binomi antipolitica vs. politica e giustizialismo vs. garantismo; anche se le truffe più acclarate sono responsabile per chi pensa solo a se stesso epacificazione per la propria occupazione a vita dell’establishment: e pazienza se gli esclusi invece non si danno pace.
I ladri di parole, da sempre, chiamano ingenui gli idealisti e uomini di mondo i mascalzoni.
I ladri di parole della politica, tuttavia, puntano a obiettivi anche maggiori, ad esempio rubando parole importanti e storiche come sinistra, destra, cristiano,liberale o progressista per scopi che nulla hanno a che vedere con i valori di queste parole e che riguardano invece solo i destini personali o di cricca di chi le pronuncia.
I ladri di parole sono senza vergogna: e se Altiero Spinelli sentisse oggi quelli che si autodefiniscono europeisti, probabilmente emigrerebbe in Oceania.
I ladri di parole sono servili: e qualsiasi cosa dica il Presidente della Repubblica, comunque lo chiamano monito.
I ladri di parole coniano anche formule nuove, purché a loro convengano: daarco costituzionale, tanto tempo fa, a decreto salvaitalia, pochi anni orsono; giù giù fino a esecutivo di servizio, governo del fare e larghe intese; anche se la più bella, la più spettacolare, la più grottesca resta senz’altro missioni di pace.
I ladri di parole chiamano estremismo il buon senso e riformismo la perpetuazione dello status quo, in un ribaltamento a cui ormai hanno finito per credere in molti, perché appunto chi ci ruba le parole ci ruba il pensiero.
I ladri di parole – lo abbiamo visto da poco – sanno confondere volutamentediritti e privilegi: per garantire che i primi – quelli erga omnes – siano pochi; e i secondi – quelli erga paucos – siano conservati.
I ladri di parole chiamano emergenze i disastri cronici, di cui si accorgono e parlano solo quando dette false emergenze sono utili per drenare consenso o ottenere altri vantaggi; più in generale, far passare per emergenza un problema cronico serve ad assolvere chi cronicamente comanda: mica è colpa nostra, è un’emergenza, quindi accidentale e imprevedibile.
I ladri di parole chiamano nostri ragazzi se non eroi chi ha sventuratamente e per sbaglio sparato a due innocenti pescatori in India, ammazzandoli; il che per logica trasformerebbe in nostri ragazzi ed eroi tutti gli automobilisti che sventuratamente e per sbaglio hanno investito e ucciso un paio di innocenti pedoni in città.
I ladri di parole oggi non hanno più paura che il popolo possieda «1.500 parole e invece di 150», come ai tempi di don Milani: perché hanno capito che anche chi possiede un po’ di parole può essere persuaso, giorno dopo giorno, a credere al significato che i ladri di parole stessi a quelle parole hanno dato; basta possedere un volume più alto per emetterle e distorcerle.
I ladri di parole oggi irridono il mascherato Guy Fawkes, illuso che «le parole non perderanno mai il loro potere»: perché sanno che ormai è il potere a fare le parole e non il contrario.
Rovesciare i loro rovesciamenti, ogni giorno, è quindi l’unica chance che abbiamo per rovesciarne il potere: parola per parola.
Obra en marcha: Poesìa, 1965-1980 (Editorial Costarica, 1982, p.186), e dedicata a chi lotta per la difesa degli spazi pubblici
Alfonso Chase Le piazze sono i palazzi del popolo
Le piazze sono i palazzi del popolo
Sull’asfalto o la pietra
il passaggio è un coltello
e ogni labbro un grido
Da strada a strada il mondo cresce.
Credo che in ogni piazza
d’angolo in angolo e da strada a strada
il popolo si svela
Ci guardiamo ciascuno faccia a faccia
ognuno riconosce ciascun altro e diventa più forte
Prendi qualche parola dimenticata
e falla tua
così come quando fai l’amore
o senti l’aria.
La casa del popolo sono le piazze
e siamo lì tutti e nessuno.
Merlo sostiene nel suo articolo che »la Provincia è come la coda della lucertola, quando la tagli ricresce. Nessuno è mai riuscito ad abolirla, è uno degli impossibili della politica italiana, come la riforma della Rai. L’ente inutile degli stipendi inventati, del nascondimento della disoccupazione e delle clientele, la piccola patria degli uscieri, il centro di spesa del keynesismo straccione ha questa misteriosa facoltà di resurrezione».
Vorrei ricordare molto sommariamente i fatti. Quando la Repubblica subentrò alla monarchia fascista già da tempo si sapeva che non esisteva più una contrapposizione netta tra città, - grandi, medie e piccole - paesi, e campagna, e che le relazioni tra città e paesi limitrofi stavano divenendo tali da richiedere strumenti, come si dice in gergo, di “area vasta”. Una serie di esigenze (dai trasporti locali allo smaltimento dei rifiuti, dalla localizzazione delle attività produttive e commerciali alla razionalizzazione dell’agricoltura, dalla tutela dell’ambiente, a quella del paesaggio dall’organizzazione scolastica a quella sanitaria e alla politica della casa) richiedevano che l’impiego del metodo e degli strumenti della pianificazione del territorio fosse praticato non solo alla scala urbana (e questo lo si era compreso da tempo, perfino in Italia) ma anche nella “dimensione d’area vasta”. I padri costituenti pensarono che l’istituzione delle Regioni avrebbe risolto il problema. Ma di fatto, grazie allo spntaneismo cui era stata lasciata la ricostruzione postbellica negli anni Cinquanta l’urbanizzazione aveva pesantemente modificato l’organizzazione e la vita dell’insediamento e la vita degli uomini sul territorio: le relazioni tra le varie parti dell'habitat dell'uomo erano diventate più fitte e intrecciate.
Per organizzare in modo efficace una serie le esigenze la dimensione della regione era troppo ampia e quella comunale troppo stretta. Si tentarono molte strade. Si cercava (questa era la logica di quegli anni lontani) la pianificazione che fosse “democratica”, quindi di titolarità pubblica e praticata da istituzioni elettive dai cittadini. Era necessario un livello intermedio” tra regione e comuni, soprattutto per quei problemi cui abbiamo accennato: dove trovarlo?
Si tentò la strada dei Comprensori, in varie versioni: o come articolazione tecnico-burocratica della regione, o come associazioni di comuni. Entrambe fallirono. Nel primo caso l’istituzione dominante era la regione, nel secondo caso era un ente elettivo di secondo grado (i membri del suo consiglio non erano eletti dai cittadini ma dai consigli dei comuni che erano compresi nel suo ambito). Ci si accorse che mentre i comprensori come emanazione delle regioni incontravano l’ostilità dei comuni, la forma associativa era inefficace perché ogni membro del consiglio rappresentava il proprio comune, e quindi l’accordo era di fatto impossibile. Del resto, modificare la Costituzione per inserire, accanto a regione, provincia e comune anche il comprensorio avrebbe richiesto troppo tempo. A qualcuno venne un’idea abbastanza ovvia: perché non "recuperiamo le istituzioni esistenti"? Esistono le province, inventate dall’ordinamento napoleonico proprio per risolvere quelli che nel XIX secolo erano i problemi d’area vasta (la riscossione dei tributi, la vigilanza contro l’ordine pubblico). Partiamo da questo
Negli ordinamenti di radice napoleonica si era proceduto in questo modo. Tenendo conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, si erano tracciati i confini delle province sulla base di ragionamenti squisitamente territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato. Con la Costituzione repubblicana le province erano diventate istituzioni rappresentative elettive di primo grado, cioè elette direttamente dai cittadini, e le loro funzioni si erano già arricchite in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola.
Nell’ambito dello stesso ragionamento si affrontò un altro problema: quello delle aree metropolitane, parti del territorio dove la continuità edilizia, la prevalenza delle relazioni interne su quelli verso l’esterno, le caratteristiche dell’ambiente naturale richiedevano un potere più incisivo di quello affidato alle province: competenze non solo di pianificazione ma anche di gestione. Si arrivò così a definire l’istituto delle “città metropolitane”. Nuovi poteri alle province e istituzione città metropolitane: queste furono le principali riforme dei poteri elettivi sul territorio definiti dalla legge 142 del 1990, a conclusione di un dibattito durato vent’anni.
Perché quelle riforme non vennero attuate? Accadeva un tempo che i legislatori fossero più lungimiranti della politique politicienne: le leggi erano basate sulla convinzione che la politica seguisse direttive della legge ene rispettasse le prescrizioni. Così non fu. I politici erano diventati politicanti. Le province furono considerate istituzioni di secondo livello, dove collocare il personale cui non poteva, o non si voleva, assegnare un ruolo di sindaco o di legislatore regionale. Le città metropolitane avrebbero sconvolto equilibri di potere, tra i partiti e nei partiti, che era meglio non turbare. Tuttavia, le esperienze positive delle nuove province non mancano, sebbene nessuno specifico servizio d’informazione dell’opinione pubblica sia stato fatto.
Non è detto affatto che la soluzione maturata in quegli anni lontani fosse, e sia ancora oggi, la migliore. Altri paesi hanno praticato altre soluzioni. Esaminarle nei loro specifici contesti sarà certamente utile (proveremo a farlo nel prossimo seminario di eddyburg). Così come sarebbe utile misurare i costi della mancata attuazione dell’ordinamento provinciale, e della sua abolizione. Certo è che un governo democratico d’area vasta è oggi più che mai necessario. E’ un vuoto che, in assenza di una risposta democratica, altri poteri si apprestano a colmare.
Essenziale sarebbe oggi il ruolo delle province in ordine ad alcuni problemi essenziali: dal controllo e contenimento del consumo di suolo, alla politica della casa, alla promozione dei trasporti collettivi, alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Problemi che riemergono ogni volta che un disastro naturale, o l’accumularsi di situazioni di disagio (le ferrovie dei pendolari, la mancanza di abitazioni a prezzi e in luoghi sdegiati, l’esondazione di un fiume, o la constatazione di un danno irreversibile (il consumo di suolo, la cementificazione del paesaggio) fanno versare lagrime Le province saranno forse come la coda della lucertola, come sostiene Merlo. ma le lacrime di molti opinion makers ricordano quelle di animali di forma analoga ma distazza maggiore.
Non condividiamo perciò affatto chi critica l’evento del giorno perché la magistratura avrebbe occupato uno spazio non suo facendo ciò che sarebbe stato di competenza della politica. Quel tanto di liberale che è riuscito a sopravvivere nel nostro sistema istituzionale e nella Costituzione garantisce appunto quell’equilibrio tra i tre poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale) distinti ma concorrenti nel garantire l’interesse generale, anche là e dove uno dei tre non svolge appieno il proprio ruolo.
Come nel caso dell’indagine “mani pulite” la magistratura ha svelato oggi la profondità e l’estensione dell’illegittimità che la malapolitica aveva provocato o tollerato nell’amministrazione della cosa pubblica: in quegli anni per opera di Craxi e del suo partito (e invano denunciato da Enrico Berlinguer), oggi per opera di quel Berlusconi che del Craxi fu beniamino e, di fatto, erede.
Se la magistratura ha potuto, com’ era suo dovere costituzionale, ripristinare il diritto non ha potuto però (e non è sua responsabilità farlo) sanare il danno compiuto dal trentennio craxiano-berlusconiano (squallida versione italiana del neoliberismo della globalizzazione capitalista. Ci ha liberati da Berlusconi per quel che quel personaggio rappresentava come incitazione e pratica di comportamenti illegittimi, non della pervasiva ideologia del berlusconismo. Questo è un compito che spetta – che non può non spettare - alla politica. Un compito immane, oggi ancora più che dopo lo svelamento di Tangentopoli. Riteniamo anzi che l’ultima fase della politica nazionale (quella della “pacificazione” e delle “larghe intese”) costituisca il momento di maggior trionfo del “berlusconismo”.
Quali tortuosi percorsi occorrerà scegliere e praticare per uscire, al tempo stesso, dalla crisi dell’economia e della società e dal morbo del berlusconismo? Non se ne vedono molti. Né fulgide appaiono le luci che vediamo all’orizzonte. Perciò commentiamo questo articolo con l’antica vignetta di Altan dove la sconsolata signora esclama: “ho avuto un incubo: c’era il dopo-Berlusconi e che a me mi toccava pulire e rimettere in ordine”.
'"io" al “noi” dopo l’ubriacatura distruttiva dell’individualismo può comportare i rischi dei recinti. Come esiste il “duale” tra il singolare e il plurale perché non coniare una parola per un “noi” inclusivo? Il manifesto, 29 maggio 2003
«Le nuove identità nell’epoca dei social network . Da Kant a oggi cosa sta a indicare il pronome fondativo di gruppi, classi e comunità»
Se l’io è, secondo Pascal, il più detestabile dei pronomi, il noi è il pronome più misterioso. Poniamo che quattro persone giochino a poker e che qualcuno chieda loro che cosa stiano facendo. Una risposta come «io sto giocando a poker, e anche lui, e anche lui, e anche lui» suonerebbe a dir poco strana. La risposta ovvia è «noi stiamo giocando a poker». Ora, in questo “noi” si nascondono parecchi enigmi del mondo sociale che hanno interessato i filosofi (e su cui ritorna proprio in questi giorni Roberta De Monticelli in un capitolo centrale di Sull’idea di rinnovamento,Raffaello Cortina): che cosa intendiamo davvero dire, e fare, quando diciamo “noi”?
Il punto più rilevante è che, contrariamente alle apparenze, l’uso del “noi” è funzionale, più che a u na identificazione, a una esclusione. Dal “noi spiriti liberi” di Nietzsche al “noi padani”, al “noi moderni”, lo scopo principale del “noi” sta nel costruire una aggregazione, in cui un singolo si autonomina rappresentante di una classe, ma, ancor più, nel generare il fantasma dei “loro”, degli altri, di quelli che non sono noi. In questi casi, a differenza da ciò che accade con i nostri quattro giocatori di poker, il confine tra il “noi” e il “loro” è estremamente mobile e soprattutto infinitamentevago e manipolabile.
Ecco perché, a mio avviso, uno degli scopi centrali della filosofia come critica della ideologia deve consistere proprio nella condanna della finzione universalizzante del “noi”. Jacques Derrida è stato un campione di questa prospettiva, per esempio facendo notare come l’appello ermeneutico al dialogo e alla “fusione di orizzonti”, alla creazione di un discorso universale dotato di una piena trasparenza comunicativa era sempre sul punto di tradursi nell’evocazione di un fantasma di totalità. Ma come può esercitarsi una vigilanza critica nei confronti della costituzione del “noi”? Probabilmente, lo strumento più efficace è l’analisi dei connettivie dei contesti che rendono possibile il “noi”. Storicamente ne abbiamo avuto molte versioni, raramente rassicuranti. La prima è infatti quella del sangue e della terra, cioè l’idea che il “noi” sia assicurato dalla condivisione di certi attributi genetici e di uno spazio geografico. Ma anche l’idea che il “noi” abbia invece una base spirituale non è di per sé meno minacciosa. Basti pensare all’ambigua tesi di Fichte, nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che definiva i tedeschi come il popolo dello spirito, e poi procedeva a dire che dunque chiunque creda nel progresso dello spirito appartiene alla stirpe tedesca (mentre poteva darsi il caso dichi, non credendo nello spirito, non sarebbe stato tedesco anche se geneticamente lo era).Nella filosofia contemporanea, la risposta prevalente alla domanda sull’origine del “noi” è fornita dalla teoria della intenzionalità collettiva, proposta dal filosofo finlandese Raimo Tuomela e sviluppata da John Searle. L’idea è che ci sarebbe questo elemento primitivo e naturale (una specie di ghiandola pineale intersoggettiva) che ci fa dire “noi” invece che “io” in un certo numero di situazioni, e che sta alla base della costruzione del mondo sociale.
Qui avrei più di un dubbio, perché in effetti al “noi” ci si arriva attraverso un addestramento. È vero che un gruppo di persone in gita può dire “noi camminiamo”, ma si tratta ancora di “intenzionalità collettiva” quando a camminare è un gruppo di prigionieri tenuti sotto tiro?Se le cose stanno in questi termini, alla versione naturalistica di Searle è di gran lunga preferibile la versione culturalistica che, quasi duecento anni fa, ha dato Hegel con l’idea di “spirito oggettivo”. Quello che noi abbiamo nella nostra testa, le nostre intenzioni e le nostre aspirazioni morali non può restare in un puro mondo intelligibile, come pensava Kant, ma ha bisogno di manifestarsi nella storia.
È qui che si introduce la variante hegeliana: lo spirito ha bisogno strutturalmente di manifestarsi, di solidificarsi in istituzioni. È lì che si manifesta il “noi”: nelle costituzioni, nelle imprese e nelle tradizioni condivise. Ma, attenzione, è importante capire che questo spirito è oggettivato, non è una nostra proprietà personale.
È per questo che, in alternativa a queste forme di costruzione del “noi”, ho suggerito che l’elemento fondamentale è costruito da quello che chiamo “documentalità”. È attraverso la condivisione di documenti e di tradizioni che si costituisce un “noi”. Ed è proprio per questo motivo che la società si è dotata così presto di scritture e di archivi: per far sì che lo spirito possa manifestarsi e diventare riconoscibile, acquisendo visibilità e permanenza temporale. Da questo punto di vista, la forma più trasparente del “noi” è un documento che reca delle firme, e che manifesta con onestà i termini, i confini e gli obiettivi del “noi”, che in questa versione appare come l’accordo cosciente tra un numero definito di persone per un obiettivo riconoscibile. Oggi la documentalità è rappresentata soprattutto dal web, questo immane apparato che alcuni ottimisti sono portati a definire come l’espressione di una intenzionalità collettiva, per esempio rifacendosi al ruolo del web nella primavera araba, o più recentemente nel successo del Movimento 5 Stelle. A mio avviso però è proprio nei confronti del web che appare più che mai necessaria una vigilanza critica nei confronti della produzione di un “noi”. Perché le condizioni regolate della documentalità, quelle che appunto possiamo trovare in un atto espresso in forma esplicita (costituzione, compravendita, testamento), e cioè la riconoscibilità dei confini del “noi”, la piena consapevolezza e la solennità dell’impegno vengono meno. Pensate alle pagine di Facebook in cui il tribuno di turno chiama a raccolta i suoi sostenitori per condividere delle idee che normalmente trovano la loro forma di aggregazione nella condanna dei “loro”, degli altri. Qui si crea una illusione di intenzionalità collettiva chiaramente ingannevole. I sostenitori che scrivono “mi piace” lo fanno magari senza pensarci, tanto non sono impegnati a niente. Le quantità sono soggettive: già una decina di “mi piace” sembra indicare un consenso assoluto. I commenti sono estemporanei come i discorsi al bar, ma diversamente da quelli permangono, e soprattutto sono prevalentemente positivi, rafforzando la convinzione del tribuno di aver ragione. E il “noi”, da potenziale veicolo di intelligenza collettiva, si trasforma in una manifestazione non confortante di stupidità di massa, anzi, non esageriamo, di gruppo.
Da "Vista con granellodi sabbia. Poesie (1957-1993)" ripreso dal sito www.gironi.it
Tre gli obiettivi della “Costituente dei beni comuni”, secondo il suo promotore Stefano Rodotà: «formulare una nuova disciplina del diritto di proprietà, già in parte elaborata dalla Commissione nel 2007, provando a definire la categoria dei beni comuni e a superare così la categoria tradizionale della proprietà; perfezionare alcune proposte di legge sui beni comuni, il reddito, il testamento biologico, il territorio e la disciplina delle proposte di legge di iniziativa popolare; e istituire quella che con Gaetano Azzariti definiamo una “convenzione per la democrazia costituzionale” che dovrebbe contribuire a rafforzare, appunto, la nostra democrazia costituzionale». (il manifesto). Ci sembra che in questo quadro non possano avere un ruolo marginale due diritti: il “diritto alla città” e il “diritto al lavoro”. Su questi (e soprattutto sul primo, vogliamo in questa sede soffermarci
Questa espressione nacque dalle analisi dello studioso marxista Henry Lefebvre e risuonò nelle piazze e nelle fabbriche come rivendicazione di massa nel biennio 68-69. Esprimeva la volontà che tutti gli abitanti (cittadini e non cittadini) potessero fruire dell’insieme di beni che la città costituiva. Accessibilità (non solo in senso fisico) e partecipazione erano i due cardini di quel diritto. In Italia la rivendicazione si arricchì grazie al contributo della classe operaia, che aveva compreso che lo sfruttamento del lavoro non si combatteva restando rinchiusi nella fabbrica, e del movimento per l’emancipazione della donna, consapevole che l’ingresso nel mondo del lavoro fuori dalla “casalinghitudine” comportava la necessità di un consistente ampliamento delle dotazioni collettive della città. Essa ebbe il suo momento più significativo e ampio nello sciopero generale nazionale del 19 novembre 1968 per la casa, i trasporti e i servizi sociali, il Mezzogiorno
E’ quella rivendicazione alla base dei successi che nel ventennio Sessanta-Settanta registrarono le numerose riforme (riforme della struttura del paese, e non della sua pelle istituzionale). Lii ho definiti "gli anni del cambiamento e della speranza" Ili cammino di quelle riforme fu ostacolato fin dall’inizio dalla stagione degli attentati dinamitardi che aprirono gli “anni di piombo”.
Nei decenni successivi slogan come “meno stato e più mercato, “privato è bello”, “via lacci e lacciuoli” fecero scomparire il “diritto alla città”. Questo tema rimase solo nella riflessione di alcuni autori (tra i quali David Harvey, John Friedmann, Don Mitchell) per riesplodere nei movimenti sociali che, a partire dall’America del Sud, si propagarono nella miriade di azioni di protesta e ricerca di alternative alla condizione urbana determinata dal capitalismo nella sua fase neoliberistica. In Italia esso è riemerso nell’azione che migliaia di comitati, associazioni e altri gruppi di cittadinanza attiva promossero per opporsi alla liquidazione degli spazi pubblici, alla devastazione del verde e dei beni culturali, allo smantellamento delle faticose conquiste del welfare urbano, al peggioramento delle condizioni. ambientali, dei trasporti e degli altri elementi che concorrono a garantire la vivibilità dell’habitat dell’uomo. Emerse e si affermò, in Italia come in numerose iniziative internazionali, il tema della “città come bene comune”. E’ opportuno precisare che oggi intendiamo com“città” non più solo quella caratterizzata dalla continuità edilizia ma l’insieme degli elementi, naturali e artificiali del territorio, necessari per offrire alla società condizioni analoghe a quelle della città che abbiamo conosciuto nel nostro mondo.
Riprendere oggi il tema del “diritto alla città” coniugandolo con quello di “bene comune” impone di affrontare alcuni aspetti nodali del nostro sistema giuridico, politico e amministrativo. Ma in primo luogo si tratta luogo di prendere atto della profonda deriva culturale che si è manifestata a partire dagli anni Ottanta ; li abbiamo ricordati, recentemete, nell'eddytoriale 156. In quegli anni infatti, quasi ad accompagnare l’ascesa delle pratiche del neoliberismo e il “trionfo della rendita”, si è propagandato e fatti entrare nel pensiero corrente parole come “diritti urbanistici”, “perequazione urbanistica”, “vocazione edificatoria”, presentandole come espressive di verità scientifiche giuridicamente fondate e perciò indiscutibili. E’ di questo ciarpame che occorre in primo luogo liberarsi per procedere oltre il presente.
Il punto dal quale ripartire è l’affermazione della circostanza (oggettiva) che l’incremento di valore della rendita immobiliare (aree ed edifici) deriva dall’azione storica della collettività, e che quindi la decisione conseguente è che tale incremento, dove e quando si manifesta, deve essere attribuito alla collettività. Che un suolo oggi impiegato per le attività agro-silvopastorali, diventi impiegato o impiegabile per funzioni urbane dipende da due ordini di azioni pubbliche: la realizzazione e trasformazione, nella storia e nell’attualità, delle infrastrutture fisiche e sociali che determinano la condizione urbana; la decisione politico-amministrativa di rendere quella parte del territorio trasformabile a funzioni urbane. Nell’Italia liberale, e perfino in quella fascista il riconoscimento del carattere pubblico di queste azioni era costituito dall’obbligo, per i proprietari beneficiati dalla realizzazione di opere pubbliche, di pagare i “contributi di miglioria specifica” e dal riconoscimento che, in caso di espropriazione prevista dai piani urbanistici, non dovesse essere riconosciuto ai proprietari il maggior valore derivante dalle decisioni del piano.
Dopo i tentativi compiuti negli anni Sessanta (tentativo del ministro d.c. Fiorentino Sullo) e le sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968 (che ammisero la legittimità costituzionale di una legge ordinaria che avesse stabilito che la facoltà di edifcare non apparteneva al prioprietario ma alla collettività) si tentò di incamminarsi su questa strada con la legge 10/1977 (Bucalossi), stabilendo che la facoltà di edificare poteva essere concessa al proprietario del suolo: l’edificazione (e in generale la trasformazione urbana del territorio) non era quindi un attributo della proprietà che potesse essere esercitato sulla base di una semplice licenza, ma il risultato di una concessione che l’autorità pubblica poteva, appunto, concedere o non concedere.
La legge di fatto non fu applicata. Non solo per il clima culturale e politico completamente mutato, ma anche perché la C9orte costituzionale rilevò due gravi limiti di quella legge: (1) l’irrisorio livello degli oneri ci concessione, non equiparabili ai benefici che il proprietario ne conseguiva; (2) il fatto che si creava una disparità di trattamento tra i proprietari dei suoli non ancora edificati e quelli degli altri immobili, che potevano tranquillamente continuare ad appropriarsi dell’incremento di valore delle loro proprietà. Questi due punti deboli della legge Bucalossi indicano anche la direzione da percorrere per andare avanti, e per dare alla collettività il diritto di decidere come trasformare la città e la capacità giuridica ed economica per farlo.
Corollario importante di questa posizione è che occorre ribadire l’appartenza pubblica delle decisioni sulla città e le sue trasformazioni: contrastando le tendenze espresse dalla “legge Lupi (mai approvata definitivamente dal Parlamento ma riemersa con prepotenza nelle minacciose promesse del ministro Lupi) per la sostituzione dell’urbanistica “consensuale” o “concordata” (con la proprietà immobiliare) all’urbanistica “autoritativa” cioè pubblica.
Questo corollario ci porta al srcondo nodo che occorrerebbe, se non sciogliere, almeno rendere un pò meno soffocante: quello tra decisioni sulle trasformazioni del territorio e popolo. É la questione che nell’impostazione di Levebvre è espressa col termine “partecipazione”, che nella lezione di Harvey e sviluppata nell’affermazione diritto a trasformare (a concorrere alle trasformazioni, dato il carattere collettivo della città. Una questione che riemerge endemicamente nella pratica dell’urbanistica, in Italia e altrove.
Negli anni in cui il sistema dei partiti funzionava con una certa efficacia come cerniera tra società e istituzioni il problema era in qualche modo risolto da fatto che la pianificazione (il metodo indispensabile per governare le trasformazioni del territorio con la visione olistica che il territorio di per sé richiede) era compito e responsabilità delle isituzioni democratiche. La cultura urbanistica meno legata all’accademia e alla tecnica ha tentato spesso di sostituire, o integrare, l’urbanistica “democratica” con quella “partecipata”. I risultati sono stati scarsi: non è difficile a ottenere una partecipazione effettiva degli abitanti nell’elaborazione di un progetto che riguardi un’area limitata, o una dimensione di vicinato, ben più difficile è il coinvolgimento reale, e potenzialmente totale, della popolazione di una città o di un’unità territoriale ancora più vasta.
La questione, del resto, tende a coincidere con la questione stessa della democrazia. In questi tempi davvero difficili, quando, dopo il crollo del sistema dei partiti, dobbiamo preoccuparci a un tempo di difendere quel tanto di democrazia che non ci hanno strappato e di conquistare una democrazia più avanzata: di conquistare (per usare ancora le parole di Harvey in un suo recente scritto) una democrazia nella quale la dimensione verticale e quella orizzontale siano integrate.
Sul diritto al lavoro (il secondo tema sul quale avrei voluto soffermarmi) , la Costituzione repubblicana esprime un principio veramente, in sé, di grande rilevanza: «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ma il contesto nel quale la Costituzione è stata elaborata (e lo stesso testo della Carta) non chiariscono che cosa si intenda per lavoro. E’ il “mercato” l’unico metro di valutazione dell’utilità sociale, e del reddito, attribuibile dalla società all’erogazione della forza-lavoro? L’equilibrio di forze che allora esisteva, il carattere che aveva assunto il compromesso storico tra capitale e lavoro non permettevano forse che si andasse oltre l’affermazione di alcuni diritti dei lavoratori rimanendonell’ambito della logica e delle regole della produzione capitalistica. Ma oggi ci sentiamo ancora entro quei limiti, almeno quando ragioniamo sui principi? Siamo oggi d’accordo con Luigi Einaudi, oppure riteniamo, con Karl Marx, che il lavoro sia «l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere»? E pensiamo, con Claudio Napoleoni, che il lavoro sia« per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine». Le prospettive sono radicalmente diverse, e certamente quella liberale è ancora oggipiù radicata che quella di derivazione marxiana ma arebbe utile sviluppare un tema di di rilievo quale quello del diritto al lavoro senza partire dalla base. Soprattutto quando ci si propone anche ragionare, giustamente, di “reddito di cittadinanza”. E’ questo, una forma di sovvenzione a chi il “mercato del lavoro respinge”, oppure un prezzo che la società paga perché il lavoro è una risorsa, (anzi, un patrimonio) essenziale per l’umanità e lo sviluppo della sua capacità di comprendere il mondo e governarlo?
Riferimenti
In eddyburg, e soprattutto nell’archivio sulla vecchia piattaforma, c’è molto materiale. Due bozze di “visite guidate”, entrambe incomplete e non aggiornate, sono visibili qui per il “diritto alla città” e qui per il lavoro.
Maurizio Lupi
Maurizio Lupi è ben noto a chi frequenta eddyburg e, in generale, a chi si occupa dei temi cui questo sito è dedicato. E’ stato negli anni 90 l’ispiratore della politica urbanistica milanese fondata sulla privatizzazione delle decisioni e sul liberismo più sfrenato: quel modello di gestione urbanistica i cui germi Pietro Bucalossi aveva denunciato già negli anni 60 bollandoli con l’appellativo di “rito ambrosiamo”: un rito basato sulla deroga invece che sulla regola, sulla preminenza dell’interesse privato su quello pubblico. Con la “legge Lupi” si rovesciò il segno della faticosa ricerca di una nuova legislazione urbanistica compiutonel corso della XV legislatura proponendo una nuova disciplina.
La frase chiave della legge Lupi è la seguente: «Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi» (art. 5, comma 4). Di essa demmo a suo tempo il seguente giudizio sintetico: « una legge che privatizza l’urbanistica. Con essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contrastare: quelli della proprietà immobiliare. Una legge, in sostanza, eversiva dei principi che non solo la sinistra e il centro, ma anche la sinistra liberale (non neo-) aveva definito e praticato.
Avevamo conosciuto gli anni dell’urbanistica contrattata che “Mani pulite” era riuscita a svelare ma non a sconfiggere (ma questo sarebbe stato compito della politica, non della giustizia). Anche il sistema capitalistico era cambiato: la rendita non era più un avversario del profitto imprenditoriale e del salario operaio, ma il fine stesso dell’economia. Invenzioni di apprendisti stregoni, come quello dell’esistenza di “diritti edificatori” inalienabili (se non a prezzi esorbitanti) e generalizzazione di pratiche ambigue e rischiose, come la “perequazione urbanistica” indussero le amministrazioni comunali e gli operatori dell’urbanistica, divenuti troppo spesso “facilitatori” degli interesse immobiliari, a modificare le loro scelte tecniche e amministrative. Tutto ciò trasformò il territorio, da habitat dell’uomo e patrimonio degli abitatori del pianeta, in macchina par fare quattrini. I tentativi di costruire la” "città dei cittadini" furono cancella da un progetto volto trionfalmente a costruire la “città della rendita. Di questetrasformazioni Maurizio Lupi fu l’attivo partecipe e la sua proposta di legge doveva essere il coronamento
L’Agenda urbana
Il corposo documento del Comitato interministeriale per le politiche urbane, intitolato “Metodi e contenuti delle priorità in tema di Agenda urbana” (d'ora in avanti: Agenda urbana)vuole essere, esplicitamente, il lascito in materia che il governo Napolitano-Monti lascia al governo Napolitano-Letta. Gli estensori non erano certamente consapevoli del carattere della continuità che lega i due gabinetti, né dell’egemonia che Silvio Berlusconi avrebbe esercitato nel tormentato passaggio. Non potevano quindi immaginare che tra i ministri più “pesanti “ ci sarebbe stato Maurizio Lupi. Ma tant’è. Peraltro se leggiamo con attenzione il documento, coordinato dall’ex Ministro per la coesione territoriale, Fabrizio Barca l’oggettiva coerenza nascosta dietro il succedersi apparentemente imprevisto degli eventi appare con l’evidenza dei fatti.
Un primo giudizio su quel documenti è stato espresso sinteticamente, anche su queste pagine da Maria Pia Guermandi, quando ha sottolineato che, secondo gli estensori di quel documento, « la maggiore innovazione che ha interessato l’urbanistica con riferimento al complesso della legislazione nazionale e a quella delle legislazioni regionali […] è la trasformazione del suo carattere fondamentale che è passato da una natura fortemente autoritativa-conformativa alla individuazione di modelli organizzativi basati sulla ricerca di accordi fra pubblico e privati e fra gli stessi soggetti pubblici letti, in alcuni casi, come derogatori della normativa vigente», osservando che siamo così «allo “sdoganamento” ufficiale della deregulation come pratica innovativa». In altri termini, l’innovazione alla quale si plaude e al cui rafforzamento si vuole tendere è una prassi in cui le decisioni sul futuro della città non sono più determinate dalle isituzioni democratiche elettive che determinano i limiti edificatori della proprietà (natura “autoritativa e conformativa”) ma dalla contrattazione tra pubblico e privato, nella quale il primo viene “letto” e usato, come l’attore che ha il potere di derogare la normativa vigente, cioè di infrangere le leggi che lui stesso (magari in periodi meno carezzevoli per la proprietà immobiliare) aveva stabilito.
Il documento non è privo di parti intelligenti e anche condivisibili, là dove ad esempio individua nodi problematici nell’attuale ordinamento dei poteri territoriali istituzionali (ma riduce il problema dell’”area vasta” alle sole dimensioni delle aree metropolitane e delle macro-regioni) e nella scarsa funzionalità dell’organizzazione territoriale e della mobilità. Ma i problemi sono visti tutti all’interno di una concezione della città (dell’habitat dell’uomo) che è diventata dominante: una concezione esclusivamente economicistica Capovolgendo il titolo dell’ultimo libro di eddyburg potremmo dire che per Agenda urbana la città è solo un affare.
La città ha come sua funzione principale quella di contribuire ad aumentare il PIL. « La potenzialità insita nell’esistenza di una grande concentrazione di capitale fisico, edilizio, intellettuale, sociale e di conoscenza nei centri urbani richiede di essere resa esplicita in un processo deliberativo ad ampia partecipazione»; ma ciò che alla fine conta è che «sia reso percepibile dai decisori economici e finanziari che devono insediare i segmenti delle loro organizzazioni disperse su base-mondo o garantire le necessarie aperture di credito.» (p. 3)
IL documento pone una questione che è certamente di massimo rilievo e definisce un obiettivò che non si può non condividere: «Un territorio deve puntare alla propria crescita economica attraverso la piena e sostenibile valorizzazione delle proprie potenzialità e prendendo in considerazione i bisogni di tutti i cittadini a cui, con riferimento a molteplici aspetti della propria vita (oltre e prima del reddito, la salute, il senso di sicurezza, l’istruzione, la qualità delle relazioni con gli altri, la qualità dell’ambiente, ecc.), deve esser garantito il raggiungimento e il superamento dei livelli socialmente accettabili e ambientalmente sostenibili». Si domanda poi: «Come è possibile declinare tale modello nelle città dove prevale la rendita urbana nemica dell’innovazione? Hic Rodhus, hic salta. E il salto, con qualche giravolta, è proprio nelle braccia di Maurizio Lupi.
Agenda urbana sintetizza gli ultimi anni del secolo scorso come caratterizzati da una doppia faccia: da un lato, «si produssero in quegli anni i primi tentativi di una politica delle città finalizzata all’obiettivo della qualità urbana, intesa come “rigenerazione” o, ancor meglio, come “riabilitazione urbana” finalizzata alla riqualificazione di parti di città caratterizzate da degrado fisico, economico e sociale, tenendo conto dei valori storici, ambientali e paesaggistici» Ma . «accanto a ciò si realizzarono pratiche di urbanistica negoziata in cui comuni con necessità di risorse finanziarie e privi di strumenti di programmazione strategica accettavano soluzioni edificative con dubbi effetti [sic]sullo sviluppo delle proprie città». Si prosegue riconoscendo che «gli anni successivi, dal 2000 in poi, sono stati caratterizzati, da un lato, dallo svuotarsi delle esperienze progressive e dal venir meno della partecipazione e del consenso sociale che le aveva accompagnate, dall’altro, dal prevalere della seconda tendenza. A questa dinamica ha contribuito senz’altro anche l’inadeguatezza del disegno di governance delle città» (p. 6). Governance (si veda la nostra analisi del termine) è un termine molto ambiguo, e forse per questo molto praticato nel linguaggio politico corrente. Ciò che è certo è che è alternativo rispetto a “government “: significa meno autorità e più accordo tra soggetti diversi; in teoria potrebbe addirittura significare, per adoperare il linguaggio gramsciano, meno forza e più consenso, “egemonia” invece che “dominio”. Ma nel concreto significa ben altro: significa che non contano più i vertici del potere formale ma l’insieme degli attori in quel determinato contesto: un contesto tutto pubblico (e allora la governance è il coordinamento tra i diversi settori delle pubbliche amministrazioni, in un contesto privato, oppure in un contesto pubblico/privato. E appunto a quest’ultimo tipo di contesto che ci si riferisce in Italia quando si parla di governance. Ma il contesto pubblico/privato (come del resto quello pubblico) non è, in Italia, un contesto nel quale tutti i soggetti siano dotati di uguali poteri e portatoreuguali interessi. Non mi sembra necessario spendere molte altre parole per affermare che nel campo della città e del territorio il potere che sono capaci di esercitare i grandi interessi immobiliari e quelli dei cittadini (o dei portatori di “interessi diffusi” sono di gran lunga minoritari.
E allora possiamo dire subito che il rilievo che nell'Agenda urbana vediamo una pericolosa risonanza dell’enfasi posta sulla governance con la franca dichiarazione del ministro Lupi di voler passare dall’urbanistica “autoritativa” all’urbanistica “negoziata”. Se la prima è l’urbanistica esercitata dalle istituzioni elettive della Repubblica, la seconda è quella per la quale il punto di partenza è costituito dalle decisioni d’investimento dei privati: di quei privati, ovviamente, che hanno l’interesse a ottenere una consistente e qualificata edificabilità nell’area di cui sono in possesso. Si tratta in sostanza di quella che ai tempi dell’indagine giudiziaria Mani pulite, che scoperchiò il pentolone di Tangentopoli, venne clamorosamente denunciata come “urbanistica contrattata”.
E’ proprio l’urbanistica contrattata che la legge proposta da Maurizio Lupi si proponeva di generalizzare e rafforzare. Ma il termine non piace neppure agli esensori del documento Agenda urbana. Essi infatti scrivono , proseguendo il testo che abbiamo sopra citato, «questa trasformazione dell’urbanistica è stata, in questo stesso periodo, fortemente avversata. Il superamento (della rigidità) delle prescrizioni del piano regolatore generale della legge fondamentale con il passaggio agli “accordi urbanistici” dell’urbanistica consensuale è stato qualificato con l’accezione negativa di “urbanistica contrattata” che, attraverso l’incremento della discrezionalità della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere di trasformazione del territorio e della città costruita (una amministrazione ritenuta per definizione succube e ancillare degli interessi privati), si sia determinata verso l’ascolto e l’accettazione delle richieste private, ponendo in secondo piano, se non addirittura come scenario di sfondo, il conseguimento di più generali obiettivi di interesse pubblico.
«Non chiamiamola "urbanistica contrattata", non è smart»
Gli estensori del documento sanno che le parole hanno una storia e un senso. Essi perciò dichiarano, con disarmata innocenza, di scegliere i termini di urbanistica “concertata” o “consensuale” «piuttosto che quello di “contrattata”, proprio per evitare quel forte senso di negatività in esso contenuta. (p. 20).
Nel concreto, per regolamentare i rapporti tra pubblico e privato nello scegliere e premiare i progetti di trasformazione urbana da attivare bisognerebbe affidarsi- così invocano - al «rispetto del principio di lealtà che dovrebbe caratterizzare i rapporti pubblico-privato». Principio, che com’è noto alle cronache giudiziarie, domina nei rapporti tra immobiliaristi e gestori dei poteri pubblici; ciò si dovrà ottenere «contrattualizzando le modalità e le forme con cui amministrazioni pubbliche e soggetti privati individuano e pongono in essere progetti di trasformazione urbana». Passando cioè gioiosamente – ci sembra di capire – dal diritto pubblico al diritto privato.
Naturalmente «questo mutamento della prassi urbanistica, visto in termini positivi e innovativi (inizialmente avviato nell’ambito della produzione di edilizia residenziale pubblica), può rappresentare anche l’altra faccia della medaglia, quella della crisi dell’urbanistica, della sua incapacità di dare risposte convincenti alla necessità di modernizzazione della città, di tener conto, con analoga velocità, dei mutamenti socio-economici della realtà, delle diverse condizioni d’uso dello spazio urbano conseguenti al mutato rapporto tra politica e cultura»; e soprattutto, aggiungeremmo noi, tra economia e politica.
Definiti (ovviamente in modo più ampio di quanto abbiamo esposto nella nostra sintesi i cardini di una politica nazionale delle città si poneil problema di «individuare un luogo di allocazione di tale politica». La soluzione potrebbe essere una legge nazionale di principi sul governo del territorio: ma si porrebbe il problema di non contraddire le numerose legislazioni regionali «caratterizzate da un’attività legislativa più o meno intensa e sicuramente caotica rispetto agli esiti complessivi raggiunti». Forse la soluzione migliore potrebbe essere, suggerisce il documento, quella di «muovere dai reali processi di mutamento del territorio italiano, individuando i contesti più dinamici in considerazione della potenzialità competitiva del nostro paese nel contesto europeo e mediterraneo e concentrare su di essi sforzi di elaborazione, strumenti attuativi e risorse» Aumenteremmo quindi così, aggiungiamo noi, le differenze tra le diverse parti del territorio, premiando quelle più dotate e perciò “competitive” – parola magica, - nel quadro della concorrenza economica internazionale. Ci risiamo: in nome di una visione grettamente economicistica della città si sacrificherebbero i diritti( poiché di questo si parla quando si parla di legislazione) alle convenienze del mercato.
Una legge per salvare la perequazione
Abbiamo fatto un salto sulla sedia quando abbiamo letto “scorporo”. Con questa parola si alludeva, nel dibattito successivo alle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968, alla separazione dello jus edificandi dalla proprietà dell’area e dell’appartenenza del primo al potere collettivo. Al principio, cioè, introdotto dalla legge 10/1977 da Pietro Bucalossi: il principio, secondo il quale la facoltà di edificare appartiene al pubblico il quale può concederla a privato in cambio di determinate garanzie. Sarebbe bello e utile, e secondo noi determinante per il futuro della città, riprendere il dibattito da quel punto: completare il tentativo di Bucalossi riscrivendo il capitolo dei diritti e dei doveri della proprietà immobiliare per stabilire, in modo generalizzato, che gli aumenti del valore commerciale degli immobili (aree ed edifici) derivante dalle scelte pubbliche, a partire da quelle della pianificazione, non appartengono al proprietario ma alla collettività. Ma è bastato proseguire di poche parole nella lettura del testo per ripiombare nello sconforto: si vuol parlare dello “scorporo” per escluderlo. Infatti ciò che si vuole è «dare un fondamento legittimo alle leggi regionali sulla perequazione».
Vergogna perpetua ricada su chi ha proposto, praticato e diffuso questa parola e la pratica che ne è scaturita. É ls generalizzata aplicazione di essa che è infatti ritenuto oggi, dagli autorevoli responsabili di quel documento la ragione per la quale si deve gettare ai lupi (questa volta con la minuscola) la coraggiosa innovazione di Pietro Bucalossi. Si afferma infatti: la perequazione, «è ormai pratica diffusissima sia con finalità di incentivo alla qualità ambientale e architettonica (c.d. premialità edilizia) e ancor più con finalità di compensazione, cioè come mezzo di acquisizione di aree senza esproprio, mediante cessione gratuita ottenuta attribuendo nuova cubatura (o nuova superficie di pavimento) da utilizzare su altra area. A parte i dubbi di legittimità di queste operazioni, é incerta la natura di questi c.d. crediti edilizi (diritti obbligatori o reali?), la loro durata (sono soggetti a prescrizione?), la tutela (sono da indennizzare in caso di cambiamento di piano?), la individuazione delle cosiddette “aree di atterraggio” (é ben diverso “atterrare” al cento o in periferia)». (p.21).
E’ questo il punto chiave dell’intera opera prodotta dal Comitato interministeriale per le politiche urbane: santificare, consolidare e porre al riparo dalle contestazioni costituzionali (e dalle volontà di cambiamento politico) l’invenzione dell’appartenenza privata dei “diritti edificatori”.
Sed de hoc satis. L’analisi critica di quel documento meriterebbe altri approfondimenti. Speriamo che arrivino; ne daremo conto. Qui vogliamo limitarci, in conclusione, a rilevare la continuità tra il documento che il governo Monti ha consegnato come lascito al suo successore e le idee più volte espresse dal ministro Maurizio Lupi. Quante crisi di governo, e quanti tentativi di ricostruzione della sinistra, bisognerà attendere per veder interrotta quella continuità? Non lo sappiamo né riusciamo a immaginarlo, ma la speranza è l’ultima a morire.