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Caro m'è ‘l sonno e più l'esser di sasso

mentre che il danno e la vergogna dura

non veder, non sentir m'è gran ventura

però non mi destar, deh parla basso

Così Michelangelo rispose a un sonetto di elogio della statua, scritto da Giovan Battista Strozzi, che si concludeva con il verso «déstala, se noi credi, e parleratti».

La statua è una figura della tomba di Giuliano de' Medici, nella Sagrestia nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze. rappresenta allegoricamente la Notte

La governance, come nasce

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati [1]. Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali, ed è quindi al modo in cui sono stati applicati altrove che è opportuno fare riferimento.

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni [2].

[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “ urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “ local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale [3]

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti diversi, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti [4]

altri come

le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica [5].

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali [6].

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Non è vero che tutti gli attori sono uguali

Possiamo leggere quindi la governance, e la sua applicazione in Italia, anche come un tentativo di coinvolgere nel meccanismo delle decisioni sul territorio soggetti diversi, i quali tutti concorrono ai processi di trasformazione e utilizzazione dello spazio, ma non sono adeguatamente riconosciuti nel meccanismo definito dalle procedure vigenti. Nell’affrontare questo tema occorre però partire da una consapevolezza. Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Ogni attore esprime un interesse. E non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione che occorre compiere è quella che seleziona gli enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto. Allo stesso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali. La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Anche a questo proposito le innovazioni introdotte dalle leggi regionali recenti colgono alcuni risultati rilevanti, senza cedere a mode tendenti alla “concertazione assoluta” e, di conseguenza, alla deresponsabilizzazione di ciascuno dei soggetti coinvolti. Si tratta delle “conferenze di pianificazione” (o simili), cioè di incontri istituzionali dei diversi soggetti pubblici interessati a una questione nella quale sia coinvolta la responsabilità di ciascuno di essi. Si riuniscono, opportunamente documentati; esaminano la questione collegialmente; esprimono illico et immediate il loro parere, se possibile; se le posizioni sono contrastanti, discutono e cercano la mediazione; se è necessario un supplemento di analisi o d’istruttoria decidono lì per lì la data della prossima riunione, nella quale decideranno.

Un tavolo diverso è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali: per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore; e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricorso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Gli interessi privati

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere. Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: il soggetto che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni. Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del retino) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Mi sembra quindi che, mentre la governance istituzionale non pone problemi che non siano “tecnici” alla sua utilizzazione in supporto al government, particolare attenzione deve essere posta a inserire correttamente nel processo delle decisioni i portatori d’interessi privati, in particolare quelli economici. L’ipotesi che si può formulare è che la governance, nel campo del governo del territorio , funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

1. gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

2. gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario – nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto in Italia, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole. Ed è certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio è quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

E la partecipazione?

Coinvolgere nella pianificazione i cittadini (in quanto tali, in quanto utenti della città e suoi “padroni”, e non in quanto proprietari di sue singole parti) è ambizione che l’urbanistica ha sempre coltivato. Con risultati, mi sembra, insoddisfacenti, salvo casi limitati che non hanno costituito precedenti significativi di pratiche diffuse. Il coinvolgimento è relativamente facile (là dove si adoperano tecniche adeguate e, soprattutto, volontà politica determinata) quando si tratta di trasformazioni urbane limitate: l’apertura di una strada, la ristrutturazione di un quartiere esistente, la progettazione di un intervento pubblico d’interesse locale [7]. Ed è facile là dove si tratta di opporsi a un intervento negativo: lì la tensione NIMBY ( Not In My Back Yard: non nel mio cortile) costituisce un buon alimento se l’intervento proposto è negativo. Molto più complesso è lì dove l’argomento è un intero progetto di città o di territorio. Probabilmente non si tratta di un problema tecnico, ma politico. Lo sostiene un intelligente urbanista a tutto campo, Silvano Bassetti. Secondo Bassetti

se per urbanistica intendiamo la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti; e se per partecipazione intendiamo il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia [8].

Del resto, ho più volte affermato che urbanistica e politica sono due aspetti connessi d’un medesimo campo di interessi, obiettivi, procedure. In una civiltà politica che si è data la democrazia come regola generale, l’urbanistica è allora necessariamente anch’essa “urbanistica democratica”. Solo che, prosegue Bassetti,

La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione [9].

Per concludere che

la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza [10].

Con la stessa pazienza con la quale vanno ricostruite la politica e la democrazia.

[1]Si veda: P.L.Crosta, La politica del piano, Franco Angeli, Milano 1995; L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio, Franco Angeli, Milano 1996-

[2] N. Holec, G. Brunet-Jolivald, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.

[3] Ibidem.

[4] A. Bagnasco e P-J. Le Gales, cit in Holec, Brunet, op. cit.

[5] G. Marcou, F. Rangeon e J-L. Thiebault, cit. ibidem.

[6] Ibidem

[7]Si veda R. Lorenzo, La città sostenibile: partecipazione, luogo, comunità, Eléuthera, Milano 1998; La costruzione sociale del piano, a cura di P. Bellaviti, in Urbanistica n. 103/1995.

[8] S. Bassetti, Urbanistica partecipata, in: “Atlas - Rivista quadrimestrale dell’INU Alto Adige”, n. 22, dicembre 2001.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino al completamento e al riordino del trasferimento e della delega delle competenze alle regioni, nel 1977. Fino alla ventata del “federalismo all’italiana” e delle “devoluzioni” il criterio che si cominciava ad adottare era quello di riferire le competenze a oggetti[1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”, ancor oggi celebrato a parole.

In Italia questo termine viene infatti adoperato spesso (come del resto il termine “sostenibilità”) in modo approssimativo. Nel linguaggio della Lega di Bossi, “sussidiarietà” significa tutto il potere al basso, il più lontano possibile da “Roma ladrona”. Nel linguaggio dei variopinti fautori (a destra, al centro e a sinistra) del “meno Stato più mercato”, significa delegare tutto il possibile ai privati. In un linguaggio più accettabile significa delegare ai livelli più vicini all’elettorato il maggior numero possibile di competenze. In realtà nella cultura europea il termine ha un significato alquanto diverso[2].

In omaggio al principio vichiano che “natura di cose altro non è che nascimento di esse” , è utile ricordare che il principio di sussidiarietà venne proposto da Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, per individuare i poteri degli organismi sovranazionali europei distinguendoli da quelli dei governi nazionali: una definizione “dall’alto”, quindi, e non “dal basso”, come tutte quelle che circolano in Italia. Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992, in cui il lungo dibattito trovò sbocco e sistemazione. L’articolo 3b afferma:

La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità[3].

Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistema di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?

Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.

E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si vogliano rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.

[1] Con il termine “oggetti” non si indica qui l’elemento materiale dell’assetto del territorio (la strada o il centro storico, il centro commerciale o il bosco ecc.): Il termine “oggetto” è adottato invece in una logica simile a quella in cui è usato normalmente il termine “beni”. L’uno e l’altro termine configurano entità immateriali che, quand’anche si riferiscano a “cose” materiali, non si identificano con esse. Talché su di un’unica “cosa” può fondarsi una pluralità di beni ogniqualvolta in essa siano separabili diverse utilità o valori autonomamente riconoscibili. Ed analogamente un’unica “cosa”, un unico elemento materiale, può costituire il riferimento materiale di una pluralità di “oggetti” ogniqualvolta in essa siano separabili diversi “aspetti” autonomamente riconoscibili e incidenti su interessi la cui titolarità (esclusiva o prevalente) appartenga a diversi soggetti.

[2]L’interpretazione adottata in Italia è configurata nel seguente testo legislativo: “il principio di sussidiarietà, con l'attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicinaai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a).

[3] Il testo dell’articolo è stato confermato nel Trattato di Amsterdam il 2 ottobre 1997, ed è divenuto l’articolo 5 del Trattato istitutivo della Unione europea.

L’accademia trova il suo senso compiuto e la sua piena legittimazione non in quanto dia risposta a delle domande, ma in quanto fornisca i saperi che mettono in grado di formularle.

Giuseppe De Finetti, da "La ricostruzione delle città. Per la città del 2000", serie di articoli inediti per Il Sole , 17 aprile 1943; ora in

Milano. Costruzione di una città , Hoepli, Mílano 2002, pp. 322-23.

Gli spiriti inquieti che tendono al nuovo per il nuovo, allo strano e al mirabolante non servono all'architettura e, quando per caso si dedicano a questo mestiere che è tutto reale e concreto, raramente giovano. E danno non piccolo fanno anche gli ingegni copiatori, quelli che per mancanza di forza inventiva e di spirito critico si attaccano alla moda e seguono solo questa, accettandola tal quale anche se allogena ed estranea affatto al loro tema, al loro clima, ai loro mezzi economici e tecnici.

[...] Guai a lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d'azione, che credono di fare la civiltà d'oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il denaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, l'industria del domani, la ricchezza del domani. E questi realizzatori noi sappiamo sin d'ora che balzeranno alla ribalta alla prima occasione a bandire programmi mirabolanti e semplicistici, a chiedere libero campo per le loro imprese, a battersi per il sistema del fare pur di fare perché il tempo stringe e la necessità è grande.

Conviene dunque precederli e cercar di fissare qualche concetto fondamentale per lo sviluppo della città, che valga anche a difenderla dagli improvvisatori.

Occorre, quindi, chiedersi se oggi, nell'attuale fase di incontrollata trasformazione che le città sta subendo, quegli ammonimenti non abbiano di nuovo quanto mai valore.

Si veda anche Ingegnere, secondo Musil

Nel collasso della prima Repubblica corrosa dal malcostume consortile, appare B., finto homo novus: affarista d´origini buie; s´è ingrossato nel privilegio concessogli dalla vecchia consorteria; accumula soldi col monopolio delle televisioni commerciali, istupidisce il pubblico, falsifica bilanci, evade il fisco, allunga le mani dappertutto; gl´italiani sapranno poi in qual modo vincesse le cause, comprando i giudici attraverso un´agenzia barattiera. In vista dei sessant´anni scende in campo perché teme la resa dei conti. Tale l´unico programma, sotto la falsa bandiera d´una rivolta contro i politicanti professionisti: qualificandosi campione dello spirito d´impresa, truffa gli elettori; è un enorme parassita, fabbricato dalla malavita politica, abilissimo nella frode, mago delle lobotomie televisive; spaccia menzogne come i bachi secernono bava.

Da la Repubblica del 27 gennaio 2006

[…] Al contrario il «Grand Dictionnaire» di Pierre Larousse affronta il termine ed il concetto in modo storico-analitico e con notevole approfondimento. Il volume VI, in cui figura la voce, esce nel 1870; con ogni probabilità è stato scritto prima del crollo (settembre) di Napoleone III: peraltro l'orientamento dell'articolista, fervente giacobino, in riferimento agli anni della «grande Révelution» non collide con il corredo ideologico-propagandistico bonapartista; ma l'animus antibonapartista che in questa voce non traspare (è latente nei cenni al 1848) diventa chiarissimo nell'amplissima voce dedicata a Napoleone III nel volume XI (1874), dove tutta l'ascesa e presa del potere da parte di Luigi Bonaparte è descritta (e stigmatizzata) come un capolavoro da grande demagogo.

La voce Démagogie si apre dunque con una polemica osservazione sull'uso strumentale del termine: «ecco un'espressione tipica del linguaggio polemico, che si adopera senza attribuirvi un significato preciso». Vi è poi una sorta di apologia del ruolo del «demagogo»: « il termine vuol dire semplicemente guida del popolo; orbene poiché i popoli non sono tuttora capaci di guidarsi da sé, non vediamo cosa ci sia di criminale nell'impegnarsi a dirigerli». Peraltro vi è una tragedia individuale del demagogo: egli «crede di guidare le folle, ma in realtà subisce il movimento piuttosto che imprimerlo: il che è così vero che, generalmente, con demagogia s'intende una situazione in cui il popolo, piuttosto che essere governato, governa». E’ il caso, vien fatto osservare nell'ultima parte della lunga voce, delle grandi figure della Rivoluzione: «Sono trattati come demagoghi, e tuttora denunciati ogni giorno come tali al giudizio dei posteri, tutti gli uomini di cuore che hanno preso parte alla Rivoluzione: Robespierre, Danton, Vergniaud, Mirabeau e persino Lafayette. Lo furono? Sicuramente. Non si conduce - seguita l'articolista - il popolo all'assalto della Bastiglia, non lo si lancia alle frontiere contro tutta l'Europa coalizzata senza sovreccitare sino al parossismo le sue passioni, le buone come le cattive. Ma una volta dato l'impulso, chi guiderà il movimento, chi lo frenerà, chi lo conterrà nei limiti della giustizia? Nessuno. I più forti vi si infrangeranno. A seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini che si posero alla testa della Rivoluzione, sembra di vedere dei fanciulli appesi a una locomotiva. Tutti vi si sono stritolati. Ma loro se lo aspettavano né si ripromettevano dai propri figli ingrati una tardiva riabilitazione. Perciò dobbiamo ammirarne la grandezza del sacrificio e l'immensità della dedizione». Peraltro viene, nello stesso contesto, rifiutata la nozione di una demagogia unicamente ‘di sinistra’: «Prima di mettere sotto accusa i demagoghi di un'epoca a noi più vicina [rispetto al mondo romano di cui ha prima parlato] gli storici monarchici e clericali dovrebbero rileggersi i loro Annali. Ci furono mai demagoghi più focosi che i nobili e i preti della Vandea o del Midi? ».

[…]

C'è però da osservare, conclusivamente, che il processo sin qui descritto riguarda un'epoca ormai conclusa. Lo scenario attuale è profondamente mutato. Il mondo dominato dal mercato è approdato alla forma integrale di demagogia, quella della mercificazione. Qui si è compiuto il grande salto dalla demagogia rozza, primitiva, demiurgicamente e arcaicamente affidata al superuomo di tipo mussoliniano formato sulle pagine di Le Bon e fiducioso nelle proprie sperimentate capacità di fascinatore di masse, alla demagogia anonima e capillare, totalizzante proprio perché anonima: la mercificazione dei valori e la penetrante imposizione di pseudo-valori di facile assunzione, simboleggiati e potenziati dai media a diffusione capillare e a basso costo (il teleschermo di Orwell rimane una grande intuizione precorritrice), nonché dalle forme spettacolari-popolari a mobilitazione deviante (universo sportivo).

Andiamo dunque verso società sempre più demagogiche anche perché è entrato da tempo in grave crisi (e ha perso attrattiva anche verso i mondi dipendenti o ex-coloniali) il modello di società a base ideologica. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma di discorso demagogico. Proprio mentre sembra favorire, attraverso i media, l'alfabetizzazione di massa, esso produce (il paradosso è solo apparente) un basso e torvo livello culturale e un generale ottundimento della capacità critica (« dove tutti sanno poco e' si sa poco » era l'allarme del Leopardi nel Dialogo di Tristano e di un amico). Si tratta dunque di una forma di demagogia altamente perfezionata, per ora non bisognosa della coercizione violenta di tipo paleo-fascista. (Un fascismo americano sarebbe democratico, scrisse Bertolt Brecht nel suo Diario, p. 368, in singolare sintonia con Thomas Mann, discorso al « Peace Group » di Hollywood, giugno 1948). Seduce i soggetti dando loro l'illusione dell'autonomia. Ma non trascura nemmeno la latente spinta alla violenza che ogni società necessariamente accumula («quello stato di vaga ostilità atmosferica di cui l'aria è satura nell'èra nostra», dice Musil, L'uomo senza qualità [193I], I, cap. 7), la canalizza (per ora) verso l'ambito sterminato dello sportspettacolo, unica occasione di mobilitazione spontanea delle masse nel tempo nostro. La politica ‘alta’ fa mostra di ignorare tale ambito, ma è a tutti ben chiaro che esso è terreno di vera e propria manipolazione politica: sia per la sua efficacia come valvola di sfogo (deviante) dell'inquietudine sociale semiproletaria e sottoproletaria, sia in quanto strumento di conquista del consenso (clientela elettorale, uso elettorale del mondo sportivo ecc.). Esso è anche, infine, terreno di coltura del neo-razzismo e ne rappresenta l'anima militante e squadristica.

Se infatti le odierne società demagogiche paiono aver raggiunto un equilibrio interno fondato sulla rimozione o canalizzazione del conflitto grazie agli strumenti massificanti della nuova demagogia, esse presentano tuttavia un fianco debole, anzi sono in pratica indifese, di fronte allo straripamento «terzomondiale» in direzione delle metropoli. Qui, per ora, la reazione politica ‘alta’ appare incerta o inconsistente; ma la reazione ‘bassa’ (tollerata, quando non addirittura incoraggiata) è quella del neo-razzismo, tanto più virulento quanto più sorgente dai ceti semi-proletari e sottoproletari delle metropoli («è la concorrenza fra gli strati più bassi della popolazione, per dividersi risorse scarse», dice Basil Davidson). Il neo-razzismo aggressivo è dunque il terzo e più feroce ingrediente delle attuali società demagogiche. Resta da chiedersi se il successivo sviluppo sarà in direzione dell'assorbimento nell'universo degli pseudo-valori anche dei nuovi arrivati (un lavoro in questo senso è stato avviato da tempo, sin nelle società d'origine, dove però - chiusa l'ascetica parentesi leninista - esplode il fondamentalismo), o se invece questa dilatazione di una ricetta già sperimentata nelle società dominanti stia per rivelarsi insufficiente, per esempio a causa della scarsità delle risorse e del sempre più accentuato squilibrio. La prospettiva sarebbe in tal caso quella di una esplosione di inusitata violenza fratricida, per la quale n

La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.

Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.

Stressati anche nel parlare. Rapidi, concitati, a tratti incomprensibili. Una forma d’ansia si è insinuata nel modo di comunicare, che si è evoluto e un po’ imbarbarito nel nome della velocità. Via il superfluo, le pause ad esempio, e tutto ciò che richiede qualche accortezza, come il congiuntivo. Spazio alla sintesi e pazienza se è complicato interpretare. Ci provano gli studiosi che da oggi a domenica si incontrano a Napoli per il congresso "La comunicazione parlata", organizzato dal Gscp (Gruppo di studio della comunicazione parlata) che fa parte della Società di linguistica italiana. Si parte da un quesito, dove va la comunicazione verbale, che «è affascinante – dice il presidente del Gscp, Federico Albano Leoni – ma che mette i linguisti in forte difficoltà». Perché i modi del comunicare sono tanti, troppi e, alla fine, aggiunge Albano Leoni, «i padroni della lingua sono i parlanti».

Compito dei ricercatori è quello di raccogliere informazioni e registrare trasformazioni. Il che consente di osservare quel che cambia, ad esempio, nei telegiornali. Un confronto fra gli anni Sessanta e oggi rivela che il ritmo dello speaker è accelerato, la velocità dell’eloquio è quanto meno triplicata (si pensi alla "mitraglia" di Enrico Mentana) e che il volume della voce è molto più alto rispetto al passato.

L’informazione televisiva è l’esempio più eclatante, ma altre ricerche si concentrano sul piccolo schermo, dal parlato delle fiction rispetto a quello dei teleromanzi di un tempo - dialoghi stringati, lingua più vicina all’italiano medio, uso del dialetto, di intemperanze e, talvolta, del turpiloquio - ai programmi di divulgazione religiosa, dove un registro più scattante ha avuto la meglio su quello solenne.

Capitolo a parte meritano gli studi sul rapporto fra parlato giudiziario e testo scritto. Spiega Massimo Pettorino, del laboratorio di Fonetica sperimentale all’Orientale di Napoli: «Pensiamo alle intercettazioni pubblicate dai quotidiani. Il senso è chiaro, ma a ben guardare sembrano il delirio di un folle. E’ comunicazione verbale che finisce in un testo, come si fa a trascrivere un’alzata di sopracciglia, un movimento degli occhi, delle spalle, una pausa?».

La gestualità complica le cose. Perché la mimica è parte essenziale per chi cerca la trasmissione rapida del messaggio. Per questo gli immigrati imparano prima i gesti che le parole. Lo stesso principio che anima il "linguaggio parallelo" dei più giovani, desunto dai videoclip o dal codice degli sms, archetipo di tutte le sintesi. «Magari non imparano una lingua straniera – spiega ancora Pettorino – ma la gestualità dei rapper, quella sì. Perché la prima va studiata sui libri, mentre per la seconda basta stare davanti a Mtv. E consente loro di comunicare senza giri di parole. Anzi, senza parole».

Minori, allarme parolacce "Si imparano in famiglia"

ROMA - E’ allarme parolacce tra i bambini italiani, che le imparano in gran parte in famiglia. Lo rivela un’inchiesta dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori nata dalle segnalazioni di mamme preoccupate dall’alto grado quantitativo e qualitativo di turpiloquio dei loro bambini. L’inchiesta è stata condotta su un campione di 200 mamme di bimbi italiani, in età compresa tra i 6 e i 10 anni, alle quali è stato chiesto di monitorare per un mese il lessico dei propri figli senza intervenire con rimproveri, ma semplicemente con la domanda: «Dove l’hai sentita questa parola?». Dai risultati emerge che la prima risposta dei piccoli riguarda per il 37% la famiglia, con responsabilità quasi equamente distribuite tra i fratelli maggiori ed i genitori, il 26% i compagni di scuola, il 19% la televisione, l’8% gli amici extrascolastici, il 6% ha riferito di non ricordare la fonte d’apprendimento, mentre il 4% delle mamme ha riferito di non avere registrato nessuna parolaccia, una soglia di "beneducati" decisamente bassa. Dal punto di vista della "qualità", pochi neologismi: la tradizione tiene con parolacce che per lo più fanno riferimenti volgari ad organi sessuali maschili e femminili.

I reiterati appelli al popolo dei moderati chiedono al filologo una chiarificazione semantica, perché poche voci del nostro vocabolario politico presentano un così alto grado di polisemia nascosta e potenzialmente esplosiva. La storia anche recente conferma, infatti, la regola che tanto più i patti sono basati su linguaggi ambigui o polivalenti tanto più tenue e di breve durata sarà l’amicizia: poiché tutti si dicono moderati e amici dei moderati, vale chiarire i termini.

Dal punto di vista della forma grammaticale, moderato è un participio passato: in quanto tale può avere valore passivo o medio/riflessivo. Come pettinato può indicare tanto chi è stato acconciato da un barbiere, quanto chi si è passato una mano fra i capelli (quest’ultimo si distingue solo perché ha ancora qualche soldo in tasca). In senso passivo, i moderati sono coloro che qualcuno induce alla moderazione, convincendoli ad aggiustare, commisurare su parametri dati, pretese o energie. Il linguaggio ecclesiastico conserva questo senso quando chiama il presidente di una comunità, per ufficio mediatore fra tendenze opposte, moderator. In senso mediale o riflessivo, il termine definisce invece persone che amano e si impongono una certa misura nel pensare, fare o progettare. Infine, quando il termine dell’azione è l’intera società, la polivalenza funzionale del participio s’accresce d’un senso attivo, poiché, essendo parte della società medesima, il moderato tende ad imporre il modus e a diventare moderante, sino ad invocare la presenza di un moderator che moderi gli avversari, considerati s‑mod(er)ati.

Se dalla forma passiamo al contenuto della parola scopriamo che si porta dietro confusioni antiche. La radice indoeuropea originale è *med-, pensare, da cui provengono meditare, medicina (arte riflessa della salute) e, appunto, il latino modus, quantità pensata, peso, misura, i confini con cui la ragione delimita la realtà. Forse perché il modus = misura è spesso trasmesso da regole consuetudinarie e convenzioni acquisite (il metro, lo iugero, ecc.), un’antica assonanza unisce modus a mos = costume, facendo del moderato un tradizionalista (mosmaiorum) o un moralista (o tempora o mores). Ad altra allitterazione si deve un curioso spostamento nella collocazione fantastica del moderato. Dall’originario senso di misura, modus estendeva in latino il suo ambito di significazione al concetto di limite estremo. Admodumreverendus recita un’ossidata targhetta sulla porta di non so qual dignitario conventuale in San Domenico a Bologna. Da novizio pensavo che l’avverbio significasse abbastanza reverendo, e godevo di questa attenuazione nella piaggeria ecclesiastica; invece vuol dire molto reverendo (reverendo sino al massimo immaginabile, fino al colmo della misura, assolutamente reverendo). È in questo significato che si nasconde il pensiero creativo cui si riferiva l’antica radice *med-: misurare è anche inventarsi un modus, un limite cui tendere (ad). L’aggettivo modesto, al contrario, in senso positivo come negativo, illustra bene il significato opposto, una estensione del quale porta a modico, ovvero tanto al di qua del limite immaginabile da approssimarsi al punto da esso più lontano.

Nel linguaggio corrente, forse perché modus ha origine simile a medium = mezzo, il moderato non è l’ardimentoso che si spinge ad‑modum, né all’opposto colui che s’accontenta di modica vita, ma un tenace Odisseo dell’equidistanza (anche comodo viene da modus). Sarà per queste allitterazioni (e per colpa di stoici della risma di Persio) che la metriotes greca è ancora presentata ai ginnasiali come prossima alla latina mediocritas, aurea ossessione del giusto mezzo.

In conclusione, ipotizzando che un concetto ammetta una scalarità, il participio moderato definisce tanto il grado infimo, modico, quanto quello intermedio, moderator, quanto il sommo concepibile, ad‑modum. Se alle possibili confusioni che il linguaggio ingenera aggiungiamo quelle che derivano dal fatto che estremi e punto intermedio sono proiezioni, su una retta immaginaria, di valutazioni soggettive che è difficile mettere d’accordo, capiamo perché la moderazione abbia tanti interpreti e ingeneri tanti conflitti. E spinga, prima o poi, a cambiare retta di riferimento: dopo secoli di discussioni, da Jean sans Terre a Montesquieu, sulla natura più o meno assoluta, più o meno democratica, più o meno costituzionale della monarchia, ci si è accorti che si poteva far a meno dei monarchi e si fece una rivoluzione.

Una cosa è chiara: in politica il moderato non è rivoluzionario, poiché, quando anche condivide i sentimenti o intuisce le ragioni di chi vorrebbe cambiare le cose, non se la sente di appoggiarne l’azione o i mezzi. Questa posizione può esser considerata (ed essere di fatto) una scelta per l’equilibrio esistente: in tal caso, il modus coincide col punto intermedio, o con l’infimo. A sentir il moderato, chi volesse rovesciare una situazione che gli è sfavorevole deve accontentarsi di cambiarla solo a metà o quasi nulla. Tuttavia, questa moderazione non è l’unica possibile, poiché c’è sempre chi, pur non volendo sovvertire l’esistente, crede necessario modificarlo nella misura del possibile, ad‑modum, per evitare la catastrofe del conflitto a somma zero. Questo personaggio è in genere destinato al sacrificio, come le tante Cassandre che precorsero le grandi rivoluzioni e finirono vittime dei monarchi e dei regimi che volevano salvare, ad eccezione di chi sopravvisse per essere ghigliottinato o fucilato dalla rivoluzione vincitrice. Il realismo profetico di questa specie di moderato non piace ai difensori del reale così com’è ed è un ostacolo alla voglia di assolutamente altro che abita i sogni del sovvertitore. Soprattutto, vorrebbe impedire che chi dei conflitti vive ne ingeneri a suo piacimento: è il terzo o quarto incomodo in una storia che, purtroppo, lo riguarda.

Per 4-5 persone servono:

- un petto di pollo intero da tagliare a fette grosse e successivamente a cubetti

- un bicchiere di vino bianco o di birra o di acqua minerale

- un po' di farina bianca

- una o due chiare d'uovo.

Prendo il petto di pollo, lo taglio a fette grosse e ne faccio delle strisce per ottenerne dei cubetti.

Preparo una pastella morbida con la chiara d'uovo sbattuta, il vino bianco (o birra o acqua minerale frizzante) e il sale.

Metto i cubetti di pollo a bagno nella pastella e massaggio con le mani il tutto finché la carne non avràè assorbito tutta la pastella.

Preparo una padella con olio bollente per friggere.

Metto i cubetti di pollo in modo che siano immersi ma non ammassati.

Appena saranno imbionditi li tolgo e li lascio scolare sulla carte assorbente.

A parte cucino una salsa con olio d'oliva, un po' di salsa di soia, un po' di vino e un po' di concentrato di pomodoro. Aggiungo le mandorle tostate e tritate.

Amalgamo infine il tutto, correggo di sale se c'è bisogno, ed è pronto.

INGREDIENTI

300g cioccolata fondente

50g cioccolata al latte

175g burro

8 uova

150g zucchero

mezzo cucchiaino di vanillina

1 pizzico di sale

PREPARAZIONE

Scaldare il forno a 180°. Foderare con uno o più fogli di alluminio una tortiera a cerniera da 23cm di diametro perché la torta va cotta in forno a bagno maria. Io fodero poi l'interno della tortiera con carta da forno (alla buona). E poi:

1. sciogliere la cioccolata con il burro (preferibilmente a bagno

maria) e lasciar raffreddare.

2. nel frattempo montare gli albumi a neve ben ferma (con il pizzico di sale).

3. montare i tuorli con lo zucchero e la vanillina finché non

raggiungono una consistenza simile alla maionese.

4. aggiungere ai tuorli cioccolato e burro sciolti.

5. aggiungere una buona cucchiaiata degli albumi montati e mescolare con energia.

6. aggiungere il resto degli albumi e mescolare delicatamente.

versare il composto nella tortiera foderata. mettere la tortiera in una grande teglia da forno. versare nella teglia acqua bollente (2-3cm).

infornare e cuocere per 50-60 minuti. la torta rimane morbida

all'interno ma deve essere ben asciutta sopra. far raffreddare completamente prima di aprire la tortiera. io sposto la torta sul piatto da portata con la carta da forno che poi sfilo delicatamente da sotto. in questo modo la torta non dovrebbe rompersi.

volendo si può spolverare con zucchero a velo.

Per favore non diciamo(o comunque non diciamo troppo spesso):

“come dire”

“e quant’altro”

“valido”

“scendere in campo”

“un attimino”

“mi consenta”

"oggi come oggi"

"vero e proprio"

"una sorta di"

E non diciamo neppure:

grosso”, se vogliamo dire “grande”

metodologia”, se vogliamo dire “metodo”

tipologia”, se vogliamo dire “tipo”

nominativo”, se vogliamo dire “nome”

problematica”, se vogliamo dire “problema”

Cofferrati”, se vogliamo dire “Cofferati”

quelli che sono i …”, se vogliamo dire “i …”

implementare”, se vogliamo dire “attuare”, o addirittura

implementare”se vogliamo dire“incrementare”

" esaustivo" se vogliamo dire "esauriente"

Mi suggeriscono poi:

di dire un po' meno:

"praticamente", "tendenzialmente", "mitico", "in qualche modo"

e di non dire:

"intrigante", se vogliamo dire "interessante" o "affascinante"

"la mia filosofia", se non siamo nè Kant nè Irigary, ma un fabbricante di portaspilli o un intrattenitore

"piuttosto che" se voglimo dire "invece che"

Se poi riuscissimo addirittura ad evitare di dire:

step”, se vogliamo dire “passo”

tout-court”, se vogliamo dire “semplicemente”

friendly” invece di “amichevole”

tutors”, se vogliamo dire “ tutores”, ricordando che tutor è una parola latina anche in una frase inglese

Comunque, non arriviamo al punto di dire:

“spostare il cursore sull’icona e premere il tasto del mouse”, se possiamo dire “clicca”

Se pretendiamo di scrivere in italiano corretto non scriviamo:

“sottendere” invece di “essere sotteso”

“1500” invece di “’500”, se ci riferiamo al XVI secolo



A proposito di computer

Domandiamoci intanto qual è l’equivalente italiano del verbo “ to scan” (da cui scanner ecc.). Forse “scannerizzare”? o, peggio, “scannare”? o, più complessamente,“scansionare”? Si tratta di termini abbastanza diffusi. Secondo me (ma è un’opinione profana) dovremmo ricordare che probabilmente il verbo inglese deriva dal latino “ scandère” (vedi Collins Concise English Dictionary, 1980, p. 668), e ricordare che da quella radice nasce il termine italiano “scandire”.

Non dico che si debba arrivare all’estremismo linguistico dei francesi (che hanno ragioni più solide delle nostre per tentar di resistere all’egemonia linguistica statunitense), e chiamare “ ordonnateur” il computer e “ logiciel” un programma, ma perché dire:

forwardare” invece di “inoltrare”

“carbon copy” invece di “copia”

(Un’esagerazione “alla francese”, ma davvero spassosa, è il programma “scrivimm’”, che vorrebbe sostituire “write”. Lo conoscete? Se volete ve lo mando; scrivetemi qui:
eddyburg@tin.it)

Naturalmente

Naturalmente non terrete conto di questi miei consigli quando parlate o scrivete in inglese!

1) Questa Sicilia,di strade improvvisamente abbandonate dall’asfalto, perché finiscono i denari.

– in quali tasche?

Di viadotti mai messi in uso, per mancanza di correlazione fra movimento (o stasi) socio-economico e disegni tecnici.

– di quale tecnica?

Di ponti interrotti a mezza corsa, di case abbandonate, di quartieri residenziali “terziari” per cultura, e occupazione, ed espressione architettonico urbanistica.

– quale architettura, quale urbanistica?

1a) Questa Sicilia di pseudo-sviluppo, succube della “ragion-di-mercato” e ignara delle “ragion razionalizzazioni di piano”.

– ma quale piano?

1b) Confusa e silenziosa; pettegola e provinciale; umana e ricca di immobili speranze nei paesi, distorta e imbrattata nelle città dai lacerti di una borghesia periferica che succhia il sangue ormai amaro della autonomia regionale.

– di quale autonomia?

1c) Ma questa Sicilia di oggi, di adesso:

i) auscultata dai tecnici – quali tecnici?

ii) adoperata dai politici – quali politici?

iii) disprezzata e idolatrata dai suoi stessi abitanti come i fanciulli alternativamente baciati e bastonati d’amore ferino.

– quando vincerà lo sfrido dell’attesa?

2) Gli oggetti,

è il problema di fondo che troppi siciliani si sentano e siano, per vero, trattati da oggetti. Mere cose; nel meglio caso meri fatti che rapina, semmai, un vento astratto ora metafisico ora dialettico.

– un vento non di queste contrade, pur se storico.

E allora si rinchiudono in sé. Nell’armonia prestabilita dei gesti d’uso del clan, della famiglia, della strada, del vicinato. Già il quartiere dà l’agorafobia.

– e come è facile trasferirli dalla civiltà contadina a quella industriale!

2a) La casa non è “espressione soggettiva”. Né il profilo delle strade; né quello delle curve di livello

delle acque precipiti o stagnanti;

degli alberi radi;

della sua distesa – degli agrumeti fitti.

Né il grande spiazzo neonistico dell’industria chimica e petrolchimica buono per i rotocalchi e le statistiche

malo per Priolo e/o Milazzo, e/o Agrigento, Gela, e l’alto Messinese, gli incroci delle provincie di Trapani-Palermo-Agrigento, o Palazzolo A., o Giarratana, o Raffadali o Riesi…

3) Forse un paese

è l’ambito del moto, il nuovo fuoco.

Riesi, nel 1951 20.437 abitanti e 18.167 nel 1961 – perdita secca Istat 2.270 e almeno altri 2.500 da pseudo-turisti all’estero fin’oggi 1965; 3,78 occupati nell’industria al 1951 (miniere) e 0,75 al 1961 – oggi niente, di miniera, che è chiusa la Trabia-Tallarita.

Vani abitabili (girare, vedere: non è vero) al 1961: 9.734.

3a) Frana il palazzo comunale ma i fondi per riattarlo non passano il chiuso setaccio della burocrazia regionale – stanze in fitto, allora, e liti di Consiglio comunale per favorire questa o quella pigione; ancora un morto, nella campagna;

ancora il sogno della miniera, che ammazza o storpia ma è lavoro; fazzoletti di terra, a chilometri l’uno dall’altro: canoni enfiteutici risuonanti di Grandi di Spagna, e di miseria e di cornicioni ancora nobili di trame serrate di vie illuminate da una corte improvvisa; l’ultima casa del paese è confine alle donne – la piazza è nera d’uomini, o deserta di gelo all’inverno brucia d’estate come stoppia.

3b) Terra di Sicilia – un continente di monti che degradano al mare, nelle avare pianure gremite di reperti archeologici.

4)E sopra una collina,

il gesto dei muri spiccia dal terreno, sabbia e pietra dalle cave vicine, vuoti e pieni dal ritmo degli ulivi – dal muovere dell’aria qui franta da un’erta là espansa, a perdita d’occhi, fra le coste scavate dei monti.

Ubicazione volontaria invece che grumi di edilizia sfinita dalla fatica servile verso i signori, verso il governo. Architettura liberata in funzione: l’asilo, la scuola-officina, il centro agricolo… Le leccature estetizzanti esorcizzate dal lavorare insieme con le inabilità – e le felici scoperte di una disponibilità creativa a ogni livello – dei muratori locali.

4a) Il paese si abbevera alla collina. Scopre che si può mutar tutto se si crede nel mutuo-appoggio, nel servizio, negli “altri”.

La radice – il soggetto – è l’uomo. A giro d’acqua sono gli altri uomini, è la natura di terra acque e cielo, le trasformazioni volute da tutti e non imposte dai pochi, la partecipazione organica e globale di uomini e cose alla crescita.

5)La sua misura,

infinita nell’intimo chiede confini certi all’esterno. Si ripercorre sul territorio l’itinerario del cuore quando nei prossimi si ama – si serve – l’umanità.

Nella intuizione collettiva del singolo edificio, nel suo “goderne insieme” è la proiezione di una essenza che solo attuandosi esiste. Nel percorso dall’edificio al villaggio, dal villaggio al paese, dal paese ai paesi comprensoriali, dai comprensori alle strutture sub-regionali e da questa alla ferma forma regionale – tessuto di storia, cioè di azione e reazione fra la natura e gli uomini – è il farsi, l’apparire, della pianificazione aperta:



5a) Dal manufatto architettonico al lavoro di gruppo, dalla creazione sempre nuova dell’urbanistica vivente all’autonomia sociale delle scelte produttive e di consumo archi sempre più vasti sino al termine estremo di una partecipazione di primo grado, che è quello regionale (è la essenza della sua “autonomia”).

Nasce l’Italia delle Regioni – Ma senza quella radice, quel “soggetto”, non ci sarà che un coacervo, una aggregazione burocratica e astratta.



6)Questa Sicilia,

di oggi, di adesso – e di domani,

passerà dal sottosviluppo a uno sviluppo a lei alieno. Lo sviluppo della tecnologia che sfugge dalle dita degli uomini come sabbia impazzita e a poco a poco li sommerge.

6a) Che cosa aspettano gli architetti siciliani? Noli foras ire, in te ipsum redi! Con il popolo di Sicilia, quello che aspetta di agire, servire, amare – insieme.

INGREDIENTI

obbligatori

4 uova

2-3 grosse patate

olio d’oliva

sale

facoltativi

1 cipolla

prezzemolo

peperoncino o pepe

prosciutto o pancetta

PREPARAZIONE

Potete sbollentare le patate (io uso di preferenza quelle di montagna, rosse a buccia fina), poi tagliarle a dadini o pezzotti e farle soffriggere con la cipolla tritata fina e lasciata appassire. Oppure potete soffriggerle crude.

Poi, in alternativa:

- potete aggiungere al composto le uova, sbattute a parte con il prezzemolo e il pepe, mescolare rapidamente ma a fondo e lasciar cuocere a fuoco lento;

- oppure potete lasciar raffreddare le patate, mescolare le uova con gli altri ingredienti, poi aggiungere le patate, mescolare e gettare il tutto in padella ben calda.

In entrambi i casi, quando pensate che da una parfte sia cogtta, giratela con il coperchio di una pentola.

Il comune di Sesto Fiorentino (49,03 kmq – 46.900 abitanti) è situato alle porte di Firenze, da cui dista 8 km. Sesto Fiorentino è uno dei centri principali della conurbazione fiorentina che dal capoluogo regionale si estende, senza rilevanti soluzioni di continuità, verso Prato e Pistoia.

Il comune è costituito da una porzione collinare di circa 30 kmq - corrispondente al versante sud del Monte Morello e alla testata della valle del Terzolle, piccolo affluente dell’Arno - e da una parte pianeggiante facente parte della Piana fiorentina, una conca formata dall’Arno.

Nella parte pianeggiante sono collocati:

- il capoluogo comunale, sorto lungo la strada pedemontana che congiunge Firenze a Prato e sviluppatosi a partire dalla seconda metà del 1800, in seguito all’insediamento dello stabilimento ceramico Ginori.

- l’area produttiva di Osmannoro, posta a cavallo del confine meridionale con il comune di Firenze, uno dei principali poli produttivi dell’area metropolitana.

Nelle pagine web del Comune di Sesto Fiorentino sono disponibili molte informazioni sul comune, sulla sua storia, sulle sue caratteristiche attuali.

l. Origine, e cronaca della compilazione del piano.

La necessità di collegare fra loro le varie attività urbanistiche, esercitatesi fino ad ora unicamente nell’ambito comunale e di piano particolareggiato, per coordinarle in un più vasto quadro regionale ed interregionale, era da tempo avvertita in sede teorica. Questa preoccupazione era sfociata nella legge urbanistica del 1942 che prevedeva la possibilità, non ancora sperimentata in Italia, della compilazione di piani territoriali di coordinamento su scala regionale.

Fu tuttavia soltanto durante l’ultima fase del periodo bellico, quando la prolungata e forzata stasi delle costruzioni edilizie, fermando completamente tutte le attività edificatorie sul suolo nazionale, venne a determinare una netta cesura colla situazione edilizia anteguerra, ed in seguito alle sempre crescenti distruzioni del patrimonio edilizio delle grandi città industriali, che si prospettarono chiaramente la necessità, l’urgenza e la pratica possibilità di predisporre un piano di coordinamento urbanistico su basi regionali.

La cesura con la situazione anteguerra forniva infatti l’occasione di abbandonare i vecchi, arbitrari e dispersivi sistemi di costruzione, fino allora seguiti soprattutto nella edificazione cittadina (costruzione sporadica e caotica su parcelle frazionate e irregolari, senza un preciso piano distributivo, senza norme vincolative di densità e di soleggiamento, senza ordine di precedenze, senza integrazione sufficiente di attrezzature collettive, ecc.), e di sostituire ad essi, nella ripresa edilizia, un metodo di costruzione pianificata nel tempo e nello spazio.

Le distruzioni, detraendo un sempre maggior numero di locali alla già inadeguata consistenza edilizia d’anteguerra, proponevano l’urgenza di soluzioni radicali per colmare il crescente fabbisogno edilizio e reclamavano che la ricostruzione non fosse un semplice ripristino della situazione quo ante, ma si proponesse come norma il miglioramento della situazione precedente.

La distruzione di stabilimenti industriali poneva l’interrogativo se alla loro ricostruzione in sito non fosse preferibile il trasferimento in più adatte ed attrezzate località vicine o lontane.

Le distruzioni delle vie di comunicazione ponevano problemi di precedenza, di rettifiche, di migliorie.

Era d’altra parte evidente che una ripresa dell’attività edificatoria in tutti i settori edilizi, senza un preventivo piano di coordinamento sufficientemente esteso nello spazio, avrebbe significato ricalcare nella edilizia cittadina i vecchi sistemi di costruzione, appena appena addomesticati da quella blanda e condiscendente prassi urbanistica, che a Torino aveva dato i suoi frutti nella Via Roma nuova, nei casoni a blocco dell’Istituto Case Popolari, nello squallore delle barriere, nel selvaggio sfruttamento delle aree centrali e nella beata architettura dei villini. Avrebbe significato non migliorare per nulla la situazione edilizia cittadina; ma all’opposto consolidare la situazione di sovraffollamento e di insalubrità delle abitazioni popolari, avrebbe significato non solo non risolvere, ma neppure impostare il problema delle aree industriali, avrebbe significato congestionare di traffico il Capoluogo, bloccarlo nei preesistenti errori urbanistici e continuare a concentrarvi il massimo dell’attività edificatoria, in una parola, avrebbe significato avviare Torino in tempo più o meno lontano verso la meta ambita e maledetta della metropoli, trascurando i problemi dell’intorno regionale.

Per prevenire queste conseguenze immediate e lontane e reagire a quello che sarebbe stato l’indirizzo naturale delle cose, non si presentava a noi, che tali tendenze osteggiavamo in linea critica, altro che una sola possibilità di azione: la compilazione,di un piano urbanistico dimostrativo.

Questi i moventi che spinsero il nostro Gruppo ad occuparsi fin dall’autunno 1944 del Piano Regionale Piemontese. Ci confortava allora la convinzione che la fine del conflitto avrebbe fornito l’occasione, veramente unica nella storia di questo secolo, di poter dare inizio ad una sia pur lenta, ma graduale ed integrale organizzazione urbanistica. Ritenevamo quindi indispensabile agire in questa direzione.

Purtroppo la situazione politica generale era quanto mai sfavorevole alla formazione dei piani. Le voci, che fin dal 1941-1942 si erano levate dalle colonne di Costruzioni e di Architettura Italiana a richiedere l’immediato inizio di una vasta e coordinata attività pianificatrice, erano rimaste senza seguito. I tempi non erano allora maturi: l’organismo politico italiano, che stava entrando nella fase finale della profonda crisi storica che ci ha travagliato, era assolutamente estraneo al promuovere, appoggiare e favorire una attività lungimirante, che richiede innanzitutto, da parte di chi la inizia e vi si dedica, una serena fiducia nel futuro ed una lunga prospettiva di pace. Parimenti, la successiva tragica situazione dell’Italia occupata, divisa e frazionata costituiva un forte ostacolo ad una attività pianificatrice regionale e nazionale. Ogni iniziativa di carattere ufficiale era dunque preclusa: non rimanevano che l’iniziativa e l’attività privata in un campo strettamente limitato.

Intanto una grave conseguenza della generale situazione militare e politica si stava profilando: non era assolutamente possibile che al termine del conflitto l’Italia avesse pronto un programma urbanistico ufficialmente approvato da immediatamente attuare.

Ciò importava, oltre che il crollo dell’illusione in una immediata mobilitazione generale per la ricostruzione pianificata, vagheggiata come ideale e luminoso trapasso dallo stato di guerra allo stato di pace, anche il pericolo dello slittamento verso quei sistemi di costruzione, che assolutamente si volevano contrastare e trasformare.

A mitigare questa cocente delusione stava la coscienza che la nostra situazione, comune del resto a molti dei paesi europei, squassati dal conflitto, non era ancora tale da pregiudicare completamente e per sempre la formazione dei piani: questi restavano pur sempre urgenti ed impellenti, ma era anche facilmente prevedibile che le difficoltà finanziarie, dovute all’assestamento economico e sociale, ritardando una ripresa edilizia su vasta scala, avrebbero determinato un intervallo di tempo sufficiente all’approntamento dei piani.

Una razionale riorganizzazione urbanistica era dunque soltanto ritardata, ma non ancora definitivamente compromessa.

Queste circostanze ben note, che fortunatamente appartengono ad un passato ormai lontano, giustificano il notevole ritardo con cui oggi si procede, in Italia, all’approntamento ed alla applicazione dei programmi urbanistici e spiegano anche, in parte, il presente generale disorientamento del pubblico nella scelta di un chiaro indirizzo nella ricostruzione edilizia.

L’aver richiamato tali circostanze di carattere generale serve inoltre per la comprensione delle difficoltà in cui si è mosso il nostro gruppo durante i primi passi per lo studio della pianificazione regionale del Piemonte.

Specie il reperimento e la raccolta del materiale statistico, occorrente per .una chiara visione d’insieme dei vari fattori urbanistici, non fu esente da ostacoli di ogni genere: le biblioteche locali bruciate o sfollate, la disorganizzazione completa degli Uffici e delle Pubbliche Amministrazioni durante l’ultima fase della guerra, la diffidenza generale da parte di ogni Ente, cui ci si rivolgesse, durante l’occupazione, per la richiesta dei dati, l’assenteismo e l’indifferenza degli stessi nei primi mesi dopo la liberazione, contribuirono ad aggravare il compito oneroso che ci eravamo proposti.

Finalmente il passaggio delle provincie del Nord al Governo Italiano ed il processo di riorganizzazione nazionale, unitamente al normalizzarsi della situazione generale, contribuirono a chiarire le relazioni ufficiali e facilitarono gli scambi colle autorità centrali.

La prima comunicazione pubblica del nostro studio fu presentata al 1° Convegno Nazionale per la Ricostruzione, tenuto in Milano nel dicembre 1945.

Successivamente nel febbraio ‘46, in occasione di una pubblica riunione indetta dal Sindaco di Torino, veniva data lettura di una relazione sui concetti generali del piano che ebbe notevole eco nella stampa locale.

Nel mese di aprile, su personale invito del Presidente del Consiglio delle Ricerche Prof. Colonnetti veniva allestita a Roma la prima Mostra di alcuni degli elaborati del Piano con l’intervento del Ministro Cattani e del Consiglio Superiore dei LL.PP. Nelle venti tavole esposte, erano illustrati in gran parte i risultati delle ricerche analitiche e statistiche effettuate nei vari campi di indagine, come premessa alla redazione del Piano.

L’interessamento e l’incoraggiamento delle Autorità a questi studi si concretavano successivamente nella decisione, da parte del Ministero dei LL.PP., di procedere alla compilazione del piano territoriale di coordinamento della Regione Piemontese. La pianificazione urbanistica regionale inizia ufficialmente così il suo primo esperimento in Italia, ed è per noi motivo di grande compiacimento che questo abbia ad esercitarsi sul territorio del vecchio e industrioso Piemonte.

Nelle pagine che seguiranno verrà illustrata e riassunta una parte dello studio regionale, sia nell’indirizzo metodologico che nei principi generali, ed alcune pratiche applicazioni.

[...]

Principi generali dell’urbanistica regionale.

Quali gli scopi di un piano regionale? Scopo generale del piano Urbanistico è quello di trasformare gradualmente la situazione di fatto di una data circoscrizione territoriale in modo da crearvi, in tempo più o meno breve, le più efficienti condizioni possibili per le attività produttive e le migliori condizioni ambientali di vita per la popolazione.

Per illustrare questo concetto noi possiamo pensare ad esempio che la Regione, oggi determinata nel suo stato attuale dall’elemento naturale, ma ancor più dal lavoro dell’uomo attraverso i millenni ed erede di una plurisecolare vita borghigiana, si trovi un po’ nelle condizioni di una vecchi bottega artigiana, in cui siano stati immessi da poco tempo, macchinari modernissimi, senza procedere ad una completa revisione e riorganizzazione delle attrezzature.

Se si vuole che la nuova macchina, impiantata nella vecchia bottega renda, è necessario rivedere i vecchi strumenti, sostituire gli inadatti e gli inservibili, distribuire tutti gli attrezzi secondo un processo di lavorazione che non è più quello artigianale, ripulire e riordinare.

Ecco il compito del piano urbanistico.

Naturalmente non si potranno apportare istantaneamente trasformazioni integrali. Il patrimonio edilizio, che noi abbiamo ereditato dalle precedenti generazioni, con tutti i suoi errori e le sue manchevolezze, non può essere annullato e interamente rifatto. Si tratta però di dare inizio ad un’opera di graduale ma profondo riordinamento, si tratta essenzialmente di razionalizzare tutte le opere edilizie che verranno eseguite nel prossimo futuro, per imprimere ad esse una giusta direzione. Si tratta in definitiva di stabilire le line direttrici principali lungo le quali tutta l’attività edilizia, pubblica e privata, industriale e agricola, prossima e lontana, possa indefinitamente svolgersi nelle condizioni di più alta efficienza.

Considerato in astratto ed in generale il concetto di efficienza e delle migliori condizioni ambientali di vita resterebbe tuttavia ancora molto vago se esso non avesse in concreto ed in particolare significati tecnici ben precisi nei singoli settori, cui si riferisce, e sui quali è opportuno soffermarsi alquanto.

Per l’abitazione significa

a) adeguare in tutte le nuove abitazioni il numero dei vani al numero dei componenti della famiglia, per garantire un grado di affollamento non superiore all’unità;

b) assicurare a tutte le nuove abitazioni un minimo di soleggiamento e di verde;

c) non oltrepassare dati limiti di densità fondiaria e territoriale;

d) procedere, nella formazione dei nuovi quartieri, al raggruppamento delle abitazioni secondo il principio organico. Esso si può enunciare in questi termini:

ogni gruppo di abitazioni forma un nucleo residenziale con i suoi servizi; dal raggruppamento di più nuclei; con l’aggiunta di servizi e di attrezzature collettive adeguate, nasce il quartiere organico residenziale; più quartieri organici, integrati da servizi comuni e sommati a congrue zone di lavoro (industriale, commerciale e artigiano), formano l’unità cittadina organica

”In tal modo la città residenziale diventerà una vera federazione di unità organiche e di quartieri organici residenziali, essi stessi federazione di nuclei residenziali” (Lebreton, La Cité Naturelle).

Per l’edilizia industriale significa:

a) predisporre nei complessi urbani esistenti, nelle aree di espansione degli stessi e nelle località di creazione di nuovi centri delle zone da destinare esclusivamente ad uso industriale;

b) nella determinazione di zone industriali tener conto di tutti quei fattori ubicazionali, che pongono una data area in condizione geograficamente favorevoli all’arrivo delle materie prime, alla loro trasformazione, alla distribuzione dei prodotti, ai reciproci scambi, di semilavorati tra industrie di un unico ciclo produttivo, all’afflusso e alla residenza della mano d’opera;

c) attrezzare le zone industriali con servizi generali utili al buon funzionamento della zona e ad incrementare l’efficienza degli impianti.

Il raggruppamento di numerose attività industriali permetterà di ripartire e sostenere l’onere di detti servizi, che andranno dagli allacciamenti stradali ai raccordi ferroviari, piani caricatori, magazzini generali, centrali termiche collettive, oleodotti, impianti di posta pneumatica, ecc. In un’area industriale attrezzata ogni nuovo impianto diventa automaticamente compartecipe degli investimenti di capitale, della comunità.

d) distribuire gli stabilimenti nell’interno delle aree industriali tenendo conto del ciclo produttivo generale e dei reciproci scambi di semilavorati e di prodotti, dando ai singoli stabilimenti la possibilità di espandersi e di contrarsi conformando volta a volta le dimensioni alle esigenze economiche e tecniche, in continuo divenire, della produzione industriale.

Per le attrezzature edilizie collettive significa :

a) adeguare qualità, dimensioni e numero delle attrezzature alle esigenze e al fabbisogno sia delle nuove unità cittadine organiche che di quelle zone dei vecchi centri esistenti che sono suscettibili di essere riorganizzate colla integrazione in misura acconcia di quei servizi di cui difettano;

b) distribuire le attrezzature in luoghi adatti ed a giusta distanza dalle abitazioni, al cui servizio sono destinate;

c) destinare. per esse zone tranquille di largo respiro, provviste di molta area verde e di area di riserva, con accessi separati e indipendenti dalle arterie di grande comunicazione.

Per la circolazione stradale significa introdurre nella rete varia esistente quelle modifiche che permettono:

a) di formare una completa rete di strade di grande traffico veloce tecnicamente efficiente (sezioni adeguate alle intensità di traffico, piste separate, incroci selezionati e corredati da manufatti che eliminano i punti di conflitto, ecc.);

b) di allacciare razionalmente le grandi linee di traffico regionale ai centri esistenti secondo la tecnica combinata dalle linee anulari di circonvallazione, e delle linee di penetrazione e di attraversamento veloce;

c) di riorganizzare la viabilità interna cittadina dei centri esistenti colla rigorosa classificazione in:

- arterie di grande traffico veloce (attraversamento e suoi affluenti);

- vie cittadine a traffico automobilistico lento (delimitanti i quartieri residenziali);

- strade residenziali pedonali e miste (interne ai quartieri);

d) di combinare l’allacciamento fra le strade di varia classe in modo che a alle linee di penetrazione e di attraversamento veloce si dipartano a giusta distanza, evitando il più possibile gli incroci a livello, le arterie di grande traffico veloce. Su queste si innestino a livello le vie cittadine a traffico lento, dalle quali si accederà alle strade residenziali. In tutti i casi, sia rigorosamente evitata l’intersezione a livello fra gli attraversamenti veloci e le strade residenziali.

Questi, in riassunto, alcuni fondamentali e noti principi tecnici di carattere particolare oggi diffusamente divulgati dalla più evoluta tecnica urbanistica, e la cui rigorosa applicazione consente una razionale risoluzione dei problemi edilizi e quindi la progressiva creazione di condizioni ambientali di vita migliori e più efficienti delle attuali.

Molti di essi si riferiscono a problemi che si riscontrano e si risolvono unicamente in sede di piano comunale e particolareggiato, ma già parecchi di essi, soprattutto quelli che si riferiscono alla tecnica delle nuove unità urbane, alla zonizzazione industriale e alla viabilità generale, riguardano problemi che non si possono impostare e risolvere altrimenti che in sede di piano regionale.

I principi esposti non esauriscono certamente il campo urbanistico; resta ad esempio da esaminare un importante settore: quello agrario. Lo abbiamo lasciato per ultimo perchè, pur essendo intimamente connesso agli altri settori urbanistici, esso va esaminato con procedura sua propria ed in base a specifici principi.

Innanzitutto il problema agrario dal punto di vista urbanistico non è dissociabile dall’aspetto economico del maggior rendimento delle colture agricole. L’urbanista deve quindi associarsi all’economista agrario per concretare, dove occorra, un vasto programma di miglioramento e di trasformazione delle colture.

In esso, oltre ad essere contemplate particolari direttive di specifica tecnica agraria (rotazione agraria, incremento di produzione foraggiera, trasformazione dei prati stabiliti asciutti, sostituzione di colture, allevamento razionale del bestiame ecc.), dovranno essere affrontati e risolti problemi generali demografici economici e sociali, e quindi urbanistici, di enorme peso nel complesso dell’economia regionale, basata per la massima parte, in Italia, sull’economia agricola.

Essi sono essenzialmente due:

a) L’adeguamento della mano d’opera agricola ad un rendimento medio.

È nota l’alta densità di mano d’opera agricola in Italia. Là dove all’alta densità di mano d’opera agricola si aggiunge purtroppo anche una bassa produttività media del suolo (situazione dell’Italia Insulare e Centro-Meridionale, condivisa anche dalle regioni montane delle Provincie dell’Italia Settentrionale), si abbassa necessariamente il rendimento medio della popolazione agricola. Infatti, mentre l’agricoltore medio italiano coltiva 4,9 fed, cioè nutre col prodotto del suo lavoro, oltre sé stesso, altri 3,9 abitanti, e mentre l’agricoltore delle regioni di pianura, in Piemonte mediamente raggiunge gli 8,6 fed, nelle regioni di montagna piemontesi esso scende mediamente ai 2,3 fed, e in alcune Zone, particolarmente infelici, esso scende perfino al di sotto degli stessi limiti della propria sussistenza.

L’adeguamento ad un rendimento medio, indispensabile per ridurre i prezzi dei prodotti agricoli ad un livello tale da poter far fronte alla futura concorrenza estera, si può ottenere attraverso uno dei seguenti mezzi:

I – Aumentare la produttività unitaria agricola con migliorie tecniche.

II - Diminuire la densità coll’impiego della mano d’opera eccedente nella stessa località e ancora nell’agricoltura (messa a coltura di terreni incolti ecc.) o nella pastorizia e foreste.

III – Impiegare il supero di mano d’opera ancora in sito, ma in altre attività esistenti o di nuovo impianto (ad es. industrie alimentari ecc...).

IV – Permettere l’inurbamento.

V – Favorire l’emigrazione all’estero.

VI. – Favorire l’emigrazione interna, spostando l’eccedenza di mano d’opera in località adatte a riceverla, occupandola in attività produttive di nuovo impianto.

Ad esclusione della soluzione di inurbamento (sempre deprecabile se avviene nel modo spontaneo e caotico seguito finora), gli altri mezzi esposti sono applicabili e tra loro integrantesi. Il III e soprattutto il VI porgono problemi di trasferimento di popolazione e di impianto di nuove attività, che toccano nel vivo il problema urbanistico regionale.

b) La riforma agraria. - Molti gli studi che economisti e politici dedicano oggi al complesso problema della riforma agraria in Italia. Esso ha sostanzialmente due aspetti fondamentali: il problema delle dimensioni delle aziende agrarie e la revisione dei contratti agrari.

Il primo è un problema tecnico economico e politico che si presenta in modo molto vario nella Penisola e che va dal frazionamento del latifondo del Centro e Mezzogiorno all’accorpamento in unità organiche delle frantumatissime parcelle di seminativi e di prati nelle regioni montane.

Esso ha notevoli riflessi in campo urbanistico perchè non è possibile effettuare un durevole frazionamento né un’utile rifusione parcellare senza al contempo provvedere ad un complesso di opere di bonifica pubbliche e private (strade, canali, acquedotti ecc.) e di attrezzature edilizie (case rurali, stalle, sili ecc.).

Il secondo aspetto, quello contrattuale, pur essendo intimamente collegato al primo, ha tuttavia un carattere giuridico e sindacale molto particolare, che fuoriesce dal campo urbanistico. Ciò nonostante hanno spiccati riflessi urbanistici alcuni schemi di riforma basati sulla gestione cooperativa delle aziende agricole, per le profonde innovazioni che essi apporterebbero nell’edilizia rurale con la introduzione, ad esempio, di nuove e complesse attrezzature collettive.

La separata risoluzione tecnica dei problemi particolari dei vari settori elencati non è ancora tale da produrre di per sé il piano regionale.

Questo rischierebbe in definitiva di frantumarsi in una numerosissima serie di varie iniziative, originate da particolari condizioni locali, e di soluzioni a queste strettamente collegate, che, se pur anche avvenissero colla razionale e illuminata applicazione dei principi tecnici esposti (il che comporterebbe già un gigantesco passo oltre alla prassi caotica delle soluzioni inefficienti e contrastanti), ancora non costituirebbero nel loro complesso tutto organicamente articolato, ma resterebbero una semplice somma algebrica di parti meccanicamente risolte e fra loro slegate, se mancasse l’elemento vivificatore del tutto, il centro motore del grande insieme regionale.

La pianificazione regionale si realizza e può assolvere il suo compito, può cioè condurre alla formazione di un organismo vivo ed efficiente, solo se viene promossa una diffusa circolazione sanguigna in tutti i settori, una profonda osmosi fra tutti gli elementi; solo se viene attuata la continua applicazione di un principio vivificatore.

La necessità di rifarsi ad un principio urbanistico generale si presenta quindi in definitiva come necessità di unità e di sintesi e la stessa ricerca e definizione di tale principio appare ora, dopo l’esame dei singoli problemi parziali, facilitata e chiarita.

Riassumiamo (anticipando i risultati delle analisi) la situazione regionale piemontese.

La Regione ha urgente necessità di saldare il deficit di abitazioni e di attrezzature: i centri urbani industriali sono sovraffollati, in essi esistono distruzioni totali, esistono tuguri inabitabili, esistono industrie in pessime condizioni ubicazionali, la campagna in alcune zone è esuberante di mano d’opera agricola, la montagna tutta soffre per l’altissima eccedenza della stessa mano d’opera.

Se si continua a costruire, un po’ meglio di prima, ma cogli stessi sistemi e nelle stesse località di prima, si saranno lasciati i problemi urbanistici demografici e sociali allo stesso punto di prima: i centri industriali continueranno ad affollarsi e ad enfiarsi, le montagne a languire. Né l’espansione a macchia d’olio, né il frazionamento dell’attività edilizia in mille opere slegate permetteranno mai una rigorosa applicazione dei principi tecnici enunciati.

Per sollevare contemporaneamente città, campagna e montagna dai mali di un cattiva urbanistica, praticata da mezzo secolo, e per razionalizzare la futura attività edilizia, industriale ed agricola, non c’è che un rimedio: instaurare una ordinata urbanizzazione del suolo, che preveda la successiva creazione nel tempo di nuove unità organiche, in cui troveranno contemporaneamente lavoro e abitazione i senza-tetto, gli ex abitatori di alloggi sovraffollati o di tuguri inabitabili, e gli emigrati dall’eccedenza demografica agricola e montana. Questi potranno diventare in tal modo i fortunati pionieri di una nuova civiltà del lavoro, impostata sulle più efficienti, più gradevoli e più serene condizioni ambientali di vita, frutto di una intelligente ed umana applicazione dei mezzi tecnici più moderni.

Il principio generale della urbanizzazione regionale capace di connettere le singole risoluzioni in un grande tessuto omogeneo, sta precisamente in questa procedura e in questo concetto:

CONVOGLIARE LA MASSIMA PARTE DELL’ATTIVITÀ EDILIZIA VERSO LA FORMAZIONE DI NUOVE UNITÀ CITTADINE ORGANICHE PERFETTAMENTE ATTREZZATE ED ECONOMICAMENTE ATTIVE.

Questo principio richiede, per poter esser tradotto in pratica, i seguenti presupposti:

l) la possibilità di effettivamente coordinare le attività edilizie, attraverso una opportuna procedura;

2) la possibilità di trasferire impianti industriali in condizioni ubicazionali migliori e di maggior rendimento;

3) la possibilità di creare nuove attività di produzione industriale;

4) la possibilità di organizzare tecnicamente le singole unità produttive entro un ciclo tecnico il più possibilmente completo ed efficiente (la zona industriale);

5) la possibilità di estendere, sull’intero territorio regionale, una oculata e previdente zonizzazione, che predisponga con lungimiranza gli adeguati vincoli sulle aree, che si prevedono, in futuro, destinate all’impianto delle nuove unità organiche.

Il principio; urbanistico enunciato, che non esclude per altro applicazioni di dettaglio della tecnica urbanistica a tutto il territorio, può essere nucleare per tutte le regioni industrialmente evolute. La sua applicazione è fonte di grandi trasformazioni economiche e sociali e feconda di deduzioni. Innanzitutto viene introdotto un metodo cosciente di urbanizzazione graduale ed organica del suolo, che permette la figliazione dal vecchio ceppo regionale di gemmazioni nuove, sane (igienicamente ed economicamente) e di grande vitalità. Ogni nuovo accrescimento è controllato e portato a vivere nelle migliori condizioni: eugenetica scientificamente perfetta. Non solo, ma i benefici influssi di questo metodo vengono risentiti in tutta la Regione, nei grandi e nei piccoli centri, nella campagna e nella montagna.

Anche ai problemi isolati e particolari viene impressa una direzione nuova e ben definita, anche per i vecchi centri può essere impostata, in questo senso, una proficua revisione urbanistica. Anziché anelare a sempre nuove espansioni, essi potranno iniziare con profitto una minuta opera di riorganizzazione interna basata sulla determinazione, nel tessuto già costruito, di zone ben delimitate che possano ricevere la individualità di un quartiere e che, colla integrazione di attrezzature collettive mancanti, con una solerte politica edilizia di sfollamento, diradamento e di risanamento, e con la intensificazione di zone verdi, possano aspirare a diventare quartieri attrezzati. Anche per i vecchi centri potrà quindi essere applicato il concetto federativo dei nuovi quartieri organici.

In tal modo il soffio di vita delle nuove unità organiche entrerà a vivificare puranche i grossi centri edilizi esistenti, salvandoli dalla tristezza dell’anonimo e insalubre casamento e dallo slittamento verso il dramma della gigantesca metropoli.

La metodica, rigorosa applicazione del concetto generale esposto e dei principi tecnici validi per le soluzioni particolari conduce inevitabilmente alla programmazione e coordinazione di una enorme massa di opere, pubbliche e private.

Ma il possesso di un principio fondamentale, chiaramente espresso e perseguito, permetterà pure di sceverare, nella mole di opere, quella logica successione che porterà a raggiungere progressivamente lo scopo.

La semplicistica obiezione, che spesso viene opposta, circa la impossibilità di impostare ed attuare piani lungimiranti in situazioni economiche difficili decade immediatamente colla facile osservazione che è pur sempre possibile la esecuzione parziale (fosse anche minima per ora), ma graduale ed elastica di un’opera che sarà completa entro un certo numero di anni.

La pianificazione regionale così esposta impegna la collettività ad un’opera di grande collaborazione umana, che può divenire reale solo attraverso la accettazione e la cooperazione generale, solo seguendo un cammino comune, percorso senza distorsioni prospettiche e senza individuali egoismi.

Dichiarazione di W. Paul Farmer, Executive Director e Chief Executive Officer della American Planning Association

Davanti alle Sottocommissioni (Commissione Trasporti e Infrastrutture) riunite della Camera: Risorse Idriche e Ambiente; Sviluppo Economico, Edifici Pubblici, Gestione dell’Emergenza

Una strategia e una visione per ricostruire New Orleans

18 ottobre 2005 - [Titolo originale: A Vision and Strategy for Rebuilding New Orleans- Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini]

Presidente Shuster, Presidente Duncan, distinti membri delle Sottocommissioni, vi ringrazio per aver richiesto questa audizione. Tengo in alta considerazione l’opportunità di esprimermi su un argomento tanto importante, che è al centro dei miei interessi professionali e personali.

Mi chiamo Paul Farmer, sono Executive Director della American Planning Association (APA). In quanto APA, apprezziamo la possibilità di avere questa occasione di discutere l’impegno per la ricostruzione di New Orleans nel suo stretto rapporto con la pianificazione e le decisioni attuative.

Sono qui sia come responsabile della più antica e ampia associazione dedicata alla promozione di una buona urbanistica, che costruisca città valide nel tempo, sia come urbanista professionista che ha prestato la sua opera in città varie, stimolanti, complesse, come Pittsburgh, Minneapolis, e Eugene, Oregon. Ho iniziato a interessarmi di urbanistica da studente delle superiori, a Shreveport, Louisiana, affascinato dalle trasformazioni della mia città. Fu allora che appresi come esistesse una professione interamente dedicata ad aumentare le possibilità di scelta per la popolazione e migliorare la qualità di vita della gente.

L’APA rappresenta 38.000 urbanisti professionisti, componenti di commissioni urbanistiche, cittadini interessati a costruire una visione per il futuro delle proprie comunità. I nostri associati partecipano, nel settore privato e a tutti i livelli della pubblica amministrazione, a predisporre e attuare piani che coinvolgono i cittadini in un processo di attenta riflessione pensato per costruire un progetto futuro.

Piani che riflettono valori identitari locali, promuovono una saggia gestione delle risorse, aumentano le possibilità di scelta nei modi di vita, lavoro, tempo libero, e migliorano la qualità della vita urbana. Sono lieto di vedere qui tante persone che rappresentano la spina dorsale del successo economico, sociale e politico di New Orleans. La nostra discussione sarà un elemento critico per la proposta di chiare politiche per una ricostruzione duratura delle comunità nella regione colpita. Credo sia un buon segno, il fatto che abbiamo qui contemporaneamente due Sottocommissioni al lavoro. La vostra responsabilità riguardo alla FEMA, al Genio militare e altre agenzie chiave per la gestione dell’emergenza e la prevenzione è rilevante e vitale per il nostro lavoro. Lo sforzo di ricostruzione richiederà molta collaborazione, sia da Capitol Hill che localmente in Louisiana.

L’uragano Katrina e la successiva alluvione sono stati fra i maggiori disastri a scala urbana e regionale nella storia degli USA. Il danno è stato immediatamente aggravato dall’uragano Rita. La ricostruzione di New Orleans e della cista del Golfo comporterà il più grande e complesso impegno di pianificazione della nostra vita. Sarà fatto di analisi approfondite e dibattito pubblico riguardo agli equilibri fra obiettivi ideali e scelte pratiche. Comprenderà alcune tematiche urbanistiche fra le più difficili del nostro tempo – giustizia ambientale, equità razziale, ripristino dei sistemi naturali, delle infrastrutture, acquisizione di proprietà privata, bonifica ambientale, tutela dei beni culturali, prevenzione dagli eventi calamitosi, sviluppo economico, riorganizzazione urbana - tutti ad una dimensione senza precedenti.

Oggi vorrei parlare dell’importanza della professione di urbanista e del processo di pianificazione, in particolare nei loro rapporti con gli sforzi di ricostruzione a seguito di un disastro. Esporrò gli aspetti fondamentali della pianificazione generale di lungo periodo, come tali principi possano essere applicati e introdotti efficacemente a New Orleans, cosa farà l’APA per contribuire, dal punto di vista istituzionale e sul terreno, e infine il nostro punto di vista sul ruolo del governo federale in questo sforzo coordinato, oltre alla raccomandazioni per l’immediato futuro.

Valore della pianificazione generale e della partecipazione pubblica



La pianificazione e le particolari competenze degli urbanisti vengono utilizzate per aiutare vari gruppi a trovare un terreno comune e soluzioni condivise riguardo ai problemi urbani. La pianificazione è il metodo attraverso il quale nelle città i rappresentanti eletti, i funzionari e gli altri interessi vengono messi insieme a definire ed attuare un progetto basato su obiettivi e valori condivisi.

La pianificazione offre un modo ai cittadini interessati di far sentire la propria voce, su come vogliono riorganizzare la propria città. In questo modo, la pianificazione per una sana democrazia ha il medesimo valore del diritto di voto. Nessun altro processo pubblico mette i cittadini in grado di essere tanto direttamente coinvolti nel formare il futuro del luogo dove essi vivono. L’urbanistica è democrazia in azione. Parte di questo processo democratico coinvolge gli abitanti, gli interessi dei costruttori, e altri soggetti interessati che si uniscono a comporre una visione comune del futuro urbano.

Ricostruire con le dimensioni che si presentano oggi deve essere uno sforzo collaborativo tra il livello locale, statale, federale. L’obiettivo è di ricostruire città sicure, dare agli abitanti opportunità di scelta per vivere e lavorare. Viste le grandi trasformazioni in corso nelle nostre città, le modifiche individuate da tanti studi e ricerche, pianificare è più vitale che mai, anche come strumento di azione informata delle amministrazioni municipali.

Le decisioni di piano sono fra le più essenziali delle responsabilità di governo locale. L’urbanistica influenza la vita di ogni cittadino in una comunità. La partecipazione e il controllo in sede locale sono essenziali per mantenere la fiducia del pubblico e la verificabilità. La pianificazione a New Orleans dovrà utilizzare in pieno gli uffici e istituzioni esistenti. Governo federale, APA e altre entità possono offrire assistenza tecnica e nuovi strumenti per rimpiazzare la capacità di azione locale provvisoriamente assente, ma è vitale collaborare con strutture come la planning commission o l’ente di pianificazione regionale, per costruire un solido piano di ricostruzione che rifletta valori locali.

Gli urbanisti sono formati ad esaminare una situazione e offrire una prospettiva generale. Questo punto di vista consente loro di individuare sia le conseguenze previste che quelle possibili, nei processi di crescita e mutamento. La pianificazione, in essenza, riguarda la gestione del mutamento secondo modalità che coinvolgano i cittadini, riflettano i loro punti di vista, ne restituiscano il valore aggiunto.

Le città non possono fare a meno di una buona pianificazione, nella sola corsa a ricostruire. Ora è il momento di considerare tutti i problemi urbanistici, per assicurare che vengano realizzate comunità di valore durevoli. Gli urbanisti sono una risorsa vitale per le città devastate, per aiutare a valutare i rischi, ricostruire in modo sicuro, ridurre la vulnerabilità rispetto ad eventi di origine umana o naturale. I pianificatori aiutano le comunità a individuare un quadro generale e a mantenere una prospettiva di lungo termine a orientare la crescita e il mutamento.

Ogni abitante deve avere voce nel processo di ricostruzione. Ciò richiederà coordinamento delle assemblee pubbliche cittadine e di altri incontri, a un livello senza precedenti vista la dispersione geografica dei residenti. Questo coinvolgimento rappresenta certo una sfida, ma che non può essere ignorata. Per ricostruire città dal valore duraturo nel tempo, gli abitanti, gli interessi economici e i rappresentanti eletti, devono prendere le decisioni sulla città insieme.

Gli investimenti in termini di tempo, capacità, creatività, e naturalmente denaro, sono centrali per il successo di una città. Coinvolgere la business community sarà particolarmente importante nel caso di New Orleans, ed è una buona pianificazione quello che alla fine genera confidenza negli investitori. Una buona pianificazione è quello di cui gli investitori hanno bisogno per sapere che il loro lavoro sarà remunerato, non vanificato.

Ricostruire gli argini semplicemente ai livelli pre-Katrina molto probabilmente non instillerà fiducia negli investitori. Gli argini hanno ceduto. Bisogna anche riconsiderare il tipo di argini, la sostituzione eventualmente con terrapieni dei muraglioni che hanno ceduto lungo i canali. E sì: il governo deve prepararsi a utilizzare lo strumento del diritto di esproprio. Sarà necessario acquisire alcune proprietà, per tutelarne molte altre e proteggere vite umane. Dobbiamo anche iniziare ad attuare il Piano Coast 2050 e ripristinare le zone umide.

Le grandi città non si realizzano in una notte, o per caso. Sono pensate, sono pianificate. Comportano impegno, collaborazione, partecipazione civica. Promuovono l’inclusione, le occasioni per tutti, e non solo per pochi. L’APA sostiene e auspica la partecipazione perché le buone idee emergono quando si mettono insieme parecchie persone. Nessuna grande città è mai frutto di una sola persona, o di un piccolo gruppo.

È necessario un approccio multilaterale



L’elemento chiave per ricostruire le regioni devastate è un approccio multilaterale. Ciò significa prendere in considerazione gli aspetti ambientali, valutare i potenziali di rischio, attuare i piani di mitigazione degli impatti, sollecitare la partecipazione ai processi di piano e sostenere le decisioni corrette.

Non possiamo rinunciare ad una buona pianificazione in cambio della sola corsa a ricostruire. Una ricostruzione affrettata semplicemente esporrà le città ad un rischio maggiore. La ricostruzione deve procedere con cura, svilupparsi ad una velocità che possa ricondurre gli abitanti a casa in modo sicuro. Soprattutto, la ricostruzione deve conservare l’unicità del tessuto fisico e culturale della regione.

L’urgenza della risposta e della ricostruzione dopo l’uragano deve essere equilibrata da decisioni consapevoli. Devono essere utilizzati i migliori esempi del passato, studi, buoni piani, esempi storici, in modo che non si ripetano gli stessi errori di progetto ed effetti ambientali. Non si devono scavalcare le procedure di regolamentazione e ambientali nel nome dell’efficienza e speditezza nell’approvazione, il via libera ai progetti edilizi e infrastrutturali, deve comunque dare priorità a ciò che avvantaggia tutti.

Non possiamo permetterci di ignorare la lezione che ci è stata impartita dell’uragano Katrina. Ignorare i potenziali di rischio è pericoloso per le nostre comunità. Ora è il momento di valutare la vulnerabilità a eventi di origine umana o naturale e contemporaneamente attuare programmi di mitigazione per ridurre tali rischi nel corso della ricostruzione. Mettiamo gli strumenti del piano a disposizione per costruire solide fondamenta alle città. Una efficace prevenzione degli eventi calamitosi, una risposta ad essi e misure di mitigazione degli impatti, possono avvenire solo tramite adeguati ed efficaci investimenti in infrastrutture, per tutte le città e in particolare per questa regione.

Quello che si deve ricostruire, dove lo si ricostruirà, e con quali caratteristiche, sono domande aperte. Egualmente importante è cosa non si deve ricostruire. E i casi abbondano. Solo per fare un esempio, le scuole possono essere riportate alla vita come veri e propri centri di servizio per tutti gli abitanti delle città, sette giorni la settimana. Dal punto di vista della pianificazione decisioni del genere devono coinvolgere tutti i cittadini – ovvero chi abitava nella zona prima dell’uragano, gli interessati al settore edilizio residenziale, gli operatori economici, il settore energetico, le persone competenti in materia ambientale, oltre ai governi statale e locali – nelle decisioni sulla migliore localizzazione di scuole, case, percorsi dei trasporti pubblici, grandi arterie e corridoi di mobilità.

È possibile anche aumentare gli spazi aperti pubblici. Credo che troppo spesso si cominci dalle grandi infrastrutture, dalle decisioni su dove collocare strade e autostrade e sovrappassi o cose del genere. Sono cose importanti, ma credo che lo spazio collettivo dove le persone si incontrano sia estremamente importante in qualunque città, e non si tratta di qualcosa che possa essere aggiunto poi.

Sono stato responsabile per l’urbanistica a Minneapolis per molti anni, e un secolo fa alcune persone molto sagge di Minneapolis avevano deciso che lo schema di sviluppo della città dovesse essere attorno alla catena di laghi mantenuta pubblica, così tutti i terreni attorno ai laghi, al torrente Minnehaha e a gran parte del Mississippi sono pubblici. Ciò mi da’ motivo di ritenere che ci sia spazio per rivedere questo aspetto di New Orleans pur rispettandone la storia.

Uno degli elementi chiave di qualunque pianificazione generale è la costruzione o conservazione delle caratteristiche storiche e culturali di un’area. Il motivo per cui New Orleans e la regione circostante hanno attirato tanti turisti negli anni è in gran parte riconducibile alle forti influenze storiche e culturali. La gente vuole sperimentare la ricca eredità storica, francese, meridionale, creola, vuole assaggiare le classiche ricette della cucina locale, ascoltare i leggendari musicisti zydeco e jazz, ammirare gli artisti e le loro opere in città, essere circondata dall’intrico dei lavori in ferro battuto e dalle varie architetture.

Conservazione storica e ripristino degli edifici sono parte essenziale della ricostruzione di New Orleans. Qui, più che in qualunque altra città del paese, le strutture storiche sono parte irrinunciabile sia della cultura che dell’economia. Dovremo usare New Orleans come laboratorio di innovazione in questi campi, ampliando gli usi dei fondi ex rehabilitation tax a stimolare il riuso di strutture vitali per la città. In più, dovremo introdurre un residential historic tax credit per i proprietari di casa di New Orleans per sostenerli nella ricostruzione secondo modalità che conservino la vitalità dei quartieri esistenti.

Parlando di questo, non possiamo dimenticare il capitale intellettuale rappresentato dalla popolazione. Uno dei modi più efficaci per rispettare il carattere tradizionale di una comunità è il riconoscere il valore della “infrastruttura sociale” di un’area. Una pianificazione aperta, trasparente e partecipativa rappresenta un elemento critico per ricostruire reti sociali più solide e inclusive di prima.

Dobbiamo anche guardare alle lezioni che abbiamo appreso da altre esperienze. La Florida ha mostrato come il coordinamento regionale delle decisioni locali possa essere efficace nella ripresa dopo eventi calamitosi. La Florida ha mostrato anche il valore di piani generali sostenuti dalla forza della legge. Il mio stato natale farà bene a seguire questa lezione.

Il ruolo dell’APA



Ora è il momento di iniziare a definire le forme della pianificazione di lungo periodo, perché esse saranno influenzate dalle decisioni prese nelle prossime settimane e mesi. Siamo concentrati sulle capacità di ricostruzione pianificata per rispondere ai bisogni immediati, e assistere altre città prive di piani di preparazione agli eventi calamitosi. Vanno prese accuratamente in considerazione tutte le soluzioni temporanee, perché non si trasformino in decisioni sbagliate e definitive.

Va riconosciuto che i nostro colleghi della Louisiana avranno bisogno di assistenza dall’esterno, dato che le risorse locali sono estremamente scarse nel momento in cui esse sono maggiormente necessarie alle città.

In risposta a questa sfida l’APA ha messo a disposizione numerosi materiali disponibili online per aiutare a orientare il processo di ricostruzione, tra cui progetti tipo, strumenti vari di pianificazione, esempi di ordinanze ed esperienze da altri casi di disastri naturali. In più, l’APA ha immediatamente lanciato una serie di iniziative, come offrire ai mezzi di comunicazione elenchi di propri membri noti per le conoscenze in materia di ricostruzione e prevenzione, organizzando uno speciali laboratorio Katrina recovery alla riunione annuale della sezione della Louisiana, pubblicando un numero monografico della rivista Interact dedicato a cosa può fare ciascun urbanista per collaborare ad accelerare la ripresa, organizzando una conferenza telematica sull’argomento per i propri iscritti, creando una sezione Katrina sulle pagine web dove sono disponibili molte risorse formative.

Alla National Planning Conference dell’APA a San Antonio nell’aprile 2006, terremo una sessione sulle misure di intervento dopo eventi calamitosi, per formare i partecipanti su questi temi. Visto che il Texas ha accolto tanti evacuati, terremo anche un laboratorio di una giornata, di sabato, sui problemi della ripresa e ricostruzione.

Utilizzeremo tutte le risorse dell’APA, conferenze e strutture, concentrandoci su questi temi, ed esprimere i modi in cui i nostri membri possano partecipare a titolo personale, a collaborare a costruire potenzialità di pianificazione.

L’APA manderà un gruppo di urbanisti a New Orleans a ricostruire le strutture di piano per la città. Altrove nella Costa del Golfo, i Planning Assistance Teams collaboreranno con le comunità colpite, offrendo assistenza, competenze e conoscenze. Questi esperti collaboreranno coi leaders locali nell’affrontare i vari bisogni di pianificazione, ricostruzione, mitigazione degli impatti ecc. Molti dei nostri iscritti hanno esperienze di inondazioni, incendi, terremoti e altri eventi, e possono offrire un valido aiuto ai propri colleghi e alle città di questi stati.

Naturalmente, il ruolo dell’urbanistica a New Orleans ora e per il futuro sarà diverso da quanto avveniva prima dell’uragano Katrina. La sua applicazione in sede locale seguirà le decisioni degli amministratori. Il coinvolgimento sarà ampio e diffuso.

Il gruppo di lavoro valuterà i punti di forza, debolezza, opportunità e sfide connessi all’urbanistica cittadina così come si configurava prima del disastro, giudicando le attuali capacità operative degli uffici. Prenderà in considerazione il coordinamento dei vari aspetti urbanistici all’interno dell’amministrazione pubblica, fra il governo cittadino e le istituzioni locali come scuole, università, ospedali, nella prospettiva delle sfide senza precedenti che aspettano New Orleans e di quanto esse necessitino di soluzioni non tradizionali per assicurare una forte ed efficace azione di piano.

Il gruppo di lavoro predisporrà un piano organizzativo per gli uffici urbanistici cittadini, comprese raccomandazioni di bilancio e organico, ad assicurare una prospettiva di obiettivi generali, e potrà collaborare con i funzionari nell’attuazione di tale piano organizzativo.

Il gruppo potrà anche predisporre una serie di linee e procedure per l’approvazione dei progetti, come le norme tecniche, le autorizzazioni e permessi, ispezioni, e offrire raccomandazioni generali sulle principali politiche, come il comprehensive plan cittadino, la gestione delle aree alluvionali, progettazione urbana, bilancio ambientale, partecipazione pubblica.

Ruolo del livello federale e Policy Recommendations



APA svolge un ruolo guida nel campo della pianificazione e collabora con le città perché abbiano maggior possibilità di scelta, attraverso le proprie iniziative generali a livello federale, e di divulgazione pubblica. Tali attività riguardano un vasto ambito di questioni, come le spese per la mobilità, il risparmio energetico, la tutela ambientale, l’abitazione o lo sviluppo economico.

Il lavoro di ricostruzione a New Orleans richiederà sostegni per la raccolta di dati e le analisi, come i modi di condivisione delle informazioni tra vari uffici e competenze, o l’adeguatezza del personale negli uffici impegnati nella pianificazione, a livello cittadino, regionale, statale e federale. Occorre anche produrre informazione tecnica e programmi di formazione che sappiano costruire competenze regionali in grado di deliberare consapevolmente, e sviluppare una serie di strumenti comunicativi che assicurino la partecipazione di tutti i soggetti interessati, ivi compresi gli abitanti sfollati. Il governo federale deve continuare a collaborare con pianificatori esperti nelle aree colpite.

È chiaro come ora non sia il momento per un approccio decisionale “business as usual”. Gli abitanti di New Orleans hanno di fronte sfide enormi e l’azione di governo deve essere il catalizzatore della ricostruzione, non un ostacolo. Comunque, un approccio troppo capillare teso ad emanare norme e regole può essere egualmente pericoloso per un futuro sostenibile di New Orleans. È mia opinione che la chiave stia nel legare processi di pianificazione efficienti e possibilità di regole meno rigide.

Dobbiamo consentire eccezioni ad alcune procedure, verificato che i risultati siano coerenti ad un piano locale. Nello stesso modo, le norme di pianificazione urbanistica e edilizie locali devono essere coerenti al piano generale di ricostruzione. Si tratta di due percorsi che devono lavorare insieme senza soluzione di continuità, altrimenti si rischia di produrre un processo di ricostruzione a macchie di leopardo.

I componenti delle presenti Sottocommissioni conoscono meglio di chiunque altro il ruolo vitale dei trasporti nel funzionamento delle città. I trasporti saranno un elemento chiave nella riorganizzazione di New Orleans, e occorre una risposta federale in questo campo. Occorre congratularsi con la Federal Transit Administration, che è immediatamente entrata in azione offrendo risorse operative agli uffici locali per ripristinare il servizio. Anche l’assenza di valide alternative di mobilità per gli abitanti, ha contribuito a determinare le dimensioni della crisi. La risposta federale e la pianificazione locale dovranno lavorare a promuovere attivamente una maggiore scelta e possibilità di spostamenti a New Orleans.

Dato che le questioni dei trasporti sono tanto importanti, dovrà essere fornito sostegno ulteriore all’agenzia metropolitana di pianificazione e autorità dei trasporti pubblici, non solo per ripristinare in pieno il servizio, ma anche per prendere in esame i problemi resi evidenti dal disastro, come la protezione delle infrastrutture chiave o l’aumento delle alternative di mobilità collettiva.

Occorre costruire alloggi temporanei come parte del processo di ricostruzione di lungo periodo delle città, in modo tale che chi torna possa, per quanto possibile, iniziare a vivere e riprendere coi propri vicini. Si deve mettere a disposizione un finanziamento pubblico per urbanisti a livello di città e di quartiere, perché assistano gli abitanti ad organizzare e finanziare la propria ricostruzione, offrano la possibilità di sviluppare strategie creative per migliorare i quartieri e realizzare zone per gli evacuati, costituiscano un collegamento fra abitanti e amministrazioni locali.

La riduzione o eliminazione dei potenziali rischi naturali deve essere inserita nel processo di ricostruzione, per rendere le città più sicure. Incoraggiamo il governo federale a diventare un riferimento più costante nella promozione di uno sviluppo più sicuro. Un’efficace prevenzione degli eventi calamitosi e misure di mitigazione degli impatti, possono realizzarsi solo con investimenti adeguati e mirati in infrastrutture, per tutte le città e particolarmente per questa regione.

[..]

Sapete, sono appena stato nella mia città di Shreveport, Louisiana, per la riunione annuale della locale sezione APA. Il titolo di quello speciale convegno era: Planning for Prosperity: Opportunities in Post Katrina Louisiana, e racconta molto meglio di parecchi libri l’atteggiamento locale, e insieme la grande occasione e responsabilità che abbiamo oggi. Noi, urbanisti, legislatori, uomini d’affari, professionisti nei settori pubblico e privato, abbiamo l’opportunità di ricostruire New Orleans in modi che creino una vera prosperità. Possiamo collaborare a far sì che da questo grande sforzo nazionale possano nascere città di valore durevole nel tempo.

Credo che lavorando insieme, con una visione complessiva dell’area, possiamo costruire una città riuscita nel lungo termine, dal punto di vista della prosperità economica, sociale, politica. Non si tratta di fare un rabberciamento affrettato. I nostri sforzi devono mirare ad effetti permanenti e duraturi. È per questo preciso motivo, che dobbiamo affrontare il processo di ricostruzione in modo sistematico e comprensivo, accogliendo via via voci e bisogni della comunità locale. La ricostruzione richiede partecipazione continua da parte di tutti i componenti della comunità, indipendentemente dalla loro attuale collocazione.

Storicamente, gli urbanisti sono stati all’avanguardia nella progettazione di spazi e metodi che assicurino sicurezza stimolando vitalità e senso comunitario. È un gesto di riequilibrio. Siamo pronti a continuare nel nostro importante ruolo di fronte alle nuove sfide che aspettano le città. L’APA proseguirà nel dedicare risorse ad uno sforzo che dovrà essere commensurato alle sfide e opportunità offerte da questo disastro senza precedenti.

Il nostro congresso annuale raduna 5-6000 persone. Siete invitati a partecipare alla nostra prossima riunione di New Orleans del 2010. Grazie.

Nota. La versione originale di questa deposizione è disponibile al sito Amercan Planning Association ; di seguito scaricabile il file PDF di questa traduzione (f.b.)

Gli anni del New Deal sono lontani nel tempo. Oggi tutto è cambiato e quella straordinaria esperienza di governo resta consegnata alla storia. Tornando però a rileggere e a guardare i personaggi e le storie di quella stagione si avverte che la polvere che si è depositata non ha ridotto l’attualità di talune idee e comportamenti. La storia non torna mai uguale a sé stessa ma ci ri-propone sentieri già battuti con l’obbligo, però, di rinnovarli e di farli avanzare, ma, forse, il suo compito principale è di aiutarci a riconoscere la moneta falsa corrente.

Ritorno alla terra era la parola d’ordine del presidente Roosevelt che pensava di affrontare la povertà della popolazione rurale attraverso gli aiuti economici e una migliore gestione delle aziende agricole. Inoltre, egli pensava che per contribuire alla ripresa del settore agricolo bisognava intervenire nelle parti degradate delle città e favorire lo spostamento della popolazione nelle aree agricole. Su questa ipotesi si costituì il movimento noto con lo slogan “back to the land”.

A quel tempo uno dei consiglieri del presidente era Rexford G. Tugwell, un economista esperto di economia rurale che la pensava in modo del tutto diverso. Tugwell era convinto che la modernizzazione dell’agricoltura americana richiedeva interventi ampi e una precisa programmazione. Tra i fattori negativi del sistema agricolo americano di quel tempo, lui segnalava: la rigidità, la difficile relazione tra efficienza e tecnologia, l’eccessivo numero di aziende, la contrazione dei mercati, e non ultimo il disequilibrio crescente tra industria ed agricoltura.

La condizione del sistema agricolo era tale, secondo Tugwell, che era indispensabile intervenire con urgenza per evitarne la bancarotta. Il consumo di suolo era un fenomeno di proporzioni enormi e molte imprese erano condannate ad una esistenza di povertà, ma soprattutto era convinto che il flusso migratorio, dalla campagna alle città, avrebbe danneggiato l’economia americana. Altrettanto importante e urgente era il sostegno contro la povertà nelle aree rurali e l’aiuto per gli agricoltori affinché potessero continuare a mantenere il terreno da coltivare. Erano questi i compiti essenziali di una politica federale che si poneva l’obiettivo di costruire il futuro.

Il pensiero di Tugwell appare ancora oggi originale e per questo, anche al di là degli esiti, resta come un esempio tra i più interessanti di politiche pubbliche sul territorio. Il centro del suo ragionamento era che la politica agricola non passava (o comunque non solo) per l’aiuto diretto attraverso la distribuzione di sementi e di strumenti, ma era necessario attivare un processo di riallocazione di quelle aziende collocate su terreni poco produttivi. L’intervento da attivare era sul versante della pianificazione dell’uso del suolo “… if a system of land-use planning were implemented, the United States non only would be conserving its natural resources but also would be making the fullest use of its human resources”. Si trattava di avviare un programma il cui interesse strategico per il Paese ne giustificava la messa in campo di notevoli sforzi economici e organizzativi.

Sono passati 70 anni da quando, con l’ordine esecutivo 7027 del 1 maggio 1935, il presidente Roosevelt istituisce la Resettlement Administration e Tugwell viene nominato direttore. Cominciò così un programma pubblico divenuto famoso con il nome di Greenbelt Towns. L’idea di fondo era di avviare un programma che per contribuire a risolvere la povertà rurale prevedeva la realizzazione ex novondi alloggi e di nuovi centri abitati posti ai bordi dei centri urbani principali e in contatto con le aree rurali produttive. Si trattava di un intervento pubblico che si fondava sull’esigenza di riconoscere l’inevitabilità della crescita urbana ma, allo stesso tempo, che considerava possibile realizzare alloggi in un ambiente più consono per accogliere la popolazione e favorire così la migrazione dalle zone rurali.

La politica di riassetto

L’insieme di questa politica pubblica promossa da Tugwell faceva affidamento al concetto di “Resettlement” (riassetto). Il riassetto consisteva nello stabilire un programma di azione comprensivo (diremmo oggi integrato?) per alleviare i problemi socio economici della popolazione agricola. Nonostante l’approccio pragmatico si assumeva come obiettivo di interesse pubblico la realizzazione, attraverso un approccio sperimentale, del sistema di welfare necessario ad accompagnare le riforme sociali.

Scriveva Tugwell:

“In senso stretto la RA, Resettlement Administration, (l’amministrazione per il riassetto) non si esaurisce nel campo degli alloggi. Essa costruisce gli alloggi, ma la sua azione va ben oltre il dato, pur importante, che milioni di americani necessitano di nuovi alloggi e di conseguire uno standard minimo di decenza. Quello che la RA prova a fare è di mettere insieme case, terreno e persone in modo che il loro rafforzamento possa consolidare in modo permanente l’economia e la struttura sociale del paese.”

Tre furono gli obiettivi prioritari del programma di intervento messo a punto da Tugwell:

1. conservare il terreno abbandonato dagli agricoltori perchè non più idoneo alla coltivazione per destinarlo ad usi più consoni, ad esempio per la forestazione… ;

2. aiutare gli agricoltori ad abbandonare il terreno non più produttivo o scarsamente produttivo per un terreno migliore da lavorare che assicurasse un reddito più elevato;

3. aiutare, infine, quegli imprenditori che vivevano su terreni produttivi ma che a causa della crisi economica o perché inesperti nella conduzione dell’azienda, avevano bisogno di aiuto.

La necessità di una politica pubblica trovava il suo fondamento nella complessità del problema che investiva direttamente aspetti ben più ampi del solo settore agricolo. Gli interventi si collocavano entro un quadro problematico che vedeva gli Stati Uniti confrontarsi con il fenomeno sempre più consistente della migrazione verso i centri urbani.

Da questa visione integrata dell’azione pubblica e della politica pubblica nasce il programma che prevedeva la costruzione di città e centri suburbani che dovevano facilitare i cambiamenti della società rurale americana verso la modernità del ventesimo secolo.

Un programma che richiese un’organizzazione complessa e che comportò la realizzazione di undici uffici regionali con quattro divisioni che facevano da coordinamento presso la RA. I fondi per la realizzazione degli interventi erano messi a disposizione da una legge federale del 1935 .

Quali erano gli elementi caratterizzanti questa esperienza? La letteratura ce ne restituisce almeno tre:

1. l’integrazione delle politiche pubbliche per il governo di fenomeni complessi, come sono tutti quelli che interessano il territorio. Le esternalità prodotte da un’azione entro un contesto specifico devono essere sempre oggetto di politiche di governo in grado di controllarne gli effetti e gli esiti. La dimensione integrata appare qui un carattere costituivo delle politiche pubbliche.

2. Un secondo aspetto è che queste politiche integrate se pur intervengono su settori diversi, l’agricoltura, il suolo, la produttività, devono fare forza su più punti nei diversi settori per conseguire un effettivo contributo alla crescita economica e sociale.

3. Cè, infine, un aspetto istituzionale, ai cambiamenti sociali ed economici si deve rispondere attraverso la pianificazione. Non sembrano esserci altre possibilità. Assumere dinanzi a sé il progresso richiede il disegno di meccanismi sociali, come le tecniche di pianificazione, che incontrano specifici bisogni ed enfatizzano gli aspetti di sperimentazione.

La pianificazione non ha dogmi da implementare, Tugwell affermava questo come una sua convinzione forte, piuttosto, la pianificazione, deve corrispondere alle circostanze, alle risorse e alle tecniche a disposizione e deve essere in sintonia con i tempi e non rincorrere sogni astratti.

Le Greenbelt towns

Tugwell aveva ipotizzato 25 Greenbelt communities, ma ne furono pianificate quattro e completate solo tre: Greenbelt nel Maryland; Greenhills, nell’Ohio e Grendale nel Wisconsin.

Il disegno delle quattro città ripercorre quattro differenti approcci che tenevano in conto le specificità del luogo, la legislazione ma anche le tradizioni e i pregiudizi locali. La scelta e la composizione dei gruppi di lavoro fu fatta in modo da favorire la costruzione di un team che facesse propria l’importanza della sfida che stavano giocando e che sentisse di essere parte di uno dei più significativi esperimenti nazionali per la costruzione di città. Sebbene ogni team lavorava separatamente dagli altri lo faceva secondo principi e caratteri comuni. La divisione in team era necessaria perché differenti erano la topografia, la popolazione, l’economia e l’ordinamento legale e normativo di ogni sito. Ogni gruppo di pianificazione era suddiviso in tre dipartimenti: disegno urbano, architettura e ingegneria. La città di Greenbelt, era disegnata lungo un bosco con spazi aperti che favorivano la brezza fresca durante l’estate. Greenhills era, invece, costruita sulla sommità di tre piccole colline incise da avvallamenti che ne restituivano un disegno della pianta irregolare. Greendale era costruita su un terreno con dolci rilievi ed era incisa, nella parte centrale, da un piccola insenatura. Greenbrook sarebbe stata costruita, invece, su un terreno pressoché piano.

Una bassa densità abitativa era considerata un fattore costante per tutte e quattro le città. A Greendale questa era di 5 famiglie per acro (1 acro= 4.046, 86 mq), a Greenhills si saliva a 8,5 famiglie e a Greenbelt si scendeva a 4 famiglie. Il disegno dei lotti era differente ma aveva in comune il rigetto per i blocchi chiusi.

L’opposizione alle politiche di riassetto

Il programma man mano che veniva realizzato sollevava numerose critiche da fronti diversi: era molto costoso, era estraneo alla cultura americana, il programma non era in grado di incidere sui problemi che affliggevano la vita urbana. L’attacco della stampa e dei media fu sempre più insistente e si fece strada lo stereotipo di Tugwell Comunista e Bolscevico. Il carattere pionieristico del programma nel ricercare un nuovo assetto tra vita urbana, industriale e rurale divenne un difetto piuttosto che un pregio. Quando il piano per la quarta città, Greenbrook, venne presentato le critiche si trasformarono in una dura opposizione legale.

Nel maggio del 1936 la corte di appello del distretto della Columbia ingiunse alla Resettlement Administration di non procedere con la costruzione di Greenbrook. Le obiezioni formulate per il ricorso sottolineavano l’impatto prodotto dalla sua eventuale costruzione che avrebbe, secondo gli oppositori, stravolto il carattere di borgo dell’attuale insediamento, si aggiungevano poi notazioni relative ai costi a carico dell’autorità locale. Un’ulteriore fattore di critica proveniva dai proprietari. Greenbrook era stata progettata per 25 mila abitanti, la più grande del programma di riassetto, e gli abitanti della zona temevano che i valori immobiliari sarebbero crollati se si realizzava un intervento così grande e per giunta con il sussidio federale.

Le motivazioni della sentenza poggiavano però sulle competenze specifiche in materia di costruzione di alloggi. La Corte affermava che il Governo federale non aveva il potere di attivare direttamente politiche di costruzione di alloggi per due ragioni:

a. queste attività non rientrano tra le competenze del congresso, in quanto i progetti di alloggi (il diritto alla casa?) non hanno alcuna relazione con il welfare;

b. queste attività sono riservate unicamente agli Stati tanto che la legislazione del Congresso su questa materia è proibita.

Il programma ricevette così un duro colpo, si riuscì a contenere la validità del pronunciamento della Corte al solo New Jersey, potendo così completare i programmi già avviati e spendere le risorse già allocate, ma non si poterono più avviare nuovi programmi.

Il clima di favore attorno al programma cambiò e non fu sufficiente neanche l’appoggio convinto del presidente Roosevelt e della moglie Eleanor. L’umore del Congresso era via via più ostile all’intero programma e all’idea di un programma pubblico per la realizzazione di nuove comunità abitative.

Ma il vero conflitto era probabilmente culturale e aveva a che fare con l’importanza che il programma aveva attribuito alla pianificazione, al controllo dell’uso del suolo e soprattutto al destino di quelle aree lasciate libere perché non più idonee per l’attività agricola. L’idea da sconfiggere non era il disegno delle Greenbelt towns ma quella per cui il programma costruiva la possibilità concreta di un’alternativa al laissez faire e all’uso indiscriminato e incontrollato del suolo. Tugwell era convinto che gli interessi nazionali non erano solo nella efficienza della produzione, nell’innovazione tecnologica e nel migliorare i meccanismi di mercato ma, anche, nel governo attraverso la pianificazione pubblica.

Tugwell non era un personaggio ingenuo e sapeva che l’affermazione di questa linea richiedeva dei forti cambiamenti culturali, legislativi e istituzionali ma, come lui stesso affermava, sappiamo che è più difficile pianificare piuttosto che non, e che se lasciamo le cose andare per il loro verso si renderà poi evidente a tutti la necessità di uno sviluppo governato. Programmare equivale quindi ad affermare un principio di precauzione o un comportamento lungimirante che per questo richiede la costruzione del consenso ma anche l’affermazione di principi di interesse generale.

Il blocco del programma fu una decisione solo rinviata di lì a poco, e così nel Dicembre del 1936 il congresso smantella la Resettlement Administration. Tugwell rassegna le dimissioni, non solo da direttore della RA ma anche dal gruppo di esperti che lavorava con il presidente, era la fine del 1936.

Le tre comunità realizzate sono ancora oggi abitate e mantengono forti richiami all’identità originaria. Per chi volesse saperne di più può visitare i siti indicati di seguito.


Sito su Greenbelt, Maryland
Greenbelt virtual
Per saperne di più su Rexford G. Tugwell

Bibliografia:

David Myhra, ”Rexford Guy Tugwell; initiator of America’s Grennebelt New Towns, 1935 to 1936”, in AIP Journal May 1974

Sternsher Bernard, Rexford Tugwell and the New Deal, New Brunswick: Rutgers University Press, 1964.

Michael V. Namorato, Rexford G. Tugwell, A Biography, Praeger, New York, 1988.

2005

INGREDIENTI:

Per fare la base:

250 gr di biscotti secchi tipo oswego

100 gr di burro (o yogurt q.b. – a me piace al malto)

1 uovo

Per la crema:

200 gr di panna da cucina (quella usata per la minestra)

250 gr di ricotta

100 gr di mascarpone

4 cucchiai rasi di zucchero

1 bustina di vanillina

3 uova

Per la guarnizione:

1 vasetto di marmellata di mirtilli

PREPARAZIONE

Polverizzare il più finemente possibile i biscotti, aggiungere il burro sciolto a bagnomaria e l'uovo. La variante con lo yogurt al posto del burro è ovviamente più leggera, l’importante è metterne una quantità tale da poter avere un impasto morbido, facilmente distribuibile sulla teglia. Quando è amalgamato bene, mettere l’impasto in uno stampo basso, tipo quello per le torte di frutta – va bene anche di quelli apribili – con la carta forno che esca dalla base in modo tale da rendere più facile mettere la torta sul piatto di portata. Con le dita stendere la base. facendo attenzione che il bordo sia rialzato di un paio di centimetri, per contenere la crema.

Una volta preparata la base, sbattere bene zucchero e uova, aggiungere i formaggi sgocciolati bene della loro acqua e la vanillina, amalgamare bene montando con le fruste elettriche e versare sopra i biscotti. Il risultato resta ottimo se non si mette la ricotta o il mascarpone. Mettere in forno già caldo a circa 200° per circa 30-35 minuti. Per non far scurire troppo la crema, è bene cuocere con la leccarda del forno inserita sopra il ripiano su cui è la torta, come se fosse un coperchio. Questo impedisce di vedere la torta cuocersi ma è efficace per non renderla troppo scura.

Quando la torta si è raffreddata, stendere la marmellata. E procedere a festeggiare.


El alma tenias Un'anima tu avevi

El alma tenias

tan clara y abierta,

que yo nunca pude

entrarme en tu alma.

Busqué los atajos

angustos, los pasos

altos y difficiles...

A tu alma se iba

por caminos anches.

Preparé alta escala

- sonaba altos muros

guardàndote el alma-,

pero el alma tuya

estaba sin guarda

de tapíal ni cerca.

Te busqué la porta

estrecha del alma,

pero no teneba,

de franca que era,

entradas tu alma.

En dónde empezaba?

Acàbaba, en dònde ?

Me quedè por siempre

sentado en las vagas

lindes de tu alma.

Un'anima tu avevi

cosi chiara ed aperta

ch'io non potetti mai

nella tua anima entrare.



Andavo in cerca di aditi angusti,

d'alti e difficili passaggi...

Si andava alla tua anima

per aperti cammini.



Preparai un'alta scala

- sognavo di alte mura

che le fossero a guardia -,

però l'anima tua

era senza riparo

di muri e di recinti.



E ricercai la stretta porta

della tua anima,

ma non aveva accessi,

così franca com'era,

la tua anima.



Dov'è che cominciava?

Dov'è che aveva termine?

E rimasi per sempre seduto

sulle vaghe frontiere della tua anima.

Viaggiando da costa a costa e dal nord al sud, la natura cambia, con contrasti meno bruschi che in Europa, ma spinti più all’estremo. Molto meno cambia il paesaggio delle cose umane, case, campi, città; c'è sì un vecchio fondo architetturale che varia a seconda se siamo nelle antiche tredici colonie (e tra queste, in quelle del Nord o in quelle del Sud) o nelle terre dei pionieri o negli stati ex spagnoli; ma gli aspetti della moderna America industriale e consumatrice sovrastano e unificano tutto il paese, il piccolo centro abitato sull'autostrada è uguale ovunque, con gli stessi cartelli e chioschi e bar e “cafeterias” e rivendite d'auto usate.

Uno di questi elementi unificatori, il più bello come fatto visivo e formale, tutto esattezza e slancio, è il nodo di autostrade cui si giunge sempre nelle vicinanze delle città; queste strisce d’asfalto sospese su alti pilastri a diversi livelli che si raccordano e si scavalcano in un incontro di ponti tutti curve e salite e discese. È un paesaggio astratto che, da Chicago a New Orleans, ritrovi un po’ dappertutto ed è il vero simbolo dell'America d’oggi.

Il grattacielo rappresenta solo il paesaggio di New York ed un tratto di strada di Chicago, ed è ormai antiquato, come oggetto in sé, anche quando si presenta sotto le forme moderne e bellissime delle nuove costruzioni in acciaio e vetro di Madison Avenue.

L’autostrada non s'arresta alle soglie della città, ormai la penetra, la sventra, la domina. Le "troughways", le strade di rapido attraversamento, cambiano la fisionomia della città, ne spostano tutti i rapporti, mettono in comunicazione quartieri lontani e isolano punti vicinissimi. La strada tra casa e ufficio non si fa più nel labirinto delle vie urbane, ma in un fulmineo canale tagliato nel mezzo della città, dal quale della città non si vede più nulla.

Ma proviamo a uscire dalla "throughway" a cercare la città. Dov’è? È sparita. Puoi girare (diciamo per esempio a Cleveland) per ore in macchina e non trovi quello che corrisponde al centro. Sì, c’è ancora un "down-town", un centro d’uffici, ma la città residenziale è sparita, si è sparsa su una superficie grande come una nostra provincia. La “middle class” vive nelle villette a due piani, rade nei quartieri sterminati di viali tutti uguali.

Non si può fare un passo senza auto, anche perché non c'è da andare in nessun posto. Non ci sono in giro botteghe di tipo tradizionale; ogni tanto a un incrocio di questi viali c’è uno "shopping center", un centro d’acquisto dove si può fare la spesa, ma per riempire il frigorifero ogni settimana è meglio andare nell’immenso “supermarket” più vicino. Credevamo che la nostra era fosse caratterizzata da un massimo di concentrazione urbana. Invece non lo è già più. Siamo nella fase della polverizzazione urbana; già la nostra civiltà, i costumi, la mentalità stanno cambiando; il mondo superindustrializzato sta tornando un mondo di piccoli nuclei familiari, stretti intorno al focolare (la televisione) come era fino a ieri solo il mondo agricolo.

Effetto del benessere? Ma nel Middle West i quartieri poveri sono esattamente la stessa cosa, le villette sono le stesse, solo che invece di una famiglia ce ne abitano due o tre e la costruzione, in genere di legno, si deteriora nel giro di pochi anni, diventa uno "slum".

È un tipo di casa che invecchia presto, come le automobili. e passa presto di mano in mano. Ma non è solo la casa singola: è tutto il quartiere a cambiare popolazione nel giro di cinque o sei anni. Quello che quattro o cinque anni fa era un “suburb” elegante adesso passa in mano alla borghesia negra benestante. Anche i negri poveri intanto hanno fatto un passo avanti, sono andati ad abitare nelle villette d’un “suburb” dove fino a qualche anno fa stavano solo ebrei. Ora che quello scaglione di ebrei ha migliorato la sua situazione economica ed è sciamato via, ognuna delle loro villette è stata divisa in appartamenti e affittata a famiglie negre. Le sinagoghe, ancora coi candelabri sulle vetrate e sugli archivolti, ora sono chiese battiste. Nel vecchio quartiere negro ora sono entrati i messicani; dove c'erano gli italiani ora ci sono gli ungheresi, ma le insegne dei negozi restano quelle di prima.

Più ci si inoltra nei quartieri poveri, più si scopre che il perpetuo movimento, prima ragione di fascino della civiltà americana, è ancora in atto. Esso non ha il volto roseo e pubblicitario della “American way of life”, ma testimonia una vitalità più profonda, sana anche nella sua rozzezza, nel suo sudiciume, nella sua violenza. Nei centri industriali come Cleveland o Detroit, chi troviamo come ultimi arrivati, ancora al gradino più basso, tra i non assimilati? Sono gli immigrati interni, i “poveri bianchi” della Virginia che vengono quassù a cercare lavoro nelle fabbriche, gli ultimi superstiti del puro ceppo anglosassone, fino a ieri i più refrattari al generale nomadismo dei loro connazionali. Gli orgogliosi e inetti figli d’una prospera società decaduta, spregiatori dei loro fratelli yankees produttivi e spregiudicati, eccoli ridotti a un livello economico e culturale inferiore ai loro antichi schiavi.

Con loro si chiude, non senza una sua morale, il ciclo delle rotazioni di popoli in uno spazio astratto, che corrisponde alla città dilatata ed esplosa così come la esplosione d’un corpo celeste muove il roteare dei pianeti.

(da Cartoline dall'America, "ABC", giugno-settembre 1960, ora in Saggi. 1945-1985, II, Milano 1995, pp. 2569-71)

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