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LE CITTÀ D'EUROPA

L'Europa é ancora possibile

Vezio De Lucia ha aperto la sessione di ieri con una relazione rigorosamente segnata dal pessimismo della ragione. L'ha chiusa con un segno di speranza, fornito proprio da questo convegno. E' alla fine della relazione di Vezio che voglio idealmente riallacciarmi per aprire questa seconda sessione, dedicata al "domani", e quindi necessariamente aperta alla speranza. Speranza critica, naturalmente. Ed é questa, mi sembra, l'indicazione che ci viene dall'Europa.

Con la ratifica del trattato di Maastricht l'Europa diventerà una realtà politica ed economica. Ciò non significa che l'unità europea sia dietro l'angolo. Dopo la dimostrata incapacità di governare la crisi monetaria (e ciò che sotto il "velo monetario" si nasconde), e l'impotenza politica rivelata dalla lacerante crisi dei Balcani, é chiaro a tutti che non é più tempo di ottimismi acritici né di fiorita retorica, ma di meditate riflessioni e di azioni calibrate.

Un dato, però, rimane fermo. Le frontiere che separano i cittadini dei paesi dell'Europa (le loro culture, la loro vita quotidiana, le loro curiosità, i loro sentimenti), già diventate sempre più permeabili, dal Capodanno del 1993 saranno scomparse del tutto. 340 milioni di cittadini europei circoleranno liberamente. I viaggi dei turisti e quelli dei capitali, gli spostamenti per il lavoro e quelli per la soddisfazione della curiosità di conoscenza diventeranno - più ancora di quanto già lo siano - un radicato costume. Si imporranno confronti sempre più ravvicinati tra le condizioni di vita al di qua e al di là dei confini delle nazioni europee.

Quali che siano le vicissitudini della congiuntura (e quale che sia la sua durata) l'Europa rimane del resto l'unico orizzonte possibile perché la civiltà della sua storia non si dissolva, nel prossimo secolo, in una miriade di "microciviltà" affidate all'attenzione degli etnologi. Occorre allora pazientemente lavorare per proseguire la costruzione di una unità europea nelle culture specialistiche, nelle politiche nazionali, e nella formazione delle condizioni dell'esistenza e della vita sociale. Gli organizzatori di questo convegno hanno avviato un lavoro in questa direzione, sul terreno circoscritto ma fondamentale delle questioni della città, dell'ambiente, del territorio, nel convegno svolto in questa stessa sala un anno fa. Vogliono proseguirlo adesso.

Le città europee tra qualità e crisi

Parlare di città, in Europa, significa oggi parlare di crisi. I due termini, in questo scorcio di secolo, sono sempre più frequentemente associati. "La ville partout et partout en crise" é il titolo di un dossier di Le monde diplomatique, che inquadra questa crisi nel panorama planetario della crisi ambientale, del conflitto tra i grandi interessi economici dei nuovi imperialismi e da quello tra le culture. Nel convegno dell'anno scorso abbiamo ragionato a lungo, a partire dal Libro verde per l'ambiente urbano della CEE, sulle caratteristiche della crisi. Ricordiamone alcuni aspetti.

Ricordiamo la crisi d'identità personale e sociale che si consuma nelle metropoli. Ricordiamo il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell'homo socialis (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Ricordiamo le difficoltà crescenti a usare abitazioni adeguate, per località, tipologia e canone d'uso, alle esigenze delle famiglie. Ricordiamo l'inquinamento dell'aria e dell'acqua, l'abnorme produzione di rifiuti che minacciano di seppellirci, i rumori che ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Ricordiamo come la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, delle persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri.

E ricordiamo, soprattutto, quello che nel convegno dell'anno scorso abbiamo definito "il paradosso del traffico". Muoversi, spostarsi - dicevamo - è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità - dicevamo ancora - non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia. Le città dell'Europa sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle città d'Europa (nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili) si é consolidato e conservato, nonostante i saccheggi perpetrati in questo secolo, qualcosa che é un valore in molti sensi. E' un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).

La ricchezza costituita dalla cultura delle città é la maggiore risorsa per il futuro delle città europee. Condizione perché essa non venga dissipata, e possa dispiegare tutte le sue potenzialità, é che la città venga sottratta al suo possibile destino di crisi.

Le città europee tra concorrenza e integrazione

Le città d'Europa sono già in un unico mercato. Ciascuna di esse vuole attirare risorse, investimenti, flussi d'interesse e di visitatori, turisti, valuta. Ciascuna di esse teme che i flussi si dirigono altrove, che il suo rango cali di livello, che il suo peso politico diminuisca. Tra le città é in atto la concorrenza.

Dove i politici e gli amministratori sono più attenti alle ragioni del governo del territorio, si corre ai ripari, si lavora, ci si attrezza. Così, per timore della forza attrattiva già esercitata dalla grande concentrazione che da Londra, attraverso i Paesi Bassi e la Valle del Reno, si prolunga fino a Milano (la "banana blu"), le città della Francia e della Germania si stanno organizzando in reti, tentano di coordinarsi e spesso ci riescono con efficacia: rievocano dalla storia i fasti e i regolamenti della Lega anseatica e della Decapoli alsaziana per realizzare sinergie amministrative, economiche, promozionali all'altezza dei problemi di oggi.

Attraverso l'integrazione, cercano di diventare più forti sul terreno difficile della concorrenza. Per restare vittoriosamente sul mercato, mettono in gioco le loro qualità e si sforzano di accrescerle: le qualità ambientali, storiche, artistiche, e le qualità urbane: qualità dell'attrezzatura e dei servizi, qualità della vita, qualità dell'organizzazione dell'insediamento, qualità dei trasporti, qualità e ricchezza delle occasioni di incontro, di arricchimento culturale, di ricreazione.

L'investimento nella qualità é sempre più considerato, nelle società davvero moderne, la garanzia più forte per un futuro migliore: la socialdemocrazia tedesca l'aveva compreso più di vent'anni fa, nella Ruhr, la terra di Willy Brandt.

Per accrescere la loro qualità urbana e rafforzarsi mediante l'integrazione delle loro differenti potenzialità le città ben governate dell'Europa scelgono, come strumento e come metodo, la pianificazione territoriale e urbana. Lo ha detto recentemente il primo ministro della Francia, Pierre Bérégovoy: "Ho intenzione di fare della pianificazione territoriale, nella prospettiva della realizzazione dell'Europa, una vera priorità nazionale".

In Europa, l'urbanistica (questa pratica sociale vituperata negli anni 80 dai fautori della "modernizzazione" fasulla che ha prodotto Tangentopoli e la crisi economica), é di nuovo all'ordine del giorno. Ma quale urbanistica, per quale città?

UNA NUOVA URBANISTICA

Urbanistica e sviluppo: la città sostenibile

Una nuova urbanistica deve innanzitutto fare i conti con una nuova visione dell'economia.

L'urbanistica moderna, quella che in Italia si é affermata nel segno della legge 1150/1942, si é foggiata misurandosi con i problemi dell'espansione: espansione della città, espansione dell'urbanizzazione sul territorio, ed espansione dell'economia. Lo sviluppo (dell'economia e della città) é stato visto, concepito e misurato in termini meramente quantitativi.

Tutto questo è cambiato. La cultura urbanistica più attenta l'ha scoperto da tempo: l'età dell'espansione é terminata; siamo entrati ormai nell'età del recupero, del riuso, della riqualificazione. La cultura economica lo sta scoprendo anch'essa: misurare lo sviluppo nei termini quantitativi tradizionali significa condannare non solo la società, ma il genere umano alla morte.

Fare i conti con l'economia significa allora, per l'urbanistica, fare i conti con l'ambientalismo, con l'esigenza profonda che questo movimento esprime.

Al convegno dell'anno scorso abbiamo lanciato uno slogan che esprime questa tensione. Ci siamo rifatti alla definizione di "sviluppo sostenibile" coniata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'Onu per applicarla alla città. Per "sviluppo sostenibile" - si legge nel Rapporto della Commissione - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Per città sostenibile, dicevamo, bisogna intendere qualcosa in più. Così grave é la situazione di crisi che non basta "non compromettere" la capacità delle generazioni future. Non basta conservare la qualità urbana esistente, occorre aggiungerne. E abbiamo definito città sostenibile una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.

Io penso che l'obiettivo della città sostenibile debba essere il fondamento della nuova urbanistica.

Urbanistica e politica: l'urbanistica é "una parte della politica"?

A volte si ragiona come se l'urbanistica fosse compito pressoché esclusivo di una determinata categoria professionale. Se il compito dell'urbanistica é quello di costruire la città del futuro, allora é evidente che non può essere così. Leonardo Benevolo, con la sua consueta rigorosa chiarezza, afferma, seccamente, che "l'urbanistica é una parte della politica".

Certo, l'espressione di Benevolo va interpretata. L'urbanistica é una "parte" che richiede determinati specialismi. Che, quindi, richiede un apporto determinante di tecnici determinati, debitamente formati, capaci di esplicare (nella sfera delle loro attribuzioni) l'autonomia necessaria per ogni attività creativa. L'urbanistica pretende un rapporto dialettico tra il personale politico e quello tecnico, tra le responsabilità e le capacità dell'uno e quelle dell'altro.

Ma guai a delegare intieramente all'urbanista tutte le scelte che concernono la città del futuro, e ad attribuire a lui solo le responsabilità di tracciare le linee del percorso, i traguardi, le priorità. E guai d'altra parte a ritenere che queste scelte possano essere tracciate da un mero atto di volontà politica, senza un'accurata prospettazione dei rapporti tra cause ed effetti, una verifica delle coerenze necessarie, una individuazione delle alternative possibili.

Guai a confondere, e guai a separare. Occorre distinguere i ruoli e gli apporti. Ma ciò che oggi soprattutto occorre (De Lucia lo ha detto con molta chiarezza nella sua relazione di ieri) é che, in Italia, la politica si riappropri della responsabilità di dare il suo determinante contributo alla soluzione dei problemi di fondo, delle scelte "di sistema" che sono necessarie per costruire una nuova città. Se così non avvenisse, ogni impegno sul versante della cultura urbanistica servirebbe solo all'accademia. Cioè a nulla.

Urbanistica e morale: uscire da Tangentopoli

Quando la politica non si occupa responsabilmente della città, la crisi investe il terreno della morale: Tangentopoli lo insegna. Non assumere le questioni dell'urbanistica come questioni politiche centrali significa abbandonare la città, e i grandi interessi che la sua trasformazione comporta, ai faccendieri della politica, dell'urbanistica e degli affari. Quando non si occupa dell'urbanistica la politica alta, essa diviene terreno di pascolo della politica bassa: diviene terreno d'impaludamento della politica.

Se appena si esce dalla retorica delle affermazioni generiche e dall'enunciazione acritica di tutti gli obiettivi (magari contrastanti) proponibili e di tutte le priorità (magari contraddittorie) elencabili, le scelte sul futuro della città coinvolgono interessi di grandissime dimensioni. Ogni ipotesi di trasformazione del territorio, ogni "progetto" (sia esso costituito da una sola operazione, come il caso della Fiat-Fondiaria a Firenze e in tutti gli altri episodi di urbanistica contrattata, sia che si tratti degli effetti cumulativi di una miriade di operazioni suscitate da una scelta urbanistica, come nel caso di una modifica delle norme di edificabilità), premia interessi economici di alcuni soggetti, e correlativamente punisce altre aspettative.

Basta un segno con il pennarello, o la correzione di un numero o di un avverbio nelle norme di un piano, per costruire ricchezze senza fatica per nessuno (se non per quei cittadini, di oggi e di domani, che pagheranno per le scelte sbagliate). Se così stanno le cose, come é pensabile che per un decennio almeno si siano calpestate, violate, svuotate le regole, nate dalla legge di cui oggi celebriamo il cinquantennio, cui era affidato quel tanto di trasparenza, di responsabilità, di dimostrabilità delle ragioni e delle conseguenze delle scelte, che il legislatore era riuscito ad escogitare?

Se le regole date non soddisfano, esse vanno cambiate con regole nuove. Non farlo, limitarsi a distruggere senza ricostruire, significa aprire varchi smisurati attraverso cui passano il malaffare, la corruzione, la prepotenza della concussione, e la stessa delinquenza organizzata. Risolvere la questione morale, denunciata da Enrico Berlinguer vent'anni fa e aperta dalla magistratura in questi mesi, significa ricostruire un sistema di regole per il governo del territorio: regole certe, valide nei confronti di tutti, blindate contro le deroghe e le violazioni.

QUALE PIANIFICAZIONE, PER QUALE CITTÀ

La pianificazione, metodo e strumento per il governo del territorio

In che modo però, sulla base di quale ipotesi sul ruolo del potere pubblico nel governo del territorio, con quali rapporti tra i vari livelli del potere pubblico e di questi con i poteri e le iniziative private occorre formare il nuovo sistema di regole? E quali metodi e quali strumenti sono necessari per definire nella chiarezza e nella reciproca responsabilità le scelte politiche e quelle tecniche, e delineare così (e sistematicamente gestire) il "progetto" del futuro della città? Quali attrezzi infine adoperare per avere ragionevoli garanzie del fatto che si progetta e costruisce una "città sostenibile", e non un informe e invivibile agglomerato di squallide e inquinate periferie?

E' necessario in primo luogo ribadire che le scelte che determinano l'assetto del territorio (di quel sistema cioè di cui le città costituiscono i principali punti di forza) sono di competenza degli enti pubblici elettivi, costituzionalmente e costitutivamente rappresentanti della volontà popolare e responsabili dei suoi destini.

Ma é poi necessario completare subito questa affermazione con un'altra, che tarda ancora (almeno nel nostro paese) a farsi strada. Occorre affermare che tutte le scelte suddette, che si tratti di tutele, infrastrutture, opere e politiche di competenza statale o regionale, o che si tratti delle più estese e compiute competenze delle province e dei comuni, non possono essere il prodotto di decisioni casuali, separate le une dalle altre, e quindi di necessità contraddittorie e alla fine inefficaci e inefficienti. E neppure possono essere unicamente il portato di politiche e programmi di settore, talché, ad esempio, con un programma per le autostrade si distrugge quello che si era deciso di conservare con la salvaguardia ambientale, o con un vincolo di tutela si impedisce quello che si era deciso di realizzare con un programma di infrastrutture.

Occorre, insomma, che ad ogni livello di governo le scelte che incidono sul territorio vengano definite, verificate nella loro coerenza complessiva e nei loro effetti, dimostrate nella loro necessità, rese trasparenti nel procedimento della loro formazione e nella loro attuazione, mediante l'applicazione dell'unico metodo il quale, allo stato degli atti, sia stato escogitato (e, fuori d'Italia, anche applicato) come idoneo a ottenere i risultati siffatti: il metodo della pianificazione territoriale e urbanistica.

Una nuova pianificazione

Prima di essere un insieme di strumenti, la pianificazione territoriale e urbanistica é un metodo. Questo metodo evidentemente richiede applicazioni diverse, e strumenti diversi, a seconda delle differenti situazioni alle quali si applica. Una pianificazione foggiata in relazione alle esigenze dell'espansione (qual'é quella che finora abbiamo conosciuto) deve evidentemente essere profondamente modificata in un'epoca in cui altre sono le prospettive e le esigenze. Una pianificazione immaginata quando la tutela dell'ambiente era preoccupazione soltanto di qualche intellettuale e qualche esteta é certamente insufficiente quando la questione ambientale diventa consapevolezza di massa. Una pianificazione costruita quando gli interessi privatistici dominanti erano quelli della grande proprietà fondiaria deve rivedere i suoi strumenti e le sue priorità in una realtà dominata dal grande capitale finanziario transnazionale.

Quale deve essere oggi la pianificazione? Per le cose che ho appena detto, certo una pianificazione diversa da quella del passato. Intanto, non dovrà ridursi a formare, una volta ogni tanto, un pacco di documenti contrassegnati dal nome "piano". Occorre passare "dal piano alla pianificazione". Occorre dar luogo a un'attività continua e sistematica di governo delle trasformazioni urbane e territoriali, caratterizzata dai due requisiti complementari, sussidiari, della coerenza e della flessibilità.

Ma per comprendere quale pianificazione é necessaria, occorre domandarsi: quale città vogliamo costruire con la pianificazione?

La premessa necessaria: il regime degli immobili

Vogliamo costruire innanzitutto una città libera di disporre del suo destino, e quindi affrancata dal dominio della proprietà immobiliare e della rendita. La questione del regime degli immobili é perciò basilare, oggi più che mai. L'attuale assenza di certezza e chiarezza é alla radice sia delle condizioni disastrose del nostro territorio urbano ed extraurbano, sia della diffusione di Tangentopoli.

Il Presidente del consiglio dei ministri in carica, accogliendo una proposta del Segretario del Pds, ha promesso di porre la questione all'ordine del giorno dell'attività legislativa proprio per "consentire ai comuni di superare la prassi dell'urbanistica contrattata". Non si tratterà quindi solo di indennità di espropriazione, si tratterà di regime degli immobili: di decidere che cosa appartiene alla collettività e che cosa appartiene al proprietario, in termini economici e in termini di poteri, in ogni trasformazione di rilevanza urbanistica operata sugli edifici e sulle aree.

Alcuni princìpi vanno affermati con forza, e devono costituire i cardini di una nuova politica in materia. Voglio proporli alla discussione appunto come punti politici, sui quali il confronto non può essere solo specialistico.

Il primo punto é che il potere di decidere quali trasformazioni aventi rilevanza urbanistica siano ammissibili e quali no (ossia, in concreto, il potere di decidere le scelte sul territorio) spetta al potere pubblico, il quale lo esercita mediante gli strumenti della pianificazione. E lo esercita davvero, non mettendo lo spolverino alle decisioni prese dal capitale finanziario o immobiliare, come nell'urbanistica contrattata.

Il secondo punto é che il valore riconosciuto alla proprietà immobiliare (in caso di espropriazione, o di acquisto, o di convenzionamento dell'uso, o in qualunque altra transazione tra pubblico e privato) non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso legittimo del bene. Questo principio, del resto, era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865.

Il terzo punto cardine di una nuova politica immobiliare é che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo principio é essenziale per ottenere la perequazione tra le differenti situazioni proprietarie. Esso é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se non fosse ottenuto, e quindi delle censure di costituzionalità, ma anche perché non raggiungerlo significherebbe subordinare di fatto la pianificazione alla contrattazione con i proprietari, e quindi perpetuare le condizioni che hanno favorito l'espansione di Tangentopoli.

Il quarto punto é che la determinazione dei valori degli immobili deve essere tale da non essere punitiva nei confronti dei proprietari e da non privarli dell'investimento che hanno effettuato. Questo risultato deve ovviamente essere raggiunto secondo modalità che non siano contraddittorie con i punti precedenti. Ciò é possibile consentendo al proprietario di ottenere, in alternativa al "valore standard" l'equivalente del prezzo che é stato corrisposto, e dichiarato in atti pubblici, nell'ultima transazione.

La proposta di legge che Luigi Scano ha predisposto per l'associazione Polis, e che illustrerà più tardi, é una delle possibili traduzioni (a mio parere particolarmente rigorosa e completa) di questi punti politici in una più complessiva normativa dei modi e degli istituti attraverso i quali esplicare un efficace governo del territorio. Ma disporre di un testo legislativo idoneo non é sufficiente per condurre davvero una politica fondiaria efficace e moderna. Così come, del resto, non disporne ancora non é una buona ragione per accodarsi agli interessi fondiari e subirne la volontà, come troppe amministrazioni pubbliche ancora fanno.

I contenuti: qualità ambientale, qualità sociale

Qualità ambientale, qualità sociale: queste due espressioni racchiudono l'insieme dei requisiti che chiediamo alla città del futuro.

Qualità ambientale. Significa in primo luogo tutela delle qualità naturali e storiche presenti: tutela dei centri storici (ancora oggi devastati dalla miopia culturale dei progettisti e dalla miopia politica degli amministratori, come la Città vecchia di Trieste, minacciata in questi giorni di distruzione da un devastante "piano di recupero"), nelle loro caratteristiche fisiche e nella loro struttura sociale; tutela delle ville ancora presenti, delle pendici collinari, dei lembi di campagna e dei casali interclusi nelle periferie; tutela di tutti i segni che il sapiente intreccio tra storia e natura hanno lasciato a testimonianza di una civiltà.

Significa poi costruzione di qualità nuove, soprattutto là dove la speculazione, l'incuria e l'individualismo sfrenato di diplomati o laureati presuntuosi o avidi hanno costruito ambienti invivibili. Qualità nuove da realizzare in primo luogo ridisegnando il sistema degli spazi ed edifici pubblici e del verde, costituendo in essi un sistema delle qualità, una trama continua di percorsi pedonali e ciclabili nel verde che leghi in un'unica trama i luoghi della bellezza, della ricreazione, della socializzazione: i luoghi propriamente "urbani".

Significa infine protezione delle risorse e dell'integrità fisica della terra, dell'acqua e dell'aria. Significa disinquinare e smaltire i rifiuti senza produrre ulteriore inquinamento, ma significa in primo luogo produrre meno inquinamento, meno rifiuti. Significa sottrarre meno terreno possibile al ciclo naturale, asfaltare e cementificare nella più stretta misura possibile, occupando prima degli altri (se impermeabilizzare nuovi terreni é davvero indispensabile), i suoli già sottratti al ciclo biologico. Significa progettare la città in modo da risparmiare energia e ridurre l'impatto delle costruzioni sul clima, e quello del trasporto sulla produzione di aeriformi nocivi. Significa perciò anche più tram e meno automobili, ma significa in primo luogo progettare città dove l'energia (e il tempo) necessari per i percorsi casa-lavoro, casa-servizi, servizi-lavoro siano i minori possibili.

Qualità sociale. Significa certo, in primo luogo, una città che funzioni. Una città nella quali i luoghi in cui il cittadino deve recarsi (per lavorare e per riposarsi, per curarsi e per educarsi, per nascere e per morire, per comprare e per vendere, per incontrare altri o per meditare da solo) siano riconoscibili, piacevoli, raggiungibili con il minimo dispendio di tempo e di energia.

Significa una città che funzioni per tutti: una città al cui interno non ci sono barriere, e quelle che ci sono siano facilmente superabili dai forti e dai deboli: penso, più che alle "barriere architettoniche", a quelle barriere invisibili costituite dalla selezione sociale a sua volta determinata dai prezzi delle case. Significa perciò anche una città nella quale le qualità e i luoghi d'attrazione (i grandi servizi urbani, il terziario, gli spettacoli) non siano tutti localizzati nel centro della città, ma siano adoperati come elementi di riqualificazione e di vitalizzazione delle periferie e facciano di queste non le parti subalterne e marginali della città, il "rovescio" del centro, ma parti dotate delle stesse qualità e degli stessi diritti.

Significa una città nella quale le infrastrutture per il trasporto siano organizzate per il cittadino e non per l'automobilista. In cui sia realizzato quell'obiettivo che il Libro verde sull'ambiente urbano della Cee proponeva: "rendere l'automobile un'opzione, non una necessità". In cui il trasporto pubblico abbia la priorità assoluta degli impegni, degli investimenti, degli spazi urbani. In cui i parcheggi non siano collocati nei luoghi centrali (o addirittura nei centri storici o ai loro margini), ma nei punti di scambio periferici dove si può lasciare l'automobile e prendere il tram o la metropolitana. Una città, un sistema urbano in cui i diversi vettori del trasporto pubblico (i treni, la metropolitana, i tram e gli autobus, l'aereo, le navi e i traghetti) non siano progettati e gestiti come entità separate, ma come elementi d'un unico sistema: al servizio del cittadino, non dell'azienda.

A ben vedere, una città dotata di qualità urbana é una città dotata di qualità ambientale. I requisiti necessari per costruire la "città sostenibile" sono ben più che la base di partenza per conquistare la "città sociale": ne costituiscono parte sostanziale. La "città sostenibile" é già, in una misura ampia, anche la "città sociale".

Le procedure: chiarezza, responsabilità trasparenza,

Le procedure di formazione di un qualsiasi atto esprimono il modo in cui le diverse volontà, i diversi poteri coinvolti in quell'atto concorrono a formarlo. Gli atti della pianificazione esprimono (dovrebbero esprimere) la volontà d'un unico potere: la collettività, l'insieme dei cittadini. Nel nostro regime la volontà dei cittadini é espressa nelle forme della democrazia parlamentare, fissate dalla costituzione repubblicana. E' a quelle forme, é agli istituti che esse configurano che occorre quindi riferirsi: in particolare, agli istituti a rappresentatività generale e territoriale, cioè al Comune, alla Provincia o alla Città metropolitana, alla Regione, allo Stato. Oggi i rapporti tra questi istituti (tra questi livelli di governo) sono caratterizzati dalla confusione e dall'incertezza, dalla deresponsabilizzazione e dalla prepotenza. I giuristi dicevano che gli atti di pianificazione sono atti amministrativi complessi: in realtà sono diventati, a causa del sovrapporsi caotico di leggi, decreti, regolamenti e comportamenti, soltanto atti complicati. Occorre riordinare profondamente la materia, ispirandosi a pochi princìpi chiave.

Occorre stabilire in primo luogo quali sono gli oggetti e gli aspetti di competenza di ciascun livello di governo. L'ipotesi più convincente é che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o metropolitano, comunale) la determinazione prima (propositiva) e ultima (decisionale) circa quegli elementi e aspetti della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello.

Per dirlo in termini formalmente più corretti, si tratta di assumere come criterio quello per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le funzioni relative ad aspetti che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste. Si tratta, in sostanza, di quello che la Cee definisce "principio della sussidiarietà".

Una volta stabilite quali sono le competenze di ciascun livello, diventa poi agevole stabilire procedure che consentano precisa attribuzione di responsabilità, concorso di ogni livello sulle decisioni di competenza degli altri, tempestività e anzi automaticità dei tempi. Alcuni di noi stanno lavorando da molti anni a proposte che possano risolvere in modo soddisfacente il problema. Questo convegno potrà essere l'occasione per verificare se il lavoro merita di essere proseguito, e portato a una conclusione politica.

La chiarezza delle responsabilità e delle competenze aiuta poi a risolvere l'altro grande problema: quello di render chiare ed esplicite al cittadino le scelte, le loro motivazioni e conseguenze, le responsabilità circa la loro formazione e la loro attuazione. Si tratta del grande problema della trasparenza. Parlo di problema, perché mi sembra che ancora non sappiamo bene che cosa bisogna intendere con questo termine, e soprattutto in che modo dobbiamo attrezzarci per raggiungerlo. Non basta cambiar nome all'Ufficio reclami o all'Ufficio informazioni. Occorre un'operazione più complessa, che forse esige specifiche e nuove professionalità, modi nuovi di elaborare i media: non come semplificazione spesso distorcente, ma come compiuta interfaccia degli atti tecnici, amministrativi e legislativi, per loro natura complessi e perciò stesso poco comprensibili a chi non abbia le conoscenze necessarie.

Gli strumenti: competenze, strutture, partecipazione

Sappiamo ormai da tempo che la pianificazione, se deve servire davvero a costruire una città migliore, non può essere un'attività episodica. Essa é un modo di governare le trasformazioni territoriali da parte della pubblica amministrazione: un modo nuovo, profondamente diverso da quello tradizionale. Ma se é così, allora certamente la questione che viene prepotentemente in campo é la necessità assoluta e urgente che la pubblica amministrazione, a tutti i livelli, si attrezzi per divenir capace di assumere davvero il metodo della pianificazione quale suo generale criterio di condotta.

E' finito, deve essere finito il tempo in cui la pianificazione si riduceva ad affidare a un'équipe tecnica estranea alla pubblica amministrazione il compito di redigere il piano, poi consegnandolo infiocchettato al Sindaco o al Presidente. E' esperienza comune di tutti i paesi realmente "moderni" dell'Europa, e anche delle regioni italiane dove la cultura della pianificazione non é una parola vuota: si può governare il territorio in modo efficace, conforme agli obiettivi politici e culturali che la collettività si pone, solo là dove l'amministrazione pubblica é dotata di strutture efficienti, autorevoli, competenti, capaci di richiedere e di utilizzare competenze esterne senza delegare ad esse la propria responsabilità.

In questa direzione c'é moltissima strada ancora da compiere nel nostro paese. Per percorrerla fino in fondo c'é da risolvere una questione di non piccolo momento: é quella del rapporto tra responsabilità del politico, dell'amministratore, e responsabilità del tecnico, del funzionario comunale o provinciale o statale che sia. E' un aspetto del problema, cui prima ho accennato, del rapporto tra urbanistica e politica: ma é un aspetto che rinvia a sua volta a questioni ancor più generali, che riguardano la distinzione (e l'intreccio) tra le sfere della politica, delle istituzioni, della società. Sembra a me che un modo di concepire la pianificazione, distinguendo in essa le parti, e le scelte, che hanno un maggior carattere di "tecnicità" o di "oggettività" da quelle che rivestono una più marcata rilevanza "sociale" o "politica" (come alcuni di noi da qualche tempo si sforzano di proporre) possa aiutare in questa direzione.

C'é moltissima strada da compiere, soprattutto in alcune aree. Penso in particolare alle strutture degli enti locali, che mi sembrano, nelle zone più "felici" del paese, in uno stato di profonda e regressiva demotivazione, e nelle altre zone praticamente inesistenti. E penso in particolare al Mezzogiorno, dove paradossalmente l'intervento straordinario sembra aver spento del tutto - anziché stimolare e sorreggere - la possibilità di costruire gli strumenti di un'azione ordinaria per il governo del territorio. Peggio ancora, ha contribuito a ridurre il ruolo del potere pubblico a quello, più che di mediatore, di complice e socio di gruppi d'interessi privati, spesso malavitosi.

Questo é davvero l'obioettivo e l'impegno centrale: la ricostruzione (e, spesso, la costruzione ex novo) di una burocrazia pubblica autorevole ed efficiente, a tutti i livelli ma soprattutto e in primo luogo a livello degli enti local. Si tratta davvero di un'impresa politica così ardua da far tremare le vene e i polsi a chi voglia impegnarvisi. Ma senza affrontare e risolvere con risolutezza questo problema é impensabile che il nostro paese possa effettivamente "modernizzare" la propria vita sociale e la propria struttura economica, che possa tenersi al passo con quelli che guidano la costruzione dell'Europa. Ed é altrettanto impensabile (concordo pienamente con le posizioni espresse in più occasioni da Sabino Cassese) che si possa davvero sconfiggere la corruzione politica, che é indubbiamente alimentata anche dalle disfunzioni e dalle sregolatezze dell'amministrazione pubblica.

La responsabilità del futuro

Per accontentare questa o quest'altra categoria di cittadini (i pensionati o i farmacisti, i metalmeccanici o i pacifisti, gli imprenditori o i risparmiatori, i cacciatori o i commercianti) possono bastare impegni politici congiunturali, o al più di medio periodo. Per affrontare in modo non effimero la questione urbana é indispensabile un impegno di lunga lna: é necessario saper guardare a un futuro che si prolunga molto al di là del mandato elettorale.

Questa é probabilmente la ragione per cui l'urbanistica, in Italia, ha avuto la fortuna dell'attenzione solo nei grandi momenti di progettualità politica: solo quando la politica era essa stessa proiettata verso il futuro - e verso un futuro di cambiamento radicale, nutrito da una critica impietosa della situazione data. E questa é anche (e per converso) la ragione per cui l'urbanistica é stata gettata alle ortiche quando hanno prevalso l'opportunismo, la rincorsa dell'emergenza, la ricerca del potere per il potere, l'indifferenza ai contenuti e ai discrimini tra le posizioni. Quando insomma la forza vincente é stata costituita dal connubio tra doroteismo (non solo democristiano) e rampantismo pseudo modernizzante (non solo socialista).

Oggi, però, siamo chiaramente a un bivio. O la politica - la politica della sinistra - ha la forza di superare i modi della politica dell'ultimo ventennio, e insomma ha la capacità indicare un futuro convincente e credibile nel quale tutti i cittadini possano riconoscersi e per il quale possano lavorare e sperare, e allora essa stessa ha un futuro, una prospettiva. Oppure, se ciò non accadrà, allora sarà inevitabile la vittoria di quelle forze disgregatrici che si alimentano, lusingandole, della miriade di insoddisfazioni, frustrazioni, mortificazioni che la nostra disordinata società, e i suoi obsoleti ma ancora irremovibili reggitori, producono a getto continuo.

Come poche altre questioni, quella urbanistica offre alla politica l'occasione di costruire un progetto e un programma per il futuro. Sta alla politica coglierla, smettendo di oscillare tra delega ai tecnici e indifferenza per le loro ragioni.

Da il manifesto, 5 febbraio 2008

Estratti da: Regional Plan for New York and its Environs, Volume I: The Graphic Regional Plan, 1929 (Ristampa Arno Press, New York, 1974) – Cap. III: Land Uses

Titolo originale Regional Zoning – Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Gli obiettivi e le tecniche dello zoning sono descritti nel Volume IV dello Stato di Fatto Regionale. Com’è noto, si tratta di una classificazione che stabilisce i diversi aspetti normativi dei terreni edificabili. Le sue applicazioni locali devono essere gestite da quegli organi amministrativi autorizzati direttamente dagli stati a redigere piani di zonizzazione.

In pratica, nella regione di New York lo zoning è stato gestito dalle municipalità, dai distretti e dai paesi, sia come elemento di un piano completo sia come singolo intervento, composto solo da un’ordinanza e da una cartografia che ne illustrasse le previsioni. Lo zoning ha permesso di delimitare le aree ad uso industriale, terziario e residenziale. Allo stato delle cose, non è mai andato oltre la delimitazione e la regolamentazione di usi che non fossero connessi direttamente con nuove edificazioni. La questione di una possibile applicazione per preservare dall’edificazione specifiche aree, oltre a quelle già destinate a pertinenze degli edifici, richiede di essere presa seriamente in considerazione. Questo problema verrà discusso più tardi insieme alle proposte di riservare spazi aperti, soprattutto per grandi residenze di campagna, campi da golf e aziende agricole.

Oltre alle restrizioni relative agli usi dei suoli, lo zoning prescrive le altezze massime, l’area di sedime, l’allineamento e la quantità di spazi pertinenziali, tutti elementi che determinano il volume o la densità di strutture private. Trattandosi di misure di controllo della proprietà privata, è necessario che vengano rispettate le procedure, con metodi che non possano essere contestati sul piano dell’accuratezza, dell’equità e della ragionevolezza. Per questo, la zonizzazione deve essere applicata, entro il perimetro dei confini amministrativi, da quegli uffici locali che vengono delegati direttamente dallo Stato.

In una regione vasta, che comprenda molte amministrazioni locali, non è possibile che uno schema di zoning possa essere predisposto per adattarsi a più applicazioni specifiche; e in una regione come quella di New York, che si estende in tre stati, è impossibile avanzare proposte unitarie adatte alle differenti leggi e alle diverse procedure di questi tre stati. Ad una certa scala, quindi, le proposte per uno zoning regionale devono essere limitate ad un ampio disegno che misuri l’idoneità dei suoli ai diversi usi edilizi. E’ evidente che c’è bisogno di uno schema del genere che fornisca un valido aiuto alle singole municipalità, anche nel relazionare il proprio territorio con quelli limitrofi.

Di queste proposte che si riferiscono alle altezze, alle densità e ai volumi degli edifici, non si può rappresentare nulla nella Cartografia del Piano Regionale. Sono questioni che riguardano la trattazione dei principi nel Volume II del Piano, ad integrazione della descrizione della normativa e delle procedure che appaiono nel Volume VI dello Stato di Fatto.

Oltre all'impraticabilità di rappresentare in dettaglio le diverse destinazioni d'uso di ogni zona, non si trarrebbe alcun vantaggio da un procedimento del genere. Come ha sottolineato Mr. Frederick Law Olmsted, la zonizzazione regionale dovrebbe limitarsi essenzialmente a delimitare poche grandi aree, in modo da servire come guida, oppure, sotto forma di vincolo normativo, come strumento di controllo, per un successivo e dettegliato zoning locale, per dare più efficacemente possibile un contributo finale ad uno sviluppo della regione equilibrato e unitario.


Meglio le zone omogenee a forma di “cuneo”

Una caratteristica importante della mappa degli usi mostrata dal Piano è che si adegua ad un sistema radiale o ad una rete di corridoi piuttosto che ad un sistema a fasce circolari. Lì dove il termine “zoning” indica la perimetrazione di una serie di fasce concentriche intorno alla città, ognuna delle quali con una funzione prevalente – per esempio, una fascia prevalentemente residenziale o una prevalentemente industriale – viene proposto un modello di crescita urbana insolito e poco desiderabile. Solitamente, la città cresce in modo radiale lungo le linee del trasporto pubblico e le aree intermedie si saturano lentamente man a mano che nuovi mezzi di trasporto avvicinano l’un l’altro le strisce o i settori radiali.

Ci sono casi, naturalmente, in cui linee di trasporto circolari definiscono fasce urbane più o meno continue, ma si tratta di casi eccezionali. E anche se la città tendesse a crescere per fasce concentriche uniformi rispetto ad un centro, sarebbe comunque importante per la residenza e le industrie garantire una continuità radiale piuttosto che circolare.

Un esempio della necessità di definire zone omogenee a forma di “cuneo” ci è stato offerto dal rapporto preliminare per la Commissione del Piano Regionale di Long Island, redatto da Mr. Frederick Law Olmsted. Egli notò come fosse molto meglio preservare lungo le colline che si estendono dal Forest Park nel Queens fino alle montagne della contea di Nassau una zona a forma di cuneo destinata a residenze ad alta densità che mantenesse intatte le sue bellezze naturali. Dimostrò che la continuità di questo cuneo poteva essere seriamente compromessa dallo sviluppo industriale presso le paludi di Flushing e di un’area che si estendeva dalle paludi fino a Jamaica Bay. Il risultato sarebbe stato di avere un’area industriale a tagliare trasversalmente una zona che per buona parte poteva essere più adatta alla residenza.

Facciamo un altro esempio. Dal momento che vaste aree delle praterie di Hackensack sono state occupate dall’industria, sarebbe auspicabile proteggere dai confini con queste praterie alcuni corridoi altrettanto estesi, destinati a residenze ad alta densità, attraverso il Passaic River fino alle colline del New Jersey. Ma c’è pericolo che prenda piede uno sviluppo industriale pressoché continuo lungo entrambi i lati del Passaic River tra Newark e Paterson. Se questo accadesse, si creerebbe una barriera industriale in mezzo ad un corridoio residenziale che dovrebbe estendersi attraverso il Passaic River vicino a Belleville.

Provate a pensare all’effetto che potrebbe avere sulla crescita residenziale lungo la parkway della contea una fascia a destinazione industriale che si estende attraverso la Contea di Westchester, dal Sound fino al fiume Hudson. Invece, un “cuneo” radiale a uso industriale che penetra nella contea non provocherebbe alcun danno sul quello residenziale.

Lo stato di fatto per quanto riguarda la topografia, il trasporto pubblico e la domanda di servizi, mostra che una ampia classificazione dei distretti in zone omogeneee dovrebbe avvenire per “cunei”, al cui interno possono esserci adeguate variazioni in punti specifici e che siano coordinati con gli schemi di zoning che sono stati redatti per il piano di sviluppo delle fasce concentriche, come il Metropolitan Loop mostrato nella Cartografia del Piano.

Disponibilità di terreni inedificati

Prima di illustrare la descrizione degli usi del suolo, è bene porre attenzione all’ampia quantità di terreno destinato dal Piano alle aree estensive. Queste aree, che rappresentano almeno i tre quarti di una regione di 3.537.249 acri, sono, nelle idee di molti, aree più o meno edificabili. Ai più sembra inconcepibile che, in una regione urbana, un terreno possa essere proficuamente conservato o distinguersi per un uso che non comporti edificazione. Anche l’Atlante mostra vaste aree per la crescita urbana per una popolazione che è due volte quella attuale nella Regione e a questo scopo utilizza solo un quarto dell’area.

Nella Regione, si pone ormai il problema di come evitare l’edificazione lì dove non conviene e promuoverla lì dove conviene. Tutto dipende da quanto rendono i terreni edificabili e dall’uso che si fa degli spazi aperti. Si pongono anche i problemi di come lasciare libere vaste aree, che servono per residenze di campagna e istituti, e di come riservare terreni per l’agricoltura e il rimboschimento a vantaggio sia della comunità che dei proprietari terrieri.

Il problema dell’attrito tra gli spazi della residenza e i luoghi di lavoro è legato in particolar modo anche al problema dell’uso del suolo. Uno studio di questi problemi, tra loro correlati, rivela alcuni aspetti che forniscono raccomandazioni e suggerimenti per la disposizione e la distribuzione future di queste destinazioni d’uso.

Aree intensive e aree estensive

E’ sembrato utile descrivere gli usi del suolo secondo due grandi categorie: aree intensive e aree estensive. Le aree intensive sono quelle aree in cui una considerevole percentuale della superficie è coperta da edifici. Non è stata adottata alcuna percentuale specifica come parametro per distinguere le aree intensive. La difficoltà di definire un valore che permettesse una stima accurata sarebbe stata eccessiva e, comunque, un’informazione del genere sarebbe stata di dubbio valore, data la differenza dei livelli di densità delle diverse parti di un’area. Una differenza considerevole sia all’interno delle singole aree della Regione sia tra le zone centrali e quelle periferiche. All’interno delle zone centrali, comprendenti New York City, Hudson County e Newark, la crescita edilizia è più fitta e gli spazi aperti sono meno che nelle zone suburbane che si estendono dal confine della zona centrale per un raggio di 20 miglia. Allo stesso tempo, ci sono differenze considerevoli all’interno di ciascuna zona, così come esemplificato nella densità dei quartieri ad appartamenti del Bronx e del quartiere di villette del Queens. La zona periferica, comprendente tutti i terreni oltre il raggio di 20 miglia, differisce in parte per i caratteri e gli usi delle zone suburbane, ma nelle sue aree urbane raggiunge praticamente la stessa densità. La sua caratteristica più riconoscibile è la grande estensione di spazi aperti. Il massimo della varietà appare tra Manhattan Island e Mountain Lakes. Le aree estensive della prima verranno considerate come aree intensive nella seconda.

Generalmente, le aree intensive indicano un uso relativamente intenso del suolo rispetto ai comuni standard di concentrazione di edifici delle diverse parti della regione. Nelle aree ad alta densità, piccoli parchi urbani, campi da gioco, autostrade e altri tipi di spazi aperti che costituiscono il tessuto urbano di un quartiere, sono considerati come parte integrante del carattere di alta densità dei terreni vicini. Sono quindi considerati con la stessa destinazione d’uso dei terreni edificabili, cioè come una parte di un’area di crescita ad alta densità.

Nello studio degli usi, lo staff del Piano Regionale ha ricavato una grande quantità di informazioni dal rilievo regionale e da studi specifici sul campo condotti dai suoi membri durante le estati tra il 1924 e il 1927. Un aiuto prezioso è arrivato dallo studio delle carte aeree e delle mappe catastali e topografiche delle varie aree urbane. Ai fini del Piano Regionale, le aree intensive sono state classificate secondo le destinazioni d’uso terziaria, industriale e residenziale. Il termine “uso” è da riferirsi alla destinazione prevista per il terreno edificabile piuttosto che allo stato di fatto. Quindi, i terreni che sono già frazionati o stanno passando da agricoli a edificabili fanno parte di un’area intensiva. Nel caso in cui le aree vengono effettivamente indicate come edificabili, il Piano prevede a grandi linee che i nuovi volumi serviranno a soddisfare il fabbisogno per la popolazione stimata nella Regione al 1965.

Le aree estensive comprendono tutti i terreni della Regione che non fanno parte di quelle intensive. La sotto-classificazione degli usi per gli spazi aperti sono:

a) parchi pubblici;

b) le riserve d’acqua;

c) piste per cavalli e sentieri per escursioni;

d) spazi aperti semi-pubblici, come campi da golf e circoli sportivi, tenute di grandi istituti e cimiteri;

e) piste di atterraggio per aerei, pubbliche e private;

f) campi militari;

g) tenute private e poderi, comprese le aree estensive per le imprese agricole

h) spazi pubblici in prossimità dei corsi d’acqua e dei laghi

Nota: il Piano Regionale di New York del 1929 pone una questione essenziale: per risolvere i problemi dell'area metropolitana è necessario intervenire a scala più vasta. Per una migliore comprensione dei suoi contenuti, alleghiamo due file pdf scaricabili, realizzati da Fabrizio Bottini: nel primo, una breve presentazione delle strategie per il trasporto, il sistema insediativo e l'ambiente, nel secondo alcune immagini che illustrano un possibile futuro per New York (g.b.)

here English version

Tratto da: Proceedings of the Eighth National Conference on City Planning, Cleveland, June 5-7, 1916 (New York: National Conference on City Planning, 1916)

Titolo originale: Districting by Municipal Regulation – Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Gli urbanisti devono proprio ammettere che ce n’è abbastanza per dar ragione alle frequenti critiche al movimento per la pianificazione comunale in questo paese, con il risultato che di questo movimento si è tanto discusso ma che poca concreta pianificazione è stata fatta, e i risultati raggiunti sono stati ignorati.

Sono convinto che il motivo per cui si è fatto così poco è perché non siamo mai stati in grado di attuare un piano regolatore e questo è successo perché non abbiamo mai adottato un piano che suddividesse correttamente in zone le nostre città.

Abbiamo sentito questa mattina, e chi studia urbanistica questo lo sa, che se la parola pianificazione significa qualche cosa, significa principalmente diversificare – diversificare, ad esempio, l’uso delle strade, diversificare i viali e le strade locali, diversificare la larghezza delle strade.

Ma in che modo possiamo creare delle differenze nel resto del mondo se non riusciamo nemmeno a capire come farlo a casa nostra?

Questo è il problema con cui si confronta chi pianifica una città in anticipo rispetto al suo sviluppo. Quanti urbanisti possono dire con certezza quando redigono un piano: “quest’area sarà una zona residenziale e rimarrà tale. E questa parte della città sarà una zona produttiva e rimarrà tale. E quest’altra parte della città sarà una zona destinata a quartieri operai”. Sarebbe bello se potessimo fare affermazioni del genere. Parole magiche per chi si è confrontato sul campo con le difficoltà di ordine pratico.

Pianificare significa diversificare anche sotto altri aspetti. Ad esempio, differenziare la dimensione dei lotti. Il lotto per la casa di un milionario, come quelli da trecento metri che abbiamo visto oggi, sarà totalmente diverso da quello necessario per costruire la casa di un meccanico.

O ancora, avremo bisogno di un lotto dalle dimensioni differenti a seconda che si tratti di un lavoratore non specializzato, che guadagna al massimo 15 $ a settimana o di un artigiano specializzato che guadagna da 25 a 40 $ a settimana.

Ovviamente il lotto di una fabbrica sarà diverso per dimensione e forma da quello di una residenza.

Come urbanisti, ci è stato richiesto di progettare le nostre città, anche se ogni volta era impossibile sapere in anticipo quale parte della città sarebbe diventata una zona produttiva e quale una zona residenziale e se sarebbero rimaste tali per un lasso di tempo ragionevolmente lungo rispetto alla vita di quei centri.

In queste circostanze, non è così strano che, mancando quegli elementi essenziali per un corretto sviluppo dei piani, non siano stati fatti passi avanti verso una pianificazione comunale attuabile.

Con l’espressione “suddivisione in zone” intendiamo, a quanto ho capito, il dividere la città per grandi linee in quartieri o in comparti e il definirne le caratteristiche attraverso leggi e ordinanze che prescriveranno gli usi e le altezze degli edifici con criteri diversi da zona a zona, così come la quantità di spazi aperti necessaria per garantire aria e luce.

Potremo anche veder crescere un meraviglioso centro civico come è successo qui a Cleveland; potremo anche avere un meraviglioso sistema di parchi come ce l’hanno Boston e Philadelphia; o un meraviglioso sistema di edifici ricreativi come quelli di Chicago – ma tutto questo, anche se è importante, non è pianificazione. E’ solo una fase del processo pianificazione.

Non ci può essere un piano urbanistico se gli usi delle varie parti di una città non possono essere definiti con un certo grado di precisione.

Non è strano, quindi, che prima d’ora gli urbanisti non abbiano fatto molta pianificazione reale. Non è stata colpa loro. Sanno bene cosa vogliono fare, ma non hanno ancora capito cosa possono fare nelle condizioni di governo più comuni nel paese.

A causa di questi limiti, i costruttori e gli operatori immobiliari in passato hanno provato come potevano, mediante vincoli di tipo privato, a conseguire i risultati prefissati. Sappiamo tutti che questi vincoli privati, di solito, sono anche meritevoli.

Stamattina, in uno dei dibattiti, qualcuno ha domandato quando dovrebbero scadere i vincoli privati. Non si pone proprio il problema, perché sappiamo tutti che dopo 25, 50 o 75 anni di continua crescita, le condizioni cambiano e i tribunali vanno avanti, e, morto chi per primo pose quei vincoli, le corti di solito sentenziano: “non manterremo oltre questi vincoli”. Con questo non voglio dire che non ci siano molti aspetti che possono essere tranquillamente regolamentati mediante accordi privati, ma, ad esempio, per mantenere l’uso residenziale di un quartiere l’esperienza generale sembra suggerire che non possiamo contare su quello che è semplicemente un contratto privato o un accordo tra due parti. La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che quando due parti vogliono sciogliere il contratto non c’è ragione perché questo non debba avvenire. La questione dell’interesse pubblico normalmente non viene proprio considerata.

Alcune delle difficoltà incontrate nel tentativo di definire il carattere di un quartiere imponendo dei vincoli privati sono deliziosamente illustrate da un rapporto elaborato recentemente da una commissione del Consiglio di Consulenza per le Rendite Immobiliari di New York City. Se posso, vorrei leggervi brevemente cosa ha scoperto la Commissione, che è solo la punta dell’iceberg.

Oggetto dell’indagine era quello di mettere a punto una base di lavoro ragionevole, grazie alla quale potessero essere superate le difficoltà delle convenzioni vincolanti, ma la Commissione ne ha quasi ammesso l’impossibilità, dicendo apertamente “al momento non siamo in grado di redigere una legge guida per i consorzi immobiliari, e quindi il problema delle convenzioni vincolanti in questa città diventa contraddittorio, un problema senza una soluzione”.

”Un riassunto del rapporto della commissione è un elenco di situazioni che dimostrano chiaramente le molte incongruenze delle decisioni giuridiche.

E così, i palazzi ad appartamenti sono autorizzati, nonostante i vincoli per le abitazioni nel tratto di Murray Hill, sulla Ventesima strada, a Manhattan, e sulla Settantottesima Ovest tra Broadway e Amsterdam Avenue, sulla Centoquarantesima Strada e su St. Nicholas Avenue, ma una trifamiliare non potrebbe esistere su Sedgwick Avenue e Undercliff Avenue nel Bronx; un’abitazione non può essere usata come sanatorio a Brooklyn nè un garage può essere costruito sullo stesso lotto a White Plains. Una casa popolare può essere costruita nonostante le convenzioni per abitazioni a Brooklyn ma non sulla Tenth Avenue o sulla Sessantaquattresima, a Manhattan. Un’abitazione può essere trasformata nella sede di un’impresa su Madison Avenue e sulla Quarantunesima; in una sartoria sulla Ventiquattresima Ovest; ma non in un palazzo per uffici sulla Quarantesima Ovest, né uno stilista può mettere un’insegna sulla Cinquantaduesima Ovest.

Un’infermeria può essere costruita sulla Settantunesima e su Madison Avenue, una scuderia di cavalli può rimanere tra gli appartamenti sulla Centottantanovesima Strada; una casa-albergo è autorizzata sulla Quarantatreesima e sulla Fifth Avenue, ma per acquistare pane e torte da un fornaio è meglio il Southern Boulevard. La raffineria di resine nel quartiere Erie Basin di Brooklyn non piace a nessuno, ma la sopraelevata nel Bronx è permessa. Una palazzo di uffici di venti piani può essere costruito lungo un fronte edilizio in violazione di una norma esistente sulla Ventiseiesima, maguai a chi osa tirare su un rifugio a un piano nel retro di Brooklyn. Una stazione di servizio a Broadway e sull’Ottantunesima non è conforme, ma un garage vicino alle abitazioni va bene a Flatbush.

”Sono amare considerazioni, che scoraggiano chi opera nel mercato immobiliare e chi si sente in dovere di consigliare proprietari e progettisti” dice la Commissione.

Il concetto è espresso molto più sinteticamente di come lo avrei espresso io, e vi dà un’immagine chiara dei risultati sconfortanti che emergono dalle varie interpretazioni giuridiche dei diversi contratti tra proprietari che hanno venduto per mantenere il carattere residenziale del quartiere in cui stavano costruendo e per preservarlo da ciò che ritenevano essere un danno.

Comunque, anche se l’insuccesso nel mantenimento di un uso è un problema serio, ancora più serio è che in questo sistema un vincolo privato è più che altro un’ombra sul relativo titolo di proprietà e così contribuisce a distruggere i valori immobiliari. Poche persone sono disposte a investire i loro capitali nel mercato immobiliare in circostanze come queste, in cui l’unica garanzia della stabilità del carattere residenziale di un quartiere deve essere ricercata in un accordo privato, che come già detto, è materia di controverse decisioni giuridiche.

Per dare fiducia agli investitori, una restrizione di questo tipo non deve solo essere favorevole, deve anche sembrare favorevole. E’ come un uomo che è onesto di questi tempi. Non deve solo essere onesto, deve anche sembrare onesto.

Dunque, siamo costretti ad accettare le conclusioni che Mr. Taylor ha formulato, che, per certi aspetti essenziali, possiamo controllare il carattere del nostro quartiere solo attraverso normative nazionali o comunali.

Se io suggerissi a quest’uditorio di cercare di controllare la qualità del latte venduto a Shaker Heights mediante un atto di convenzione (sic), pensereste giustamente che è una proposta ridicola.

Allo stesso modo, se si proponesse di garantire la sicurezza dei pedoni sulle nostre strade e sulle superstrade mediante accordi privati tra proprietari, messi agli atti, chiunque penserebbe che è una cosa assurda.

I tempi sono ormai maturi per chiamare gli Stati all’uso del grande potere che è nelle loro mani, affinché proibiscano ciò che sappiamo essere sicuramente dannoso per la comunità.

Sette anni fa, lo stato più a ovest, la California, progressista come sempre, ha aperto la strada ai piani per zonizzare le città. Non voglio annoiare la platea spiegando in dettaglio i piani elaborati per la zonizzazione. Si è già detto tutto più di due anni fa all’incontro di Toronto. Lasciatemi però ricordare brevemente qual era il piano per Los Angeles.

Fu approvato un’ordinanza municipale, in base alla quale la città venne divisa in tre zone principali – zona industriale, zona residenziale e quella che fu chiamata “eccezione alla residenza” una sorta di zona ibrida dove alcune industrie non dannose erano consentite.

In una delle zone che l’ordinanza definiva residenziali c’era una fabbrica di mattoni, proprietà di un certo Hadacheck, un nome destinato a rimanere celebre.

Non so se Hadacheck fosse un tipo eccessivamente litigioso, ma, ad ogni modo, era determinato a scoprire se lo Stato avesse il diritto di privarlo della sua fabbrica.

L’ordinanza in questione era retroattiva e non solo proibiva la localizzazione futura di qualsiasi fabbrica di mattoni in una zona residenziale, ma dichiarava illegittima qualsiasi fabbrica già esistente e imponeva che venissero smantellate.

Il caso fu portato all’attenzione della Suprema Corte della California e nonostante il fatto che Hadacheck riuscì a dimostrare alla Corte che la fabbrica era stata costruita lì in un’epoca in cui il quartiere non era entro i limiti del centro abitato, che esisteva da molto prima che si sviluppasse il carattere residenziale del quartiere, che il sito era molto più idoneo alla produzione di mattoni che alla residenza, che il suo investimento di 50.000 dollari sarebbe stato completamente inutile se gli fosse stato imposto di abbandonare la fabbrica – nonostante tutti questi elementi, la Suprema Corte della California stabilì che l’ordinanza era costituzionale e ad Hadacheck fu imposto di dismettere la produzione di mattoni in quel luogo.

Sull’esempio della California, ma apparentemente ignare di ciò, diverse altre città hanno emanato simili ordinanze e alcuni Stati hanno approvato leggi in materia.

Quelli di noi che credevano nel principio della zonizzazione aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto la massima autorità del Paese, la Suprema Corte degli Stati Uniti, quando avrebbe esaminato il caso, sperando che venisse confermata la decisione della California.

A dire il vero, molti di noi non credevano che sarebbe stata confermata, anche se ci speravamo fermamente. Gli avvocati che avevamo consultato sulla costa orientale ci dissero “Si, certo, è una decisione della California, ma i tribunali qui non tengono in grande considerazione le decisioni della California”.

Eravamo ormai arrivati ad un punto in cui avremmo voluto sapere con chiarezza cosa potevamo e cosa non potevamo fare e alcuni di noi erano dell’idea che sarebbe stato saggio prendere un caso tipo e portarlo fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, in modo da chiarire una volta per tutte se fosse possibile controllare il carattere residenziale di una zona usando i poteri di polizia. Come già detto, era ora che la massima autorità del paese ci dicesse se questo era possibile e, se si, come avremmo dovuto farlo.

Ce l’hanno detto a Gennaio, quando la Suprema Corte degli Stati Uniti prese una decisione nel caso Hadacheck. Non solo confermarono la costituzionalità dell’ordinanza e che fosse legittimo l’uso dei poteri di polizia, ma scrissero una sentenza che è una pietra miliare della storia della giurisprudenza Americana, una sentenza a cui aveva lavorato l’intera Corte. Si tratta della sentenza più radicale che ho mai avuto il piacere di leggere. A mio giudizio, rivoluzionerà le condizioni di vita delle città americane e la vita quotidiana di tutti noi.

Voglio richiamare la vostra attenzione su due punti di questa sentenza che sono di particolare importanza.

Per la prima volta nella giurisprudenza americana abbiamo una legge di questo tipo sostenuta non sulla base della salute pubblica o della pubblica sicurezza ma da un principio nuovo, più generale e radicale, “il benessere generale”.

Si apre uno spiraglio, che potrebbe allargarsi molto di più. Fino a che punto, pochi di noi possono dirlo. Sappiamo tutti che i poteri di polizia sono piuttosto vaghi e non ben definiti. Le corti li hanno saggiamente mantenuti tali e all’epoca a molti sembrava che si fossero tenuti abbastanza larghi. [...].

Naturalmente, non dobbiamo fare tutto mediante regolamenti comunali. Non possiamo, ad esempio, definire lo stile architettonico nello sviluppo di Shaker Heights; non possiamo nemmeno fare in modo che le abitazioni in quella zona costino non meno di 10.000 $ o 15.000 $. Non possiamo stabilire che tutti i tetti di una certa zona debbano essere rosa, come sono in Forest Hills. Qualcuno sarà contento che non possiamo farlo.

Ci sono ancora molti altri aspetti che saranno affidati ad atti di convenzione privati. Senza dubbio molti vincoli di questo tipo avranno effetti per molti anni, e il mio consiglio a chi lottizza è di restare nei paraggi, non importa quanti siano i regolamenti comunali.

Prima di chiudere, due parole sulla mia New York. E’ stato fatto un lavoro colossale per suddividere in zone quella enorme comunità cosmopolita di oltre 5 milioni di persone e i cittadini di New York e dell’intero paese devono molto agli uomini che hanno fatto questo lavoro. Mi riferisco in particolare a uomini come Ed. Bassett, il Presidente della Commissione per la Zonizzazione di New York, che vi ha dedicato gran parte del suo tempo e non è solo bravo ma sembra anche uno bravo! Non è solo un uomo imparziale, ma sembra assolutamente imparziale; almeno a tutte le audizioni pubbliche.

Perchè, signori e signore, uno può sottoporre un caso a Bassett, tornare a Flatbush e ritornare a Manhattan per la prima udienza e Bassett ha già preso una decisione definitiva.

Uno degli aspetti interessanti del lavoro di New York è stato l’atteggiamento del pubblico. Con grande sorpresa dei membri della Commissione e dei loro amici, le maggiori critiche sono arrivate non dagli riformisti e dagli urbanisti, ma dagli operatori immobiliari e dai proprietari, e non perché le sue raccomandazioni erano troppo radicali ma perché non erano abbastanza severe.

Praticamente tutti i quotidiani di New York hanno scritto editoriali in merito quasi ogni settimana, lodando il lavoro della Commissione e sottolineando la grande importanza di vedere le sue raccomandazioni trasformate in legge.

Questo atteggiamento della stampa è dovuto in larga parte al modo intelligente in cui la Commissione si è occupata della cosa.

Così come è stata la Commissione di Bassett, è stata anche la commissione di Ford – ma non nel modo in cui pensate voi - perchè Ford, come molti di voi sanno, è stato una delle tre guide del lavoro. L’altro è stato Whitten, il segretario della Commissione. Whitten, comunque, è talmente impegnato da non poter essere qui. Non voglio dire che Ford non faccia nulla, ma qualcuno deve pur lavorare e dato che Ford è il più mondano dei due, Whitten è rimasto a casa.

Mentre organizzavo questa sessione della conferenza, ho chiesto a Ford se volesse darci qualche suggerimento su cosa dovessimo discutere in questa sessione.

Mi ha spedito cinquantasette temi, ognuno dei quali diceva essere fondamentale, per poi scoprire che ognuno di essi avrebbe impegnato in una discussione praticamente tutto il pomeriggio.

Appena seduto, lascerò a Ford qualche istante per discutere di quei 57 temi, se il Presidente gliene concederà facoltà.

Scherzi a parte, il problema a New York è di una certa dimensione e il lavoro fatto è di portata epocale. Naturalmente la Commissione è riuscita a fare la metà di quello che avrebbe dovuto fare. Gli standard che hanno stabilito non sono molti, ma non avrebbero potuto stabilirne quanto avrebbero voluto e riuscire allo stesso tempo a mantenere il consenso dell’intera comunità – gli interessi immobiliari, quelli finanziari, quelli degli edifici, praticamente di tutti. Con i loro regolamenti, non hanno fatto tutto quelle cose che qualcuno di noi avrebbe voluto facessero e che loro stessi avrebbero voluto fare, ma è un buon inizio.

Nè il merito del loro lavoro è limitato alla sola New York City. Come tante altre cose fatte in questo grande centro abitato, ciò che è fatto qui ha valore per l’intero paese. Con l’adozione di regolamenti di questo tipo a New York City, un’ondata si propagherà per tutto il paese, anche nei paesi più piccoli, un’ondata di sensibilità pubblica che porterà all’adozione di regolamenti di questo tipo.

In molte città del paese si sente dire sempre più spesso “Se lo fa New York, perché noi non possiamo?” e loro cominceranno a zonizzare le loro città.

Quella che vedo è la situazione più favorevole che il gruppo degli urbanisti abbia mai fronteggiato. Lo ripeto, siamo sul punto di assistere a un grande cambiamento nelle condizioni di vita in America. Stiamo per rivoluzionare la situazione nell’arco di una sola generazione, al punto tale che la generazione che verrà dopo di noi dirà: “Non è quella un’interessante dimostrazione della timidezza e della mancanza di coraggio degli uomini che sono venuti prima di noi? Perché mai hanno perso tempo a decidere quando avrebbero potuto iniziare a zonizzare una città?

Nota. Vale la pena evidenziare due questioni cruciali poste dalle parole di Veiller, ben sintetizzate nel titolo originale “Districting by Municipal Regulation”. La prima è di ordine semantico: il termine “districting” definisce l’azione di suddividere la città in distretti omogenei. Oggi viene spontaneo pensare alla “zonizzazione” e alle “zone territoriali omogenee”, ma il fatto che il termine “zoning” non venga mai adoperato dimostra il carattere fondativo e “pionieristico” del dibattito che si sviluppa intorno al Piano di New York in quegli anni.

La seconda questione è più sostanziale. I “vincoli privati” e le “convenzioni vincolanti” di cui si parla traducono rispettivamente “restrictions” e “restrictive covenant”. Ci si riferisce a particolari accordi privati, con i quali i primi proprietari e lottizzatori dei terreni pongono delle limitazioni che vanno dalle destinazioni d’uso fino alla manutenzione degli spazi aperti e che valevano anche in caso di vendita dei terreni e degli edifici.

Vincoli di questo genere costituivano un limite per lo zoning, che non poteva definire con sufficiente precisione gli usi delle diverse parti della città, limitando, di fatto, l’efficacia dell’intero piano. Da qui l’esigenza che alcuni aspetti essenziali venissero regolamentati solo attraverso regolamenti comunali.

Infine, vale la pena ricordare la figura di Lawrence Veiller (1872–1959), che fu uno dei maggiori esperti americani di politiche abitative. Fu segretario della Commissione per le Case Popolari dello Stato di New York e tra i promotori della prima Legge per l’Edilizia Popolare. E vale la pena ricordare che questo documento fa parte della ricca antologia curata da John Reps, liberamente accessibile on-line all’indirizzo www.library.cornell.edu/Reps/DOCS/homepage.htm. (g.b.)

Here english version

Chi scriverà la storia della scienza della seconda metà del XX secolo non potrà trascurare un dato importante. In quella fase, l’economia come disciplina scientifica, sapere destinato ad accrescere la produzione e il consumo di ricchezza, sostituisce di fatto la fisica come Big Science, come scienza dominante delle società industriali. E' un aspetto che si tende a dimenticare l'apparato di razionalità che ha guidato le società post-industriali non è stato quello della fisica o della biologia o del pensiero filosofico, ma quello dell’economia. E nella seconda metà del Novecento la scienza economica si è messa al servizio di una gigantesca opera di saccheggio delle risorse naturali. E soprattutto ha finito coll'imporre una visione del mondo che ha separato la realtà sociale dalla biosfera, l'opera dell'uomo dal mondo vivente, la storia dalla natura. Il pensiero economico contemporaneo, nel suo progetto di crescita illimitata della produzione di ricchezza, si è di fatto fondato sulla completa rimozione del mondo fisico. E ha piegato a tale fine tutti gli altri saperi. A questi ultimi anche quando essi erano portatori di una visione sistemica e complessa della realtà naturale - ha lasciato un compito ancillare di mera riparazione delle distruzioni che esso promuoveva e ispirava. Anche le scienze ecologiche sono state costrette a star dietro ai danni prodotti, a svolgere un'opera sempre post-factum, di restaurazione, di riaggiustamento.”

Qui il testo integrale della lezione di Piero Bevilacqua

La vicenda del piano

Lo strumento urbanistico ancor oggi vigente per il centro storico di Venezia è costituito dai PP adottati nel 1974 e approvati dalla regione nel 1979. Sono dei PP fortemente atipici. Hanno il livello di (im)precisione di un tradizionale PRG, e devono essere attuati mediante uno strumento anch'esso atipico che è il Piano di coordinamento (praticamente, un vero e proprio PP). Questa stranezza veneziana deriva da complesse ragioni politiche, legate ai rapporti che intercorrevano tra il '70 e l'80 tra le diverse forze politiche veneziane e tra le istituzioni e l'opinione pubblica cittadina e quelle nazionali e internazionali.

La storia dei PP del 1974-79 è parte della storia della legge speciale per Venezia del 1973: delle sue intuizioni e delle sue illusioni, dei suoi equivoci e dei suoi errori. Qui interessa annotare che i PP furono approvati definitivamente nel 1979, e che già l'anno successivo cominciammo a lavorare per formare un piano regolatore del tutto nuovo.

Abbiamo cominciato a lavorare al nuovo piano per il centro storico nel 1980-81. Nel precedente quinquennio (1975-80) la maggioranza PCI-PSI si era formata proprio sul tema dei PP (la cui adozione aveva visto uno schieramento DC, PSI e PCI e aveva costituito l'avvio di quel ribaltamento delle alleanze che diede vita, nel 1975, alla prima giunta di sinistra a Venezia).

Al centro del suo programma quella giunta aveva il completamento dell'iter e l'attuazione di quegli anomali PP In questo tentativo si è consumato il mio primo mandato di Assessore all'urbanistica. Il periodo 1975-80 appare per la verità molto più fruttuoso di quanto oggi qualcuno ne dica. Esso è servito, "in negativo", a verificare nel concreto l'impossibilità di attuare quei piani particolareggiati e i meccanismi da essi previsti. Ma esso è servito anche ad avviare una serie di iniziative di risanamento e di riqualificazione urbana, con molti interventi di recupero e alcuni qualificati interventi di completamento urbano. Ed è servito poi soprattutto - questo è il punto che voglio sottolineare in questa sede - a sperimentare un nuovo metodo di pianificazione.

Abbiamo insomma colto le diverse occasioni di pianificazione estese ad ambiti limitati che i programmi comunali indicavano (specialmente i primi 7 "piani di coordinamento" e il Piano particolareggiato di Burano) per elaborare via via nuovi criteri normativi. E abbiamo utilizzato i progetti edilizi che l'Amministrazione redigeva o seguiva o controllava per verificare l'impatto delle norme nel concreto degli interventi edilizi. E' stato un lavoro molto faticoso e, nel breve periodo, poco gratificante, ma molto utile, perché ci ha permesso di comprendere che cosa precisamente andava analizzato, e come, per poter costruire regole che consentissero agli operatori di intervenire in modo diffuso sullo stock edilizio.

Abbiamo così, passo per passo, costruito quello che in buona misura ci sembra possa essere definito un metodo nuovo. All'inizio del mio secondo mandato di Assessore all'Urbanistica, nel 1980, ho proposto di applicare quel metodo in modo generalizzato all'intero centro storico veneziano, per estenderlo poi al resto del territorio comunale.

La Giunta non approvò mai formalmente il mio programma di lavoro. Forse era un documento troppo complesso, che oggi però varrebbe la pena di rileggere perché mi sembra che anticipi molti dei ragionamenti che in questi anni sono diventati opinione comune. Più probabilmente, ha influito il fatto che in quegli anni (parlo dell'inizio degli anni '80) la pianificazione urbanistica, e la logica della programmazione, non godevano di molto credito, in Italia e anche a Venezia. Si preferiva rincorrere l'emergenza, praticare la deroga, godere dei vantaggi della discrezionalità.

La Giunta, tuttavia, approvò volta per volta gli atti che via via proponevamo come necessari per procedere nel lavoro di costruzione del nuovo piano. Abbiamo così potuto produrre le basi materiali del piano regolatore che oggi presentiamo:

1) il fotopiano a colori in scala 1:500;

2) la cartografia computerizzata;

3) la planimetria, al livello del piano tipo, degli edifici dell'intero centro storico.

Questi elementi costituiscono le prime fondamentali componenti di quel Siute (Sistema informativo urbano territorializzato) che è ormai pronto a "girare" nel centro elettronico dell'Assessorato all'Urbanistica, non appena sarà risolto il problema del rientro del tecnico formato per gestirlo.

Insieme alle basi materiali, abbiamo predisposto le basi di analisi. Tre soprattutto voglio ricordarne: la schedatura e mappatura delle utilizzazioni attuali degli edifici, l'analisi delle tipologie strutturali delle unità edilizie, il rilevamento e la mappatura di tutti gli spazi scoperti e delle essenze arboree. Queste analisi, il loro livello di approfondimento, la loro estensione all'intero centro storico (che è, ricordiamolo, il più grande d'Italia insieme a quello di Roma, e il più abitato del mondo), sono state decisive per poter redigere un piano quale quello che vi stiamo illustrando. Essenziale però è la capacità di aggiornarle con continuità e sistematicità: mi riferisco in particolare all'analisi delle utilizzazioni degli edifici, che è già fortemente e inevitabilmente datata e che andrebbe invece, adoperando il Siute, aggiornata in tempo reale, per poter adeguare le componenti programmatiche del piano alle modificazioni della realtà.

Il lavoro che vi ho sinteticamente descritto era stato in gran parte completato alla fine del quinquennio 1980-'85

Si è praticamente fermato per un paio d'anni, nei quali ha governato una giunta DC-PSI; in quegli anni purtroppo è stato in qualche misura anche smantellato l'ufficio che lo stava elaborando. Il lavoro è ripreso poi ed è stato portato a termine con la Giunta rosso-verde, grazie soprattutto alla sintonia con Stefano Boato, e alla larga fiducia che quest'ultimo ha dato a Edgarda Feletti, a Luigi Scano e a me.

Illustrazione sintetica del nuovo piano

Prima di dare la parola a Feletti e a Scano, che illustreranno più puntualmente il nuovo piano soprattutto nei suoi contenuti metodologici, vorrei provarmi a darne una descrizione sintetica, riferendomi prima al rapporto tra piano e spazio, e poi al rapporto tra piano e tempo.

Il piano e lo spazio

Per la parte del territorio del centro storico in cui si prevede ( e prescrive) la conservazione del disegno urbano preesistente, il piano classifica tutte le unità elementari di spazio in funzione operativa. In particolare, le unità edilizie (e cioè gli edifici caratterizzati da unità di volume e di prospetto) sono classificate in una quarantina di classi sulla base di un'analisi delle tipologie strutturali. Per ogni classe, sono definite sia le regole delle trasformazioni fisiche consentite o prescritte (quali elementi strutturali e funzionali devono essere conservati o ripristinati, e come; quali possono essere modificati, e come, o eliminati), sia la gamma delle utilizzazioni compatibili.

Ciò che mi interessa adesso sottolineare è che, in questo modo, ogni concreta unità edilizia è riferita a un tipo, e per ogni tipo c'è una scheda normativa che dice quello che si può fare e quello che non si può fare.

Per questa parte, il piano è interamente attuabile mediante semplice concessione o autorizzazione edilizia, sulla base di singoli progetti edilizi. Il che, per un piano regolatore generale di un centro storico che comprende 13 mila unità edilizie, non è davvero poco.

Fanno eccezione all'intervento diretto solo quelle parti del centro storico (si tratta di 50 ambiti) nelle quali sono ritenute necessarie, e quindi sono prescritte o ammesse, trasformazioni consistenti o dell'assetto fisico (come per esempio la Marittima, o la decina di insediamenti Iacp incongrui con la morfologia urbana) o dell'assetto funzionale (come per esempio l'Arsenale storico) o dell'uno e dell'altro insieme (come le aree di San Basilio, Stucky, Manifatture Tabacchi, S. Maria Maggiore, ex Inceneritore, ecc.).

Per queste aree il piano prevede la formazione di piani particolareggiati. Per ciascuno degli ambiti si prescrivono con precisione quantità, utilizzazioni e direttive per l'organizzazione fisica e morfologica, ma non si prescrivono indicazioni grafiche, "disegni".

Si tratta di interventi che si faranno magari tra dieci o quindici o magari cinquant'anni anni. Sarebbe sbagliato irrigidire in soluzioni formali, inevitabilmente approssimative, qualità che devono essere il prodotto di una progettazione attenta, strettamente calibrata sulle necessità (e sulla cultura) del momento in cui l'intervento in questa o quell'altra area diventerà operativo.

Il piano e il tempo

Per quanto riguarda il rapporto tra il piano e il tempo, provate a immaginare il piano come la somma di due parti: una parte fissa nel tempo, e quindi valida a tempo indeterminato (almeno in termini schematici), e una parte invece mobile, o più esattamente valida per un arco temporale breve (per esempio, cinque anni, tempo corrispondente a quello di un mandato amministrativo).

In realtà, nella pianificazione una serie di indicazione e prescrizioni sono fisse, valgono sempre, costituiscono delle invarianti rispetto a tutte le modifiche della realtà immaginabili, altre invece hanno una validità legata a previsioni, a esigenze, a impostazioni politiche, a programmi che hanno una limitata validità nel tempo. Questa differenza vale in particolare, e soprattutto, per le cosiddette "destinazioni d'uso", cioè per le funzioni, gli usi cui possono essere adibite le diverse unità di spazio.

Noi abbiamo distinto due aspetti. Da un lato, le regole delle trasformazioni fisiche e le utilizzazioni compatibili. Per ogni categoria di unità edilizie (come per ogni categoria di unità di spazio scoperto) il piano stabilisce quali sono le regole e quali tutte le utilizzazioni che sono compatibili con le particolari caratteristiche di quel tipo, cioè le utilizzazioni che sono tali da non stravolgere, ma anzi utilizzare al meglio le unità edilizie che appartengono a quella classe. Si tratta normalmente di una gamma ampia, che nella normativa abbiamo dettagliato molto pere evitare genericità e discrezionalità. Questa gamma di utilizzazioni compatibili evidentemente è valida a tempo indeterminato.

All'interno di questa gamma, la parte programmatica del piano stabilisce, ad ogni quinquennio (cioè con un ciclo corrispondente a quello del mandato politico-amministrativo) quali sono, nel prossimo quinquennio e solo per questo, le utilizzazioni - anzi, in questo caso, le destinazioni d'uso - che sono obbligatoriamente prescritte.

Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali, delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità degli operatori, il Consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna la parte "fissa" del piano), rielabora integralmente la parte "programmatica" del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell'ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d'uso che devono, o possono essere attivate nel periodo successivo.

E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti. Naturalmente una simile impostazione, se apre la strada a una adeguata ridefinizione e distinzione delle competenze del tecnico e dell'eletto, della cultura e della politica, e se riesce ad avvicinarsi ad entrambi gli obiettivi della coerenza e della flessibilità, richiede - per il suo pieno esplicarsi - di una condizione irrinunciabile: una struttura di pianificazione e gestione comunale solida, efficiente, autorevole, e dotata degli attrezzi necessari per operare con continuità, sistematicità ed efficacia. Il Siute è un primo passo significativo in questa direzione

Possibilita e condizioni di un nuovo assetto della residenza

di Edoardo Salzano

Da La Rivista Trimestrale. Storia, economia, politica, letteratura, diretta da Franco Rodano e Claudio Napoleoni, dita da Paolo Boringhieri, n. 15-16, settembre - dicembre 1965, pp. 572-605

Se non ci si lascia ingannare dalle molteplici sfumature, dalle coloriture particolari, dalle diverse sfaccettature nelle quali si riflette l'intricata sedimentazione di opinioni, esigenze, ideologie, interessi, tradizioni e consuetudini, situazioni storiche e sociali, che si aggroviglia attorno alla questione della casa, e se ci si studia invece di distinguere - al di sotto di un simile variegato intreccio - quali siano le posizioni di fondo relative a tale questione, ci si accorge facilmente che esse, in ultima analisi, sono riconducibili a due soltanto.

Da un lato, infatti, v'è quella che potremmo definire “concezione individualistica della casa”; la concezione cioè, ancestrale, tradizionale e oggi divenuta dominante, per cui si considera la casa come un qualsiasi bene di consumo fruibile individualmente: nel caso specifico, come il luogo entro il quale l'individuo - con la sua famiglia - esaurisce tutte le sue esigenze relative all'abitare, nella più assoluta indifferenza per quanto avviene al di là dell'uscio.

Dall'altro lato si va affermando una posizione - certamente diversa dalla prima, sebbene non ancora esplicitamente antitetica rispetto a essa -nel cui ambito la casa, pur definita ancora in modo approssimativo e generico come un “servizio sociale”, viene comunque concepita, in sostanza, come uno dei vari momenti della residenza (l'alloggio, la scuola, il parco, la chiesa, l'ospedale, il negozio, la biblioteca, la strada) intrinsecamente legato agli altri: strettamente e organicamente integrato, in particolare, a quei momenti della residenza, a quegli elementi dell'habitat, che costituiscono da sempre il luogo delle esigenze soddisfacibili mediante un consumo comune, e che gli urbanisti non a caso definiscono “attrezzature collettive”.

La casa come isola, come luogo di abitazione esclusivizzato e chiuso secondo le esigenze dell'individuo e della sua famiglia; la casa, invece, come elemento - uno degli elementi - dell'habitat civile, come cellula elementare e organica della struttura urbana, come parte della città: queste sono dunque, nel loro nocciolo, le due fondamentali posizioni in merito alla concezione della casa; questi sono i due modi, tendenzialmente cotrapposti, di concepire la casa dell'uomo e, conseguentemente, di analizzare i suoi problemi e di configurare le possibili soluzioni. Ma - vogliamo domandareí ora - quali sono, se non le origini, le più immediate radici storiche e culturali dell'una e dell'altra posizione? A quali eredità esse si riallacciano, di quale patrimonio ideale costituiscono il prolungamento?

È chiaro che una risposta esauriente a un simile interrogativo pretenderebbe uno studio assai ampio, che non può essere compiutamente affrontato nello spazio di queste note; tuttavia, basandoci anche sui risultati di una ricerca sulla città che abbiamo svolto nei precedenti fascicoli di questa rivista, ci proveremo a dare almeno un inizio di risposta.

Per quanto riguarda la prima delle due concezioni sopra enunciate, si può intanto osservare che la casa è sempre stata vissuta individualisticamente dall'uomo; e non a caso abbiamo già affermato che la concezione individualistica della casa è quella ancestrale, poiché essa affonda certamente le sue radici nel più oscuro e remoto passato della storia del genere umano.

Tuttavia, come vedremo meglio in seguito, una simile concezione è esplosa, fino a ridurre interamente a se medesima tutto l'habitat, nel momento del trionfo della borghesia; in essa infatti si riflette e si esprime pienamente - sul terreno specifico della questione della casa - quell'índividualismo prevaricatore, aggressivamente proteso a informare di sé l'intera realtà sociale, che costituisce una caratteristica peculiare dell'ideologia e della stessa figura sociale del borghese.

Per quest'ultimo invero, mentre l'unica dimensione in qualche modo comune è quella, oggettivamente e strumentalmente “sociale”, della produzione, l'intera vita personale e familiare - la vita degli affetti, delle consuetudini quotidiane, delle attività disinteressate, delle necessità dei consumi - si risolve tutta sotto il segno del privatismo e dell'individualismo connaturato allo spirito borghese.

Certo, sul piano storico un simile individualismo ha dovuto trovare, nel periodo della nascita e della prima affermazione della classe borghese, il suo limite e il suo condizionamento nella promozione di determinati interessi comuni; ed è appunto per questa necessità - in concreto per le esigenze politiche e militari della lotta contro il signore[1] - che la borghesia, nel suo autonomo affermarsi, mentre è stata intrinsecamente condotta a determinare il sempre più largo e irreversibile passaggio dell'insediamento umano dalla forma dispersa a quella forma concentrata che è la sola omogenea al carattere “sociale” del capitale, e mentre quindi ha dato materialmente vita al trionfo della città, ha potuto poi conferire a quest'ultima una forma autonoma unicamente perché (e solo nella misura in cui) è stata costretta a configurarla come il luogo della comunità in quanto tale.

E però - come abbiamo ampiamente argomentato nella nostra precedente ricerca - quando quelle esigenze politiche e militari sono venute a cessare, l'individualismo peculiare alla borghesia ha ripreso il sopravvento e ha continuamente teso a negare e a contraddire quella dimensione del consumo comune che è necessaria alla pienezza della città. Così quest'ultima, nonostante i tentativi di recuperare almeno parzialmente taluni elementi di quella sua dimensione comune, è stata sempre più sospinta verso la dissoluzione della sua forma, verso la sua trasformazione appunto in un aggregato informe - solo estrinsecamente e sempre parzialmente ordinabile - di particelle proprietarie e di privati edifici, e non ha potuto comunque conseguire alcun dispiegato sviluppo; così, parallelamente, la residenza si è sempre più risolta in un insieme di individuali dimore, cui le residue “attrezzature comuni” non erano più capaci di conferire alcun organico legame, alcuna autonoma forma.

Una conclusione si può dunque trarre da tutto ciò: l'ancestrale concezione individualistica della casa, esaltata ed esclusivizzata dalla borghesia, è antitetica rispetto a quel processo storico che ha condotto dall'insediamento disperso alla città, e tende anzi a negare la città medesima. E tuttavia, basta guardarsi intorno, basta vedere le nostre città paralizzate e guastate dal privatismo dominante nel mercato delle aree fabbricabili, nei trasporti; nella progettazione, costruzione e uso delle dimore, per rendersi conto che quella concezione è, ancor oggi, la concezione dominante; che quindi è con essa che è necessario fare i conti, per liquidarla.

Ma la concezione individualistica della casa non è l'unica eredità che la storia ci ha tramandato; non è quindi necessario, per liquidarla, ripartire da zero. E in realtà ci sembra che la concezione della casa come “servizio sociale” - nei termini, almeno, in cui l'abbiamo più sopra enunciata - possa costituire il punto di partenza per la ripresa di uno sviluppo organico di quel processo che è giunto a fondare e ad affermare l'insediamento concentrato come città, solo perché l'ha configurato come il luogo di determinati consumi comuni.

D'altra parte la storia della città (come del resto la medesima letteratura urbanistica) ci fornisce una serie di esempi i quali comprovano il fatto che l'esigenza di considerare la casa come un elemento strettamente e intrinsecamente legato ai luoghi del consumo comune, alle “attrezzature collettive”, non sia un'esigenza che nasce oggi, ma sia invece affiorata nei momenti più felici della storia della città, nelle intuizioni più valide e nelle proposte più anticipatrici dei maggiori esponenti della cultura urbanistica.

Si rifletta, ad esempio, sul rapporto tra dimora e luoghi pubblici nella città del medioevo comunale; non è chiaro forse che in questo illustre esempio le case nascono d'un solo getto con gli spazi e gli edifici destinati alle comuni funzioni, alle comuni necessità, ai comuni interessi? Spesso sono le case medesime a costituire, nella loro aggregazione preordinata, la prima e decisiva attrezzatura pubblica: la cinta difensiva. Quasi sempre sono le case, disposte secondo un disegno sapiente e consapevole, a formare gli invasi delle piazze civili e religiose e mercantili: del sistema di spazi, dunque, organicamente connessi e coordinati tra loro, che è il luogo stesso della cittadinanza, il cuore, il fulcro della città. Assai frequentemente, infine, la ripetizione e l'aggregazione di un'unica tipologia edilizia, intimamente correlata al sistema delle strade, delle acque, delle fogne, degli spazi aperti pubblici e privati, costituiscono un unico compatto tessuto che è la forma medesima della città, e che sottolinea e commenta - come un coro armonioso - gli edifici singolari e dominanti della cattedrale o del palazzo civico.

Si rifletta, ancora, alle intuizioni contenute nelle proposte di alcune tra le piú singolari e significative personalità della cultura urbanistica: agli utopisti “classici”, ad esempio, e a Le Corbusier [2]. Nella concezione dei primi come negli esperimenti del secondo (nei “parallelogrammi” di Owen, nei “Falansteri” e nei “Familisteri” di Fourier e di Godin, nelle unitées d'habitation di Le Corbusier), è un unico complesso, formalmente e funzionalmente definito, che raccoglie tutti i locali, gli edifici e gli spazi adibiti alle varie esigenze della residenza; e gli stessi alloggi, gli ambienti nei quali si svolge il momento privato della vita familiare, altro non costituiscono (se ci è consentito capovolgere una nota espressione lecorbusieriana) che gli organici “prolungamenti delle attrezzature comuni”.

Qual'è allora il motivo per cui, nel corso del processo storico, è la prima concezione, quella individualistica, che ha finito per prevalere, mentre non si è potuto proseguire e sviluppare adeguatamente l'esperienza della città medioevale, e le stesse intuizioni dell'urbanistica moderna sono rimaste sostanzialmente congelate nel limbo dell'utopia? Abbiamo già tentato di fornire, nei nostri precedenti scritti sulla città, una prima risposta a questa domanda; vogliamo provarci adesso ad aggiungere qualche altra considerazione, che interessa in modo specifico la questione della casa e che ci consentirà - cosí almeno speriamo - di proseguire e approfondire l'analisi intorno ad alcuni temi centrali della nostra ricerca.

C'è un punto soprattutto che ci sembra necessario sottolineare e argomentare. Sviluppare in maniera veramente adeguata quel processo che ha condotto alla nascita della città, concretare in modo generalizzato le anticipazioni dei padri dell'urbanistica moderna, avrebbe comportato - e tuttora comporta - una decisa rottura, un vero e proprio salto qualitativo, proprio sul terreno della fruizione della casa; una rottura e un salto di cui ci sembra che mai, fino a oggi, la cultura urbanistica abbia compreso con sufficiente chiarezza l'entità e le conseguenze.

Per chiarire e argomentare questa nostra tesi, prenderemo le mosse dall'esempio cui ci siamo più sopra riferiti: quello della città medioevale. Com'era risolto, entro quest'ultima, il rapporto tra la casa e la città? Qual'era il motivo per cui tra l'una e l'altra non esisteva una contrapposizione, una negazione reciproca e una prevaricazione secca dell'una sull'altra (come dobbiamo invece ai giorni nostri riscontrare e patire), e si manifestava invece una integrazione feconda e carica di virtualità estetica?

Nella città del medioevo la casa era certamente, come è tuttora, il luogo dell'individualismo. In essa si svolgeva difatti la vita di una famiglia nella quale la stessa dimensione economica ribadiva e consolidava quel chiuso particolarismo che ha sempre contrassegnato la forma storica dell'istituto familiare. Non solo il momento del consumo (di tutto il consumo economicamente riconosciuto come tale) veniva organizzato e fruito nell'ambito della famiglia e della casa; anche il momento della produzione - il quale certo sempre più veniva a espandersi, a crescere, a travalicare dalle mura domestiche e ad acquistare una sua autonomia dalla famiglia - restava comunque ancora amministrato da quest'ultima, in una sostanziale indistinzione tra capitale e patrimonio, mentre una quota della produzione (quella più direttamente ordinata agli immediati consumi familiari) rimaneva d'altra parte anche gestita e materialmente prodotta entro le mura domestiche.

Perché allora, se la casa era il luogo di un individualismo familiare ancora solidamente radicato in tutti gli aspetti dell'attività economica del cittadino, essa non distruggeva e divorava la città, non la riduceva a un mero insediamento concentrato, ma poteva trovare anzi nella città un ordine, un'íntegrazione, una forma, un superiore livello d'organizzazione? Ciò poteva accadere unicamente perché, in quella determinata epoca storica, erano le ragioni della comunità, della società civile e politica - e quindi della città - a dominare e a prevalere su quelle individuali, familiari, e dunque su quelle medesime della casa.

In altri termini, poiché tutto l'edificio sociale era ancora sostanzialmente dominato da quei criteri di massima coazione sociale e politica che erano peculiari all'ordinamento signorile, e poiché quindi lo stesso individualismo del nascente borghese doveva trovare il suo necessario sostegno - ma perciò anche il suo limite e il suo condizionamento - nelle leggi e negli istituti del “comune”, sul piano della residenza, allora, l'individualismo della casa veniva necessariamente a subordinarsi, a comporsi, a piegarsi (e perciò a completarsi) nell'ordine egemonico della città.

Si può allora facilmente comprendere perché, con il dispiegarsi del trionfo borghese, le cose siano mutate in modo così radicale come oggi ci è dato di constatare; perché, insomma, quel sostanziale equilibrio tra la dimensione individualistica della casa e quella comune della città sia stato infranto, e la seconda abbia dovuto rimaner soccombente.

La piena affermazione della classe e dell'ideologia borghese ha comportato la liberazione di ogni soggetto, di ogni produttore, di ogni cittadino, da qualsiasi subordinazione di tipo signorile; essa ha spezzato ogni residuo socialmente rilevante di quei “variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali”. Non solo i cittadini di pieno diritto, i mercanti, i capitalisti, i maestri artigiani, i possidenti; non solo i proprietari delle private dimore urbane, non solo i borghesi erano ormai pienamente liberi: anche i loro servi e garzoni e operai divenivano padroni di se stessi, produttori affrancati (e capaci perciò di esser ridotti a libera e generica forza-lavoro, impiegabile nel processo accumulativo).

Una siffatta liberazione, però, si è svolta e si è conclusa interamente sotto il segno dell'individualismo: né poteva avvenire altrimenti, dato che essa è stata gestita dalla borghesia. E in realtà gli uomini - i servi e gli operai come i borghesi - sono divenuti soggetti di un uguale diritto solo perché sono stati ridotti a individui; perché, in altri termini, solo riducendo ugualmente ogni uomo a individuo era possibile garantire il manifestarsi e il consolidarsi (non solo come fondamentale, ma come unica) di quella fondamentale discriminazione tra proprietari e non proprietari, tra possessori del capitale e possessori della propria forza-lavoro, tra capitalisti e proletari, che è la condizione per lo sviluppo di un'economia incentrata nell'accumulazione e che trova appunto la sua piena codificazione giuridica nella forma borghese del privatismo proprietario. Tutti, dunque, sono divenuti soggetti di un diritto individualistico: e il peso di quest'attributo non è stato davvero lieve sullo sviluppo della società e della città.

Così, e proprio per il carattere individualistico assunto dalla rottura operatasi col trionfo della borghesia, sul piano della residenza il privatismo individuale, che aveva sempre dominato nella vita della famiglia e nella concezione della casa, è stato anch'esso “liberato” dall'ordine della città. Quest'ultima ha perduto la sua originaria capacità ordinatrice, e si è ridotta a essere la mera figura risultante dalla giustapposizione delle particelle proprietarie e dei privati edifici. E la residenza, quindi, si è sempre più racchiusa, ristretta, limitata alla casa, alla privata dimora, mentre le attrezzature, gli spazi e i luoghi e gli edifici della comunità in quanto tale, si sono ridotti a simulacrí di se medesimi e, privati ormai del loro ruolo di centri organizzativi della vita e della forma della città, hanno trovato una collocazione subordinata e casuale su questo o su quell'altro ritaglio della trama proprietaria dell'insediamento[3].

Fragile e precario era dunque l'equilibrio raggiunto tra casa e città nei secoli del medioevo comunale. Esso era infatti il frutto di un compromesso tra le ragioni della comunità e le leggi dell'individualismo; ma poiché queste ultime hanno potuto essere soltanto contenute e imbrigliate, poiché hanno sempre dominato in una parte decisiva della residenza (la casa), poiché insomma non sono state mai definitivamente battute e sconfitte, ecco che sono aggressivamente risorte appena la bufera del trionfo borghese ha soffiato sulle braci assopite - e però mai spente - del particolarismo individuale e privato.

Dalla storia si può quindi trarre un insegnamento ben preciso: per risolvere realmente e definitivamente il rapporto tra casa e città, per concretare un assetto della residenza in cui sia garantita in modo irreversibile la piena integrazione tra i momenti che, fino a oggi, sono sempre rimasti governati dall'individualismo e quelli che possono essere soltanto comuni, è indispensabile compiere proprio quel profondo salto di qualità nella fruizione della casa di cui abbiamo più sopra affermato la necessità.

Questa, ci sembra, è anche la verità sottesa alla formula della “casa come servizio sociale”. Ma si deve convenire allora che una simile formula è inadeguata a esprimere in maniera del tutto esplicita e chiara, fuori da ogni ambigua imprecisione, una concezione della casa realmente nuova e diversa da quella individualistica, e anzi a questa antitetica. Quella formula, ínvero, mentre non pone sufficientemente in luce il fatto che l'alloggio deve essere uno dei momenti della residenza, e che non può pertanto risolvere in se medesimo (come è implicito nella concezione individualistica) tutta la residenza, così d'altra parte non indica, se non allusivamente e indirettamente, qual'è la dimensione nella quale si manifesta l'unità dei diversi aspetti e momenti della residenza, e quindi non riesce a cogliere, in tutta la sua portata, la differenza profonda tra la concezione tradizionale della casa e quella nuova concezione che deve ormai manifestarsi esplicitamente e chiaramente, affermarsi, prevalere.

E' quest'ultimo, riteniamo, un punto di estrema rilevanza, sul quale bisogna tentar di raggiungere la massima chiarezza e consapevolezza possibile. Per conto nostro, siamo del parere che la dimensione, il terreno su cui può essere individuata la differenza di fondo tra la concezione individualistica della casa e la nuova concezione sottesa alla formula della “casa come servizio sociale”, siano costituiti dal consumo.

E difatti, sul terreno del consumo è facile vedere che, mentre nell'ambito della concezione individualistica ogni singolo richiedente si provvede sul mercato dell'oggetto “alloggio” per consumarlo individualisticamente, la nuova concezione comporta invece la necessità di considerare la casa come un elemento del consumo comune: come un bene, cioè, che non può venir fruito dagli uomini in quanto singoli individui, ma solo in quanto membri di una comunità, di una società, di una collettività. Essa comporta quindi, per ciò stesso, anche una struttura del mercato radicalmente diversa da quella attuale: una struttura in cui il consumo comune dia luogo a una committenza anch'essa comune, e quindi a una domanda organizzata che abbia un peso effettivo, una capacità d'incidere nel modo in cui l'offerta viene predisposta e determinata.

Sul piano del consumo si può dunque incominciare a cogliere, con sufficiente esattezza, l'entità del passaggio dall'una all'altra concezione della casa; ma è anche su questo medesimo piano che si può comprendere in modo non ambiguo quale sia il necessario fondamento dell'unità dei vari momenti della residenza. Non è proprio la forma particolaristica del consumo che ha costituito la base per il sopravvivere - e per il prevalere - della concezione individualistica della casa, quando la piena affermazione del capitalismo borghese ha definitivamente distaccato la produzione dall'ambito domestico? E non è stata proprio la contraddizione tra il consumo individualistico della casa e il consumo, necessariamente comune, della città, all'origine della crisi di quest'ultima?

Su tutto ciò, crediamo, ci siamo già soffermati a sufficienza; ma ci sembra allora che se ne possa trarre una conseguenza particolarmente significativa. Se infatti è essenzialmente sul terreno del consumo che è esplosa e si è consumata l'antitesi tra casa e città, è chiaro che è proprio su questo stesso terreno che deve essere fondata l'unità tra i diversi aspetti della residenza; è chiaro, cioè, che il nodo da sciogliere e il fulcro su cui far leva per giungere a un'organica composizione di tutti gli edifici, i luoghi, gli spazi, gli ambienti destinati alla residenza dell'uomo, sono costituiti dal modo in cui viene ordinato il consumo della casa. È su questo piano, è sul piano del consumo della casa, che l'individualismo deve essere combattuto e liquidato, ed è perciò in definitiva necessario, è anzi indispensabíle, che anche la casa, anche l'alloggio, vengano vissuti e fruiti come un momento, un aspetto, una parte del consumo comune della residenza.

Per uscire dalla concezione individualistica della casa, per fondare e affermare pienamente quella nuova concezione che è indispensabile per consentire uno sviluppo della dimensione urbana dell'insediamento umano, è quindi necessario uscire dall'individualismo che ha sempre dominato nel consumo della casa; ma poiché un simile individualismo è legato intrinsecamente (come abbiamo più volte sottolineato) a un determinato modo di concepire e vivere la famiglia, poiché esso trova la sua radice e la sua ragione nel fatto che l'istituto familiare è sempre stato il luogo stesso dell'individualismo e del particolarismo, è chiaro altresì che il dispiegarsi della nuova concezione della casa postula inevitabilmente un nuovo modo di concepire, di organizzare, di vivere la famiglia medesima. Finché infatti la famiglia rimane il luogo nel quale vengono organizzati, gestiti e fruiti i consumi, finché essa rimane un'azienda, un'unità economica in senso tradizionale (e sia pure ordinata soltanto, ormai, all'economia del consumo), essa non può non rimanere come una cellula chiusa e segregata dell'ordinamento sociale, e deve pretendere e sostenere perciò la concezione individualistica della casa come l'unica pienamente omogenea alla sua condizione.

Viceversa, solo se la famiglia sarà liberata dalla gestione domestica del consumo, solo se la sua dimensione privata troverà la propria ragione - e la sede del proprio esplicarsi - essenzialmente nel momento dell'otium, degli affetti, del “vivere insieme” coniugale e familiare, essa potrà sussistere senza prevaricare, potrà svilupparsi senza essere soffocata dal particolarismo, e senza dissolvere nell'individualismo la residenza e la città. L'alloggio, allora, potrà certamente restar configurato e definito come il luogo in cui l'uomo e la sua famiglia vivono una parte della loro residenza, e in cui quindi potranno ancora venir fisicamente fruiti alcuni consumi; ma ciò non sarà più contraddittorio e antitetico rispetto alla necessaria dimensione comune della città (e della società), ma sarà anzi sorretto, garantito, alimentato da una siffatta dimensione.

Così, mentre quei medesimi residui consumi che saranno ancora fisicamente fruiti nell'ambito domestico, saranno però organizzati e gestiti fuori da questo, una quota di consumi incomparabilmente più alta di quella attuale potrà e dovrà essere fruita in modo comune. Non solo i consumi relativi alle esigenze scolastiche, sanitarie, del culto, della ricreazione e così enumerando; non solo i consumi che da decenni oda secoli sono organizzati in modo comune, e che costituiscono la ragione dell'esistenza delle “attrezzature collettive”; non solo i classici consumi comuni, insomma, saranno gestiti in una simile forma, ma anche quegli stessi consumi del vitto, della manutenzione dell'alloggio, della cura degli indumenti, della custodia della prole, che sono stati finora amministrati individualisticamente nell'ambito della casa e della famiglia.

Sicché, in sostanza, quello che è necessario compiere è un deciso e radicale mutamento di prospettiva. Non più la casa e la famiglia come l'istituto e il luogo, tendenzialmente esclusivizzati, dove viene organizzata, gestita e fruita la massima parte possibile dei consumi, e la città come luogo dei complementi, e degli avari prolungamenti, dell'abitazione. Ma, viceversa, la residenza - nel suo insieme - come luogo dell'organizzazione, della gestione e della fruizione di tutto il consumo; e la casa, cellula inscindibile della città, come luogo in cui la famiglia, liberata da ogni supplenza di lavoro sociale, da ogni tradizionale dimensione economica, da ogni negotium, vive il momento della propria vita privata: di quella vita privata - vogliamo sottolinearlo - che ha senso e ragione solo se è un momento della complessiva vita dell'uomo, e se perciò è organicamente legata al momento della vita pubblica e comune.

Il passaggio dalla concezione individualistica della casa a quella nuova concezione che abbiamo tentato di delineare è quindi un passaggio profondo, radicale, realmente rivoluzionario. Esso postula un modo nuovo d'impostare il problema del consumo, e comporta perciò modificazioni profonde nell'assetto della famiglia, e in quello medesimo della società. Ma non è su questi temi che vogliamo ancora soffermarci; quel che invece ora ci interessa di porre in evidenza sono le conseguenze che un simile passaggio può provocare sul piano dell'urbanistica e su quello, altrettanto decisivo, della produzione edilizia.

Già da quanto abbiamo precedentemente affermato è facile comprendere, in tutta la sua estensione, la positività che la concezione della casa come momento del consumo comune della residenza comporta nei riguardi dell'assetto urbanistico. È chiaro infatti che concepire la casa in un simile modo significa rendere esplicite e consapevoli le intuizioni affioranti nella letteratura urbanistica, liberarle dei loro limiti e svilupparle perciò compiutamente; significa rompere quella cesura tra urbanistica ed edilizia, tra città e casa, che si è venuta a determinare con il trionfo della classe borghese e in cui si è manifestata l'alienazíone dell'ordinamento formale della città; significa avere finalmente la possibilità di dare una piena unità funzionale e formale all'habitat, e di costituire insomma un assetto della residenza in cui ogni elemento - dall'alloggio alle tradizionali attrezzature - sia organicamente integrato agli altri, perché ogni elemento esprime un diverso aspetto del medesimo consumo comune.

Una serie di problemi pratici, la cui mancata soluzione ha gravemente pesato sulla qualità e sull'efficienza delle realizzazioni urbanistiche e sulla loro rispondenza all'uso, può trovare finalmente la via di una soluzione.

È il caso, ad esempio, del problema della determinazione degli standards tipologici. Questi, fino a oggi, sono stati fissati in modo necessariamente arbitrario dai progettisti e dagli imprenditori, sulla base delle esigenze - ipotizzate e presunte, o statisticamente mediate - di un generico utente individuale; possono invece, nell'ambito della nuova concezione, esser stabiliti da una committenza pubblica che rappresenti, nel mercato, la realtà del consumo comune, e che esprima per ciò stesso le reali esigenze dell'utenza[4].

È il caso, per riferirci a un altro problema del quale gli urbanisti hanno spessa avvertito la gravità, della gestione della residenza. È evidente che un simile problema non è risolubile fino a quando ogni alloggio è concepito e fruito come un bene esclusivamente individuale (in questo caso, com'è dimostrato dalla prassi della tradizionale gestione condominiale, non si arriva nemmeno a garantire la gestione del caseggiato), mentre la sua soluzione diviene possibile solo quando l'alloggio è vissuto come il “prolungamento” privato di una complessiva struttura residenziale comune: come il luogo, in definitiva, nel quale si esplica il momento individuale e familiare, distinto dal momento pubblico e comune, ma da esso sorretto e con esso pienamente integrato, senza contrapposizioni antitetiche e rigide soluzioni di continuità.

Altrettanto rilevanti, a nostro avviso, sono le conseguenze che la nuova concezione della casa può comportare sul piano della produzione edilizia. Crediamo infatti che non sia difficile dimostrare come la rottura dell'individualismo nella fruizione dell'alloggio - e di conseguenza nella domanda che si manifesta sul mercato - non solo rende possibile, ma anzi sollecita e sostiene uno sviluppo dell'industria edilizia fuori dalle condizioni di arretratezza tecnica ed economica che attualmente, com'è noto, caratterizzano il settore, e che, per il conseguente permanere di un alto livello dei costi e dei prezzi, sono all'origine della cronica carenza di alloggi in amplissime zone del mercato.

Come si è già accennato, concepire la casa come un momento del consumo comune della residenza postula il passaggio da una domanda individuale a una domanda pubblica, o comunque comune, collettiva; ma

è facile vedere allora che questa trasformazione del carattere della domanda porta con sé una serie di garanzie indispensabili per una positiva razionalizzazione del settore.

In primo luogo, infatti, dal momento che l'offerta non si trova più di fronte a una domanda individualistica, e quindi per definizione polverizzata, dispersa, sconosciuta, ma ha invece quale sua controparte una domanda organizzata, e perciò di notevoli dimensioni, economicamente e istituzionalmente concentrata, conoscibile nella sua configurazione e nella specificità deile sue richieste, ecco che divengono finalmente possibili quelle economie di scala che sono alla base di un ammodernamento produttivo del settore.

Ma in secondo luogo, poi, e sempre per la nuova dimensione assunta dalla domanda e per l'ampiezza che ogni singola operazione economica viene ad avere, può essere raggiunta quella specializzazione aziendale, tradizionalmente assai poco sviluppata nell'edilizia, la cui assenza è una delle cause principali della bassa produttività del settore.

In terzo luogo, infine, poiché una domanda del tipo di quella che ci siamo provati a configurare è una. domanda che, a differenza di quella individualistica, non può non comportare una ben precisa programmazione di lungo periodo (e non ci interessa in questa sede discutere degli strumenti tecnici e politici a ciò necessari), ecco che viene posta in essere una ulteriore condizione per una razionalizzazione della produzione edilizia: la sicurezza, cioè, dell'ammortamento dei capitali tecnici aziendali, anche ove questi debbano essere di cospicue dimensioni.

Certo - l'abbiamo ampiamente dichiarato - procedere lungo una linea simile a quella che siamo venuti prospettando postula la soluzione di numerosi problemi di non lieve entità; siamo convinti però, e ci proveremo a dimostrarlo, che muoversi in una direzione diversa non può condurre a una sufficiente soluzione della questione della casa. Ma prima di affrontare questo punto vogliamo soffermarci brevemente su due argomenti strettamente collegati a quelli dei quali ci siamo ora occupati.

La prima osservazione che vogliamo svolgere riguarda un equivoco che può sorgere nell'ambito della posizione della “casa come servizio sociale”. Ci sembra che, in quanti condividono una simile posizione, si manifesti talvolta il convincimento che non sia legittimo considerare la casa come una merce, e che anzi il raggiungimento di una situazione in cui la casa sia effettivamente un “servizio sociale” porterà al superamento del carattere di merce della casa, mentre è proprio un tale carattere - si ritiene - a costituire uno dei più gravi aspetti della negatività della situazione presente.

Per conto nostro, dobbiamo dire che proprio non vediamo perché la residenza (nel suo insieme e nelle parti che la compongono) non debba essere un bene economico come gli altri, come gli altri prodotto a certi costi ed esitato a certi prezzi determinati dal mercato. Il problema, piuttosto, è quello di garantire che il bene “residenza” venga prodotto ai costi più bassi possibili, che di conseguenza nella formazione del prezzo non intervengano rendite di nessun tipo, e che infine, last but not least, le caratteristiche d'uso del bene medesimo vengano stabilite in relazione alle effettive esigenze del consumo.

Ma tutto ciò, evidentemente, non può esser raggiunto finché la casa non viene concepita come un momento del consumo comune: finché essa, in altri termini, è un bene la cui qualità e il cui prezzo vengono determinati sull'unica base degli interessi della produzione, com'è inevitabile che avvenga finché la casa è oggetto di un consumo individualistico. Ed è appunto per questo motivo, crediamo, che i sostenitori della concezione della “casa come servizio sociale”, nella misura in cui non riescono a cogliere la reale dimensione del problema, nella misura cioè in cui non vedono chiaramente nel passaggio dal consumo individualistico a quello comune il nodo cruciale della questione, sono portati a individuare nel carattere di merce della casa l'origine delle distorsioni del mercato che attualmente si manifestano.

La seconda osservazione riguarda il problema delle aree edificabili. La mancata soluzione di tale problema, com'è universalmente noto, concorre ancor oggi in larga misura al sussistere delle carenze, delle disfunzioni, dell'anarchia e dell'inefficienza dominanti nell'assetto urbanistico della residenza. Per quanto concerne in particolare l'aspetto produttivo del settore edilizio va ricordato che l'attuale regime proprietario delle aree comporta almeno due conseguenze assai gravi: in primo luogo, infatti, consentendo alle imprese di percepire quote della rendita fondiaria urbana, esso costituisce una remora oggettiva all'introduzione di innovazioni; in secondo luogo, poi, dal momento che il prezzo delle aree incide in misura assai notevole sul costo dell'alloggio, dal regime privatistica delle aree deriva un ulteriore ostacolo a quell'allargamento del mercato che è anch'esso indispensabile per produrre a costi decrescenti.

Ora, il punto che qui ci interessa di sottolineare è che, mentre da un lato la soluzione pubblicistica del problema delle aree si presenta ovviamente come l'unica omogenea alla nuova concezione della residenza, essa diviene anche - nell'ambito della linea che abbiamo prospettato - economicamente sopportabile dalle imprese edilizie. Queste ultime, infatti, saranno messe in grado di trovare (grazie alla razionalizzazione del processo produttivo consentita dalla nuova configurazione della domanda) un vero e proprio profitto, una remunerazione cioè derivante da un'attività produttiva e non da una partecipazione parassitaria al privilegio speculativo, e perciò nessuna crisi deriverà dal fatto di costringerle a rinunciare alle rendite loro consentite dall'appropriazione privatistica delle aree urbane.

Sul piano dell'urbanistica come su quello dell'edilizia, nell'aspetto del consumo come in quello della produzione, per i problemi della città e dell'habitat come per quelli del mercato degli alloggi, la concezione della “casa come servizio sociale” si presenta dunque - ove naturalmente venga progressivamente liberata dalla sua ambiguità, compresa fino in fondo nella verità che le è sottesa e sviluppata fino alle sue logiche conseguenze - come lo storico punto di partenza. per una linea effettivamente risolutrice. E però, vogliamo ora chiederci, discende forse da tutto quel che si è detto fin qui l'oggettiva necessità del trionfo della concezione della casa come momento del consumo comune della residenza? È questa concezione; in altri termini, così immediatamente superiore in ogni suo aspetto alla posizione antitetica, da legittimare l'ipotesi che non sia possibile opporle che le resistenze del passato, le remore della cecità e dell'incomprensione, le manovre rítardatrící di interessi particolari e minoritari - come tali inevitabilmente destinati alla sconfitta?

In realtà a noi sembra che, se la nuova concezione della casa fosse l'unica a poter garantire ciascuno dei risultati su cui ci siamo prima soffermati, se - in particolare - soltanto sulla sua base fosse possibile superare la “fame di case” e l'arretratezza produttiva dell'edilízia (i due aspetti più immediati e vistosi, dunque, dell'attuale questione della casa), quella concezione avrebbe una indiscutibile forza oggettiva, e facile, quasi inevitabile, sarebbe di conseguenza il suo trionfo. Ma siamo ugualmente convinti - e cercheremo di dimostrarlo - che anche nell'ambito della concezione individualistica della casa è consentito di eliminare almeno quelle due particolari e immediate carenze cui abbiamo ora accennato, e la cui presenza indubbiamente conferisce oggi alla questione della casa un massimo di drammaticità, di tensione, e quindi di evidenza politica e di presa sociale.

Come subito vedremo, una siffatta eliminazione di due rilevanti aspetti del problema non si configura certo come una reale soluzione: essa, in altri termini, mentre avviene necessariamente con tempi assai lunghi, comporta poi soprattutto costi economici, sociali e umani assai elevati. Ciò nonostante, essa è comunque tale da conferire alla concezione individualistica della casa una oggettiva capacità di resistenza, una potenzialità di lotta e di reazione non priva di una sua robustezza; il che rende evidentemente indispensabile l'individuazione di un quadro politico entro il quale la linea individualistica possa esser battuta, e la nuova concezione della casa possa trovare il sostegno, le alleanze, le condizioni oggettive per una sua piena affermazione.

Per illustrare e argomentare la tesi che abbiamo ora enunciato (o, se si vuole adoperare una terminologia più à la page, per “verificare l'ipotesi” che abbiamo formulato) dovremo esaminare la configurazione che assume la questione della casa nell'ambito di quel processo evolutivo del sistema sociale che caratterizza il nostro tempo, e che su queste pagine - come del resto oramai in gran parte dell'attuale pubblicistica - viene definito processo opulento.

Non ci interessa evidentemente, ai fini del particolare problema di cui ci stiamo ora occupando, ricordare le cause, le caratteristiche, le prospettive di un simile processo, sulle quali ci si -è d altronde largamente soffermati nei precedenti fascicoli di questa rivista. Quel che invece ci preme e ci serve qui di sottolineare è che una delle connotazioni essenziali del processo opulento è costituita dal fatto che in esso si manifestano una centralità sempre più decisiva e un allargamento sempre più cospicuo - e tendenzialmente indefinito - del consumo. Quest'ultimo poi - il consumo opulento - mentre da un lato si risolve nella fruizione individuale e chiusamente particolaristica dei beni, è dall'altro lato contrassegnato dall'essere, per principio, consumo di tutti i produttori, di tutti i cittadini; esso è dunque, in definitiva, un consumo individualistico di massa[5].

Due conseguenze discendono allora, per quanto riguarda la questione della casa, dalle caratteristiche del processo evolutivo in atto nel sistema sociale. Innanzitutto è chiaro che l'unica concezione della casa pienamente omogenea all'opulenza è quella individualistica; e non ci sembra di doverci ancora soffermare su questo punto, dal momento che abbiamo de finito una simile concezione proprio sulla base del fatto che nel suo ambito si considera la casa come un qualsiasi bene destinato a un consumo individualistico.

Questa prima osservazione ci permette di cominciare a vedere che la posizione individualistica ha senza dubbio alcune robuste carte politiche: quelle, esattamente, proprie a ogni posizione che possa trovare la sua affermazione semplicemente nel perdurare del trend, nel proseguire del processo evolutivo in atto. Essa, però, non ci consente ancora di dimostrare - ciò che appunto intendevamo fare - come rimanendo entro la concezione individualistica della casa sia possibile eliminare quei due particolari aspetti della questione delle abitazioni cui abbiamo più sopra accennato. Per sviluppare questo secondo punto, dovremo esaminare quali siano le conseguenze comportate, nei confronti del problema del deficit di alloggi e di quello dell'arretratezza produttiva, dalla dimensione di massa peculiare al consumo opulento, e dal generale e indefinito allargarsi di quest'ultimo.

Un fatto ci sembra abbastanza facilmente e chiaramente dimostrabile. Un processo caratterizzato -- com'è quello opulento - dall'ampliamento generalizzato del consumo, tende a ridurre e, al limite, a eliminare sia la carenza quantitativa di alloggi sia l'arretratezza tecnica del settore dell'edilizia.

È noto - e vi abbiamo d'altronde già accennato - che una delle più gravi strozzature presenti nel mercato edilizio è stata fino a oggi costituita dal fatto che a tale mercato possono effettivamente accedere solo quei potenziali consumatori che, appartenendo alle fasce più elevate della stratificazione dei redditi, sono in grado di pagare (in termini di acquisto o di affitto) gli alti prezzi che attualmente caratterizzano il mercato edilizio. Questi, però, sono restati a un livello relativamente elevato anche perché il limitato volume della domanda ha giocato nel senso di ostacolare fortemente la razionalizzazione produttiva, e di impedire conseguentemente una decisa riduzione dei costi di produzione.

Deficit di alloggi per una larga porzione dei cittadini e arretratezza produttiva sono dunque in sostanza, se non le due facce d'una medesima medaglia, certo due aspetti strettamente íntrecciati dello stesso problema. Ora ci sembra che quella caratteristica del processo opulento, che abbiamo più sopra sottolineato, incida proprio sull'anello di congiunzione tra tali due aspetti, investendoli perciò contemporaneamente.

E infatti, a mano a mano che lo sviluppo opulento procede, si accrescono di conseguenza le capacità individuali di consumo e aumenta, parallelamente, il numero di soggetti che dispongono di redditi tali da poterne impiegare una quota nell'acquisto di una casa; si allarga perciò, sul mercato degli alloggi, la domanda effettiva. Un simile ampliamento della domanda, mentre evidentemente significa che una maggiore aliquota di cittadini entra in possesso di un alloggio - ed è appunto per questo motivo che il processo dell'opulenza tende a “sgonfiare” il problema della “fame di alloggi” -, comporta poi, evidentemente, la possibilità di organizzare la produzione in vista di un mercato più largo, e di introdurre perciò nel settore edilizio quelle innovazioni tecnologiche che sono state fino a ieri impensabili anche a causa - appunto - dell'asfitticità del mercato.

Si deve allora convenire che, nel corso stesso del processo opulento, e della graduale eliminazione del deficit di alloggi e dell'arretratezza produttiva dell'edilizia, vengono a essere profondamente mutati i termini politicosociali del problema della residenza.

Prima, infatti, un simile problema (il problema della cesura tra casa e città, della mortificazione della dimensione urbana dell'insediamento umano, della mancata integrazione di tutti i momenti e gli elementi dell'habitat, e di tutte le varie carenze quantitative presenti nell'assetto della residenza) si presentava e si configurava essenzialmente come una realtà unitaria, nel senso appunto che tutti gli aspetti rivelavano, con diversa evidenza, insufficienze profonde. Gli aspetti più largamente urbanistici del problema, in particolare, restavano strettamente intrecciati a quegli aspetti più immediati, elementari e perciò diffusamente avvertibili, i quali, poiché appunto davano luogo alla profonda e generale insoddisfazione di tutti gli esclusi dalla disponibilità della casa, conferivano per ciò stesso alla questione della residenza una tensione sociale, una carica, una capacità di presa e di mordente che rendevano tale questione, nel suo insieme, un vistoso problema politico.

In altri termini, finché il consumo individualistico di massa non diviene la realtà dominante, e finché quindi non è consentito - nell'ambito della concezione individualistica - di incidere sui più cocenti aspetti quantitativi del problema della casa, la spontanea protesta che nasce dalla scarsità sociale di alloggi può essere indirizzata lungo l'unica linea che può realmente risolverla: verso un fine cioè (quello della soluzione del problema della residenza) il quale, se consente di rimuovere la causa immediata che originava e alimentava quella protesta, la trascende, però, e la risolve a un superiore livello.

Ora, invece, con il procedere dello sviluppo opulento, mentre il complessivo problema della residenza non trova certamente la sua soluzione - e viene anzi aggravato -, vengono comunque via via a essere ridotte, e tendenzialmente eliminate, proprio quelle carenze, quelle strozzature e insufficienze del mercato degli alloggi, che hanno tradizionalmente caratterízzato il problema della casa, e che hanno consentito allo stesso problema della residenza di porsi come una realtà emergente sul piano sociale e politico.

Il processo opulento, nel suo progressivo realizzarsi, non limita quindi la sua azione soltanto all'eliminazione di determinati aspetti della questione della casa; nel corso e nel corpo di questa medesima operazione esso viene via via a sottrarre, a qualsiasi posizione sulla residenza differente da quella individualistica, alcuni sostanziali - e fino a oggi decisivi - strumenti di sollecitazione sociale. Né vale obiettare, a una simile considerazione, che l'eliminazione sotto segno opulento della “fame di case” e dell'arretratezza economica del settore edilizio avverranno - come ci sembra índubitabile - in una prospettiva assai lunga, e comportando comunque costi notevolmente elevati, poiché questo non muta i termini sostanziali della questione.

Certo, si deve evidentemente convenire sul fatto che, nell'ambito del processo opulento, la razionalizzazione produttiva è affidata, in modo pressoché totale e comunque prevalente, alla mera spontaneità delle forze economico-sociali in gioco, e che perciò essa procede con tempi estremamente lunghi e deve lasciar scoperte amplissime zone del territorio: tutte quelle, precisamente, in cui l'assenza di un'adeguata concentrazione “fisica” di possibili consumatori impedisce il formarsi di un mercato sufficientemente ampio, e in cui di conseguenza la “soluzione” opulenta coinciderà con l'abbandono, o con la graduale emarginazione.

Così, ugualmente, non è possibile contestare che uno sviluppo della razionalizzazione qual'è quello consentito dal processo opulento trova il suo equilibrio a un livello di prezzi relativamente elevato. Ciò non solo perché nell'ambíto della linea opulenta e individualistica la questione delle aree edificabili non ha alcun motivo di emergere in tutta la sua indifferíbilità e la sua importanza (ed è anzi tranquillamente procrastinabile ed eludibile), e perché quindi la rendita fondiaria urbana continua a concorrere in una misura più o meno rilevante alla formazione del prezzo; né solo perché è facilmente ipotizzabile il costituirsi di rendite di monopolio, favorite dalla particolare natura, “a compartimenti chiusi”, del mercato dell'edilizia; ma anche ed essenzialmente perché, proprio a causa della lentezza (e in definitiva della parzialità) che caratterizza il tipo di razionalizzazione di cui ci stiamo occupando, può ritenersi inevitabile il sopravvivere, per un periodo assai lungo e comunque indefinito, di larghe aliquote di aziende marginali, le quali, producendo a costi elevati, consentiranno alle aziende ammodernate di conseguire prezzi più alti di quelli comportati dai loro costi.

E però, in definitiva, a che cosa si riducono questi inconvenienti della razionalizzazione opulentistica se non a ritardi, a sprechi e, politicamente e socialmente, ad attriti? Non v'è dubbio: i maggiori costi pretesi dalla soluzione individualistica e opulenta del problema della casa, rispetto a quelli consentiti dall'affermarsi della nuova concezione della residenza, saranno evidentemente pagati da qualcuno; essi saranno pagati, nel concreto, da tutti quei ceti e quelle categorie (e quei popoli e quei continenti) che sono oggi marginali o esclusi dal processo opulento, e che per anni o per lustri o per decenni dovranno restare in attesa, nell'inferno della miseria e della disperazione. Su queste zone del tessuto sociale si potrà certamente far leva, e si potrà utilizzare così, per la soluzione del problema della residenza, questa quota residua della generale carica di protesta che scaturiva dalla questione della casa; si potrà ancora giocare, insomma, sulle inevitabili contraddizioni - e soprattutto sui ritardi - che il processo opulento incontrerà nella sua strada verso l'eliminazione della “fame di alloggi”.

Ma tutto ciò non potrà durare all'infinito. A mano a mano che lo sviluppo opulento compirà il suo cammino, a mano a mano che esso consumerà i propri attriti, i propri ritardi - e che sacrificherà le innumerevoli e inevitabili sue vittime -, la “zona della immediata protesta” verrà a ridursi sempre di più, fino a scomparire del tutto. Ed è chiaro, allora, che se si vuole effettivamente affrontare e risolvere il problema della residenza (così come del resto quello della casa, ma in modo effettivamente umano e non privilegiato, non “svedese”, non per i pochi uperstiti ma per tutte le esistenze umane oggi in atto e da oggi possibili), è necessario non solo affrettarsi a utilizzare tutti i residui attriti che possono alimentare la lotta per un umano abitare dell'uomo, ma occorre altresì, fin d'adesso, ricercare le nuove forze politiche, sociali e civili, che possono cospirare in una simile lotta e anzi guidarla, poiché appunto direttamente interessate al problema della residenza in quanto tale.

Il problema della casa infatti, soprattutto se visto esclusivamente nei suoi aspetti di carenza di alloggi e di arretratezza produttiva, non esaurisce - già lo abbiamo implicitamente osservato - tutto il problema della residenza. Quest'ultimo, d'altra parte, non può essere per principio eliminato - come abbiamo sottolineato e ribadito - entro la linea individualistica e opulenta, la quale è peculiarmente incapace di avvertire, e quindi di affrontare e di risolvere, sia gli aspetti urbanistici che, in generale, gli aspetti qualitativi del problema.

E difatti, è chiaro che entro quella linea si procede nell'assenza di qualsiasi organizzazione autonoma del consumo, e che anzi il suo sviluppo è caratterizzato - e consentito - proprio da una espansione individualistica, anarcoide, disorganica di un consumo particolaristico e generico. Perciò appunto, mentre da un lato non si può giungere a un'effettiva soluzione dei problemi urbanistici della residenza, e nella città insorgono anzi continue tensioni dissolutrici, accade poi, dall'altro lato, che la razionalizzazione opulenta trova le sue regole esclusivamente all'interno della dimensione produttiva e non può quindi - data l'inesistenza di un adeguato condizionamento da parte del consumo - fornire alcuna garanzia sui risultati qualitativi, sui requisiti, sugli standards dei beni prodotti.

Ambedue queste conseguenze della soluzione opulentistica del problema della casa ci sembrano particolarmente rilevanti, e si traducono infatti nel pagamento di costi umani e sociali di notevolissima - anche se non subito evidente - gravità. L'entítà di tali costi può essere compresa se si riflette alla soluzione che un'industria razionalizzata secondo moduli opulentistici tende a fornire a uno dei decisivi aspetti qualitativi della residenza: quello della tipologia degli alloggi e degli insediamenti.

A quanti si occupano professionalmente di edilizia e di urbanistica è noto, per quotidiana esperienza, che il « punto d'impatto » tra la loro attività specialistica e le esigenze della concreta umanità, cui sono destinati gli oggetti che essi progettano e predispongono, è costituito proprio da quel momento, decisivo nel loro lavoro, in cui vengono stabilite le « tipologie »: in cui, cioè, vengono determinati e scelti gli schemi organizzativi degli alloggi, degli edifici, degli spazi, degli insediamenti, i rapporti tra le superfici e i volumi destinati alle diverse funzioni della residenza, la distribuzione e l'associazione delle molteplici quantità che compongono il prodotto finale della loro opera. E' proprio in questo momento che è massimo il loro sforzo di cogliere e di interpretare le necessità, le esigenze, le aspettative dei futuri consumatori della residenza (e dell'alloggio), per tradurle in modelli tipologici, che tenteranno poi d'esprimere in forme esteticamente valide.

Come abbiamo più sopra accennato, questa laboriosa ricerca, questo complesso lavorìo di comprensione e d'interpretazione, da cui deve scaturire un ambiente pienamente adeguato alla società che dovrà utilizzarlo e viverlo, non potranno mai giungere a un risultato sufficiente finché non sarà presente in modo corposo la realtà del consumo comune. Ma qual'è - vogliamo domandarci adesso - la “soluzione” che è fornita al problema tipologico dalla linea opulentistica?

L'esperienza già ci fornisce alcune precise indicazioni al riguardo. Dove la razíonalizzazíone dell'industria edilizia e la determinazione dell'assetto urbanistico della residenza si sviluppano nell'assenza di un reale condizíonamento da parte di un consumo comune, di una domanda organizzata, dove esse avvengono in relazione all'allargamento di un mero consumo individuale di massa, le tipologie sono dettate dalle esclusive esigenze aziendali delle unità produttrici, e comportano lo svuotamento e la dissoluzione della dimensione urbana dell'insediamento umano.

Come meravigliarsi, del resto, di un simile risultato? Esso rientra pienamente nella logica di un sistema, quale è quello dell'opulenza, in cui il consumo, mentre resta inevitabilmente individualistico, ha un valore puramente quantitativo (svolgendo difatti il mero ruolo di generico suscitatore di domanda), e in cui di conseguenza la sua qualità non è in alcun modo avvertibile.

Come stupirsi se la struttura e la forma dei quartieri sono determinati dalle convenienze economiche dei percorsi delle macchine edili, e se nelle tipologie degli alloggi si abbandonano - anziché svilupparle - le acquisizioni del razionalismo architettonico, per adottare gli schemi più elementari e amorfi, più immediatamente calzanti all'esigenza, necessariamente esclusivizzata, indiscriminata e incontrollata della riduzione dei costi aziendali? Come stupirsi se l'insediamento urbano si disgrega nel pulviscolo dei nuovi suburbi, costituiti dalla giustapposizione e dalla ripetizione ad infinitum di case unifamiliari, concepite, costruite e propagandate - e vissute - come unità perfettamente conchiuse e autosufficienti, al cui interno sono contenuti tutti i dispositivi e gli spazi che consentono alla famiglia di fruire del maggior numero possibile di consumi senza uscire dal recinto del lotto individuale? È inevitabile che tutto ciò accada, quando il consumo rimane individualistico, e perciò privo di una sua autonoma voce, d'una sua capacità di incidere e di pesare, di determinare le scelte e i risultati.

Ci sembra allora di poter definitivamente ribadire, sulla base del nostro esame delle prospettive che vengono offerte al problema della residenza (e alla questione della casa) nel quadro dello sviluppo opulento, una conclusione di singolare rilievo e di notevole portata pratica cui poco sopra abbiamo accennato. E difatti, se il processo evolutivo del sistema consente indubbiamente di sottrarre via via al problema della casa quegli elementi di immediata insopportabilità sociale che potevano costituire un'arma, uno strumento, una carica utilizzabile per sospingere verso una soluzione adeguata del problema della residenza nel suo insieme, ma se d'altra parte quest'ultimo, nell'ambito di quel medesimo processo, non può essere sufficientemente risolto, e deve anzi venir progressivamente e ulteriormente compromesso, è evidente che non ha alcun senso porre al centro dell'attenzione e dell'azione le tradizionali carenze quantitative che hanno fino ad oggi contrassegnato il problema della casa, e che diviene perciò indispensabile affrontare cbiaramente ed esplicitamente la questione della residenza nella sua interezza, nella sua complessità e nella sua autonomia.

La lotta indiscriminata e generica per la disponibilità di un alloggio a buon mercato e per tutti, insomma, si presenta ormai inevitabilmente come una battaglia di retroguardia; come tale, se ha ancora un significato (e lo ha, a nostro avviso), può avere soltanto quello, certamente subordinato e tattico, di utilizzare tutte le residue contraddizioni, gli attriti, i ritardi - e le conseguenti tensioni - caratteristici del processo opulento. Il centro, il cuore, il fulcro della lotta per il trionfo di una nuova concezione della casa, la sua dimensione strategica e fondamentale, possono essere oggi individuati, viceversa, unicamente nell'azione (e nella lotta) per un diverso assetto della residenza: per quell'assetto, cioè, che è contraddistinto dall'essere fondato su una concezione della residenza come consumo comune e della casa come momento organico d'una simile residenza, e la cui realizzazione consentirà di risolvere - ma con una efficacia, con una rapidità, con un risparmio di risorse, e dunque con una universalità, impossibili alla linea opulentistica e individualistica - anche quei medesimi aspetti quantitativi che abbiamo più volte ricordati.

Su quali interessi sociali e politici ci si può allora basare, per condurre un'azione siffatta? Quali sono le forze, presenti nel concreto della società civile, le cui aspettative non vengono in alcun modo colmate nel corso dello sviluppo opulento, e che possono quindi - e anzi devono, per le loro stesse peculiari esigenze - costituire il sostegno, lo stimolo, la base sociale per l'affermazione della nuova concezione della residenza? Questo è il tema sul quale dobbiamo soffermarci, allargando dunque lo sguardo al di là dei confini della disciplina urbanistica e della problematica strettamente pertinente all'edilizia, e affrontando quello che non esitiamo a definire “problema politico”.

A una simile questione viene generalmente fornita, da parte dei più fervidi sostenitori della concezione della “casa come servizio sociale”, una risposta ben precisa. Essi cioè (o per meglio dire quelli tra loro che hanno il merito di affrontare il problema in termini espliciti, ma che a noi sembrano francamente estremistici) tendono a vedere nella classica alleanza rivoluzionaria, quella degli operai e dei contadini, la forza sociale e politica essenziale - e anzi unica ed esclusiva - per l'affermazione, sul terreno della società, della loro concezione della casa.

Ora a noi pare - e cercheremo di dimostrarlo - che l'alleanza degli operai e dei contadini, se ha svolto storicamente un ruolo di massimo rilievo sul piano del problema della casa, non può costituire però una base sociale e politica adeguata alla soluzione del problema della residenza: del reale ed effettivo problema, quindi, di fronte al quale oggi ci troviamo. Le due proposizioni ora enunciate sono strettamente correlate tra loro, nel senso che dall'esame delle stesse ragioni che hanno determinato la positività del ruolo svolto da quell'alleanza nei confronti del problema della casa, è possibile dedurre l'insufficienza del blocco delle due tradizionali classi lavoratrici di fronte al problema della residenza.

Osserveremo intanto, in primo luogo, che la classica alleanza rivoluzionaria è stata certamente quella che ha consentito di raggiungere - in linea generale e di sistema - il fondamentale risultato della rottura del dominio borghese, ed è stata quindi l'elemento decisivo e centrale della lotta grazie alla quale si è giunti a una situazione, quale è quella del nostro tempo, in cui sono scomparsi o vanno inevitabilmente scomparendo gli antichi privilegi, gli antichi parassitismi, le antiche posizioni di rendita preborghese e propriamente borghese. Solo la vigorosa e continua spinta rivendicativa degli operai e dei contadini ha potuto infatti far si che l'incremento della domanda, indispensabile all'allargamento del processo accumulativo (e perciò alla stessa sopravvivenza di questo), non fosse perseguito “malthusianamente”, a destra, mediante l'espansione privilegiata del consumo improduttivo delle classi proprietarie, ma fosse raggiunto invece attraverso l'ampliamento del consumo dei produttori.

Sul piano specifico della questione della casa, poi, è appunto per il continuo e progressivo incremento dei redditi di lavoro, determinato dalla lotta rivendicativa, che si è potuti giungere a soddisfare in maniera sempre più larga e generale la “fame di case”: la primitiva e primordiale carenza, quindi, il cui sopravvivere è certamente, da tempo, un fatto in nessun modo tollerabile, e che in realtà è stato sempre avvertito come intollerabile da tutti i membri delle tradizionali classi lavoratrici, e ha concorso ad alimentare perciò la loro azione sindacale e i suoi prolungamenti politici.

E però, proprio perché la causa dello stimolo, della tensione, della sollecitazione, che hanno tradizionalmente sospinto l'insieme delle classi operaia e contadina a intervenire, con la loro lotta sindacal-politica nella questione della casa, era costituita dalla constatazione immediata e sofferta, viva ed elementare, della profonda insufficienza del mercato degli alloggi, della cronica carenza di case a buon mercato, dell'impossibilità, per larghissimi strati delle classi lavoratrici, di accedere alla disponibilità dell'alloggio, si deve necessariamente convenire che nelle stesse ragioni, che determinavano l'attivo interesse degli operai e dei contadini per la questione della casa, risiede anche - come abbiamo già accennato - il limite del ruolo della classica alleanza dei lavoratori.

Da la Repubblica, 27 dicembre 2007

Questo è un Congresso diverso da quelli tradizionali. Nella tradizione dell'Inu l'evento congressuale è infatti composto da due parti separate. Il vero e proprio Congresso, dedicato a un tema di generale richiamo, aperto a chiunque abbia interesse a parteciparvi, alimentato da relazioni specifiche affidate a personalità o a gruppi particolarmente versati nelle questioni enucleate, curato nello scenario e nella scenografia, negli aspetti anche piú appariscenti e rituali. E poi, separata dal Congresso e posta in sua prosecuzione, quasi in coda, l'Assemblea dei soci, dedicata a discutere le questioni piú interne della vita dell'Istituto e perciò riservata alle varie componenti della sua base associativa.

Anche questa volta la distinzione tra Congresso e Assemblea c'è, ma la separazione è scomparsa. Oggi iniziamo la discussione dei documenti congressuali, che sono stati distribuiti in anticipo e che sono composti da tesi, e non da relazioni (e dopo ne spiegherò le ragioni). Domattina la proseguiamo e la concludiamo domani pomeriggio, quando il nostro Congresso, pur restando ovviamente aperto a tutti quanti intenderanno seguirne i lavori, si trasformerà in Assemblea per condurre a termine la discussione delle tesi, con la loro prevista votazione riservata ai soci. Sabato poi l'Assemblea proseguirà i suoi lavori, sugli argomenti ordinari della vita dell'Istituto e con l'elezione delle cariche sociali. Le ragioni di questo intreccio diventeranno, credo, subito chiare fin da questa relazione introduttiva, la quale toccherà inevitabilmente questioni e temi che non hanno a che fare solo col tema del Congresso, ma anche con la natura e la congiuntura dell'Istituto.

Il titolo che abbiamo scelto, su intelligente proposta di Gaetano Lisciandra, presidente della Sezione Lombardia e perciò anche nostro ospite (voglio ringraziarlo subito per l'una e per l'altra cosa), mi sembra un titolo bello e ricco: «Il territorio dell'urbanistica». In primo luogo evoca l'oggetto del nostro lavoro e del nostro interesse. Esprime la nostra propensione a legare i nostri ragionamenti a qualcosa di concreto, di relativamente stabile. E soprattutto indica la volontà di comprendere meglio qual è il campo che dobbiamo occupare, e qual è il modo in cui oggi dobbiamo occuparlo.

Del campo dell'urbanistica sappiamo già molto. Sappiamo che occupa il medesimo spazio occupato dalla società in cui viviamo. Sappiamo che gli intrecci tra l'urbanistica e la società sono cosí essenziali da non poter essere recisi senza negare l'urbanistica; ma sappiamo anche che essi sono cosí complessi da esigere sempre (e forse oggi piú che ieri) lo sforzo di comprendere qual è l'ambito dell'autonomia della nostra disciplina, della nostra "funzione", del nostro punto di vista, della nostra responsabilità sociale e politica.

E sappiamo anche che il modo della nostra operazione è quello volto a vedere lo spazio fisico della vita della società come sede di una serie di eventi suscettibili di trasformare la sua consistenza fisica e il suo assetto funzionale; eventi che possono essere dominati ove se ne sappia comprendere il carattere complesso e sistemico, e definire una coerenza, attraverso quella specifica procedura che chiamiamo pianificazione territoriale e urbana; quella procedura culturale, tecnica, politica di cui vogliamo rivendicare la necessità sociale, in una società che cambia, che muta le proprie esigenze e i propri obiettivi.

E cercheremo appunto di ragionare collettivamente, qui e dopo, nel Congresso e oltre, tra noi e con gli altri, su come sia oggi necessario adeguare gli strumenti della pianificazione alle nuove esigenze e ai nuovi obiettivi della società, come alle nuove possibilità del nostro mestiere traendo tutto il frutto possibile dalle esperienze parziali che sono state compiute in questi anni in piú parti d'Italia.

Dal Congresso di Pescara al Congresso di Milano

Le basi di questo XIX Congresso dell'Inu furono poste nel corso stesso del XVIII Congresso di Pescara (1986), in un pubblico colloquio con Cesare Macchi Cassia, allora presidente della Sezione Lombardia; un colloquio che si svolse prima, durante e dopo il dibattito congressuale. Rileggendo oggi su Urbanistica informazioni (n. 90) alcuni passaggi di quel colloquio mi sono reso conto che le intenzioni che ci muovevano allora hanno alimentato il lavoro preparatorio del XIX Congresso in tutti questi anni, sebbene dal confronto con gli obiettivi espressi allora appaia con chiarezza, mi sembra che non tutti sono stati raggiunti. E per la loro pertinenza con quanto devo esporvi per presentarvi questo Congresso, consentitemi di citare con una certa ampiezza quanto allora, dialogando con Macchi Cassia, affermavo.

«Cesare Macchi Cassia mi aveva proposto di dedicare il prossimo XIX Congresso alla discussione del tema (e della tesi) della necessità di pianificazione. Questo tema mi era sembrato molto opportuno, cosí come mi era sembrato, e mi sembra, opportuno articolarlo maggiormente, nel senso di chiedersi, e di tentare di dare risposte, a quale pianificazione sia oggi necessaria. A me sembra infatti che ciò che oggi in qualche modo rende debole la posizione degli urbanisti nei confronti dei loro interlocutori sta nel fatto che, nonostante le molte variegate esperienze svolte e in corso, le molte idee innovative maturate, non si sia ancora raggiunto (ma sia raggiungibile senza troppe difficoltà) quello stato di elaborazione collettiva che consenta di presentare all'esterno una proposta positiva (che cosa fare, come farlo) chiara e convincente.

«Un altro elemento che mi piaceva, della proposta che Macchi Cassia avanzava anche a nome della Sezione Lombardia, era che, lavorare fin dall'indomani della preparazione del XVIII Congresso alla preparazione del XIX su questo tema, ci avrebbe permesso di riannodare intorno a un unico filo conduttore sia il proseguimento del lavoro fatto negli anni trascorsi (dalla critica all'efficacia del piano, alle rassegne urbanistiche, al regime degli immobili), sia quanto è maturato in preparazione e nel corso del XVII Congresso (le trasformazioni in atto nel sistema. territoriale), sia infine le questioni delle quali non potremo comunquenon occuparci nei prossimi anni (il bilancio sull'attuazione della legge 431/1985, le questioni delle grandi città e dei grandi interventi, il rapporto tra pubblico e privato nel governo delle trasformazioni).

«Infine, lavorare su questo tema, e impegnare tutto il corpo dell'Istituto a lavorarvi, avrebbe anche consentito di superare un limite della nostra attività (...). Il limite, cioè, consistente nel fatto che l'impegno ad affrontare e risolvere i problemi materiali e strutturali dell'Inu, e a condurli a soluzione in modo unitario, ha impedito di procedere con sufficiente impegno nella elaborazione, e quindi di dispiegare anche quel confronto tra posizioni diverse, quel procedimento dialettico per tentare di giungere a una sintesi, che è essenziale per un istituto di cultura».

Scusate questa lunga autocitazione. Ma essa non solo esprime, mi sembra con sufficiente chiarezza, quelle che sono stati fin dall'inizio le intenzioni, i moventi che ci hanno spinti a lavorare in questi anni, gli obiettivi che ci eravamo proposti di raggiungere, ma ci consente anche di valutare se quelle intenzioni erano giuste, e soprattutto di comprendere criticamente che cosa degli obiettivi abbiamo raggiunto e che cosa non abbiamo potuto raggiungere. Prima di toccare questi punti, prima di proporre al dibattito una risposta alle domande in essi implicite, vorrei brevemente illustrare il lavoro che abbiamo compiuto da allora a oggi.

Perché un Congresso a tesi

Il primo punto che vorrei sottolineare è questo: il nostro è un congresso a tesi. Perché questa scelta? Le sue ragioni sono già adombrate nel documento che ho prima citato, là dove si parla di "confronto tra posizioni diverse", di "procedimento dialettico". E già nel primo documento in preparazione del Congresso, approvato dal Cdn nel marzo 1987, si parlava di "posizioni differenti" che sarebbero emerse e della necessità che le convergenze e divergenze che certamente si manifestavano tra gli urbanisti italiani venis

sero messe in evidenza per dar luogo a un lavoro fruttuoso, prima, durante e dopo il Congresso.

Piú chiari ancora eravamo nel secondo documento di preparazione del Congresso, approvato dal Cdu nel novembre 1989.

In quel documento ponevamo in primo luogo i nostri obiettivi: «riaffermare la necessità della pianificazione, riflettere sul modo in cui oggi bisogna pianificare, e far emergere con la massima chiarezza le differenti posizioni che nell'Inu sono presenti. Quest'ultimo obiettivo - sottolineavamo - è essenziale. In questa fase della vita dell'Istituto, nella nuova dimensione che esso ha raggiunto, l'unanimità non è un dato acquisito a priori, ma può essere il risultato di un percorso che parta, appunto, dalla definizione esplicita e chiara delle posizioni presenti».

«La formula del congresso a tesi - scrivevamo ancora - è quella che meglio si presta a raggiungere gli obiettivi proposti. Essa infatti consente di affrontare un arco molto ampio di problemi enunciando e argomentando ciascuno di essi col massimo di chiarezza ed efficacia. Contemporaneamente, con la possibilità di misurarsi con tesi alternative, fornisce a tutte le posizioni presenti lo strumento per esprimersi con chiarezza, aiutando cosí anche la successiva costruzione di una sintesi. Infine, sollecita e agevola la partecipazione al Congresso e alla sua preparazione da parte di tutti i soci».

Questa nostra decisione nasceva da una valutazione della situazione dell'Inu. Il nostro Istituto, negli ultimi anni, è infatti molto cambiato. Da un organismo culturale molto coeso e compatto, dotato di una propria linea nella quale tutto il quadro attivo si riconosceva e che era facilmente riconoscibile dall'esterno, siamo diventati un insieme molto pluralista, dove convivono posizioni diverse, su determinati punti anche alternative. Queste posizioni diverse, però, non devono - questo è almeno il mio radicato convincimento - confondersi e stemperarsi in un confuso amalgama prima ancora d'essersi chiaramente e comprensibilmente espresse. In altri ter

mini, non dobbiamo cercare il compromesso a priori, la soluzione grigia e indeterminata che proprio per questo non incontra opposizioni e mette tutti apparentemente d'accordo. Dobbiamo invece fare lo sforzo perché le diverse posizioni presenti nell'Inu, a loro volta espressione delle diverse posizioni presenti nella società (o in quella parte della società che nell'Inu si riflette) si esprimano nella massima chiarezza, perché tra esse nasca un fruttuoso confronto.

Le questioni

Già nella prima discussione sul Congresso, e poi nella preparazione della 2a Rassegna urbanistica nazionale, avevamo individuato tre ordini di questioni capaci di strutturare un ragionamento complessivo sulla pianificazione oggi in Italia.

Il primo ordine di questioni riguardava la definizione dei requisiti che con la pianificazione si vogliono ottenere per l'assetto territoriale e urbano, cioè degli obiettivi di merito che la pianificazione dovrebbe porsi: in primo luogo l'obiettivo della qualità, nei suoi vari aspetti (funzionali, formali, culturali, sociali) e intesa sia come tutela delle qualità esistenti che come produzioni di qualità nuova.

Il secondo ordine di questioni che con le tesi ci eravamo proposti di affrontare riguardava l'efficacia del processo di pianificazione, da esaminare e definire nei suoi due versanti: la migliore rispondenza degli strumenti e dei procedimenti rispetto ai fini perseguiti, il piú razionale impiego delle risorse adoperate nel procedimento. Si trattava indubbiamente dell'argomento piú complesso, se volete piú "disciplinare", nel quale c'era da aspettarsi - piú ancora che difficoltà di elaborazione - l'affacciarsi di numerose e diverse posizioni, derivanti da differenti esperienze pratiche, sensibilità culturali, contaminazioni disciplinari, impostazioni metodologiche.

Il terzo ordine di questioni, infine, riguardava il rapporto tra pubblico e privato: un argomento che tocca una serie di versanti e di nodi tutti di grande importanza e delicatezza: da un lato, le questioni in qualche modo tradizionali ma sempre rinnovate nel modo di porsi (da quella del regime degli immobili a quella dell'urbanistica contrattata), dall'altro lato quel complesso di questioni che ruota attorno al rapporto tra etica, politica e cultura: questioni che è decisivo affrontare in modo non manicheo, nell'intento di far chiarezza tra ruoli, compiti e funzioni, oggi sempre piú ambiguamente intrecciati in una confusione che mortifica sempre e solo gli interessi generali.

Le tesi

Il modo in cui abbiamo lavorato per giungere alla elaborazione di un documento che potesse essere posto come base di discussione è sinteticamente descritto nella presentazione del documento stesso. Nulla voglio aggiungere ad esso, se non per sottolineare il grande sforzo, non solo organizzativo ma anche di lavoro intellettuale, che l'elaborazione del documento ha richiesto all'Istituto.

Un lavoro che ci ha impegnati per un tempo piú lungo di quello che avremmo voluto e che perciò ci ha costretti a rinviare piú volte la data del Congresso. Un lavoro di cui credo si debbano ringraziare tutti quelli che vi hanno collaborato, i cui nomi sono riportati nella Presentazione: con qualche imprecisione però, perché sono posti sullo stesso piano, e con la stessa responsabilità, quanti (e sono i piú) hanno lavorato scrivendo e partecipando alle numerose riunioni svolte, e quanti sono stati solo interpellati per raccogliere un loro parere od ottenere una verifica e una messa a punto.

A tutti, comunque, va un ringraziamento senza riserve per l'impegno, per il tempo e per la pazienza che hanno voluto spendere. E naturalmente il ringraziamento piú forte a quanti hanno coordinato il lavoro nei vari settori, in primo luogo quindi a Gianluigi Nigro, che mi ha validamente affiancato, e in certe fasi sostituito, nel coordinamento generale, e poi a Guido Masè, a Gaetano Lisciandra, a Gianfranco Pagliettini, ad Alessandro Dal Piaz.

Io sono convinto che la produzione di queste tesi, delle tesi pubblicate come base di discussione per il Congresso, costituisca un passaggio importante nella vita dell'Istituto. È la prima volta, dopo molti anni, che l'Inu si fa carico della proposizione di una piattaforma complessiva sui punti piú problematici del "fare urbanistica". È la prima volta, dopo quasi vent'anni, che l'Inu propone una traccia che, almeno tendenzialmente, copre tutto l'arco dei problemi che ci occupano e preoccupano, e che interessano i nostri interlocutori. Un buon punto di partenza, dunque, per una discussione fruttuosa e serena, quale quella che avremo in questo fine settimana.

Tre punti di un'autocritica

Credo che sia giusto e corretto però, soprattutto per chi è ancora per due giorni presidente di questo Istituto e quindi ha la massima responsabilità anche per questo suo prodotto, esporre qualche valutazione autocritica.

La prima, la piú ovvia, è quella di una certa incompletezza delle tesi. Noi abbiamo voluto cogliere quelli che ci sono sembrati i nodi delle questioni. Una certa ricerca di essenzialità dei temi toccati era doverosa. Ma forse qualcosa di rilevante, magari di essenziale, ci è sfuggito. Non mi riferisco tanto alle questioni di piú spiccata attualità (ad esempio, una valutazione sulla legge sugli espropri e del regime delle aree, o sulle iniziative per la vendita degli immobili demaniali), che nel nostro documento sono assenti non per dimenticanza, ma perché il taglio era quello di un documento che potesse guardare oltre le contingenze, tracciare le linee di un percorso lungo. Mi riferisco a questioni piú di fondo, che in certe fasi della vita dell'Istituto erano centrali e ora sono scomparse. È stato giusto, ad esempio, sottacere del tutto la questione della casa? oppure quella della mobilità e dei trasporti? Il dibattito ci aiuterà a comprenderlo.

Il secondo rilievo autocritico che vorrei fare al nostro lavoro è quella della scarsa chiarezza. Non è per qualche vezzo o ambizione lettera

ria che pongo questa questione. Non è perché pensi che un istituto "di alta cultura" debba essere necessariamente un istituto di belle lettere. Pongo semplicemente la questione che noi non siamo ancora capaci di trovare le parole che ci aiutino a comunicare le nostre idee a chi non è dentro il nostro specialistico linguaggio.

Perché non sappiamo scrivere chiaro e comprensibile per una cerchia piú ampia di persone di quella che noi stessi costituiamo? Non credo che la causa sia in una difficoltà tecnica, in una nostra scarsa conoscenza dell'italiano. Non credo neppure che essa sia prevalentemente nella insufficiente chiarezza delle idee. Credo che la causa piú rilevante stia in quello che è per me il terzo motivo di autocritica.

Il terzo e ultimo rilievo che vorrei fare al nostro lavoro, e al suo prodotto, è che non abbiamo fatto uno sforzo sufficiente per far emergere le differenze che tra noi ci sono, e anzi abbiamo fatto ogni sforzo, anche con generosità, per trovare l'unanimità, o almeno il consenso piú ampio, sulle formulazioni volta per volta prospettate. Io credo - voglio dirlo con la massima franchezza - che questo sia stato un errore. Come ho già detto, sono convinto che l'unanimità si può raggiungere (ove essa oggi sia raggiungibile) solo sulla base di una preliminare esposizione - scritta, formalizzata, chiaramente e durevolmente espressa, affidata alla logica e alla ragione e non all'oratoria o all'allusione o alla battuta - delle posizioni differenti che tra noi vi sono. Non perché io sia innamorato delle differenze, anzi. Ma perché sono convinto che, se le differenze ci sono, è dalla chiara espressione dei loro contenuti che bisogna partire per compiere il percorso verso la sintesi, verso l'unità.

Le tesi alternative

È anche per questo, è anche e soprattutto per questa mia profonda convinzione - che peraltro non ho mai sottaciuto - che sono stato il primo a pronunciare, e poi a scrivere, delle tesi alternative. Qualcuno si è scandalizzato del fatto che il presidente, garante dell'unità dell'Istituto, abbia prodotto posizioni alternative rispetto a quelle della maggioranza. Ma quello che in questa fase io ho sentito mio compito cercar di garantire è stato invece proprio non solo il diritto, ma in primo luogo il dovere, da parte di tutti, e perciò innanzitutto da parte mia, di esprimere con chiarezza il proprio punto di vista, la propria posizione, la propria proposta.

Non voglio adesso cambiare cappello e, dimesso quello di presentatore del Congresso, indossare quello di partecipante, passando a illustrare le tesi da me proposte. Come tutti, mi sono sforzato di essere chiaro. Se ci sono riuscito, le tesi si illustrano da sé; se non ci sono riuscito, merito di esser punito con l'incomprensione.

E non voglio neppure entrare nel merito delle varie tesi alternative e degli altri contributi proposti alla discussione. Abbiamo affidato ad alcuni molto autorevoli e prestigiosi presidenti di sezione il compito di regolare i lavori relativi alle tesi e proporne la conclusione, e quindi è a loro che lascio l'onere di esprimere valutazioni e proposte. Non avranno molto lavoro da fare, perché mi sembra che le tesi alternative pervenute siano pochine: come se fosse circolata una voce per scoraggiarne la presentazione! Consentitemi solo pochissime osservazioni personali.

A me sembra indubbio che il materiale presentato (quello almeno che ho potuto leggere perché mi è pervenuto per tempo) sia di grande interesse e utilità. Ciò sia quando si esprime in forma direttamente ed unicamente di valutazione critica, sia quando è formulato nella veste di puntuali tesi argomentate. Sono per esempio largamente d'accordo con la formulazione di Radicioni circa la tesi 17 (che indubbiamente completa su piú punti la formulazione di cui sono responsabile), mentre non condivido la sua critica e le conseguenti proposte di emendamento, all'istituzione della città metropolitana. E sono d'accordo con le proposte di Beltrame per le tesi del primo gruppo (che mi sembrano, nella sua stesura, utilmente asciugate e rese piú chiare). E sono molto d'accordo con le puntualizzazioni e i commenti contenuti nella comunicazione di Franco Girardi, che troverà non marginali coincidenze tra le sue considerazioni sulla pianificazione con le posizioni che ho espresso nelle tesi alternative che io stesso ho presentato. Viceversa, devo dire con franchezza che non condivido gli atteggiamenti genericamente, e a volte ingiustamente, liquidatori del lavoro compiuto che ho letto in qualche contributo.

Come concludere, quando concludere?

Insomma, credo che il materiale su cui imbastire un buon Congresso, e anche per lavorare al di là di esso, ci sia e sia abbondante. Spetta a tutti noi saper cogliere quest'occasione nell'interesse comune. Riusciremo a farlo fino in fondo, riusciremo a tirare le somme e aggiungere a una prima conclusione formalizzata, a un'approvazione delle tesi, nel corso stesso di questo Congresso? So che vi sono proposte per non arrivare al voto, per lasciare ancora aperto il confronto e l'elaborazione. Su queste proposte deciderà il Congresso, e poi l'Assemblea.

Io comprendo le ragioni che spingono ad approfondire, a riesaminare, a valutare con maggior attenzione. Ma sento anche, personalmente e istituzionalmente, molte perplessità nei confronti di questa proposta. Non vorrei che l'Inu si configurasse come un istituto che discute molto, ma che non è mai in grado di esprimere una propria posizione.

Sono certo che di una espressione di ciò che pensa il piú antico organismo degli urbanisti italiani ci sia bisogno piú che mai, in questi mesi, su molti argomenti, tutti in qualche modo toccati nelle tesi proposte dal Cdn e negli altri documenti presentati al Congresso. Basta accennare, a titolo quasi esemplificativo, ad alcune delle questioni che sono sul tappeto. Questioni, come vedrete, che sono certo tra quelle nodali per definire, o ridefinire, il modo di essere urbanisti, di sviluppare la nostra specifica cultura e di fare il nostro mestiere, ma che sono anche questioni che riguardano il nostro rapporto con la società, con interlocutori esterni alla nostra disciplina.

La questione del regime degli immobili. Finalmente uno dei due rami del Parlamento ha approvato una proposta, sostanzialmente sulla linea (e per la tenacia) del sen. Cutrera. Nel commentarla su Urbanistica informazioni (n. 110) ne ho individuato i limiti di fondo nell'esser un provvedimento che riguarda solo i suoli e non tutti gli immobili, nell'essere costruita sull'ipotesi della pertinenza dell'edificabilità alla proprietà dei suoli, nella conseguente non raggiunta "indifferenza" dei proprietari alle destinazioni dei piani. In queste mie valutazioni mi sono riferito alla posizione tradizionale dell'Inu messa a punto, nella sua forma piú compiuta, nel 1983, grazie soprattutto all'impegno della commissione coordinata da Luigi Scano, e all'apporto dell'indimenticabile Guido Cervati. È la proposta che è sintetizzata nella tesi 17. Ora, è ancora su quella linea che va misurata, culturalmente e non in termini di opportunità politica, la legge oggi all'attenzione della Camera. È in relazione a quella linea che vanno indirizzate le pressioni per modificarla e, quando sarà il momento, per attuarla? E se non è quella, qual è?

La questione dell'urbanistica contrattata". In molte città, anche le piú insospettabili, il piano viene sostituito, o scavalcato, dalla contrattazione diretta con i proprietari delle utilizzazioni e delle stesse quantità di edificazione. Su questa forma perversa di gestione del territorio, in cui la pubblica amministrazione incorre quanto meno nel reato di simonia, e in cui la proprietà immobiliare acquista un peso ancor maggiore di quello che aveva negli anni Cinquanta, talché sembriamo tutti esser tornati ai tempi della guerra di Corea, si soffermano secondo me in modo adeguato le tesi del terzo gruppo. Ebbene, è giusto che su questo tema, d'importanza certamente generale e nazionale, che esprime una tendenza in atto da tempo in tutto il Paese, la voce dell'Inu si esprima solo là dove (come per esempio a Firenze) la nostra sezione è vigile e tenace nel denunciare e nel proporre? È giusto, è utile che l'Inu in quanto tale, in quanto istituto nazionale, non si esprima con forza e con chiarezza nella sua massima assise?

La questione dei "principi ", delle nuove regole della pianificazione. Va bene continuare a pianificare secondo criteri, procedure, meccanismi che sono ancora quelli derivati dalla legge del 1942, complicati piú che arricchiti dalle legislazioni regionali? Oppure è necessario spingere perché il Parlamento finalmente statuisca una nuova definizione, organica e coerente, di "principi" - secondo la dizione costituzionale - ai quali ispirare le legislazioni regionali, in base ai quali affrontare piú sistematicamente, ad esempio, le questioni poste dalla legge Galasso (come assicurare effettiva priorità all'interesse generale della tutela del patrimonio ambientale, naturale e storico), o quelle toccate di striscio dalla nuova legge sull'ordinamento locale (come trovare coerenza tra l'assetto del potere pubblico e gli obiettivi che attraverso la pianificazione si possono perseguire)? E se si, se verso una nuova definizione dei principi della pianificazione bisogna spingere, secondo quali criteri, modelli, indirizzi bisogna farlo?

Ho accennato ad alcune questioni tra le tante che a ciascuno di noi vengono alla mente, tra le tante sulle quali la porzione piú attenta dell'opinione pubblica aspetta da noi una risposta. Abbiamo tentato, con le tesi, e poi vorremmo tentare con il Congresso, di formulare una risposta che non sia episodica e parziale, ma che abbia una qualche organicità. Una proposta che sia frutto di un dibattito e un confronto aperti, nel quale magari si arrivi a misurarsi e anche a contarsi là dove c'è divergenza. Non so se ci arriveremo in questi giorni. So però che, se cosí non riusciremo a fare, dovremo allora impegnare i nuovi dirigenti dell'Istituto, che sabato mattina eleggeremo, a lavorare perché ciò avvenga nell'arco di tempo il piú stretto possibile.

Perché, al piú presto, l'Istituto nazionale di urbanistica, nella sua piú ampia e collegiale rappresentatività, faccia sentire una voce chiara, determinata, precisa sulle questioni

sulle quali noi, piú di altri, abbiamo l'autorità per denunciare e per proporre. E se abbiamo l'autorità, abbiamo allora il dovere di farlo. Grazie a tutti, e buon lavoro.

Digitazione con scanner OCR da Urbanistica informazioni, n. 111, maggio/giugno 1990

LIVELLI DI PIANIFICAZIONE E LIVELLI DI GOVERNO:

LE TENDENZE CHE DEVONO AFFERMARSI

PER LA COSTRUZIONE DI UN PROCESSO UNITARIO DI PIANIFICAZIONE

Premessa

Poche questioni - nel campo almeno del governo del territorio - appaiono oggi così confuse, e del resto così poco discusse, come quella del rapporto tra i diversi livelli di pianificazione. Ciò dipende, a mio parere, da numerose circostanze che in qualche modo determinano, o condizionano, il clima in cui la nostra riflessione si svolge. Ed è anche per questo che è opportuno soffermarvisi brevemente.

La prima circostanza sta indubbiamente nel fatto che è il principio stesso, la categoria, della pianificazione che è oggi in una fase di parziale eclisse. Gli anni '50 furono in qualche modo contrassegnati dal paziente sforzo di un piccolo gruppo di urbanisti, compresi e appoggiati da qualche amministrazione, di gettare le basi della pianificazione nel nostro Paese. Gli anni '60 furono l'epoca della proposizione di piattaforme complessive di riforma urbanistica, della centralità di questo tema nel dibattito politico e culturale nazionale, della conquista di importanti - seppure parziali - traguardi legislativi e amministrativi. Gli anni '70 saranno probabilmente ricordati come quelli nei quali nuovi nodi vennero al pettine, nuove e nuove e più avanzate conquiste – ricche di potenzialità e di limiti - vennero dialetticamente raggiunte. Ed è facle affermare che gli anni '80 - quasi una interruzione ciclo evolutivo pressoché ininterrotto - saranno invece ricordati così come noi oggi li viviamo: come anni, cioè, nei quali quelli che dovrebbero essere i protagonisti della pianificazione, a tutti i livelli, appaiono sfiduciati, frustrati, impotenti, sottoposti all'attacco pressoché quotidiano di chi alla pianificazione non crede, o la pianificazione rifiuta.

La seconda circostanza, che è in qualche modo il corollario e la conseguenza della prima, sta nel fatto che proprio in questi anni, proprio cioè quando le potenzialità manifestatesi nel periodo trascorso avrebbero dovuto essere sviluppate e i limiti legislativi e amministrativi superati, proprio cioè quando il processo di riforma avrebbe dovuto dispiegarsi e finalmente affrontare i nodi di fondo, l'involuzione e la regressione hanno costretto quanti, e non sono pochi, credono alla pianificazione e all'urbanistica, a concentrarsi nella difesa di alcuni capisaldi essenziali del fare urbanistica quando invece sarebbe stato necessario andare avanti e innovare. Abbiamo avuto così il riesplodere delle questioni degli indennizzi e dei vincoli, quando si doveva affermare un nuovo regime degli immobili; la tragedia dell'abusivismo edilizio e urbanistico, quando si doveva puntare alla generalizzazione della capacità di governo del territorio; la liquidazione del mercato degli affitti e dell'intervento pubblico nell'edilizia abitativa, quando il problema del controllo e della gestione del patrimonio edilizio esistente assumeva il carattere di problema e obiettivo centrale; infine, la costante e sistematica azione di svuotamento della pianificazione locale attraverso la generalizzazione dell'istituto della deroga, quando si doveva rilanciare la pianificazione e il governo del territorio uscendo finalmente dai limiti dei confini municipali.

Ma al di là di queste circostanze, in qualche modo provocate da tendenze e azioni e accadimenti esterni alla cultura urbanistica, mi sembra che ve ne sia una terza sulla quale è opportuno richiamare l'attenzione. Mi sembra, insomma, che uno dei fatti caratterizzanti la situazione attuale sia che non esiste più un metodo, un indirizzo, un criterio unitario per la pianificazione: non esiste nei piani di livello comunale (in quelli dunque in cui c'è la più larga messe di esperienze e conoscenze e attività), e non c'è dunque da stupirsi se non esiste, come rilevava Giorgio Trebbi nella sua relazione al Seminario di Trento del maggio scorso, per quelli degli altri livelli e, di conseguenza, per gli intrecci e le connessioni dei livelli di pianificazione.

L'obiettivo: un sistema unitario di pianificazione

La tesi che vorrei proporre è in sostanza la seguente. Nella pianificazione tradizionale il punto di partenza è stato costituito dai piani di livello comunale: i piani regolatori generali comunali, formati e redatti nei modi che ben conosciamo, e quindi caratterizzati dalla definizione rigida delle destinazioni d’uso per zona, dalla centralità del ruolo del Comune ma dalla complessità di un iter procedurale fortemente garantistico per tutti i poteri coinvolti, dall'attuazione affidata alle decisioni degli operatori-proprietari e dal meccanismo del rinvio sistematico ai piani attuativi. I piani di livello superiore vengono generalmente pensati e costruiti nell'ipotesi che essi siano anelli di una catena di atti pianificatori che ha al suo termine il P.R.G. comunale così come esso è nella sua accezione tradizionale. E quindi sono nella forma del P.R.G. a maglie più larghe (o a colori più tenui); oppure sono nella forma di prescrizioni di tipo normativo, più o meno territorializzate, che diventano operative nella loro traduzione comunale nei P.R.G.; oppure sono un unico P.R.G. esteso a un territorio ampio; oppure ancora si limitano alla forma di documenti, poco operativi, di strategia e d'indirizzo generale o settoriale.

La pianificazione a tutti i livelli ha insomma, ancor oggi, nel P.R.G. comunale il suo essenziale riferimento e criterio. Ma oggi, è proprio il P.R.G. comunale che è sottoposto a una sostanziale e profonda discussione e verifica. Oggi è il P.R.G. che è sottoposto a critica: per la sua rigidità; per il suo meccanismo d'attuazione; per la complessità del suo meccanismo di formazione; per la separatezza (anche dopo la legge Bucalossi) del momento del piano da quelli del programma e della gestione. Oggi, è in corso una vasta ricerca e sperimentazione, in quel grande “laboratorio diffuso” costituito dalle amministrazioni comunali, nella quale si cerca per diverse vie, con diversi approcci, seguendo diversi percorsi, di costruire un modo nuovo e più adeguato di pianificare: anzi, di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali.

In questa situazione, a mio parere, sarebbe sbagliato riflettere e lavorare sui livelli di pianificazione pensando solamente di aggiungere piani a livelli superiori (comprensoriali, provinciali, regionali, interregionali, di bacino o d'area montana ecc.) a un quadro di pianificazione a livello comunale già definito e immutabile. E ancor più sbagliato sarebbe costruire i piani di livello superiore semplicemente come estensione dei criteri e indirizzi e tecniche dei piani comunali: significherebbe unicamente estendere i limiti già riconosciuti dei piani regolatori comunali. Anzi, accentuarli, perchè si finirebbe unicamente per aggiungere nuovi anelli alla catena degli atti pianificatori.

Il vero problema, e il vero obiettivo, è allora secondo me quello di ritrovare una unitarietà di metodi, criteri, indirizzi, per tutto il processo di pianificazione. È quello - per esprimermi in modo molto sintetico - di trovare un unico piano, una unica “forma piano”, da formare utilizzando i diversi livelli di governo.

I requisiti del piano

Lo sforzo che vi propongo, che propongo a noi tutti, è quello di uscire per un momento dai confini amministrativi e dalle competenze dei livelli di governo. E di uscire anche dalle forme canonizzate degli strumenti di pianificazione. Di riflettere invece, in primo luogo, a quali devono essere i requisiti che un piano deve possedere, quale che sia l'estensione di territorio che deve governare o l'ente che ha la responsabilità di governo. Proviamo ad elencare questi requisiti.

Il piano deve essere basato su una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti (dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante). E per ciascuna delle componenti della risorsa territorio la lettura deve consentire di individuare quali sono i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quali e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione. E quali costi le diverse trasformazioni comportano.

Il piano deve essere basato su una lettura altrettanto attenta della domanda sociale, cioè delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per ospitare funzioni nuove, o per ospitare altrove funzioni oggi non insediate correttamente, o per rendere i siti in cui già sono insediate funzioni più idonei e adeguati alle funzioni ospitate. E quali sono le risorse disponibili, in relazione alle varie funzioni, impiegabili per operare le trasformazioni necessarie.

Il piano deve definire quali sono - all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione della risorsa territorio - le operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.

Il piano, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse sono certamente disponibili.

Il piano, quindi, deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più certo esplica la propria efficacia.

Il piano, di conseguenza, deve essere contemporaneamente aggiornabile nella sua parte invariabile, o di lungo periodo, e programmabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva.

Il piano deve contenere al proprio interno gli strumenti della propria attuazione: i vincoli sulle risorse (e quindi sui bilanci) degli enti pubblici in vario modo coinvolti nella sua attuazione; gli incentivi e i disincentivi (finanziari, creditizi, fiscali, normativi, tecnici) capaci di indirizzare verso determinate trasformazioni anzichè verso altre l'impiego delle risorse e l'attività degli operatori privati, gli strumenti tecnici necessari per la sua gestione.

Il piano deve rendere il più breve possibile il tempo che separa il momento in cui si sceglie e si decide e quello nel quale la scelta diventa efficace; il processo decisionale, il percorso burocratico devono essere perciò resi completamente diversi da quelli attuali, concludersi in pochi mesi.

Il piano però, e contemporaneamente, deve essere formato e gestito in modo del tutto trasparente (offrendo in tal modo le garanzie oggi fornite solo formalmente dal complesso iter procedimentale), e deve esserlo da un ente che possieda i requisiti della autorevolezza, della rappresentatività e dall'efficacia.

Due corollari

Se fossimo d'accordo con la necessità di questi requisiti, credo che dovremmo poi convenire su due corollari che ne discendono.

Il primo: un piano siffatto è certamente molto diverso dai piani che conosciamo. Ma affermare che questi requisiti sono necessari, significa allora anche affermare che ciò di cui disponiamo oggi (nella cultura, nella legislazione, nella prassi ed esperienza) è solo un insieme di barlumi, di germi, di parziali anticipazioni del piano come deve essere. Significa perciò affermare che è necessario fare uno sforzo consistente per innovare il modo di pianificare: anzi, il modo stesso di concepire il piano.

Il secondo corollario: quei requisiti devono caratterizzare ogni piano, non un piano di un determinato livello. Anzi, devono caratterizzare il processo di pianificazione ad ogni livello, se conveniamo che più d'uno è il livello di governo coinvolto nel processo di pianificazione, nell'azione di governo del territorio.

Ma se questo è vero, allora forse è possibile riconoscere una validità e un senso alla tesi che ho dianzi accennato. Che, cioè, il problema di fondo non è oggi quello di consolidare le esperienze compiute negli ultimi 30 anni per ragionare con quali contenuti o procedure debba essere formato il piano provinciale o comprensoriale, il piano regionale, il quadro delle coerenze nazionali, e con quali definizioni o aggiustamenti di competenze questi differenti livelli di pianificazione debbano correlarsi tra loro e con il piano regolatore comunale. Ma che il problema da porre al centro della riflessione è quello di comprendere come deve svolgersi un'attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che investa con una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.

Le tendenze che devono affermarsi

Con una formulazione che può apparire paradossale, ma che non lo è, voglio affermare che il problema è di fare un piano, il piano, investendo l'insieme del territorio nazionale, nel corso di un unico processo di pianificazione / programmazione / gestione, il quale veda il coinvolgimento e la collaborazione procedimentale degli enti di governo competenti ai diversi livelli.

E se questo è il problema di fondo di fronte al quale ci troviamo, è allora con molta umiltà che dobbiamo porci nei confronti della pianificazione e dei suoi problemi, in questi anni. Con la consapevolezza che non abbiamo certezze se non su pochi punti cardinali; che dobbiamo avere perciò la tenacia e la spregiudicatezza che sono necessarie in una fase è, che deve essere, pienamente di sperimentazione e di ricerca.

Ma è anche con molta fermezza che dobbiamo porci per tentar di fare maturare i processi di pianificazione verso l'unitarietà che riteniamo necessarie. Con uno sforzo che non deve esercitarsi solo sul terreno della riflessione e della ricerca, ma anche sul terreno dell'azione politica, amministrativa, professionale. E allora, in questa direzione, possiamo forse individuare già alcune tendenze che devono affermarsi - nella definizione dei contenuti, delle competenze, delle procedure dei piani ai differenti livelli - perchè quel processo di costruzione della unità del piano possa svilupparsi fin d'ora. Nella consapevolezza che tendere verso l'unitarietà del processo di pianificazione è cosa che certo esige uno sforzo e un impegno nella direzione della “ingegneria istituzionale”, “pianistica”, della costruzione di un nuovo modello pianificazione e di connessione tra i livelli di piano e tra quelli di governo, ma esige anche - una volta individuata la direzione lungo la quale muoversi - l'impiego di determinazione, volontà e lucidità nell'individuare le forme di coordinamento, di unitarietà parziale, perseguibili fin dall'immediato.

Unitarietà delle analisi

Mi sembra che una prima tendenza che deve manifestarsi, un primo passo che bisogna compiere, è quello di ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono, o promuovono, come base per la redazione dei piani. Le analisi che vengono effettuate dalle regioni, dalle provincie, dai comuni - sia sulla struttura fisica che su quella economico-sociale del territorio - non possono essere condotte più secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili, non integrabili. Quelle che vengono impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere sistematicamente integrate (oltre che verificate) da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori: le une e le altre devono essere maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenza.

È una rete di conoscenza che ha la sua base - il suo primo elemento - nel sistema cartografico, che è l'elemento primordiale e fondamentale di ogni processo di pianificazione. E se pensiamo al costo che un sistema cartografico comporta, non possiamo non considerare un gravissimo e ingiustificato danno il fatto che ciascun ente (ciascuna Regione, ciascuna Provincia, ciascun Comune) costruisce la propria cartografia separatamente l'uno dall'altro. È certamente benemerita l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali (forse l'unica struttura di coordinamento delle Regioni che funziona), ma è un'attività monca se e finché le Regioni si disinteressano della cartografia alle scale maggiori, se e finché anche le province e i comuni non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.

E la rete di conoscenze, in tutte le sue componenti di livello, nella sua componente a maglie larghe e in quelle a maglie via via più fitte, deve ovviamente essere aggiornata, con periodicità e sistematicità. Ebbene, è forse utopistico proporre che le date, le cadenze dell'aggiornamento siano le stesse per Regione, Provincia, Comune? che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette e globali a quelle campionarie) sia unitario non solo nella sua concezione, nei suoi indirizzi e criteri, ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione?

Certo, perchè il sistema informativo territoriale raggiunga una sua unitarietà è necessario che un simile obiettivo venga perseguito da tutte le amministrazioni che hanno competenza primaria nel governo del territorio. Non possono essere le Regioni a imporlo a Provincie e Comuni, come oggi avviene là dove qualcosa di tenta di fare - e necessariamente in modo inefficace. Il ruolo delle Regioni è certamente decisivo, ma deve essere chiaro che le analisi sono la base del piano: una buona analisi contiene già in sè quasi l'orditura del piano. Non è quindi ininfluente il modo in cui l'analisi viene compiuta. E non può quindi il Comune delegare ad altri - sia pure espressivi di un “livello superiore” - il modo in cui fare l'elemento decisivo del piano.

Chiarimento delle competenze

Una seconda tendenza che deve affermarsi secondo me molto più ampiamente di quanto oggi avvenga è quella di chiarire in modo più univoco e più rigoroso quali sono gli elementi territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende, da un lato, la possibilità di definire in modo convincente il contenuto dei piani ai differenti livelli, e dall'altro il potere che ciascuno dei livelli di governo esercita, e quindi le procedure. È un chiarimento essenziale, quindi, se vediamo il problema dei diversi livelli di piano e di governo non come un problema di regolazione diplomatica di sovranità diverse (non separate da confini, come quelle tradizionali, ma racchiuse l'una dentro l'altra) ma invece come concorso di diversi livelli di governo del territorio nella formazione e gestione d'un unico piano.

Io continuo a restar convinto che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o comprensoriale, comunale) la determinazione prima (prioritaria) e ultima (decisionale) circa quegli elementi della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello. Così mi sembra indubbio, tanto per fare un esempio, che esiste una competenza di livello nazionale (anche se oggi nessuno sembra in grado di esercitarla) per quanto riguarda la grande rete delle infrastrutture che compongono il sistema nazionale, i conseguenti indirizzi di uso del territorio, così come per quanto riguarda le norme, e che concernono i diritti del cittadino italiano: e tra queste norme e indirizzi io porrei, con incisività, quelle che concernono la salvaguardia e la fruizione dei beni ambientali e culturali, che dovrebbero costituire materia non irrilevante della riforma costituzionale.

Ma la competenza di ciascun livello dovrebbe esprimersi con scelte che invadano il minimo possibile l'autonomia di scelta dei livelli territorialmente inferiori. Ed è possibile costruire una casistica dei diversi “margini di definizione” possibili. Esistono elementi per i quali è indispensabile individuare, nel piano di livello superiore, un'area definita (ad es., la posizione di un traforo o di un valico, o la delimitazione di un porto); altri per i quali è sufficiente un ambito di localizzazione o una direttrice (ad es., per la localizzazione di un aeroporto nel piano nazionale, di una università in un piano regionale, di un istituto scolastico superiore in un piano provinciale, della giacitura di una strada in qualsiasi piano); altri, infine, che implicano solo la definizione di una quantità o di una soglia quantitativa, perchè riguarda elementi della struttura territoriale influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommatoria delle decisioni che ne risultano (ad es., le quantità di strutture produttive, o di popolazione, o di posti barca da attribuire come soglia inferiore e/o superiore a ogni ambito comunale e intercomunale nel piano regionale).

Mi sembra indubbio che per quanto si tenti di contenere al massimo le competenze territoriali dei livelli superiori, esse comunque incideranno sempre sensibilmente sulle scelte dei livelli territorialmente più limitati. È inutile richiamare alla mente gli effetti devastanti che la politica delle ferrovie o quella delle autostrade ha provocato sull'assetto ai intere regioni, provincie e comuni. Si apre allora il grande problema delle procedure. Mi sembra che la tendenza che deve affermarsi è che vi sia un pieno concorso degli enti di livello inferiore nelle scelte dei livelli superiori e, invece, un mero controllo da parte degli enti di livello superiore sulle scelte di competenza dei livelli inferiori. Questa posizione ne comporta un'altra, che è bene rendere esplicita. A mio parere anche nella fase attuale - anche prima, cioè, che il sistema di pianificazione si sia evoluto fino a raggiungere quel carattere pienamente unitario che ho affermato necessario nella prima parte di questa relazione - è necessario che ciascuno dei livelli di governo che ha competenza sull'assetto del territorio definisca le proprie scelte mediante un piano. Cioè, mediante una serie di elaborati, riferiti a una base cartografica (cioè al territorio), che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. Credo che i cosiddetti piani o programmi di settore abbiano un senso, non siano distorcenti, non siano alla fine devastanti nei loro effetti, solo se costituiscono attuazione, o specificazione, di un piano - di un quadro di coerenze - unitario e complesso.

È nell'adozione e presentazione del piano che l'ente competente per livello esplica la sua potestà propositiva. È nella discussione del piano e nella formulazione di proposte alternative o correttive (ma sempre ponendosi all'interno dell'obiettivo della coerenza) che gli enti di livello territoriale inferiore esplicano la loro potestà di concorso. È nella sintesi delle proposte alternative e correttive presentate, e nell'approvazione del piano, che l'ente competente per livello esplica infine la sua potestà decisionale. Ed è solo la conformità e coerenza del piano di livello inferiore agli indirizzi, alle scelte e alle prescrizioni del piano di livello superiore la condizione sulla quale deve essere verificato in sede di controllo. Vorrei affermare - e non per provocazione - che una Regione che non ha formato il proprio piano urbanistico o territoriale non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale, e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare e correggere un piano comunale.

Politica di piano e politica di bilancio

La potestà decisionale degli enti di governo del territorio non dovrebbe però esplicarsi solo nella formazione del piano (del quadro delle coerenze territoriali). Dovrebbe manifestarsi anche, ed essenzialmente, su un altro e decisivo terreno: quello dell'attuazione del piano. Su questo terreno mi sembra debba affermarsi una tendenza che mi sembra ben lungi dal manifestarsi: la subordinazione, o se volete il raccordo obbligatorio, dalla politica di bilancio alla politica di piano.

Quest'affermazione merita di essere precisata. Io sono convinto che in ogni amministrazione che abbia competenza sul territorio la capacità di governo si esplica attraverso due ordini di coerenze: quella sulle scelte economiche (appunto il bilancio), e quella sulle scelte territoriali (appunto il piano). Finchè queste due dimensioni, questi due momenti, si muoveranno indipendentemente l'uno dall'altro, nelle trasformazioni territoriali la legge prevalente sarà sempre quella determinata dallo spontaneismo, individuale o aziendale, dal disordine, dall'abuso; e nella situazione economica delle amministrazioni pubbliche '(ma più generalmente della collettività) gli sprechi e le diseconomie dissiperanno risorse consistenti. Qualunque tentativo o tensione verso una austerità, verso un impiego accorto delle risorse, pretende una grande attenzione agli effetti territoriali. provocati o indotti dalle decisioni d'investimento. E, viceversa, le scelte territoriali, le decisioni di piano, restano monche e astratte se non si prolungano nelle politiche economiche, se non condizionano te decisioni di bilancio. Non mi riferisco, ovviamente, solo alle spese d'investimento, ma anche alle spese correnti: he senso ha decidere di pianificare e programmare il vincolo e poi l'acquisizione di aree per verde e scuole, se contemporaneamente non si impegna il bilancio per la formazione del personale che dovrà gestirle?

La salda connessione della politica di bilancio alla politica di piano deve evidentemente manifestarsi all'interno di ciascuno dei livelli di piano e di governo, per così dire “in orizzontale”. Ma essa è essenziale anche, e forse soprattutto, per le connessioni tra i diversi livelli. Se in un piano di livello comunale si decide, in accordo con le decisioni di pianificazione regionale, di localizzare e attuare una determinata infrastruttura, e in relazione a questa scelta si prevedono determinate trasformazioni nell'area coinvolta o connessa, oppure se in quel piano si prevede un intervento di adeguamento della capacità residenziale sulla base di un determinato programma di attribuzione di finanziamenti operato dalla Regione, occorre che poi il bilancio regionale sia vincolato ad eseguire effettivamente quegli investimenti previsti o programmati. È insomma necessario che operi una connessione tra bilancio e piano anche “in verticale”, anche tra i diversi livelli.

Il problema dell'efficacia

Una ulteriore tendenza e tensione che deve manifestarsi è quella che riguarda l'efficacia degli enti di governo che hanno competenza nella pianificazione territoriale e urbana. Raggiungere questa efficacia è obiettivo irrinunciabile. E raggiungerla in modo omogeneo (in tutti i livelli di governo, in tutte le porzioni di territorio) è condizione essenziale perchè la pianificazione non sia un eterogeneo insieme di atti pianificatori (dove più e dove meno credibili, dove maturi e dove del tutto assenti), ma un sistematico processo che investe l'insieme del territorio nazionale.

Affrontare questo tema, proporre questa tendenza, tentar di soddisfare questa condizione apre certo problemi complessi. Basta pensare a quello del modo di formazione, reclutamento, qualificazione, retribuzione del personale impiegato nelle attività di governo del territorio, e al gigantesco salto qualitativo che è necessario compiere - in primo luogo nella consapevolezza culturale del quadro sindacale e politico. Basta pensare al problema del modo ancora arcaico e “politico” nel quale sono ripartite e frammentate le competenze nelle amministrazioni pubbliche - dal Comune su su fino agli organi centrali, dello Stato.

Ritengo che questo problema, il problema (e l'obiettivo) dell'efficacia del processo di pianificazione sia così. rilevante che esso debba essere assunto quasi come una variabile indipendente rispetto ad altri problemi riguardanti la forma dei piani e i livelli di pianificazione; ciò soprattutto in una situazione, come quella italiana, nella quale le realtà territoriali sono così diversificate (penso alla distanza che separa le regioni dove esiste una consolidata cultura del piano e quelle nelle quali questa è assente, penso al grandissimo numero di comuni con una popolazione di poche migliaia, o addirittura di centinaia di abitanti).

In questo senso, mi sembra del tutto ragionevole che in determinate aree non vi sia un piano comunale, ma questo sia sostituito da un piano di livello intercomunale o comprensoriale o provinciale, il quale abbia la stessa efficacia del P.R.G. pur promanando (certo con le opportune interrelazioni tra i “classici” livelli di governo) da un livello di governo diverso: come del resto già avviene in alcune regioni.

In sostanza, se si concepisce la pianificazione come un insieme continuo che organizza il territorio nazionale come una unica e coerente rete, dove a maglie più larghe dove a maglie più fitte, il prezzo che si pagherebbe per il fatto che le aree pianificate “a maglie strette” non sempre e non dovunque coincidono con le circoscrizioni municipali, mi sembra meno rilevante del prezzo che si pagherebbe per l'inefficacia che si avrebbe in quelle aree dove la consistenza delle realtà comunali non consente di avere una sufficiente dotazione di “servizi del piano”, di raggiungere e superare la soglia al di sotto della quale la pianificazione è impossibile.

Considerazioni conclusive

Perchè i piani di differente livello non costituiscano una congerie di atti di scarsa o nulla efficacia complessiva, ma comincino a configurarsi come elementi di un unico, e coerente, e continuo, processo di pianificazione del territorio nazionale, è quindi necessario che, accanto e a sostegno della riflessione scientifica, si introducano - e via via si generalizzino - alcune decisive e sostanziali innovazioni rispetto al modo attuale di pianificare: innovazioni che concernono (questi sono i temi che mi sembrano più rilevanti) il coordinamento delle analisi, la definizione delle competenze per elementi della struttura territoriale, la conseguente trasformazione nel modo di formulare le procedure, la rigida connessione - a tutti i livelli - della politica di bilancio a quella di piano, l'efficacia degli enti di governo territoriali.

Credo però che si debba sottolineare come l'introduzione generalizzata di tali innovazioni comporti un consistente investimento di risorse.

In primo luogo, di risorse culturali. È giunto il tempo di investire capacità intellettuali. Non nella coltivazione di chiusi e separati orticelli specialistici, magari contrassegnati ciascuno dal titolo di una delle diecimila materie accademiche nelle quali si frammenta il potere universitario. Non nella contrapposizione di scuole l'una all'altra impermeabile e ciascuna esaltata nella contemplazione della porzioncella di verità che possiede. Ma nella ricerca dialettica dei modi in cui deve, e può, unitariamente configurarsi una nuova cultura del territorio.

Una volta, venti o trent'anni fa, la cultura del territorio era l'appannaggio e l'insegnamento e la predicazione di pochi maestri; oggi, può essere solo il paziente risultato di un lavoro di discussione e di confronto e di circolazione di idee e di verità parziali che nascono da mille laboratori, da mille esperienze, da mille realtà - disciplinari, ideali, territoriali - disseminate in tutto il paese. È giunto il momento, io credo, di tessere le fila di questo lavoro - certo faticoso, certo impervio - di ricomposizione dei frammenti di una possibile nuova cultura del territorio.

In secondo luogo, un investimento di risorse politiche. Il futuro, in una società complessa, in un'epoca caratterizzata dai limiti delle risorse naturali, può essere diverso dalla catastrofe unicamente se la primordiale risorsa - il territorio - è amministrata con lungimiranza e con l'attenzione, vorrei dire con l'avarizia, che è necessaria quando si amministra un bene di grande scarsità. Amministrare il territorio vuol dire pianificare. Preparare il futuro per la società di oggi vuol dire gestire il potere democratico, fare politica. La risorsa politica che sembra oggi più necessario investire è la capacità di lungimiranza, di prospettiva.

Lo spegnersi delle tensioni ideologiche ha condotto, negli ultimi anni, al trionfo degli opportunismi, dei corporativismi, degli accomodamenti di breve e mediocre respiro: in una parola, al trionfo della miopia politica. Uno scatto è necessario per far sì che la politica, pur laicizzandosi, ritrovi il respiro dei grandi momenti della nostra storia, il ruolo di costruzione - attraverso il presente - del futuro.

In terzo luogo, infine, è necessario un investimento di risorse economiche. Un assetto territoriale preordinato è fonte di risparmio di risorse. Ma raggiungerlo significa investire, spendere. In primo luogo, dotare di personale e di attrezzature gli uffici e gli enti cui spetta di governare il territorio, metterli nelle condizioni di adoperare i sistemi, le macchine, il personale che sono indispensabili per pianificare, programmare, gestire le trasformazioni territoriali. In secondo luogo, investire nel territorio, il quale è stato sede di interventi così devastanti che ha bisogno di consistenti risorse semplicemente per risarcirlo, per tamponare e far lentamente cicatrizzare le ferite che gli sono state inferte per la carenza di pianificazione e programmazione, per la conseguente proliferazione dell'abusivismo e delle illegittimità sostanziali, per l'abbandono delittuoso nel quale è stata lasciata la difesa del suolo.

Per finire, la questione del regime immobiliare L'impiego delle necessarie risorse culturali, politiche, economiche non è un'esigenza e una predicazione astratta. Ha una prima occasione sulla quale cimentarsi. È un'occasione basilare e fondamentale, perchè da essa dipende - in ultima istanza - l'efficacia di ogni possibile modo di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Mi riferisco, com'è ovvio, alla questione del regime immobiliare.

L'aver lasciato per decenni irrisolta questa questione è colpa grave per quanti potevano agire e non hanno agito, come per quanti dovevano sollecitare e protestare e non l'hanno fatto, o l'hanno fatto troppo debolmente e sporadicamente. Finché quella questione non sarà risolta, finché permarrà l'incertezza sul modo in cui potestà pubblica e diritti patrimoniali privati trovano le regole dei loro reciproci comportamenti, finché insomma espropriazioni, indennità, vincoli, convenzioni saranno lasciate alla discrezionalità degli amministratori e all'oscillazione della giurisprudenza, l'attività di pianificazione e programmazione resterà qualcosa più vicino alla sfera dell'accademia che a quella del concreto intervento sul territorio.

Testo ottenuta dalla scansione, mediante un programma OCR e successiva revisione, dal testo raccolto negli atti del convegno. Gennaio 2008

L'editoriale de l'Unità del 17 gennaio 2008, di Antonio Padellaro

In un paese normale se la moglie del ministro della Giustizia viene messa agli arresti domiciliari sulla base dell’accusa (tutta da provare) di concussione, il ministro della Giustizia presenta le dimissioni in Parlamento. Clemente Mastella lo ha fatto con sensibilità istituzionale e gliene va dato atto. Qui però finisce la normalità italiana. Perché non è normale affatto che l’intervento, comprensibilmente accorato, del dimissionario venga accompagnato nell’aula di Montecitorio da applausi così appassionati e scroscianti come forse neppure Giovanni Paolo II ne ebbe il giorno della sua storica visita.

Non è normale che la seduta della Camera prosegua con una serie di attacchi frontali alla magistratura «politicizzata», in una sorta di assurda dichiarazione di guerra (o di correità) del potere legislativo contro quello giudiziario. Attacchi che non possono certo accrescere la già scossa fiducia dei cittadini nei confronti della «casta» politica. E non è normale soprattutto la lunga litania di solidarietà (non solo umana) che da quel momento in poi si alza dai banchi del governo e della maggioranza a favore del ministro. Unita alla richiesta pressante di recedere dall’insano proposito e di tornare a via Arenula. Comprendiamo tutti l’importanza che hanno per l’esecutivo i voti dell’Udeur, ma prima di solidarizzare «a prescindere» non sarebbe stato meglio informarsi bene sui reali contenuti dell’inchiesta? E vagliare attentamente le accuse con le quali, si apprenderà più tardi, la procura di Santa Maria Capua Vetere coinvolge lo stesso Mastella ipotizzando l’esistenza di una sorta di associazione per delinquere che avrebbe agito ai danni perfino del presidente della Regione Bassolino? Ci auguriamo sinceramente che Mastella e i suoi familiari dimostrino la loro estraneità ai fatti contestati. Ma la presunzione di innocenza deve valere per tutti. Per chi subisce le indagini e per chi le fa.

Con le elezioni politiche di aprile sono caduti i progetti di riforma della legge urbanistica del 1942 che erano stati discussi, talvolta molto aspramente, nel corso della precedente legislatura. Spetta ora al nuovo parlamento il difficile compito di formulare una nuova proposta di legge. Il Giornale dell’Architettura ha chiesto ad alcuni urbanisti di primo piano di segnalare un punto (e uno solo) che il futuro legislatore non dovrà dimenticare. Apre la discussione Edoardo Salzano.

C’è un argomento sul quale l’Italia registra un enorme ritardo rispetto ad altri Stati europei; un argomento sul quale una legge che riguardi il governo del territorio (o una sua componente importante, la pianificazione urbanistica e territoriale) dovrebbe pronunciare regole chiare, tassative, non negoziabili: il consumo di suolo. In Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Olanda, come in diversi Stati e città degli Usa, i governi si sforzano di contrastare il consumo di suolo. In Italia, dove già dagli anni cinquanta ai settanta abbiamo devastato gran parte del territorio di pianura, di valle e di costa, non si sa neppure che cos’è. Se abbondano studi qualitativi sulla «città diffusa» e sulla «dispersione insediativa», non si sa quanto terreno venga occupato ogni anno da lottizzazioni ed espansioni urbane, ville e villette, capannoni e discariche, strade e piazzali, discoteche e factory outlets. Da noi nessuno sa, né si preoccupa di sapere, quanto terreno viene sottratto all’agricoltura, alla percolazione dell’acqua piovana, all’azione della clorofilla e del sole, al ciclo biologico. Così come del resto non si sa quanti elementi del patrimonio storico vengono cancellati nella distrazione generale.

La mancanza di dati sui quali basare appropriate politiche rivela un disinteresse profondo per la questione. Eppure, per chiunque è evidente che il consumo di suolo aumenta ogni anno, per effetto dell’«anarchia urbanistica», come l’ha definita Carlo Azeglio Ciampi. Un’anarchia che è certamente prodotta in parte consistente dall’abusivismo, e dalla miopia aziendalistica con la quale i vari corpi statali e parastatali hanno progettato e realizzato le infrastrutture e gli altri oggetti di competenza pubblica. Ma un’anarchia che è generata, sempre più spesso, anche da una pianificazione urbanistica più sensibile agli interessi immobiliari che alla tutela delle risorse comuni.

Voglio citare un raffronto significativo, che dà un’idea della dimensione del problema. In Germania il governo Kohl (che certamente «comunista» non era) pose nel 1998 l’obiettivo di non investire ogni giorno nell’urbanizzazione più di 30 ettari, e l’obiettivo è oggi largamente rispettato. Significa che per ogni cittadino tedesco si consumano 1,34 mq di nuovo suolo all’anno. Per l’Italia riferiamoci al Prg recente di una grande città, quello di Roma: 15.000 ettari di nuove aree sottratte alla natura, una previsione decennale di 6 mq all’anno per ogni cittadino. Più di 4 volte tanto. Non credo che un’analisi di altre città italiane, al Sud al Centro e al Nord, darebbe risultati troppo diversi: ma chi fa i conti dello spreco di territorio?

A me sembra che una nuova legge nazionale sul territorio dovrebbe decretare, in primo luogo, che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali siano consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. Dovrebbe poi precisare che gli strumenti di pianificazione non possono consentire nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, né consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all’estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista.

Nella nuova proposta di legge per la pianificazione della città e del territorio che il sito Eddyburg.it ha proposto, questo tema viene ulteriormente sviluppato e precisato. Naturalmente, nel quadro della riaffermazione di principi di carattere generale in assenza dei quali il controllo del consumo di suolo resterebbe un’utopia: la titolarità pubblica della pianificazione, l’assunzione di quest’ultima come metodo generale per il governo del territorio, il diritto alla città e all’abitare, la partecipazione e la condivisione delle conoscenze.

Scarso rilievo hanno avuto, sulla stampa, le dichiarazioni programmatiche del nuovo Ministro per i lavori pubblici, Paolo Costa. Peccato. Il successore di Di Pietro sembra impegnato in una direzione profondamente innovativa, per più d’un aspetto. In particolare, per il modo in cui guarda a tre questioni nodali per la politica del territorio: il rapporto tra emergenza e prospettiva, il deficit dell’Italia nei confronti dell’Europa, un approccio responsabile nei confronti del federalismo.

La perenne rincorsa dell’emergenza è stata, in tutto il corso dell’ultimo mezzo secolo della nostra storia, la ragione principale della devastazione del territorio e della profonda inefficienza dell’organizzazione delle città e del territorio: quindi della distruzione di risorse e della crescita del disagio sociale. Organizzare con efficienza ed efficacia realtà complesse (come sono le nostre città e l’insieme del nostro territorio) richiede lungimiranza, sistematicità d’approccio, continuità di orientamenti. E richiede, prima ancora che strumenti, intelligenze politiche capaci di ragionare e decidere in questo modo. Altrimenti, succede quel che è successo in Italia: non occorre richiamare esempi ed episodi.

Secondo il neoministro l’azione condotta dal suo predecessore “non poteva non pagare un tributo alla situazione di emergenza ereditata”, ma oggi “è giunto il momento di affrontare alcuni nodi strutturali, con l’ambizione di trovare soluzioni normative-quadro anche di grande respiro”. Questa necessità è resa particolarmente urgente dall’impegno di “restare in Europa”, e quindi di “garantire al Paese condizioni reali di competitività europea in ogni settore, anche nella dotazione di infrastrutture e di capitale fisso sociale in senso lato”.

Le infrastrutture: ecco un termine che, riferito alla politica dei lavori pubblici, evoca scenari inquietanti, richiama risse mai sopite tra i fautori del “fare” e quelli del “tutelare”, ricorda innumerevoli episodi di scialo e devastazione da un lato, di inefficienza e carenza dall’altro. Ma il ministro precisa: oltre che a tenere conto del fatto che “l’investimento in infrastrutture produce effetti moltiplicativi sulla produzione”, oggi è decisivo sottolineare “il ruolo di infrastrutture, e quindi di servizi, efficienti nel ridurre i costi ‘fuori fabbrica’ dell’apparato produttivo e nell’elevare gli standard ‘fuori casa’ di qualità della vita”.

Efficienza del sistema e qualità della vita: questi sono dunque gli obiettivi che occorre proporsi. Ma allora bisogna chiarire che cosa si intende per infrastrutture. E il ministro lo precisa: “voglio esser chiaro, non intendo riferirmi solo a strade, autostrade o ferrovie, ma all’intera gamma delle componenti del capitale fisso sociale che va dagli interventi di regolazione idraulica alle scuole, dai metanodotti alle autostrade informatiche”.

Certo, neanche questo è sufficiente. Bisognerà vedere, per esempio, in che modo si faranno le “regolazioni idrauliche”: se canalizzando, cementificando, intubando le acque, e quindi accumulando materiali per le disastrose alluvioni e i progressivi impoverimenti delle risorse idriche, oppure mediante interventi di rinaturalizzazione. E bisognerà vedere se gli investimenti per le scuole e gli altri servizi collettivi serviranno solo ad aggiungere un po’ di volumi a quelli esistenti, o se saranno una componente di programmi di riqualificazione sociale e ambientale delle orrende periferie costruite, in mezzo secolo, dalla cultura dell’emergenza e della speculazione.

Sul piano della pratica di governo l’impegno nuovo più concreto, e più promettente, ci sembra l’intenzione espressa dal ministro di “recuperare un rapporto organico con il Ministero dei trasporti in modo che le grandi opere (diremmo noi, le opere di rilevanza nazionale - n.d.r.) come ad esempio la variante di valico appenninico e il complementare quadruplicamento ferroviario della Napoli-Milano, vengano realizzate in un contesto di decisioni intermodali, in una sorta di nuovo Piano generale dei trasporti e delle infrastrutture”. L’inefficienza e lo spreco che contrassegnano il nostro sistema dei trasporti e aggravano lo squilibrio con il resto dell’Europa sta infatti proprio nel fatto che strade, ferrovie, porti, aeroporti, trasporti di livello internazionale, nazionale, regionale e locale, sono tutti progettati, realizzati e gestiti in modo separato, spesso contraddittorio, sempre inefficace e sprecone: di risorse finanziarie e territoriali, e di tempo dell’utente.

Un proposito, quello del Ministro Costa, che spero i suoi partner di governo non lasceranno cadere. Ed è anzi sperabile che prosegua in almeno due direzioni, peraltro indicate nelle sue dichiarazioni programmatiche.

Da un lato, verso una regolazione a priori dei conflitti che inevitabilmente nascono quando si tenta di soddisfare le esigenze della trasformazione (nuove strade, nuove ferrovie, nuovi porti, e anche nuove scuole, nuovi parchi, nuove case) senza tener conto delle esigenze della tutela delle qualità dell’ambiente e della prevenzione dei rischi. Occorre insomma tener contro che non solo i trasporti costituiscono un sistema, ma è un sistema (e quindi va considerato e governato unitariamente) anche il territorio nel suo complesso: nell’insieme degli elementi naturali e storici, ambientali e insediativi, fisici e sociali che lo compongono.

Dall’altro lato, verso la traduzione di questa visione sistemica della realtà non solo in un insieme di atti e di intese di governo, necessariamente episodici, ma di un nuovo sistema di regole in materia di governo del territorio. Un sistema di regole basato su due principi, entrambi essenziali. Il principio della coerenza territoriale e della trasparenza istituzionale, per il quale le decisioni capaci di incidere sull’assetto del territorio, qualunque sia l’ente che ne sia responsabile, vengono assunte, verificate e rese pubbliche con il metodo della pianificazione territoriale e urbanistica (un metodo che Paolo Costa, dopo Giacomo Mancini, è il primo ministro a riproporre). E il principio di sussidiarietà, per il quale spettano a ogni livello di governo (nazionale, regionale, provinciale, comunale) tutte e sole le scelte che all’interno di quel livello è possibile governare in modo efficace: un principio già assunto dall’Unione europea, e che il è solo capace di raggiungere in modo equilibrato quel "federalismo solidale" che il ministro Paolo Costa assume come proprio.

Edoardo Salzano

Città e società

Immaginare la città nel Terzo millennio equivale a immaginare la società nel Terzo millennio. La città, infatti, non è una costruzione tecnologica, non è un oggetto fisico, non è un insieme di abitacoli e di collegamenti – non lo è più di quanto l’uomo sia un insieme di molecole, ordinate a formare tessuti, organi, legamenti e sostegni.

È anche quelle cose, ma non è solo quelle: ridurla a quelle significa non comprenderla. Come dico spesso ai miei allievi del corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale, la città non è un insieme di case, ma è la casa della società. Più precisamente, la città è il luogo che la civiltà umana ha inventato quando sono nati, e si sono sviluppati e consolidati, determinati valori, esigenze, funzioni, i quali richiedevano, per essere soddisfacibili e soddisfatti, il sorgere di una organizzazione fisica adeguata: la città, appunto.

Del resto, come spesso accade, l’etimologia aiuta a comprendere: urbs (la città come spazio fisico), civitas (la città come comunità sociale), polis (la città come società organizzata) non sono forse termini strettamente legati? Domandarsi che cosa sarà la città nel Terzo millennio equivale perciò a domandarsi che cosa sarà diventata, in quello stesso periodo, la società.

Una domanda preliminare: che cos’è il Terzo millennio?

Ma intanto, poniamoci una domanda preliminare: che cosa intendiamo dire quando parliamo di Terzo millennio? Come sappiamo dall’esperienza storica un millennio è un periodo molto lungo: il Primo e il Secondo hanno coperto civiltà, culture, costruzioni sociali diversissime: diverse nelle diverse fasi nelle quali i millenni si sono articolati, e nei diversi luoghi nei quali essi hanno dato luogo a storie. Possiamo trovare elementi di identità nella città ridente, gaia e colta dell’impero del Giappone nell’XI secolo di questa era, così come ce l’ha descritta, per esempio, Murasaki[1], e nella Stalingrado degli anni dell’URSS e delle estrema resistenza al nazismo? Possiamo trovare elementi di identità unificando nel ragionamento una città ricca di canali del XIII secolo, come la cinese Suzhou o la veneziana Venezia, e una città ipertrofica di autostrade come la statunitense Los Angeles del XX secolo?

Quando parliamo del Terzo millennio non intendiamo evidentemente proporci di identificare i “connotati medi” di questo sconosciuto arco di tempo: intendiamo semplicemente applicare un po’ di retorica a una domanda molto semplice, che sempre gli uomini si pongono, soprattutto nei momenti di soglia (o ritenuti tali): come diventerà la città (e la società) nel futuro, nel futuro così come oggi possiamo immaginarlo?

Omologazione o differenze?

Anche così semplificato, è un interrogativo irto d’incognite, di domande angosciose perché s’intrecciano con gli argomenti che oggi ci angosciano. Una prima domanda allora s’impone, sollecitata proprio dalla riflessione sulla diversità presente nella nostra storia. Vivremo, nel futuro, una realtà ricca di differenze come quella dei millenni che ci hanno preceduto, oppure una realtà resa omogenea in ogni parte dell’universo conosciuto? Perché una delle ipotesi probabili è appunto quella dell’unificazione e della omologazione. Il modello di città – anzi, la “città unica” – potrà diventare quella Trude che Italo Calvino ha descritto[2].

Trude

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d'essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l'albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire. - Puoi riprendere il volo quando vuoi, - mi dissero, - ma arriverai a un'altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un'unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all'aeroporto.

Italo Calvino

Le differenze spariranno? La ricchezza delle storie, delle culture, delle lingue, delle abitudini, dei sapori e dei colori, dei paesaggi e dei suoni scomparirà annullata dall’omologazione a un unico modello di vita, e di città?

Il caso di Venezia

Abito e lavoro a Venezia, la città che è la protagonista delle Città invisibili di Calvino: il vero modello di città, se ve n’è uno. Venezia è certo diversa dalla città contemporanea tipica dell’Occidente super-industrializzato e super-consumistico. La sua bellezza è nella sua diversità, e la sua forza è nell’insegnamento che propone: un luogo nel quale la città trasforma l’ambiente naturale rispettandone le regole e i ritmi, conservandolo per utilizzarlo.

Ebbene, anche a Venezia sta procedendo, nell’indifferenza generale, un processo di omologazione di questa città unica alla tipica città contemporanea. Sempre meno sono i luoghi dedicati all’artigianato locale, sempre più frequenti invece le botteghe internazionali del fast-food (tenacemente tenute lontane fino a dieci anni fa) e gli spacci delle merci generiche per turisti (quelle che gli anglosassoni chiamano junk, e che sono uguali a Hong Kong come a Manila, a San Marino come, appunto, a Venezia).

Ma c’è di peggio. In una città la cui modernità in materia di organizzazione del traffico era stata indicata come esempio da Le Corbusier (ne celebrava l’avvenuta separazione del traffico meccanizzato, nei canali acquei, e della mobilità pedonale, nelle calli e sui ponti), in una città nella quale tutti apprezzano la puntualità cronometrica dei mezzi di trasporto pubblici (i vaporetti), si propone l’introduzione di una “metropolitana sublagunare”, utile solo a scaraventare migliaia di turisti nelle calli del centro. È una proposta giustificata solo dal mito della riduzione dei tempi di percorso: come se, più dei tempi impiegati per andare da una parte all’altra della città, non si dovesse ricercare la qualità del tempo in essi impiegato: è più amico dell’uomo il minuto impiegato nella buia metropolitana urbana o nello scuotimento dell’autobus, o il minuto impiegato navigando tra i palazzi del Canal Grande o passeggiando negli spazi antichi e belli di una città amica?

Omologazione o ricchezza delle differenze? Riduzione dei tempi o valutazione della qualità del tempo di vita, nelle sue diverse componenti? Queste sono alcune delle alternative tra le quali si gioca il nostro futuro: le possibili configurazioni della città del Terzo millennio.

Una speranza, e tre requisiti

Più che prevedere i futuri possibili, e scegliere tra loro quello più probabile (operazione per la quale non mi sento per nulla attrezzato) è forse utile ragionare su quali siano le direzioni di marcia verso le quali indirizzare gli sforzi: in primo luogo (a questo sollecita la presenza quotidiana dell’immagine di Venezia) quale sia la speranza che occorre nutrire, per alimentare il lavoro cui ciascuno di noi deve concorrere.

Ebbene, la speranza che è necessario e possibile formulare è che la società comprenda, nell’avviarsi lungo l’ignoto itinerario del terzo millennio, che il modello di città costruito dalla civiltà occidentale del XX secolo non è quello giusto; che esso ha tradito alcuni insegnamenti fondamentali che la storia della città ci ha consegnato, e che da questi insegnamenti occorre partire per realizzare una città giusta.

Questi insegnamenti possono compendiarsi in tre parole, in tre requisiti che sono tutti, a mio parere, necessari perché una città possa dirsi umana: comunità, complessità, sostenibilità. Su queste tre parole vorrei adesso intrattenere i lettori di Universo.

Comunità

Lo dicevo all’inizio: la città è la casa della società: è il luogo inventato, strutturato e organizzato in funzione di interessi ed esigenze collettivi, sociali, comunitari. La città è il luogo della comunità. I suoi luoghi centrali, i suoi “fuochi”, sono i luoghi finalizzati al “consumo comune”, all’uso della comunità: la piazza, il mercato, la cattedrale, il palazzo civico. Senza l’esistenza di una comunità, di valori sociali condivisi, la città si dissolve nell’anarchia[3].

Gli ultimi tre secoli del Secondo millennio sono quelli che hanno visto la piena affermazione della città come luogo dell’insediamento umano. Le città si sono moltiplicate e ingrandite, il loro peso si è accresciuto a dismisura. Ma il punto cruciale è che, parallelamente alle gigantesche trasformazioni quantitative e all’esplosione della potenziale domanda urbana, c’è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventare quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell’individualismo.

Ristabilire, nel concreto, i valori della comunità è quindi il primo obiettivo che bisogna proporsi per avviarsi, nel Terzo millennio, lungo una strada che consenta di restituire all’insediamento dell’uomo la sua funzionalità e la sua bellezza. Lavorare in questa direzione significa affrontare problemi nodali della città di oggi: quello del traffico, in primo luogo. Si tratta infatti di affrontare quell’aspetto della crisi della città che definisco “il paradosso del traffico”.

Tutti si rendono conto (per quanto assuefatti dall’abitudine) che muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un’angosciosa perdita di tempo, un’assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d’inquinamento. Ma non tutti riflettono sul fatto che città è stata storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi.

Ricostruire una città umana significa allora, in primo luogo, affrontare il problema del traffico adottando tutte quelle misure che consentano di eliminare congestione, spreco di tempo e d’energia. Significa allora restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo dell’incontro, dello scambio d’esperienze e di messaggi, di comunicazione e di convivenza. Significa restituire ai marciapiedi la loro funzione di luogo dello spostamento piacevole, della passeggiata, della ricreazione. Significa rendere accessibili, e raggiungibili in condizioni di sicurezza per i deboli come per i forti, i luoghi della vita collettiva e quelli della vita privata.

Si lavorerà in questa direzione nei prossimi anni? Se sarà così, la città del Terzo millennio potrà essere, di nuovo, una città per gli uomini.

Complessità

La città è il luogo della complessità: è il luogo nel quale le differenti funzioni, le differenti “utilità”, le differenti occasioni di lavoro si sovrappongono e si mescolano. Il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, le differenti funzioni sociali, le differenti età, etnie, abitudini, culture si mescolano e scambiano i reciproci insegnamenti. In questo senso la città è stata (e continua a essere) il luogo della libertà e della crescita personale: delle molteplici possibilità per tutti.

Questo requisito (il requisito della complessità) è contraddetto e negato da due ordini di operazioni. Da un lato, l’artificiosa semplificazione della città in zone caratterizzate ciascuna da una sola funzione: l’abitazione, la produzione, la direzionalità, il commercio. Dall’altro lato, l’introduzione delle barriere della segregazione economica, sociale ed etnica.

Eliminare le cause di queste vere e proprie deformazioni della città non è semplice. Nei piani regolatori, e nelle concrete politiche urbane, si cerca di mescolare funzioni diverse, di evitare da un lato i “quartieri dormitorio”, dall’altro lato le aree destinate esclusivamente alle attività lavorative. E in alcune realtà si tenta, da parte delle amministrazioni comunali più avvedute, di condizionare le politiche immobiliari per garantire la compresenza di ceti sociali e gruppi culturali diversi, ottenendo a volte risultati convincenti.

Se si sarà capaci di lavorare in queste direzioni, la città del Terzo millennio potrà essere di nuovo la città di tutti gli uomini; altrimenti, i nostri eredi saranno condannati a vivere nel coacervo di mondi diversi, l’un verso l’altro barricato e armato.

Sostenibilità

Nell’ultimo mezzo secolo la natura è stata devastata come mai era successo. Per dare un’idea di ciò che è avvenuto, basta riflettere sul fatto che in Italia, in soli cinquant’anni, si è urbanizzata una superficie pari a nove volte la superficie che era stata urbanizzata nei millenni della nostra storia. La città ha divorato l’ambiente: ha portato vicino all’esaurimento risorse preziose per la vita, dissipando riserve che si credevano inesauribili. Per fortuna, prima che si arrivasse alla catastrofe definitiva, la saggezza di osservatori attenti ha illuminato la coscienza popolare. Un nuovo comandamento è stato foggiato: è necessario che lo sviluppo sia “sostenibile”, ed è necessario che anche la città sia “sostenibile”. Che cosa vuol dire?

L’espressione “sviluppo sostenibile” fu coniata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, presieduta da Gro Harlem Brundtland. Nel rapporto che è noto appunto con il nome della statista norvegese, si definisce sviluppo sostenibile “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" [4].Il contrario dunque, dello sviluppo attuale, il quale divora risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente.

Ma applicare quella definizione all'ambiente urbano, e parlare di città sostenibile, significa introdurre nella definizione della Brundtland una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle. Affermo questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non solo perché ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che la hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Anche perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.

L’impegno per restituire alla città quella “sostenibilità” che caratterizzava le città delle epoche più felici della storia è quindi un impegno essenziale per ottenere, nel Terzo millennio, una città per tutti gli uomini di oggi e di domani.

Il governo della città: la pianificazione

Come ottenere, però, che la città del Terzo millennio raggiunga davvero i requisiti necessari, e non si trasformi in un’immonda accozzaglia di oggetti sgradevoli e ostili? Come ottenere che il pianeta non si trasformi – per adoperare le parole di Antonio Cederna – in “una repellente crosta di cemento e asfalto”? Il metodo è noto, sperimentati ne sono gli strumenti: la pianificazione urbanistica. Essa – per adoperare ancora le parole di Cederna – “è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità”[5].

La moderna pianificazione urbanistica è nata, all’inizio del XIX secolo, quando ci si è resi conto che la maggiore complessità delle esigenze, la ricchezza delle possibilità, le contraddizioni implicite negli interessi in campo, rendevano necessario un intervento regolatore dell’autorità democratica, che definisse in che modo procedere in quell’incessante opera di successione delle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio in cui consiste il processo di urbanizzazione.

Il primo piano regolatore moderno può essere considerato quello che, nel 1811, i cittadini di New York pretesero dai loro governanti. È una storia emblematica, che ricordo spesso perché esprime con immediatezza la necessità della pianificazione urbanistica per un governo del territorio orientato al bene comune.

La metafora del Piano di New York

All’inizio del XIX secolo New York aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e magazzini. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.

Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo. (Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.)

L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento dello sviluppo.

Ma era un’economia basata su sul principio della più dispiegata libertà individuale nel dominio dell’economia e dell’organizzazione sociale: più l’iniziativa individuale era priva di freni, più sapeva tirare, tanto più si perseguiva, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. In alcuni campi però – questo cominciarono a comprendere i liberali del XIX secolo – la libera iniziativa conduceva all’anarchia: occorreva uno sguardo d’insieme, una capacità di padroneggiare dinamiche complesse, di portare a sintesi interessi contrastanti, che la spontaneità del mercato non poteva possedere. Occorreva un intervento regolatore. Nella città, occorreva un piano regolatore che decidesse dove e quando, secondo quali regole, con quali quantità e funzioni procedere in quella complessa serie di operazioni in cui consiste il processo di urbanizzazione.

Le esigenze di governo delle trasformazioni urbane non sono certo venute meno oggi, né è presumibile che lo diverranno nei prossimi decenni: anzi. L’aumento della complessità delle relazioni, la crescita del benessere e l’esaurirsi delle risorse naturali, l’accresciuta mobilità di tutte le grandezze in gioco, tutto ciò renderà ancora più necessaria la definizione, strategica e al tempo stesso programmatica e operativa, delle regole per la trasformazione del territorio: della pianificazione urbanistica. Di una pianificazione espressione di una volontà della cittadinanza che sia definita con il metodo e gli strumenti della democrazia; una pianificazione che sappia garantire che la molteplicità degli interventi e delle iniziative, la pluralità dei soggetti e degli interessi, agiscano e confluiscano in un unico disegno, finalizzato all’interesse di tutti: dei cittadini presenti, come di quelli che verranno.

[1] Murasaki , Storia diGenji il Principe splendente, Einaudi 1957.

[2] Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi; “Le città continue. 2:”

[3] Questi, e altri temi toccati in questo scritto sono trattati più ampiamente in: E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma.Bari, 1998.

[4] Il Rapporto è pubblicato integralmente in: Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1988.

[5] Antonio Cederna, I Vandali in casa, Etas Compton, Roma

Ho intenzione di fare della pianificazione territoriale, nella pro­spettiva della realizzazione dell'Europa, una vera priorità naziona­le". Così ha affermato il nuovo Primo ministro della Repubblica. Ai deputati, sindaci, amministratori regionali e provinciali, urbanisti, geografi, storici riuniti per discutere "Le reti di città" era già sem­brato una grande e rincuorante novità il fatto che il nuovo Presiden­te del Consiglio avesse scelto quell'occasione, quel tema, quella platea per parlare per la prima volta in pubblico: tanto più che gli organizzatori non l'avevano previsto né richiesto.

Il fatto é che il Primo ministro aveva piena consapevolezza di ciò che comportava, per il paese che gli toccava governare, "l'ingresso in Europa": per tanti anni sperato e ora, che era giunto, anche temu­to. Come reggerà una realtà come la nostra alla concorrenza degli altri paesi? Ormai la concorrenza si vince o si perde a seconda di ciò che si riesce a mettere in campo sul terreno della qualità terri­toriale e urbana.

Se non abbiamo reti regionali e urbane dei trasporti collettivi che funzionano, se l'assistenza sanitaria e i servizi sociali sono così inadeguati, se la ricchezza di beni culturali è soffocata e negata dalle condizioni deplorevoli in cui li abbandoniamo, se la campagna è continuamente erosa dalla disseminazione delle case e casette, se la natura è devastata da ogni sorta di inquinamento, se le città si espandono a macchia d'olio e il turismo da rapina rovina le coste e i monti, se i fiumi sono ridotti a fognature civili e industriali, perché mai le aziende della produzione moderna e del terziario avanzato dovrebbero scegliere le nostre città per insediarsi? E perché i lavo­ratori europei e le loro famiglie dovrebbero frequentare i nostri lidi e i nostri monti, percorrere le nostre colline, nei sempre più fre­quenti periodi di tempo libero?

No, deve aver pensato il nuovo Primo ministro, così non può andare avanti. Corriamo un rischio grave, gravissimo: il rischio di diventare la periferia dell'Europa. Anzi, se si pensa a che cosa sono le periferie nelle lustre città di altre nazioni europee (la Germania, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna), dell'Europa rischiamo di diventare il Bronx.

E su che cosa mai si può far leva per ottenere un assetto territo­riale e urbano all'altezza di quello dei nostri concorrenti? Non sono un urbanista, si deve esser detto il Primo ministro, mi sono occupa­to più di finanza e di politica che di territorio, ma il mio buonsenso di statista mi dice che, per vincere, bisogna finalmente far decollare la pianificazione del territorio, a tutti i livelli. Su questo impegnerò tutte le energie del nuovo governo, lo prometto.

Lettore, stupisci? Non hai letto sui giornali di una dichiarazione così forte e così nuova come quella da cui siamo partiti? Forse ti sei sbagliato, non hai letto i giornali giusti. Quella dichiarazione non è stata pubblicata dai giornali italiani, ma da quelli francesi. Perché il Primo ministro che l'ha pronunciata non è il successore di Giulio Andreotti, ma quello della signora Cresson: é Pierre Bérégovoy, prémier della Repubblica di Francia. L'ha pronunciata a un conve­gno che si é tenuto a Mulhouse, in Alsazia, il 28 aprile scorso, or­ganizzato dalla Delegazione per la pianificazione territoriale e l'azione urbana del governo francese.

Eravamo lì, l'abbiamo sentito. Abbiamo pensato all'Italia. Que­sta volta, senza nostalgia.

Città senza automobili

E' andato nella tana del lupo Carlo Ripa di Meana, il ministro europeo per l'Ambiente.te. Ha scelto Torino, la città della Fiat, per presentare in Italia il più recen­te prodotto del suo dicastero il documento dall'ambizioso titolo "Città senza automobili".

L'avvocato Agnelli era lì presente, a fare gli onori di casa. Si è mostrato signorilmente interessato, non pregiudizialmente ostile. Eppure ciò che la Commissione europea per l'ambiente si propone (lo avevamo già letto nel "Libro verde per l'ambiente urbano") è qualcosa che deve stridere alle orecchie degli uomini che hanno co­struito le loro fortune, e la loro potenza, sull'assoluta, e quasi divi­nizzata, indispensabilità dell'automobile. Lo slogan di Ripa di Meana è infatti: "l'automobile deve diventare un'opzione". Basta pensare a ciò che è oggi, nelle città italiane, la mobilità per rendersi conto del carattere rivoluzionario di quest'affermazione.

L'avvocato Agnelli ha sollevato una questione, ed espresso una perplessità. Non dimentichiamo, ha detto, che l'automobile é anche "uno strumento di libertà". Ragioniamo pure sull'ipotesi di avere "città senza automobili", ha aggiunto, ma prima bisogna che mi spieghiate che cosa intendete per aree urbane.

Non sappiamo se qualcuno ha risposto all'autorevole industriale. Noi vogliamo provarci. A noi sembra che la risposta stia proprio in quello slogan "l'automobile deve diventare un'opzione". Le città potranno essere senza automobili in quelle loro parti in cui il si­stema delle convenienze nella scelta del mezzo di trasporto più op­portuno (in termini di velocità, comodità, prezzo) sarà reso tale da indura la grande maggioranza degli utenti a preferire l'opzione del trasporto collettivo. Le aree urbane quindi discendono da un proget­to: un progetto urbanistico, particolarmente preciso nella defini­zione del sistema della mobilità, ed accompagnato da adeguate e coerenti politiche finanziarie e tariffarie.

In questo quadro, interventi volti a rendere più costoso rispetto ai livelli attuali l'uso del mezzo individuale é altrettanto legittimo (dal punto di vista dell' "automobile come libertà") quanto gli interventi nel campo delle tariffe dei mezzi collettivi. Avranno un significato pienamente "liberale" se i loro proventi, oltre a scoraggiare l'im­piego dell'automobile, aiuteranno a realizzare un sistema di tra­sporto collettivo efficace.

Certo è, però, che rendere le "città senza automobili" richiede uno sforzo molto consistente per la realizzazione di servizi collettivi di trasporto efficienti. Uno sforzo, in primo luogo, di coordina­mento. Si può mai pensare, in un paese appena appena evoluto, che Ferrovie, metropolitane, autobus e parcheggi vadano ciascuno per conto suo? L'integrazione dei modi del trasporto é una necessità as­soluta.

E uno sforzo, in secondo luogo, finanziario. Dove attingere per gli investimenti (in conto capitale e in conto per le spese correnti) che sono necessari? Varie ipotesi sono state formulate. Ma a noi non sembra che si riesca a fare quanto è necessario se non si rinun­cia all'illusione di poter fare, contemporaneamente tutto: in partico­lare, per poter dare priorità, insieme, alla realizzazione di reti urba­ne e regionali efficienti e alla prestigiosa alta velocità. Governare è, in primo luogo, scegliere.

Attenti a Metropolis

Un patrimonio di 16mila-21mila mi­liardi, che "con gli opportuni investi­menti" può arrivare a valere 60mila miliardi di lire. Con queste ci­fre i giornali danno notizia della costituzione di Metropolis, la so­cietà cui l'Ente Ferrovie affiderà il compito di riqualificare e valo­rizzare il patrimonio ferroviario.

Ci si domanda se la costituzione di un'apposita struttura finaliz­zata alle operazioni immobiliari non renderà più aggressiva la ten­denza delle Ferrovie di partecipare in grande scala alla nuova specu­lazione sulla città. Su questa tendenza l'ente diretto da Lorenzo Necci si era già mosso con una certa grinta innovativa. Architetti prestigiosi hanno studiato i nodi ferroviari delle maggiori città ita­liane, e in più d'una sono state configurate operazioni di nuova edi­ficazione dei vastissimi piazzali ferroviari obsoleti e delle stazioni ferroviarie che sarebbe opportuno trasferire. Solo a Roma, si parla di una proposta dell'Ente Ferrovie (con il quale, evidentemente, il Comune è interessato ad avere un buon rapporto) per la costruzione di 8 milioni di metri cubi.

Saremo dei "vetero urbanisti", ma a noi piacerebbe che il destino di queste aree fosse determinato dagli interessi della città, e non da quello di un' azienda per quanto prestigiosa e utile nella sua attività primaria. E ci piacerebbe anche che l'Alta velocità (e gli altri pro­grammi di adeguamento della rete del ferro e del servizio collettivo del trasporto) non fosse finanziato da una più potente speculazione fondiaria.

LA "DAZIONE AMBIENTALE"



Non vo­gliamo assol­vere né i corruttori né, tanto meno, i concussori. Tuttavia ci sembra che la "dazione ambientale" (per usare il brutto ma efficace neolo­gismo del giudice Di Pietro) induca a guardare un pò al di là della morale e del codice. A guardare, appunto, all'"ambiente" in cui la "dazione", lo scambio dell'"obolo" contro la compiacenza amministrativa, ha potuto così ampiamente e perversamente allignare.

Scrivevamo su queste pagine, ancora nel 1986, rivolti in quell'occasione ai senatori che stavano discutendo le proposte in materia di riforma urbanistica: "Siamo convinti, e non da oggi, che l'attuale regime degli immobili sia una delle cause più gravi della pubblica corrizione. Se é da un atto discrezionale dell'amministrazione che discende il fatto che un immobile (...) vale 10 e il vicino vale 10mila, é facile comprendere che l'humus sul quale nasce la corruzione é fecondato dal più fertile dei conci­mi" (n.86). Sempre su queste pagine, commentando il bilancio di un trentennio di Corte costituzionale e denunciando l'affermarsi della prassi dell'"urbanistica contrattata", scrivevamo ancora: "Non ci stanchiamo di sottolineare il potenziale di corruzione che simili procedure contengono. La mancanza di riferimenti certi, chiari e costanti nella determinazione dei valori immobiliari é la matrice della discrezionalità più sfrenata, del soggettivismo più devastante, delle tentazioni più turpi" (n.87).

Dell'"urbanistica contrattata" Milano è stata la culla. Nel presentare il dossier che questa rivista ha dedicato all'urbanistica milanese Campos Venuti ha scritto che "il caso di Milano é quello più rappresentativo della deregulation urbanistica italiana" e che, nella metropoli lombarda "la deregulation urbanistica e l'urbanistica contrattata si sono manifestate più esplicite che altrove", al punto che "il non piano è stato apertamente teorizzato" (n.107). Nello stesso numero, ricordando che Milano non è sola (richiamavamo alla memoria dei lettori gli altri casi di Napoli e Trieste, Roma e Fi­renze), ribadivamo in queste Note le ragioni della nostra preoccu­pazione per il dilagare dell'"urbanistica contrattata". Tra queste, il fatto che essa "riduce fortemente la strasparenza del processo delle decisioni e aumenta la discrezionalità dei singoli amministratori e delle segreterie dei partiti a discapito del potere delle istituzioni".

Il giudice Di Pietro, e quanti con lui hanno collaborato, hanno insomma sollevato il coperchio d'una pentola di cui era facile av­vertire il tanfo. Benemerita é certo la loro azione, ma non è suffi­ciente. Basta a restituire fiducia nella prevalenza del codice penale sugli interessi personali, di cordata e di partito, e non è poco. Ma non basta, da sola, a sterilizzare l'ambiente della "dazione".

Occorrono anche altri interventi, altre iniziative tenacemente co­struite e gestite, altre strategie e altre incursioni, in campi che hanno a che fare con codici diversi da quelli impugnati dal corag­gioso magistrato: i codici della politica, dell'amministrazione, dell'urbanistica infine.

Occorre la capacità di trasferire la conclamata volontà di trasparenza in un sistema di regole non derogabili, non soggette a "variante". E oltre alle regole che riguardano (e che devono impedi­re) l'invadenza dei partiti negli organismi di gestione, oltre a quelle che riconducano la politica da una parte, l'amministrazione dall'al­tra, all'interno dei loro impegnativi campi di responsabilità, occorrono le nuove regole per il governo del territorio, per l'urba­nistica. Occorre insomma ripristinare la legittimità, e valorizzare il ruolo, della pianificazione territoriale e urbana.

Questa, la pianificazione, è stata accusata d'essere un insieme di "lacci e lacciuoli"; rispettarli, avrebbe forse evitato a qualcuno le manette.

La stagione è forse opportuna per riproporre il problema di quale debba essere il centro dell’azione e della riflessione dell’urbanistica: quel centro che, volta a volta, è stato visto nella razionalizzazione dei processi di uso del territorio o nella riforma del regime dei suoli, nelle conquiste ( e delusioni) sul terreno legislativo o nella pratica amministrativa e tecnica degli enti locali, nel ruolo delle regioni o nel nodo del “livello intermedio”.

In una fase in cui, per cambiare quel che c’è da cambiare, tutto è posto in discussione, è probabilmente opportuno partire da una base molto elementare, da una matrice indiscutibile: dall’affermare, cioè, che l’oggetto primordiale della nostra disciplina, al quale bisogna guardare con un’attenzione più marcata, e certo più incisiva e coerente, è il territorio, come realtà fisica nella quale è sedimentata e materializzata la storia della nostra civiltà e che costituisce non solo una primaria risorsa economica, ma la base stessa per la sopravvivenza, e per ogni possibile sviluppo, della nostra società.

A questa considerazione, molti eventi e molte esigenze, anche esterni, sollecitano. Le frane, gli smottamenti, le alluvioni, gli inquinamenti mortiferi (Severo) o morbosi (le metropoli, le fabbriche, i fiumi, i mari): i fatti, insomma, della vita e della cronaca quotidiana sono una prima indubbia sollecitazione in tal senso. Ma come non riconoscere e ricordare che l'impegno per la preservazione della base materiale della nostra esistenza è il portato della “tradizionale” cultura urbanistica italiana (quella dei Piccinato, dei Detti, degli Astengo)? Che gli effetti che oggi registriamo sono la derivazione immediata di cause lucidamente indicate, e combattute dai protagonisti della storia del nostro stesso istituto?

E c'è una seconda sollecitazione che spinge nella medesima direzione. Essa sta nel fatto che oggi, nel clima di diffusa sfiducia verso i temi e i modi più tradizionali dell'azione politica, una delle poche spinte sociali che esprimono una resistenza e una reazione nei confronti delle tendenze al riflusso verso il “privato” o al ripiegamento verso il “corporativo”, è quella che si manifesta nelle azioni e rivendicazioni e proteste e proposte sul tema dell'ambiente e della sua difesa: una spinta aggregante che va al di là delle pur rilevanti formazioni e organizzazioni ecologistiche. Le esigenze in tale direzione espresse, nelle quali è riconoscibile la vitale attenzioni di nuovi strati sociali verso il territorio, sono davvero distanti dalla nostra disciplina?

Ancora. È chiaro a tutti (fuorché ad alcuni “potenti”) che l'era dell'espansione è terminata. Ed è chiaro a noi che il tema determinante è oggi quello di «legare e cucire» (come scrive Bernardo Secchi); quello insomma di recuperare e riutilizzare e ricomporre case e infrastrutture, centri antichi e periferie moderne, tessuti degradati e tessuti sbrindellati. Ebbene, il recupero va limitato ad alcune “aree” o “zone”, è il contenuto di alcuni piani, o deve diventare il parametro essenziale dell'insieme della nostra azione? E non è allora il territorio in quanto tale, nella sua specificità fisica, storica, economica, sociale, nella sua unità strutturale e nelle differenze delle sue connotazioni e delle sue “densità”, a dover essere l'oggetto primario di ogni analisi e il punto di partenza di ogni progettazione della “città futura”?

Un'ultima considerazione. È viva l'esigenza (ne parlerà il presidente dell'Inu nella relazione al congresso di Genova) di ribadire e rafforzare l'autonomia dell'istituto dai partiti (come dai sindacati, dalle accademie e dalle altre organizzazioni e dimensioni della società). Ed è ovvio che questa autonomia ha un senso, ed è feconda di risultati anche sulla politica e sui partiti, se essa è l'espressione di un punto di vista, di un approccio alla realtà, di una dimensione dei problemi che sia propria della nostra disciplina, e a cui questa sia in grado di offrire sbocchi di analisi e di proposte. Dove ha sede, però, la matrice della distinzione che non ci oppone, ma ci distingue dalla politica e ci colloca con essa in posizione dialettica?

Sta, forse, nel fatto che la politica, in democrazia, è fortemente condizionata dalla ricerca del consenso, ed è quindi prevalentemente tesa alla conquista del consenso, ed alla soddisfazione delle esigenze, che si manifestano qui e oggi. Mentre, viceversa, l'urbanistica, proprio perchè ha quale proprio centro ed oggetto la difesa e valorizzazione e trasformazione del territorio secondo modi che non lo neghino ma ne esaltino le qualità, impone ed esige di guardar lontano e avanti: pretende la lungimiranza di chi, per mestiere, sa che occorre salvaguardare oggi e prevedere oggi, per rendere possibili condizioni di vita domani, esigendo la vista su un domani anche lontano.

Con un po’ d'ambizione, e con molto schematismo potremmo dire che la politica si occupa soprattutto degli uomini di oggi, e l'urbanistica soprattutto degli uomini di domani; e ciò proprio perchè essa si occupa di quel particolare oggetto che è il territorio come sede della vita e dell'attività degli uomini del presente e del futuro. È allora il caso, anche per questo, di occuparsi in modo più attento dell'oggetto (vorrei dire del protagonista) della nostra disciplina. E non sarebbe male proporci l’impegno di redigere, pubblicare, divulgare (e tentare di rendere efficace) una carta dei diritti del territorio): che, alla fine, coinciderebbe con la carta dei diritti dell’uomo di domani.

Il suo obiettivo era rendere la città più bella e funzionale. Aveva colto due punti centrali della verità dei suoi e dei nostri tempi. Aveva colto due insegnamenti della storia che hanno permeato la cultura degli urbanisti e degli amministratori quando i valori e le esperienze dell’Europa democratica, dopo l’eclissi fascista, rientrarono nel nostro paese. Due insegnamenti che oggi molti sembrano aver smarrito.

Il primo. La città non è un ammasso di case, non è il mero risultato quantitativo dell’aggregazione di edifici e di persone, non è il cieco prodotto del mercato. È una creatura sociale, un prodotto del lavoro collettivo e storico, e in quanto tale ha un’individualità che trascende la somma delle individualità che la compongono. Ed è un prodotto destinato a durare, a rimanere nel tempo uguale a se stesso pur nel succedersi delle sue trasformazioni. È quindi un oggetto che deve essere progettato e riprogettato di continuo, con una regia che non può essere che pubblica.

Il secondo. La base necessaria per la bellezza e la funzionalità della città è la proprietà indivisa del suolo urbano: le sue parti, i suoi “lotti” e i suoi spazi, possono essere usati dai cittadini, dalle famiglie, dalle aziende, ma la collettività deve restare padrona della propria base. Tra gli effetti negativi di quella grande ventata liberatrice dell’ingegno e dell’attività umana che fu la rivoluzione borghese, il primo, nei paesi dell’Europa continentale, fu quello di liquidare questa necessità pratica. La sconfitta dell’ancien régime aveva provocato la privatizzazione del suolo urbano:

“Nella notte tra il quattro e il cinque agosto 1789, la nobiltà francese non aveva forse abbandonato i suoi privilegi e la sua proprietà fondiaria insieme a tutti i tributi e le prerogative? Il suolo era dunque divenuto libero. Non era più proprietà e titolo di diritto della nobiltà o del clero ma dei cittadini e dei contadini cui veniva venduto o assegnato. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune. In tutte le discussioni aveva sempre la meglio il sentimento di libertà e di indipendenza appena riconquistate. Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune[1].”

L’appropriazione privata del suolo urbano ha costituito, per la città e la società che la abita, una sciagura colossale. È nata la speculazione:

“Ognuno vendeva il proprio fondo al prezzo più alto possibile. Lo sfruttamento speculativo del terreno da parte delle società fondiarie fu condotto con metodo.[…] La rendita più alta si ottiene dal terreno maggiormente sfruttabile: un’area su cui sia consentito costruire edifici di cinque piani, frutta più di un’area dove, secondo la legge edilizia in vigore, si possono costruire edifici di due o tre piani al massimo. In egual modo un’area edificabile per i tre quarti della superficie frutta una rendita maggiore rispetto ad una edificabile solo per un quarto o un quinto. La rendita ed il prezzo di vendita del terreno saranno tanto più alti, quanto più alto sarà il numero di appartamenti e negozi edificabili su di una determinata superficie. Come la speculazione fondiaria aveva imposto il gran numero di lotti d’angolo, anche l’edilizia riuscì ad imporre i cinque piani [2].”

La bellezza è stata sostituita dall’arricchimento del proprietario, il progetto non è più «lavoro creativo, ma un semplice problema di calcolo». E se «nella loro impotenza molte città istituirono a fianco della vigilanza per gli aspetti tecnici dell'edilizia anche una vigilanza estetica», presto «le sentenze [di quest'ultima] furono sentite non a torto come un'inopportuna intromissione in faccende private». Se la città non è proprietaria del suolo sul quale nasce e si sviluppa, il suo potere diventa subalterno, l’iniziativa passa ad altre mani: «Non potendo rifiutare progetti edilizi insoddisfacenti, la città è costretta ad accontentarsi di proporre solo miglioramenti, ecco perché la mediocrità predomina sempre»[3].

Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però, comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero. Ora invece non è più così: ora accade che

“[...]quando la città progetta di costruire una struttura pubblica come un parco, uno stadio, una scuola, una caserma dei vigili del fuoco o un cimitero, per reperire il terreno deve rivolgersi ai proprietari privati. Questi si mettono a disposizione sorridendo, ma lasciano cortesemente intendere che potrebbe essere una faccenda piuttosto costosa. Si inizia a trattare, a tirare sul prezzo e quanto più il terreno risulterà adatto agli scopi previsti, tanto più alto sarà il prezzo fissato dal proprietario. Il rappresentante del comune deve spesso abbandonare il gioco stringendosi nelle spalle. Cercare l’area adatta diventa una via crucis per molti edifici pubblici, perché un teatro, un museo o un municipio non possono accontentarsi di appezzamenti casuali. […]Per questo le nostre città difettano di aree libere per gli adulti e di parchi giochi per i bimbi. Occorre pagare un alto prezzo per il terreno [4].”

Per restituire funzionalità all’organismo urbano, per correggere gli effetti della privatizzazione del suolo la società ha dovuto ricorrere a strumenti parziali: gli espropri là dove le strade dovevano essere realizzate e dove la città doveva essere risanata o ristrutturata, la zonizzazione là dove occorreva regolare in modo differenziato l’edilizia, le sue utilizzazioni, i suoi rapporti col suolo. E’ nata così la pianificazione urbanistica, come strumento inventato per risolvere problemi che il mercato era incapace di affrontare[5].

Gli strumenti regolativi e autoritativi che la borghesia ha via via inventato per tentar di condizionare la perdita della disponibilità del suolo si sono rivelati in effetti strumenti utili per correggere gli errori più macroscopici e soddisfare le esigenze più urgenti: ma ciò è avvenuto solo là dove il potere della città (la politica, l’amministrazione) ha saputo contrastare con decisione il potere della proprietà immobiliare, sconfiggendolo o piegandolo. Quegli strumenti non sono stati mai utili all’interesse collettivo quando il potere pubblico è sceso a patti con i “poteri forti” della città, né tanto meno quando – come nell’attuale clima politico – si è addirittura proposto di rovesciare secoli di storia ed esercitare la pianificazione del suolo urbano mediante «l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi»[6].

Nel pensiero di Bernoulli l’esigenza pratica (il suolo deve essere indiviso perché la città possa essere bella e funzionale) si salda con l’esigenza morale: non è giusto che un bene comune, la terra, sia occupato dal primo che se ne impossessa, o dal più avvantaggiato dalla ricchezza o dal potere. Notevole è in lui l’influenza del pensatore statunitense che l’aveva da poco preceduto, Henry George (1839-1897)[7].

Per George l’appropriazione privata della terra era, nel mondo contemporaneo, un’illogicità palese:

“ […] far derivare un diritto individuale esclusivo e pieno all’uso della terra dalla priorità di occupazione, gli è questa, se possibile, la più assurda base, su cui uno possa collocarsi per difendere la proprietà della terra. La priorità di occupazione dare un titolo esclusivo e perpetuo alla superficie di un globo, su cui, nell’ordine della natura, generazioni innumere si succedono! O che gli uomini dell’ultima generazione avevano forse maggior diritto all’uso di questo globo che noi della generazione attuale? O lo ebbero quelli di cento, di mille anni fa? […] O che il primo arrivato ad un banchetto avrà il diritto di capovolgere le sedie e di pretendere che nessuno degli altri invitati tocchi la mensa apprestata, se prima non sia venuto a patti con lui? E chi primo presenta un biglietto alla porta di un teatro ed entra, acquisterà per questa sua priorità il diritto di chiuder le porte e di avere la rappresentazione per sé solo? E il viaggiatore che primo sale in vagone avrà il diritto di occupare coi suoi bagagli tutti i posti e di costringere quelli che salgono dopo di lui a starsene in piedi?[8]

Invero ciò che spingeva George a criticare la proprietà fondiaria e a denunciarne l’illogicità non era solo una sollecitazione morale, ma una precisa esigenza economica. L’obiettivo di George (tipografo autodidatta, ma attento lettore di Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mills) era quello di abolire le tasse sul reddito, che deprimevano produzione e consumo, per instaurare un’imposta unica sulla proprietà della terra. L’obiettivo che proponeva era contrastare con l’imposizione fiscale il peso della rendita; eliminare così, o fortemente ridurre, la taglia che questa pone allo sviluppo delle forze produttive, per potere liberare queste (liberare il profitto e il salario) e consentire alla loro dialettica di proseguire lo sviluppo della produzione e, per questa via, eliminare la povertà.

È interessante ricordarlo oggi, in Italia. La destra italiana è da tempo abissalmente lontana da quella del liberalismo e del liberismo dei Croce e degli Einaudi , e la borghesia del nostro paese è sempre stata più abile a stimolare l’accrescimento dell’assistenzialismo e del parassitismo di Stato che a impiegare innovazione e competizione per lo sviluppo della produzione. Ciò nonostante, non molti decenni fa l’obiettivo della riduzione del peso della rendita immobiliare era condiviso da un arco ampio di forze politiche e sociali, che andava dal pci a parti consistenti della dc, dai sindacati dei lavoratori a esponenti di spicco del mondo imprenditoriale. Oggi quell’obiettivo è scomparso su quasi tutti i versanti dello schieramento politico.

Attivo nel dopoguerra in molte città europee come urbanista e conferenziere, Bernoulli propagandò le sue idee e le sue esperienze nel fervido terreno della ricostruzione posbellica. La sua fama giunse anche in Italia. Il libro per il quale è più noto, La città e il suolo urbano, fu tradotto da Luigi Dodi e pubblicato da Vallardi nel 1951. Ebbe un peso notevole sulla cultura urbanistica italiana di quegli anni: gli anni fecondi in cui, nelle esperienze dei paesi dell’Europa socialdemocratica, si cercarono soluzione adeguate a rendere migliori le nostre città. Le argomentazioni dell’urbanista elvetico alimentarono il dibattito che sfociò nelle proposte di “riforma urbanistica” degli anni Sessanta. Si aprì allora quel vasto e inconcluso “processo di riforma” che non giunse a sciogliere il nodo della disponibilità dei suoli urbani, e condusse invece, fino alla conclusione del decennio successivo, a risultati parziali ma significativi: le leggi per sottrarre la condizione abitativa all’arbitrio totale del mercato, quelle per rafforzare il potere pubblico e generalizzare la pratica della pianificazione, quelle infine (last but not least) per sottrarre quantità adeguate di aree agli usi privati e al primato della speculazione per destinarle ai servizi collettivi e al verde.[9]

In realtà il peso della rendita nel sistema economico-sociale (e nel sistema di potere) dell’Italia postunitaria era ben più grave di quanto non fosse negli altri paesi dell’Europa. Il modo stesso in cui si era giunti alla formazione dello Stato unitario (un compromesso, di portata storica, tra la borghesia imprenditoriale e agraria del Nord e la feudalità latifondista e parassitaria del Sud) aveva costituito nella rendita fondiaria, e nelle classe sociali che ne beneficiavano, una delle colonne del potere condiviso della nuova direzione politica dello Stato. La trasformazione della rendita fondiaria agraria in rendita urbana, sapientemente descritto da Bernoulli nelle sue caratteristiche generali, era divampata in Italia ed era proseguita ininterrottamente in tutte le fasi di trasformazione demografica e d’espansione delle città che si sono susseguite (fatte salve le pause belliche) dall’Unità alla ricostruzione del secondo dopoguerra.

Non è casuale il fatto che l’utilizzazione delle tesi di Bernoulli e il dibattito sulla “riforma urbanistica” siano avvenute in Italia proprio in quel decennio. Negli anni Cinquanta del secolo scorso si cominciava a modificare sensibilmente lo scenario, sul terreno dei fatti e su quello delle consapevolezze.

Si era conclusa la fase della ricostruzione della base materiale del paese. Case, strade, ferrovie (le fabbriche erano state salvate dalla distruzione grazie alla resistenza della classe operaia) erano state ricostruite, con un massiccio ricorso all’attività di imprese edilizie frettolosamente allestite. Era appena stata approvata, nel periodo bellico, una buona legge urbanistica nazionale[10]. Ma gli strumenti della pianificazione da essa previsti erano stati presto accantonati, nella convinzione che ciò avrebbe significato liberare l’attività edilizia da lacci e lacciuoli, accelerando così la ricostruzione. Ciò avvenne, ma rendendo invivibili le città e devastando il territorio in vaste aree del paese.

Nello stesso periodo l’Italia, abbandonando l’autarchia imposta dal regime fascista, era entrata nel mercato mondiale. Per stimolare la ripresa della produzione industriale in settori in cui si riteneva più facile vincere la competizione con le imprese straniere, si promosse l’espansione della domanda di beni di consumo durevoli: primo fra tutti l’automobile. Si costruirono autostrade e si sostennero le industrie dell’automobile e dei pneumatici, ma si rinunciò alla ricerca di modalità collettive per risolvere problemi di massa, quale quello della mobilità. La rapida trasformazione dell’economia da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale provocò l’abbandono delle campagne e delle aree del Meridione e l’espansione incontrollata delle città e delle aree industriali del Nord. Aumentò così la congestione urbana.

La crescita della democrazia e l’ingresso delle donne nel processo produttivo aumentarono la domanda di servizi sociali, di verde pubblico, di asili e scuole. Aumentava insomma la domanda di aree per le esigenze collettive: ma l’urbanizzazione era dominata dalla speculazione, ogni lotto era utilizzato per costruire abitazioni vendibili. La carenza dei servizi che man mano divenivano essenziali, la mancata disponibilità di alloggi a prezzi moderati, le condizioni del traffico urbano, tutto ciò incideva pesantemente sui costi della vita. La spinta salariale divenne irresistibile: attraverso il carovita la rendita urbana e le disfunzioni della città premevano sul profitto.

L’imprenditoria più avanzata, che aveva raggiunto livelli competitivi con l’industria estera, cominciava a sentire ormai la rendita (e i suoi effetti sull’organizzazione urbana) come un ostacolo. Nelle regioni del Nord e del Centro l’ambiente sociale e quello economico divenivano favorevoli alla ripresa delle pratiche razionalizzatici della pianificazione urbanistica; e questa, infatti, governò, o almeno controllò, le trasformazioni delle regioni a Nord della Capitale.

Il tentativo di applicare quasi alla lettera la proposta di Bernoulli (realizzare l’espansione della città su suolo preliminarmente reso pubblico e concedere agli operatori il solo diritto di utilizzazione) fu coraggiosamente esperito da un ministro democristiano, Fiorentino Sullo. Egli propose una legge di riforma urbanistica che prevedeva che l’espansione delle città avvenisse, in modo generalizzato, su aree acquisite al patrimonio pubblico dei comuni e assegnato agli utilizzatori non in proprietà ma in uso, per un numero determinato di anni (“diritto di superficie” per 99 anni rinnovabili). Ma il blocco di potere che nei decenni si era saldato attorno alla rendita e all’attività edilizia frustrò il tentativo. Alla vigilia delle elezioni del 1963 il ministro fu sconfessato dal suo partito, sostituito nel nuovo governo. La sua proposta di legge venne ripresentata per più legislature dal pci, senza fortuna. Il vento aveva girato[11].

Si può dire che, da allora, la lotta per la riappropriazione del suolo urbano da parte della collettività si è trasformata da guerra dichiarata a guerriglia, si è ridotta da battaglia campale a un disordinato insieme di isolati episodi di lotta corpo a corpo, combattuti da qualche comune più avveduto o da qualche comitato di cittadini più agguerrito.

L’industria avanzata, dopo aver fornito occasionale sostegno ai tentativi di liberare profitto e salario dalla rendita [12], aveva trovato più comodo accomodarsi al banchetto della spartizione della ricchezza del paese. Non aveva investito il profitto nell’accrescimento del capitale industriale, cioè nell’accumulazione e nell’innovazione, ma aveva puntato in misura sempre più larga sulla rendita immobiliare e finanziaria.

Il tentativo di condizionare la rendita, di contrastarla con politiche urbanistiche orientate ad adoperare gli strumenti delle “piccole riforme” per migliorare le condizioni della vivibilità urbana (casa, servizi, trasporti, verde), è rimasta nelle mani delle amministrazioni locali. E’ soprattutto grazie a queste se in molte parti del paese le città hanno un certo ordine, se il rapporto tra spazi pubblici e aree private, tra spazi aperti e lotti edificati non è troppo distante da quello che si vede in altri paesi europei, se la vita urbana si svolge in condizioni decenti. Mentre è certamente al peso della rendita immobiliare, alla debolezza delle amministrazioni pubbliche, alla mancanza di una rigorosa e avveduta politica nazionale del territorio che si deve se, in altre parti del paese, il territorio è devastato e le città invivibili.

Si può dire che fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, sebbene fosse stata accantonata la speranza di un nuovo regime proprietario dei suoli urbani, la rendita immobiliare era comunque rimasta un soggetto pericoloso che occorreva contenere. Era rimasto intatto il principio che la città è un bene comune (la prima delle intuizioni di Bernoulli) e che quindi il suo governo, attraverso la pianificazione urbanistica, era responsabilità piena del potere pubblico. Il segno cambiò tra la fine degli anno Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.

Il potere politico, nel governo nazionale e nelle amministrazioni locali, non era più esercitato in funzione di interessi generali. Era diventato fine a se stesso. Il “partito” contava più dell’istituzione: la parte contava più del tutto. Per rafforzare la parte era lecito eludere la legge, fornire decisioni pubbliche per favorire interessi privati ottenendo in cambio una “tangente”. Le decisioni urbanistiche (insieme a quelle sulla gestione amministrativa) erano un terreno particolarmente favorevole al proliferare di queste pratiche. Se favorisco, con una variante al piano regolatore, il proprietario di un terreno perchè lui possa costruire edilizia da vendere il suo terreno vale di più, ottiene una rendita più elevata, può tagliarne una parte e regalarla sottobanco a me amministratore, o al mio partito.

Perchè ciò possa avvenire è necessario che la pianificazione non sia più un insieme di regole valide per tutti, formate in modo trasparente: così come la legislazione urbanistica, bene o male, impone di fare. Occorre che le scelte sul territorio siano contrattate tra i promotori immobiliari e l’amministrazione (o la segreteria del partito). Nacque così la pratica che ha preso il nome di urbanistica contrattata. Questa fu quindi, da una parte, l’espressione più piena di quel fenomeno che fu definito Tangentopoli[13], ma dall’altra parte fu una delle manifestazioni dello smarrimento di alcuni valori di fondo che la civiltà europea aveva sedimentato negli ultimi due secoli, nel tentativo di correggere alcuni errori più gravi del sistema capitalistico borghese e dell’economia di mercato, se non di superarne i limiti. Mi riferisco in primo luogo all’attribuzione al potere pubblico della responsabilità di decidere, con procedure trasparenti e partecipate, il futuro della città a partire dal suo disegno e dalle utilizzazioni dei suoli, superando la miopia delle scelte dettate da interessi individualistici. E mi riferisco in secondo luogo all’invenzione di strumenti di decisione che consentano di affrontare l’insieme dei problemi connessi al funzionamento della città, superando l’ottica frammentata del mercato.

Quando slogan come “privato è bello”, “meno Stato e più mercato”, “basta lacci e lacciuoli” divennero dominanti nell’area della destra e popolari in quella della sinistra, fu facile comprendere che era iniziata “la notte dell’urbanistica”[14]. Il terreno nel quale Hans Bernoulli (e altri saggi scrutatori della realtà) aveva gettato il suo seme era divenuto arido.

Tra gli urbanisti italiani, la fase che si aprì con Tangentopoli fu definita “controriforma urbanistica”. Era infatti il rovesciamento secco e l’antitesi di quella stagione di vera tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta.

Il punto più basso di questo vero e proprio declino della civiltà del governo urbano è stato probabilmente raggiunto nella stagione alla quale stiamo volgendo le spalle: quella dei reiterati condoni dell’abusivismo urbanistico, dello smantellamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, dell’assunzione del mercato a misura di tutte le cose, della privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica che abbia come obiettivi l’uguaglianza, la fraternità, la libertà. Il fenomeno più significativo è forse l’arroganza della nuova espressione del mondo della rendita, dei cosiddetti “immobiliaristi”.

L’incremento della rendita immobiliare che è stato promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata nei due decenni trascorsi è stato così consistente da consentire a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico, come la Banca nazionale del lavoro e il Corriere della sera. E’ stata documentata dalla magistratura la complicità di eccellenti organi istituzionali, come il Governatore della Banca d’Italia, ed è stata testimoniata dalla stampa la simpatia per gli “immobiliaristi” di insospettabili esponenti di gruppi politici, come il segretario nazionale dei ds.

Il documento più espressivo del clima degli anni che ci auguriamo siano alle nostre spalle è probabilmente la cosidetta «Legge Lupi»: in essa si proclama, e lucidamente si persegue, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa”, cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività “negoziale”, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[15].

Ma appaiono ormai all’orizzonte i segni di una svolta. L’aggravamento delle condizioni di vita nelle città (l’abitazione, il traffico, l’inquinamento) accresce la consapevolezza che occorre una politica regolatrice pubblica. I disastri che devastano il territorio e cancellano vite umane rivelano l’insensatezza delle pratiche che hanno consentito la trasformazione in una «repellente crosta di cemento e asfalto», come ripeteva Antonio Cederna. Il declino dell’industria italiana spinge a ricercarne le cause e ad individuarne una certamente non marginale nelle occasioni d’investimento alternative fornite dalle rendite finanziaria e immobiliare. Comincia a farsi strada la convinzione che il paesaggio, il territorio aperto, i beni culturali siano la ricchezza essenziale cui il paese può affidare il suo sviluppo, abbandonando i traguardi della crescita quantitativa della produzione di merci per costruire le prospettive “innovative” della messa in valore delle qualità dei beni storici, artistici, culturali, naturali dei quali il nostro territorio è intriso.

È maturo il tempo per rileggere le pagine di Hans Bernoulli, in una traduzione fedele alla pulizia e allo stile del linguaggio lirico nel quale fu scritto (l’urbanista era anche letterato e poeta), non per compiacersene, ma per trarne le conseguenze culturali e politiche.

[1] Qui pag. 35-36.

[2] Qui pag. 37, 38.

[3] Qui pag. 39.

[4] Qui pag. 39.

[5]Il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, può essere considerato quello di New York del 1811. La città aveva raggiunto 60 mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e depositi. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori. Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città.

[6] Il riferimento è al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005. Si veda in proposito Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”, Alinea editrice, Firenze 2005.

[7] Nato a Filadelfia nel 1830, morto a New York nel 1897, Henry George fece molti mestieri: marinaio, minatore, tipografo: Girò il mondo, prima e dopo aver scritto l’opera per la quale è noto. Progresso e povertà ebbe una notevole diffusione, non solo nei paesi di lingua anglosassone. Autodidatta, studiò l’economia sui testi dei classici dell’epoca, ma soprattutto sulle condizioni reali del mondo del lavoro. La sua teoria trasse ispirazione da David Ricardo e da John Stuart Mill; influenzò particolarmente il pensiero del socialismo americano ed europeo della fine del xix secolo.

[8]Henry George, Progresso e Povertà. Indagine sulle cause delle crisi industriali e dell’aumento della povertà in mezzo all’aumento della ricchezza. Il Rimedio, Robert Schalkenbach Foundation, New York 1963 (ristampa dell’edizione italiana utet, trad. di Ludovico Eusebio, Torino 1888).

[9] Mi riferisco in particolare: alla legge 167/1962, che promosse la costruzione di quartieri integrati socialmente e urbanisticamente, finanziati con risorse pubbliche e private, su terreni preliminarmente espropriati dai comuni, dotati di tutti i servizi necessari; alla legge 765/1967 e al successivo decreto 1444/1968, che generalizzarono la pianificazione urbanistica, regolarono le lottizzazioni a scopo edificatorio e imposero la presenza, nei piani urbanistici, di una quota minima di aree per il verde e i servizi pubblici nei piani urbanistici; alla legge 865/1971, che instaurò un’efficace sistema di programmazione statale, regionale e comunale per il finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica; alla legge 10/1977, che introdusse (sia pure ambiguamente) il principio che la facoltà di costruire non è una diritto appartenente alla proprietà ma il risultato di una concessione pubblica; la legge 392/1978, che rese omogeneo e governabile (ma non fu governato) il controllo pubblico sui prezzi delle abitazioni private.

[10] Legge 14 agosto 1942 n. 1150, «Legge urbanistica».

[11]Lo scandalo edilizio è il dolorante racconto della vicenda da parte del suo maggiore protagonista, Fiorentino Sullo. Un’analisi rigorosa della realtà sociale che provocò la sconfitta di Sullo è costituita dal saggio di V. Parlato, Il blocco edilizio, pubblicato sulla rivista Il Manifesto, nel n. 3-4 del 1970; ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972. E’ disponibile online in eddyburg.it.

[12] In un’intervista rilasciata al settimanale l’Espresso, Gianni Agnelli, presidente della fiat e dopo poco presidente della Confindustria, si dichiarò convinto “che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impreSa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire”. Citato in P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] «L'urbanistica contrattata è la sostituzione, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti» (Della Seta, Salzano, L’Italia a sacco, p. 100).

[14] Fu il titolo di una grande manifestazione popolare, organizzata da Vezio De Lucia e Antonio Bassolino, sulla spiaggia di Bagnoli, in occasione dell’approvazione della legge Berlusconi-Radice sul condono edilizio, nell’estate del 1994.

[15] Mi riferisco al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» approvato dalla Camera dei deputati ma decaduto non avendo avuto l'approvazione del Senato prima dello scioglimento del parlamento. Il testo del disegno di legge e un’ampia rassegna delle critiche sollevate è contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”.

Il sito delle edizioni Corte del Fontego

Non ha suscitato grande attenzione la presentazione di alcune proposte di legge in materia di governo del territorio (dall’on. Lupi e altri per la “ Casa delle libertà” e dall’on. Mantini e altri per la Margherita). Siamo molto lontani dal clima degli storici dibattiti sulla “ riforma urbanistica”, che investivano l’intera società. Del resto, non di riforma si tratta, ma di piccoli aggiustamenti. Spesso su punti di un certo rilievo. Spesso con soluzioni pessime.

Cominciamo dalle definizioni. Non si tratta più di “ urbanistica”, ma di “governo del territorio”. Per la proposta Lupi il governo del territorio consiste nella disciplina degli usi del suolo e della mobilità, nel rispetto della tutela del suolo, dell'ambiente e dei beni culturali e ambientali” (art.1, c. 2). Per Mantini, il governo del territorio “disciplina la gestione, la tutela, l'uso e le trasformazioni più rilevanti del territorio nonché la valorizzazione del paesaggio” (art. 1, c.2). Un po’ meglio Mantini, che – almeno a livello di definizione – inserisce la “tutela” (solo delle “trasformazioni più rilevanti”) e il “paesaggio” (ma solo la “valorizzazione”) tra gli aspetti da disciplinare; per Lupi si tratta schiettamente di altre cose, da “rispettare”.

Vale la pena di ricordare la classica definizione di urbanistica, elaborata da Massimo Severo Giannini e inserita nel decreto presidenziale 616 del 1977. Allora (altri tempi, altra Repubblica, altra cultura) si definiva l’ urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente” (art. 80). Una definizione ben più comprensiva e ampia.

Ma entriamo nel merito. Cominciamo dalla proposta della “Casa delle libertà”. Quattro aspetti mi hanno soprattutto colpito.

Il primo. Secondo Lupi la pianificazione del territorio avviene “sentiti i soggetti interessati” (art. 3, c. 2). Si precisa che “le funzioni amministrative” (la pianificazione) “sono svolte in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati ai quali va riconosciuto comunque il diritto alla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti” (c. 3). Fino ad oggi il piano urbanistico esprimeva la volontà ; dell’amministrazione elettiva, e solo dopo veniva sottoposta al parere dei privati. Adesso il procedimento è invertito: il piano è redatto sulla base delle espressioni di volontà dei “soggetti interessati”. Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di “soggetti intere ssati” ci si riferisca alla cittadina e al cittadino? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare.

Il secondo. Per la proposta Lupi “Le regioni individuano gli ambiti territoriali da pianificare e l’ente competente alla pianificazione” (art. 4, c. 1). Fino a oggi l’ambito e l’ente competente erano quelli dei comuni, della cui competenza a pianificare nessuno aveva mai dubitato. In nome dell’efficienza ci si propone di affidare alle regioni la facoltà di annullare una delle fondamentali storiche competenze dei comuni. E’ lecito sollevare dubbi molto seri su questo modo (è costituzionalmente corretto) di modificare la corrispondenza tra assetto istituzionale e titolarità della pianificazione urbanistica.

Il terzo. L’attuazione del piano urbanistico (è il titolo dell’ ;articolo 7) configurata dalla proposta Lupi non può essere illustrata in poche righe. Mi limito a osservare che, assumendo in pieno le posizioni in proposito dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, la “Casa delle libertà” sollecita l’impiego di “strumenti e modalità di perequazione e di compensazione” (art. 7, c. 2), e propone di introdurre per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di “diritti edificatori” i quali vengono attribuiti dal piano urbanistico nei modi che dovranno essere regolamentati dalla regione. Ciò palesemente significa ribadire e rafforzare i poteri della proprietà immobiliare. Tutta la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel sostenere che nessun “diritto edificatorio” (termine comunque assolutamente improprio, dicono i giuristi, perché non di un diritto si tratta ma di facoltà) viene attribuito da una scelta del piano urbanistico, e che quindi perequazioni e compensazioni possono essere strumenti utili dal punto di vista pratico (e come tali furono già introdotti dalla legge 1150/1942 e dalla 765/1967). Stabilire oggi per legge che i piani attribuiscono quel diritto significa quindi conferire alla proprietà fondiaria un peso che il diritto non le aveva mai riconosciuto 1 . Ma questo, evidentemente, è coerente con quel poco di impostazione “culturale” comune che le variegate componenti della “Casa delle libertà” possiedono.

Il quarto. La proposta Lupi prevede che il proprietario di un’area destinata a servizi pubblici (un parco, una scuola, un ospedale) può chiedere al comune “la realizzazione diretta degli interventi d’ interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’ amministrazione per la gestione dei servizi” (art. 7, c. 5). La questione dell’attuazione delle previsioni relative alla realizzazione e gestione degli spazi pubblici è certamente questione complessa, nell’ambito della quale il concorso dei privati nella gestione (e magari nella realizzazione) di certi impianti e attrezzature può utilmente essere configurato. Affrontata in modo così grezzo e semplicistico la proposta ha un solo significato, sintetizzabile in una frase: prosegue la marcia verso la privatizzazione di tutto ciò che, dopo la rivoluzione borghese del 18° secolo, si era mano a mano affidato al pubblico ne l corso dei successivi due secoli, per correggere le storture di un sistema imperfetto. Così, del resto, si sta procedendo nel settore del patrimonio pubblico esistente e dei beni culturali 2.

Questi sono allora, in sintesi, le tendenze più rilevanti (e i rischi più gravi) che si manifestano nella proposta di legge della “Casa delle libertà”: indebolimento del potere pubblico nei confronti dei privati e, in particolare, della proprietà immobiliare; devoluzione particolarmente ampia del governo del territorio al livello regionale; scissione della forma di governo che si esprime con la tutela da quella che si esplicita con le trasformazioni.

Non sono molto diverse le critiche che si possono muovere alla legge presentata dai deputati della Margherita (primo firmatario l’on. Mantini), sebbene in essa non manchino spunti interessanti e una certa maggiore dignità.

Cominciamo dalla questione, davvero centrale, del rapporto tra pubblico e privato. La proposta Mantini afferma che “il governo del territorio è ispirato al rispetto degli interessi pubblici primari indicati dalla legge e al perseguimento dell'interesse pubblico concreto individuato attraverso il metodo del confronto comparato tra interessi pubblici e privati” (art. 5, c. 2). Leggiamo la relazione per comprendere meglio. A proposito del “confronto comparato tra interessi pubblici e privati” vi si afferma: “Si evidenziano, in tal modo, la natura inevitabilmente pubblicistica della funzione e, nel contempo, la flessibilità e l'articolazione dei mezzi e degli strumenti (urbanistica negoziale, programmazione partecipata, società di trasformazione urbana, eccetera) superando gli anacronistici caratteri di unilateralità e di autoritativa tipici degli atti urbanistici tradizionali”. Il punto è che gli strumenti cui si riferisce (urbanistica negoziale, programmazione partecipata) sono i veicoli attraverso i quali non interviene nelle scelte un generico “ ;privato” (cittadina o cittadino, associazione o comitato portatore di interessi diffusi), e neppure un generico “privato economico” (operatori finalizzati alla realizzazione di impianti produttivi di merci o di servizi), ma quello specifico “privato economico parassitario” che, in Italia, è l’unico storicamente presente nelle “ negoziazioni” e “partecipazioni” in materia di trasformazioni urbane e territoriali. Possibile che non sappiano questo, l’on. Mantini e i suoi colleghi co-firmatari della proposta di legge? Evidentemente non lo sanno, dato che insistono su questa linea.

Nell’articolo che si riferisce alla “partecipazione al procedimento di pianificazione” la proposta Mantini distingue due categorie di soggetti: le “associazioni economiche e sociali” da una parte, e dall’altra parte i “cittadini” e le “associazioni costituite per la tutela di interessi diffusi”. Ma mentre per le prime si prevede “il coinvolgimento […] in merito agli obiettivi strategici e di sviluppo da perseguire”, per le seconde ci si limita ad assicurare “le forme di pubblicità e di partecipazione […] in ordine ai contenuti degli strumenti” di pianificazione(art. 7, c. 1). Due pesi e due misure, insomma. La Confedilizia, ad esempio, sarà “coinvolta” nella definizione delle scelte strategiche sullo sviluppo, la povera Legambiente, invece, sarà informata dei “contenuti” del piano.

Ma non basta. Per garantire ulteriormente gli interessi economici tradizionali, si propone di prescrivere che “nell'ambito della formazione degli strumenti che incidono direttamente su situazioni giuridiche soggettive deve essere garantita la partecipazione dei soggetti interessati al procedimento, attraverso la più ampia pubblicità degli atti e dei documenti comunque concernenti la pianificazione, assicurando il tempestivo e adeguato esame delle osservazioni dei soggetti intervenuti e l'indicazione delle motivazioni in merito all'accoglimento o meno delle stesse”.

Chi sono i soggetti sulla cui “situazione giuridica soggettiva” il piano può incidere? I giuristi rispondono: i proprietari immobiliari. Per questi è definita, ope lex Mantini et alii, una corsia privilegiata. I loro interessi non sono tutelati solo, come oggi spesso avviene, dall’assessore compiacente o dal funzionario infedele, ma dalla stessa legge!

Un interessante risvolto è costruito dall’articolo che si riferisce agli “accordi con i privati”. Si afferma che “gli enti locali possono concludere accordi con i soggetti privati, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell'atto amministrativo e attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi, al fine di recepire negli atti di pianificazione proposte di interventi, in attuazione coerente degli obiettivi strategici contenuti negli atti di pianificazione e delle dotazioni minime di cui all'articolo 9, la cui localizzazione è di competenza pubblica” (art. 8, c. 1).

Questo dovrebbe significare che i proprietari immobiliari (ciascuno dei quali non è certo in condizioni di concorrenza, poiché è proprietario di un unico bene, ben individuato e definito) sono esclusi dagli “accordi”. Eccezione rispetto a una linea compiacente con gli interessi immobiliari? Errore?

Anche la proposta Mantini separa nettamente il governo delle trasformazioni da quello delle tutele. Si comincia dall’esercizio delle funzioni statali: precisamente, dal contenuto delle decisioni territoriali dello Stato attraverso “l’identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale” (DPR 616/1977).

Queste riguardano unicamente la “articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, dei principali interventi ambientali e di trasformazione mineraria” nonché la “promozione di programmi innovativi in ambito urbano che implicano un intervento coordinato da parte di diverse amministrazioni dello Stato e sono dichiarati di interesse nazionale” (art. 2, c. 1).

Del tutto “separate”, fin dal titolo dell’ articolo 3 che le concerne, le tutele. “Le competenze degli enti parco, delle autorità di bacino, delle sovrintendenze com petenti per i beni storico-artistici e ambientali nonché dei soggetti titolari di interessi pubblici incidenti nel governo del territorio sono definite dalla legislazione statale e regionale ed esercitate in raccordo con gli atti di pianificazione di cui alla presente legge, con l'obiettivo di coordinare, attraverso sedi di co-decisione e intese procedimentali, le tutele settoriali con gli atti di pianificazione urbanistica e territoriale”. Separate, e ovviamente “raccordate”: il che significa nulla (art. 3, c. 1).

Sviluppo da una parte, insomma, tutele dall’altro. Questa separazione è la negazione della pianificazione; è il contrario della sintesi necessaria per trasformare tenendo conto dell’insieme delle esigenze; è una delle cause dell’inefficacia delle scelte, paralizzate dai veti che nascono quando, ad esempio, un traforo per un’infrastruttura o il tracciato di un’altra minacciano una risorsa idrica o una foresta preziosa o un rilevante paesaggio rurale. I conflitti che nascono a posteriori sono evitabili unicamente da quella negoziazione a priori tra gli interessi collettivi in cui risiede la pianificazione territoriale (e la politica).

L’on. Mantini e i suoi colleghi si sono resi conto del problema, e hanno tentato di risolverlo in un successivo articolo; ma non ci sono riusciti. A proposito di “concertazione istituzionale” propongono infatti di stabilire che “ gli atti di pianificazione sono approvati da parte dell'ente competente previa certificazione e verifica di compatibilità con il sistema dei vincoli di natura ambientale e paesaggistica” (art. 6, c. 2). Come avviene però la verifica di compatibilità? “Le verifiche di compatibilità e di coerenza, ove comportino conflitto di previsioni, sono svolte attraverso una apposita conferenza di pianificazione, con la partecipazione degli enti pubblici competenti e dei soggetti concessionari dei servizi pubblici interessati”. Bene. Allora, se il titolare di un interesse ambientale e paesaggistico vuole opporsi a una decisione in contrasto con il bene protetto può farlo? No. Il medesimo comma prosegue e stabilisce che “le decisioni relative al mutamento degli assetti vigenti sono assunte, in difetto di unanimità, a maggioranza dei soggetti partecipanti” (art. 6, c. 3).

Una novità interessante che la proposta Mantini vuole introdurre riguarda le zone agricole. Mantini e i suoi co-firmatari propongono di prescrivere che “il territorio non urbanizzato è edificabile solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente” (art. 8, c. 1). Affermazione giustissima, ma timida. Le opere e le infrastrutture pubbliche sono tra le trasformazioni che più, e spesso più inutilmente, hanno devastato i paesaggi naturali e rurali nel nostro paese (non così in moltissime altre regioni d’Europa). Tra i “servizi per l’agriturismo” legislatori regionali distratti o compiacenti potrebbero includere tutto, e molto potrebbero lasciar passare tra “servizi all’agricoltura” accompagnati da leggi derogatorie sulle conversioni d’uso (quanti magazzi ni e depositi agricoli sono stati legittimamente convertiti in discoteche?). Forse è arrivato il momento di prescrivere che il paesaggio rurale deve avere lo stesso livello di protezione che, negli anni Sessanta, cultura e opinione pubblica riconobbero necessari per i centri storici.

Per concludere. Nonostante le indubbie differenze (tra queste merita d’ essere segnalata l’impostazione corretta che la proposta Mantini formula per la perequazione e le compensazioni), tra le due proposte si colgono numerosi elementi di omogeneità culturale, riconducibili in parte alle posizioni dell’attuale gruppo dirigente dell’INU, in parte alla nevrosi federalista che da tempo colpisce la maggioranza del Parlamento italiano. Stupisce che nessuna delle formazioni politiche della sinistra (né il DS, né Rifondazione comunista, né i Comunisti italiani, né i Verdi) abbiano, se non anticipato, almeno reagito con una proposta alternativa.

La pianificazione d’area vasta, nel nostro paese, non nasce nel 1990. Non nasce con la legge 142, “Nuove norme sull’ordinamento degli enti locali”. Nasce molto prima, sia come esperienze concrete sia come esigenza, dibattito, sperimentazione e ricerca di soluzioni giuste: soluzioni, cioè, culturalmente fondate, amministrativamente valide, politicamente praticabili. Se si vuole comprendere lo stato attuale della pianificazione d’area vasta, i suoi problemi, le sue difficoltà e i suoi successi, è della sua storia che occorre avere consapevolezza.

Lo strano decennio

Della pianificazione d’area vasta si cominciò a parlare e a discutere, e a lavorare, in quello strano decennio del XX secolo (grosso modo dalla fine degli anni Venti all’inizio dei Quaranta) che separa tra loro la grande crisi esplosa a Wall Street e la Seconda guerra mondiale. E si cominciò a farlo non solo negli USA e in Gran Bretagna, ma anche in Italia.

Tra le esperienze italiane vorrei ricordare la bonifica delle Paludi pontine e la conseguente realizzazione di città e paesi, di canali, strade e ferrovie, di zone industriali e di parchi. Tra gli istituti amministrativamente validi (quegli istituti giuridicamente fondati che quasi sempre seguono le esperienze pratiche e tentano di generalizzarne gli esiti) vorrei ricordare due delle figure pianificatorie introdotte dalla legge 1150 del 1942: il piano intercomunale in primo luogo, che avrebbe dovuto consentire di governare le trasformazioni territoriali nelle aree più dense, e il piano territoriale di coordinamento, che avrebbe dovuto consentire il governo delle realtà più ampie: quelle che dalla dimensione dell’intercomunalità si allargano a quella, appunto della “area vasta”.

Decenni di silenzio

Perché per mezzo secolo la pianificazione d’area vasta non è stata praticata se non eccezionalmente? Le ragioni di fondo sono ormai acquisite alla storiografia urbanistica. Concluso, nel 1945, il periodo bellico, la necessità di ricostruire le infrastrutture, il patrimonio edilizio e gli apparati produttivi (questi ultimi, fortunatamente, in gran parte salvati dagli operai) non si utilizzò – come invece fecero altri paesi europei – il metodo e gli strumenti della pianificazione: si abbandonò invece quest’ultima, abbandonando la ricostruzione, e il successivo sviluppo, alla logica del più brutale spontaneismo.

E quando lo sviluppo di forze produttive moderne fece riemergere l’esigenza della razionalità dell’assetto urbano, l’unica pianificazione che venne rilanciata fu quella a livello locale. Del resto, l’unico adeguamento legislativo che era stato compiuto (oltre all’introduzione di provvedimenti che consentissero di derogare alla pianificazione) era stata la sostituzione dei termini del lessico fascista (Podestà, Camera dei fasci e delle Corporazioni, Casa del Fascio ecc.) con quelli del lessico democratico (Sindaco, Parlamento, servizi pubblici ecc.)

Alcuni generosi tentativi compiuti negli anni Cinquanta (il piano del canavese promosso da Adriano Olivetti, quello piemontese del gruppo coordinato da Giovanni Astengo, il manuale per la pianificazione regionale commissionato dal Ministero dei Llpp ad Astengo) restano isolati episodi. È solo nel corso degli anni Settanta che si tenta di riprendere, in modo generalizzato, la sperimentazione di una dimensione d’area vasta nella pianificazione.

Si ricomincia

Molte sono le soluzioni tentate. Superate le resistenze dei partiti di centro (e in particolare della DC), timorosi di un “potere rosso” nell’area centrale della Penisola, si sono finalmente istituite le regioni (istituto cui gli urbanisti hanno sempre dato notevole rilievo): è da esse che finalmente verrà, si spera, un quadro certo e razionale sull’assetto del territorio, una disciplina che darà coerenza d’insieme alle politiche urbanistiche e a quelle, infrastrutturali e localizzative, che spettano allo Stato: alcune regioni lavorano e producono i primi piani urbanistici regionali, o piani territoriali di coordinamento, o piani territoriali regionali (Governo e Parlamento si guardano bene dal coordinare alcunché), altre lavorano male, o non lavorano affatto: amministrano il giorno per giorno, distribuiscono a pioggia le risorse di cui dispongono.

Ci si rende conto subito che il livello regionale della pianificazione d’area vasta non è sufficiente: troppo ampia è la forbice tra le decisioni che la Regione può governare con efficacia, e quelle proprie del livello comunale. Occorre un “livello intermedio” della pianificazione. Si sperimentano varie strade: quelle che fu tentata più a lungo, è quella dei “comprensori”: enti elettivi di secondo grado (i membri dei consigli comprensoriali vengono eletti dai consiglieri comunali), oppure emanazione delle regioni, oppure – nei casi istituzionalmente più perversi – costituiti a mezzadria tra regione e comuni. Leggi regionali (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto), a volte coraggiose, precisano caratteristiche, poteri, competenze dei comprensori. Ma l’esperienza dura pochi anni. Né più a lungo dura quella del “comprensorio speciale” previsto dalla legge per Venezia.

Il fallimento dei comprensorie la nascita della pianificazione provinciale

Perché il fallimento? Una ragione sostanziale fu individuata nel fatto che i comprensori non avevano poteri propri. I soggetti che componevano gli rogani decisionali non erano investiti direttamente dall’elettorato, ma rappresentavano in primo luogo il comune, o la regione, che li aveva eletti come “suoi” rappresentanti nei governi comprensoriali. Poiché gli interessi dei diversi livelli possono essere, e spesso sono, in contraddizione tra loro (con buona pace dei fautori della concertazione ad ogni costo), i contrasti interni provocavano la paralisi di ogni decisione. Fu negli anni Settanta che emerse la posizione più ragionevole: a ogni livello di pianificazione deve corrispondere un livello di governo autorevole, e perciò eletto direttamente dai cittadini.

Fu così che matura, negli anni successivi, la proposta di attribuire potere di pianificazione del “livello intermedio” alle province. Nate sulla scia dell’ordinamento statuale napoleonico come emanazione dei poteri del governo nazionale, trasformate in organi elettivi e articolazioni dell’ordinamento repubblicano con la Costituzione del 1948, le province avevano però poteri debolissimi: caccia e pesca, assistenza psichiatrica, scuole superiori, strade di livello intermedio, e pochissimo altro. Dopo un lungo dibattito, è nel 1990 che, con la legge 142, si assegna alle province il ruolo e le competenze in merito alla pianificazione d’area vasta.

Poiché in Italia, dal 1948, la competenza in materia urbanistica è attribuita alle regioni, è a questa che la legge 142/1990 ha affidato il compito di definire obiettivi, contenuti, procedure, risorse per la formazione della pianificazione provinciale. Alcune regioni hanno legiferato, altre no. Tra le regioni renitenti è allineata anche la Campania.

La pianificazionenella Provincia di Salerno

Ma la pianificazione del territorio non è un ornamento, né l’adempimento di una prescrizione legislativa: la pianificazione del territorio, in una realtà moderna, è una necessità. Soprattutto là dove vi sono risorse ambientali e culturali ingenti, potenziale fonti di sviluppo ma soggette a rischi di degrado, dove l’organizzazione del territorio pone problemi complessi che i singoli comuni non possono risolvere da soli, dove la contraddizione tra aree a sviluppo intensivo e aree caratterizzate da fragilità economica e sociale minaccia di accentuarsi. Per questa ragione, nelle more di un provvedimento regionale, i reggitori della Provincia di Salerno decidono di partire da soli. Nel 1995 il processo si avvia, con un documento d’indirizzo della Giunta provinciale approvato dall’intero Consiglio.

Il documento definisce la pianificazione come “un processo sistematico e continuo di programmazione e gestione del territorio”, volto a “indirizzare le politiche comunali e coordinarle per creare le condizioni di una migliore organizzazione e assetto del territorio che, partendo dalla tutela e valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, consente di far interagire tra loro le diverse componenti che concorrono allo sviluppo socio-economico sostenibile dell’area”.

L’iter di formazione del Piano territoriale è visto come “un processo unitario nel quale i diversi soggetti intervengono per determinare, nell’ambito delle loro competenze, un unico sistema di scelte”. Ove la collaborazione tra tali soggetti non consentisse, su determinati punti, di giungere “ad una convergenza d’intenti”, si assumeranno comunque le decisioni necessarie “la cui responsabilità ricadrà sull’ente al quale la legge affida competenze superiori”[1].

Tra Stato e comuni

Quest’ultima affermazione tocca un punto di grande rilievo. La pianificazione d’area vasta interviene, nel nostro paese, quando si è già consolidata (dove più, dove meno) una prassi di pianificazione come prerogativa dei comuni, e una prassi di decisioni sul territorio (le grandi infrastrutture, i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, l’approvazione dei piani) affidata allo Stato (e, negli ultimi decenni, in parte alle regioni). È tra questi due livelli, quello statuale (e regionale) e quello comunale, che deve inserirsi la pianificazione d’area vasta provinciale. Essa deve perciò guadagnarsi sul campo i galloni: dimostrarsi utile ai comuni, dimostrarsi efficace e autorevole alla regione e allo stato.

Sul fronte “a monte” la situazione non è certo brillante. Se il Parlamento nazionale ha legiferato sin dal 1990, quello regionale della Campania ha brillato per la sua inerzia. Non solo non esiste una legge urbanistica che attribuisca contenuti, poteri e procedure alla pianificazione provinciale, ma addirittura si è stabilito che alla Provincia è sottratto perfino il potere di approvare i piani comunali della grande maggioranza dei comuni[2]. Vedremo nei prossimi mesi, benché l’alba della nuova Giunta non sembri molto felice[3]

Sul fronte “a valle” la Provincia di Salerno sta conquistando il suo ruolo con una serie di azioni le quali, se a volte corrono il rischio di un eccessivo empirismo, concorrono comunque efficacemente ad affermare il ruolo pratico della Provincia nell’affrontare, e condurre a proposte convincenti e condivise, situazioni territoriali o di settore che i comuni non possono affrontare da soli, e la cui soluzione contribuisce invece a risolvere conflitti nell’uso delle risorse e a migliorare il livello di servizio di ampie zone del territorio provinciale.

Ma dietro queste pratiche si cela una questione più complessa, alla quale la frase citata del documento della Giunta provinciale direttamente si riferisce: Quali sono le “competenze superiori” che la legge affida alla pianificazione provinciale; o meglio, in assenza di una legge chiara, sulla base di quale principio può individuare il discrimine tra competenze provinciali e comunali nella pianificazione?

Il principio di sussidiarietà

Il principio al quale ci si po’ riferire è quello “di sussidiarietà”. Poiché se ne parla spesso a sproposito, vediamolo nella sua interpretazione più autorevole. Esso è stato definito compiutamente nell’articolo 3b degli Accordi di Mastricht (che regolano i rapporti tra l’Unione europea e gli stati membri): “Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.

Sulla base di questo principio, sono allora di competenza della pianificazione provinciale quegli interventi, e quelle azioni, che “a causa della loro scala o dei loro effetti” possono essere compresi e governati meglio al livello territoriale della Provincia che a quello del singolo comune.

È chiaro quindi che “appartengono” alla pianificazione d’area vasta provinciale due grandi campi di decisione. Da un lato, quelli che attengono ai sistemi ambientali: alla tutela e all’uso delle risorse naturali e culturali, al paesaggio, alla tutela del suolo e dell’acqua e agli interventi volti alla prevenzione dei rischi. Dall’altro lato, quelli che riguardano la grande attrezzatura del territorio visto come sistema insediativo: come insieme di infrastrutture, attrezzature, servizi, centri i quali sono funzionali non alla vita di questa o quella unità di vicinato, di questo o quel comune, ma del sistema insediativo provinciale nel suo complesso.

Una interpretazione di “pianificazione”e alcune sue conseguenze

È tenendo conto del contesto e dei criteri indicati nelle righe che precedono che si è operato per giungere alla bozza di Piano territoriale di coordinamento provinciale, che la scheda qui accanto illustra nel suo procedimento di formazione e nella sintesi dei suoi contenuti. Poiché peraltro al termine di “pianificazione territoriale” si danno spesso significati molto diversi,opportuno precisare, nel concludere queste note, l’idea di pianificazione cui si è fatto riferimento nel costruire il PTC salernitano.

Intendo per “pianificazione” un’azione, continua e sistematica, condotta dall’ente elettivo rappresentativo della volontà generale dei cittadini, volta a conferire coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio, in vista di un determinato sistema di obiettivi socialmente condivisi. Ciascuno dei termini che ho adoperato meriterebbe di essere discusso. Dall’analisi di ciascuno di essi si potrebbero trarre indicazioni operative. Alcuni rinviano a questioni ancora aperte: penso all’interesse generale, e penso alla condivisione sociale: due questioni sulle quali una contaminazione della nostra disciplina con le scienze politiche, e della nostra tradizione pianificatoria nazionale con le esperienze e tradizioni europee ed americane potrebbe risultare feconda.

E preferisco parlare di “pianificazione” anziché di “piano” perché ritengo che ciò che serve per governare il territorio non è un documento elaborato una volta per tutte, singolare, magari accattivante come un bell’oggetto (e come tale pubblicato su patinate riviste), e neppure una serie o una congerie di piani, ma una pianificazione: un’attività continua, costante e sistematica, che esprima nel tempo la capacità di governare le “scelte politiche tecnicamente assistite” in cui (come afferma Francesco Indovina) si esprime la pianificazione territoriale e urbana, a tutte le scale e i livelli.

Vorrei concludere sottolineando che puntare alla “pianificazione” anziché al “fare un piano” significa anche assegnare un’importanza particolare alla costituzione di una struttura capace di assistere tecnicamente la politica nel governo del territorio: un Ufficio del piano, adeguatamente attrezzato, efficace, autorevole, e di un apparato tecnico capace di costruire, aggiornare e gestire il crescente patrimonio informativo necessario per un avveduto governo del territorio – un Sistema informativo territoriale. Il difficile percorso della formazione di questi due strumenti è perciò parte costitutiva della costruzione della pianificazione territoriale nella provincia di Salerno.

[1] Il documento di indirizzi individua i principali obiettivi cui la pianificazione territoriale è chiamata a fornire idonee soluzioni. Ci si limita in questa sede a sintetizzare i più rilevanti:

1.il ruolo della questione ambientale, individuato nel porre le risorse ambientali “non come vincolo allo sviluppo ma come parametro implicito di qualificazione”;

2.“valorizzazione del sistema dei beni e delle risorse storiche e paesistiche-ambientali per il loro valore intrinseco e per la loro stessa potenzialità economica”, da considerare come “condizione primaria” per gli altri sistemi;

3.il ruolo della pianificazione territoriale “nella determinazione dei criteri di organizzazione degli insediamenti urbani, la localizzazione dei servizi e delle attrezzature di livello sovracomunale, la funzionalità del sistema della mobilità” deve essere finalizzato al miglioramento della qualità del sistema insediativo;

4.assunzione dell’obbiettivo del superamento della “attuale distinzione tra aree forti e aree marginali”, puntanto sd un “modello insediativo pluricentrico sul territorio che miri a correggere la spontanea aggregazione di funzioni ed insediamenti attorno al capoluogo e ai centri maggiori”;

5.riqualificazione e articolazione dell’offerta turistica basata sull’esaltazione della differenza dei siti e assunzione di nuove strategie per il rafforzamento, la razionalizzazione e la riconversione ecologica delle funzioni industriali, commerciali, turistiche e industriali;

6.soluzione del problema della mobilità attraverso una visione integrata delle diverse reti e modalità, e affrontando anche la questione della localizzazione sul territorio delle funzioni generatrici di domanda di traffico;

7.definizione di norme, indirizzi e direttive per la riqualificazione delle aree già urbanizzate e abitate, aumentandola dotazione di verde e di servizi, stmolando il recupero della permeabilità dei suoli, aumentando il grado di ossigenazione, utilizzando i corsi d’acqua previo disinquinamento e rinaturalizzazione ecc..

[2]Infatti i PRG dei capoluoghi di provincia sono approvati dalla regione, quelli dei comuni compresi nelle Comunità montane da queste ultime.

[3] Si veda in proposito l’articolo di Luigi Scano, su questo stesso numero.

Mentre si apre la nuova legislatura, è forse utile mettere in fila alcuni avvenimenti che si sono susseguiti sul finire di quella consegnata agli archivi. Avvenimenti che non hanno trovato una eco adeguata non solo perché coperti dal clamore della campagna elettorale e degli eventi che l'hanno preceduta e accompagnata (le picconate, le guerre di mafia, gli scandali, le censure), ma anche perché, da qualche tempo, le norma che riguardano il governo della città e del territorio sono sempre più spesso dissimulate nelle pieghe di provvedimenti che riguardano tutt'altra materia.

Da qualche tempo ogni legge, che formalmente riguardi l'edilizia sovvenzionata o il potenziamento delle forze di polizia, la gestione economica del patrimonio pubblico o la proroga di termini amministrativi, introduce qualche nuova rottura nell'ordinamento urbanistico. Così, copertamente ed opacamente,

con buona pace della "trasparenza" di cui tutti predicano l'assoluta indispensabilità, si stanno cambiando radicalmente le regole del gioco e si stanno travolgendo, fuori d'ogni esplicito e dichiarato disegno, il sistema di garanzie e l'equilibrio dei poteri costituzionali.

Sforziamoci allora, correndo il rischio d'esser definiti "dietrologi", di comprendere meglio qual'é il disegno che l'ultima fase della X legislatura ha espresso e che, per qualche segno,

l'XI minaccia di proseguire e consolidare. E partiamo da una legge di cui ci siamo già in queste note occupati, la Botta-Ferrarini: la n.50 del 1992, concernente le "norme per l'edilizia residenziale pubblica".

Programmi integrati d'intervento...

Questa legge introduce, come è noto, un nuovo e ambiguo strumento urbanistico: il "Programma integrato di intervento". Uno strumento di cui non è definito il contenuto tecnico (per esempio, la scala in cui è disegnato, seppure vi siano dei disegni), ma che ha l'efficacia di una concessione edilizia. Uno strumento che innesca operazioni di grande trasformazione urbana (è caratterizzato "da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana"), ma è preferibilmente d'iniziativa privata. Uno strumento che è svincolato alla subordinazione al programma pluriennale d'attuazione, come se fosse una qualsiasi istrutturazione edilizia, e può essere in variante al Prg, ma è ammesso con priorità ai finanziamenti regionali ed è assistito dal contributo dello Stato.

I Programmi integrati d'intervento, se sono in variante al Prg, devono essere approvati dal Consiglio comunale e dalla Regione (ma per quest'ultima vale il silenzio-assenso). Ma se, insieme alla Botta-Ferrarini, leggiamo il decreto concernente "trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali e alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica", scopriamo un risvolto che per taluni e' certamente interessante.

...e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico

Il decreto sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, convertito in legge nelle ultime settimane di vita del Parlamento, dispone che i "programmi di alienazione, gestione e valorizzazione dei beni immobili" che il demanio statale intende dismettere, oppure valorizzare economicamente, sono approvati con una "conferenza a cui partecipano tutti i rappresentanti delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici comunque tenuti ad adottare atti d'intesa, nonché a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta previsti da leggi statali e regionali".

A chi è affidata l'individuazione dei beni in tal modo "suscettibili di gestione economica"? Forse ad un'attenta ricognizione svolta dall'Amministrazione del demanio e dagli enti locali interessati? No: a "consorzi di banche ed altri operatori economici o società, specializzati nel settore". E l'approvazione di siffatti programmi da parte della "conferenza" comporta "variazione anche integrativa agli strumenti urbanistici ed ai piani territoriali": la presenza del Sindaco alla Conferenza decisionista sostituisce l' istruttoria tecnica, il dibattito nel consiglio comunale, i pareri di merito, la decisione della Regione e cosi'via.

Non c'è bisogno della palla di vetro per sapere che i maggiori immobiliaristi stanno preparando programmi e progetti per utilizzare la grande occasione fornita dal "congiunto disposto" dei due provvedimenti cui ci siamo riferiti. E' facile valutare l'appetibilità, ad esempio, di un Programma integrato d'intervento ex lege Botta-Ferrarini applicato alle aree delle ex Caserme di Prati a Roma, o all'Arsenale di Venezia, o alle numerosissime caserme dismesse o dismettibili collocate nelle aree strategiche (non più in termini militari!) delle cento città italiane. Oltre ai vantaggi e agli snellimenti della legge suddetta, gli immobiliaristi promotori di una tale operazione potrebbe beneficiare anche della deroga a ogni previsione degli strumenti di pianificazione, e alla stesse approvazione da parte degli organi consiliari dei comuni.

Intervengono anche le forze di polizia?

Lette nel quadro delineato dai due provvedimenti suddetti, suscita inquietanti perplessità anche un'altra norma che con l'urbanistica sembrerebbe aver poco a che fare: ci riferiamo al decreto, anch'esso convertito in legge al tramonto della X legislatura, recante "disposizioni urgenti per il potenziamento delle forze di polizia". Si tratta di un decreto-legge (n.9 del 1992) che apparentemente finanzia e disciplina interventi di adeguamento e potenziamento delle infrastrutture necessarie per lo svolgimento dei compiti istituzionali della polizia.

La dilagante criminalità rende indubbiamente necessario rafforzare i dispositivi di sicurezza e di vigilanza sul territorio: caserme e casermette, centrali d'ascolto, banche dati protette e così via.

Ma se questo è l'obiettivo che ci si propone di perseguire con urgenza, non si comprende allora perché la legge destini il 30 % del finanziamento a interventi, da operare da parte dei cosiddetti "investitori istituzionali" (enti e società previdenziali, assicurativi ecc.), per l'acquisto di fabbricati e di aree edificabili destinati a essere in un primo momento ceduti in locazione alle forze di polizia, e poi ad essere venduti, presumibilmente al migliore offerente, salvo il diritto di prelazione da parte dell'amministrazione pubblica.

Se si tratta di costruire bunker e caserme, non si comprende l'interesse di eventuali acquirenti. Se invece, come è più probabile, l'intenzione è quella di costruire alloggi, magari in parte destinati alle famiglie dei carabinieri, poliziotti, finanzieri e vigili del fuoco, non si comprende perché i relativi programmi siano svincolati da ogni controllo di comuni e regioni come "opere destinate alla difesa dello Stato". A meno che non si tratti di adoperare anche l'emergenza criminale per agevolare operazioni immobiliaristiche, che con quell'emergenza hanno poco a che fare.

"Picconate" anche le regioni

Non solo per i Programmi integrati d'intervento della Botta-Ferrarini vale, in caso di ritardo della Regione, la regola del silenzio-assenso. Con una norma surrettiziamente introdotta in un provvedimento dall'anodino titolo "Differimento di termini previsti da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti" (decreto legge 1 marzo 1992, n.195) si dà un deciso colpo di piccone alla competenza costituzionale delle regioni in materia urbanistica.

Quella norma prescrive infatti che, se entro 180 giorni (non si sa a partire da quale termine) la regione non ha approvato un piano regolatore generale, questo si intende perentoriamente approvato. Se si pensa che il tempo medio di approvazione di uno strumento urbanistico è di 7 anni nel Lazio ed è divenuto di 180 giorni in Emilia-Romagna (dove la cultura e la prassi della pianificazione sono radicate da decenni, e l'efficienza dell'amministrazione pubblica non è un mito) solo negli ultimissimi anni, ci si rende conto che questa norma, se potrebbe forse produrre effetti negativi modesti nelle regioni più evolute (dove il territorio è già garantito) produrrebbe invece effetti devastanti proprio là dove il territorio, e quindi le prospettive di uno sviluppo civile, sono già più compromessi.

E chi può pensare, del resto, che il piano regolatore di città come Roma o Milano, Torino e Firenze, Palermo o Napoli, Genova o Venezia, possa essere esaminato e valutato in modo ragionevolmente approfondito nel giro di sei mesi? Oppure che non vi sia una esigenza di coerenza nell'assetto territoriale regionale, per cui "non importa" che la verifica regionale avvenga?

Che la cultura urbanistica, che la consapevolezza delle esigenze del territorio e dell'ambiente, siano ospiti poco accetti nella aule del Parlamento, si poteva pensarlo da qualche tempo. Che la Costituzione venga calpestata come se fosse una logora moquette è invece il frutto velenoso degli anni più recenti.

Quando la sinistra rincorre la destra

La trasformazione delle aree strategiche, e la gestione "economica" del patrimonio immobiliare dello Stato, sono sempre più sottratti alla verifica di coerenza complessiva (alla pianificazione territoriale e urbana) e sempre più affidati alle centrali del capitale finanziario. Ma che cosa succede sul versante del patrimonio abitativo pubblico consolidato.

Con la legge 412 del 1991 il governo, e la maggioranza parlamentare, hanno decretato la svendita degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai loro inquilini. Un atto di vera "modernità", e coerente con le fervide dichiarazioni di europeismo!

E' noto infatti che in Italia il patrimonio residenziale pubblico non tocca il 5 % del totale, e rappresenta meno di un quinto del patrimonio in locazione, mentre nel resto dell'Europa (o dovremo dire, più semplicemente, in Europa?) lo stock pubblico supera sempre il 15 % del totale, ed è tra metà e i tre quarti del patrimonio in locazione. E' noto che in Italia la percentuale di case in proprietà è la più alta d'Europa, che il divario tra offerta e domanda di abitazioni in locazione è tale da penalizzare soprattutto le categorie più dinamiche (in primo luogo i giovani). Ed è noto che tutti i lavoratori hanno pagato e continuano a pagare la possibilità, per alcune migliaia di "fortunati", di fruire degli alloggi pubblici.

Nonostante tutto questo, e nonostante le proteste che da ogni parte sono state sollevate contro la smobilitazione del patrimonio residenziale pubblico, governo e maggioranza sono andati avanti: la legge, come si è detto, è stata approvata. Come abbiamo scritto in un editoriale dello scorso numero, "l'im provvida miopia dei governanti e l'opaca distrazione dei legislatori" hanno posto in liquidazione il meglio del secolo della mutua solidarietà sociale.

Ma non è finita qui. Si poteva pensare che la sinistra si preparasse, nel nuovo Parlamento, a dare battaglia perché si facesse marcia indietro rispetto alle tendenze e tentazioni francamente reazionarie che quella legge manifestava. Invece no. Due autorevolissimi esponenti del Pds hanno presentato, nel pieno della campagna elettorale, un disegno di legge che, anziché contrastare la svendita del patrimonio pubblico, tende ad agevolarlo introducendo sconti consistenti a favore degli inquilini. Questi, tanto per fare un esempio, potrebbero pagare un alloggio di 100 mq, in una città di medie dimensioni, 66-98 milioni, invece degli attuali 100-150. E alla fine dei conti, per ogni quattro alloggi venduti se ne potrebbe realizzare uno scarso.

Un bel terno al lotto per quei fortunati che hanno acquistato il biglietto vincente. Una ulteriore beffa per quei lavoratori che continuano a versare i contributi. E una ulteriore, pesante mortificazione per chiunque ritenga che le attuali condizioni della società italiana rendono necessario un rilancio della presenza pubblica nel mercato dell'edilizia residenziale.

Il quadro europeo e i primi passi della ricerca

Verso la “società dell’informazione”

Assumere le conoscenze come la base per uno sviluppo più dinamico e competitivo dell’economia europea: questo l’obiettivo strategico dell’Unione europea per il primo decennio del secolo, stabilito dal Consiglio d’Europa, nel marzo del 2000, a Lisbona. Nei mesi successivi la Commissione europea diramava il «Progetto di direttiva del Consiglio»: un programma pluriennale che traduceva quell’obiettivo in iniziative volte a promuovere lo sviluppo e l’utilizzo dei contenuti digitali europei nelle reti globali e di promozione della diversità linguistica nella società dell’informazione.

Il documento fu considerato un rilevante impegno nella direzione di una strategia volta a ridurre il crescente squilibrio tra l’Europa e gli USA in materia di utilizzazione (culturale ed economica) del patrimonio costituito dalle informazioni a disposizione della pubblica amministrazione, a utilizzare a tal fine la rete internet e gli strumenti delle tecniche digitali, a tutelare e a sviluppare la ricchezza (fortemente a rischio in una fase di globalizzazione) della molteplicità di lingue e di culture. A Lisbona e negli atti successivi il Consiglio europeo ha infatti evidenziato in modo particolare l’importanza dell’ industria dei contenuti, come con singolare metafora si è voluto denominare la messa in rete e la distribuzione del patrimonio di conoscenze. Questa nuova industria, si è detto, può determinare una crescita del valore aggiunto mettendo a frutto la diversità culturale europea e veicolandola in rete: rendendola cioè disponibile a tutti i potenziali utilizzatori. La Commissione europea, per raggiungere gli obiettivi indicati, proponeva in particolare un’azione in tre settori ritenuti decisivi; di questi i primi due sono orientati al favorire lo sfruttamento delle informazioni del settore pubblico e a migliorare l’adattamento dei contenuti alle specificità linguistiche e culturali.

Il Governo italiano di quegli anni applicava tempestivamente le direttive elaborate a livello europeo e attraverso il Piano d’azione per la società dell’informazione, presentato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nel giugno 2000, definiva il quadro generale delle azioni da intraprendere per sviluppare l’impiego delle tecnologie digitali nella formazione e nella valorizzazione del patrimonio di conoscenze della pubblica amministrazione. In quegli stessi mesi stava per concludersi la ricerca per la Costruzione di una Rete Informativa per la Documentazione in Architettura, Urbanistica e Pianificazione (CriDaup), cofinanziata dal Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST) e dagli atenei di Milano Politecnico, Roma La Sapienza, Torino Politecnico e Venezia IUAV, cui questo fascicolo è dedicato.

L’ispirazione che ha mosso questa ricerca, che ha aggregato attorno a un comune obiettivo ricercatori di numerosi enti universitari e non universitari, è in particolare sintonia con quella che stimolava i governanti europei all’alba del millennio. Possediamo (nell’insieme dell’universo europeo e, nel nostro piccolo, negli archivi degli enti locali e nelle biblioteche delle università) un grande patrimonio di informazioni. Esso può essere utile a tutti: agli amministratori pubblici e ai cittadini, alle imprese e agli investitori. Per tradurre la potenzialità in effettualità occorre però tradurre gli elementi di quel patrimonio in oggetti suscettibili di essere comunicati, compresi, condivisi, e occorre costruire la rete (logica, lessicale, materiale) che consenta di disporne ovunque. La disponibilità delle nuove tecnologie è enorme, e consente oggi di raggiugere risutati fino a ieri neppure ipotizzabili. Occorre allora incrociare i saperi e le conoscenze per costruire i sistemi suscettibili di raggiungere l’obiettivo, in ciascuno dei campi in cui si articolano il patrimonio conoscitivo e le azioni nella società.

Nei paragrafi successivi mi propongo di delineare il percorso e i risultati della ricerca CriDaup, a partire dal più remoto antefatto.

Un inizio: Ark_Amb parte per la tangente

Giovambattista Vico diceva che “natura di cose altro non è che nascimento di esse”. In altre parole, il divenire di un evento è già scritto nel suo inizio. Molto spesso è vero; nel caso di CriDaup non è stato così.

Nel 1995 avevo chiesto, e ottenuto, un piccolo finanziamento dal Dipartimento di urbanistica dell’IUAV per un ricerca finalizzata a verificare in che modo alcuni piani urbanistici e territoriali recenti si facessero carico dell’esigenza di tutelare le risorse ambientali; il titolo era “Metodi, strumenti e procedure per una pianificazione territoriale e urbanistica ambientalmente orientata”. Con alcuni giovani ricercatori (Laura Fregolent, Mauro Baioni) cominciammo a cercare i piani da analizzare. Per partire, tentammo di individuare un luogo nel quale vi fosse, a proposito degli atti di pianificazione, se non un organizzato archivio, almeno qualcosa di simile a ciò che per gli ordinari testi cartacei è uno schedario bibliografico. Non lo trovammo. Senza sorprenderci troppo, per il vero: sapevamo che nel nostro campo, guidato dall’empiria e dall’improvvisazione, la tradizione del rigore archivistico e classificatorio è ancora debole.

Ma non trovammo neppure un modello di scheda utile a descrivere sinteticamente questi oggetti, complessi ma non incommensurabili, che sono i piani. Ci domandammo allora se aveva senso avviare una di quelle numerose ricerche che si concludono in se stesse, producendo - al più – un saggio o un volume, da depositare in uno scaffale e citare nei curriculum vitae. Ci proponemmo invece di indirizzare i nostri sforzi a produrre una scheda di sintesi degli atti di pianificazione, che fosse condivisibile da tutti gli interessati.

Il lavoro si rivelò molto più complesso del previsto. A parte le difficoltà derivanti dalla complessità e varietà degli atti e delle loro mutevoli denominazioni, c’erano quelle conseguenti alla necessità di inserire nella “scheda” elementi grafici non semplicissimi. Per documentare un piano, è infatti indispensabile illustrare il modo in cui le regole (in cui il piano, in ultima analisi, consiste) si riferiscono al territorio (cioè alla realtà che il piano vuole contribuire a governare): quindi, è necessario inserire campioni fedeli almeno delle tavole con valore normativo, nonché le relative legende.

D’altra parte, benché la nostra schedatura si proponesse il massimo di oggettività (appunto per poter essere utilizzata da una molteplicità di ricercatori), ci sembrava utile aprire le schede alla possibilità di confronti e opinioni diverse, magari in colloquio diretto tra loro. La scheda, perciò, doveva consentire di essere gestita dinamicamente, almeno in alcune sue parti, per ospitare discussioni, recensioni, collegamenti e inserimenti.

Insomma, partimmo per la tangente. L’impegno a elaborare la scheda ci distrasse dalla ricerca sulla “pianificazione ambientalmente orientata”. Fummo aiutati dall’esperienza e dalla collaborazione di ricercatori che avevano dato vita ad eccellenti strumenti e metodi di documentazione all’IUAV (Pierre Piccotti, dei Servizi Bibliotecari e Documentali, e Anna Tonicello, che dirigeva l’Archivio Progetti), producendo brevetti per l’informazione documentale che cominciavano ad avere successo in Italia e all’estero. Arrivammo a un primo prodotto, la scheda Ark_Amb, che ci sembrò una tappa importante.

[La scheda Ark_Amb è illustrata in appendice]

Incontri, e un primo tentativo di coordinamento: CAPUeT

Un seminario di presentazione delle intenzioni e dei primi risultati della ricerca (Venezia, 25-27 maggio 1996) ci mise in contatto con ricercatori che s’erano già posti, o si stavano ponendo, problemi analoghi ai nostri: Fabrizio Bottini, Giulio Ernesti, Chiara Mazzoleni, che lavoravano alla Rete degli Archivi di Piani Urbanistici (RAPU), promossa dalla Triennale di Milano, che avevano elaborato e cominciato a utilizzare una scheda per l’archiviazione dei piani urbanistici “storici”; Piero Cavalcoli, che stava avviando la formazione dell’Osservazione dei Piani d’Area Vasta (OPAV) dell’INU; Laura Anselmi, che aveva organizzato i servizi di documentazione architettonica e urbanistica del Politecnico di Milano; Marisa Scarso, che dirigeva il Centro Interdipartimentale di Ricerca Cartografia ed Elaborazione dell’IUAV (CIRCE). L’analogia dei problemi e degli interessi ci spinse a promuovere un primo tentativo, volontario, di coordinamento; gli attribuimmo l’acrostico CAPUeT (Coordinamento degli Archivi di Piani Urbanistici e Territoriali).

Gli obiettivi e i punti fermi del lavoro di CAPUeT, furono definiti a un incontro presso la Provincia di Bologna (11 novembre 1997). Essi erano i seguenti:

1) gli oggetti da catalogare, individuati nei “piani” di qualunque scala, tipo o località, intendendo per “piano” (o, meglio, per “atto di pianificazione”, uno strumento normativo riferito a una determinata area geografica”;

2) gli standard per la definizione delle fonti delle informazioni, l’organizzazione delle informazioni in un comune catalogo e la definizione univoca dei concetti di base;

3) la struttura del catalogo, in riferimento alla definizione della struttura multilivello e al sistema di collegamenti agli authority files e, dove possibile, ai Thesauri (geografico, tematico)

4) la comune piattaforma informatica, cioè l’impiego dello stesso interfaccia utente, e l’omogeneità delle strategie di ricerca dei dati e i formati di output, per consentire l’interrogazione simultanea degli archivi.

A partire dalla scheda Ark_Amb, il lavoro di CAPUeT consentì di mettere a punto, soprattutto per quanto riguarda gli standard di comunicazione e condivisione individuati negli obiettivi, tre tipi di file di catalogazione (schede), concernenti tre tipi di documenti differenti ma tra loro connessi:

1) atti di pianificazione (piani regolatori generali comunali, piani territoriale di coordinamento, altri piani di livello comunale e regionale, piani attuativi ecc.);

2) altri atti normativi (leggi, regolamenti ecc.);

3) atti non normativi ( libri, saggi, articoli e altri testi).

[La scheda CAPUeT è illustrata in appendice].

CriDaup: Quattro università per costruireuna rete informativa

Il coordinamento volontario tra strutture dell'IUAV, dei Politecnici di Milano e Torino, la Triennale di Milano e l'Osservatorio d'area vasta dell'INU aveva fatto fare alcuni passi avanti nella ricerca di possibilità e strumenti per "mettere in rete" l'informazione urbanistica. Poiché il volontarismo non porta molto lontano, si cercò di dare maggiore struttura e continuità alla collaborazione presentando un progetto di ricerca al MURST, in occasione dell'attribuzione, nel 1998, di finanziamenti alle università per gli anni 1999 e 2000.

Il progetto di ricerca fu presentato dall'IUAV, dai Politecnici di Milano e Torino, e dall'Università degli studi La Sapienza di Roma. Esso fu accettato e approvato come ricerca d'interesse nazionale, sebbene con qualche decurtazione del finanziamento rispetto al preventivo formulato. Fu costituito l’acrostico CriDaup, che sintetizza l’obiettivo della ricerca:Costruzione di una Rete Informativa per la Documentazione in materia di Architettura, Urbanistica, Pianificazione.

Obiettivi e fasi del progetto di ricerca

Secondo il programma approvato dal MURST la ricerca CriDaup si poneva l’obiettivo di costruire un sistema di connessioni scientifiche, logiche e informative riguardanti la ricerca e la documentazione in materia di architettura, urbanistica, pianificazione, capaci di collegare in rete le molte attività già esistenti, all’interno delle sedi universitarie, individuando le carenze e i modi per riempirle. In termini più specifici, il lavoro di ricerca si proponeva di individuare i vuoti informativi esistenti ed elaborare un modello di integrazione delle informazioni aggiuntive alla struttura documentaria già costituita.

Ricollegandosi al lavoro di CAPUeT, si dovevano innanzitutto definire i criteri comuni di catalogazione di piani urbanistici, atti di pianificazione e progetti, tra tutte le iniziative, promotrici e aderenti, individuando come standard generale di riferimento lo International Standard of Bibliographical Description (Isbd).

Ognuno degli archivi coinvolti nel progetto doveva costruire il proprio filone specifico di ricerca, il cui prodotto doveva essere poi condiviso, all’interno del progetto complessivo. A questo proposito, si voleva procede alla costruzione dell’inventario degli archivi, realizzati o in corso di formazione in Italia (e tendenzialmente all’estero), relativi alla storia, progettazione e gestione del territorio, della città, delle costruzioni, e delle relative caratteristiche, restituendo la mappa delle diverse sedi operanti su temi analoghi, e che potessero in futuro interagire con il prodotto di ricerca.

La seconda fase del lavoro era diretta all’elaborazione e costruzione della struttura di catalogo, principalmente per quanto riguarda la definizione del sistema di legami con gli Authority File di supporto e dei Thesauri (geografici, tematici, ecc.); operazioni necessarie per dare forma e operatività alla struttura. L’obiettivo di giungere a un sistema condiviso e comune a più strutture, rendeva necessaria l’utilizzazione del medesimo Opac (software di gestione dell’interfaccia con l’utente), per rendere omogenei strategie di ricerca e formati di uscita dei dati e per rendere possibile l’interrogazione simultanea delle basi di dati delle unità di ricerca e degli eventuali centri aderenti alla rete, indipendentemente dai software di catalogazione e di gestione adottati da ciascun centro.

Tema importante sul quale la ricerca intendeva soffermarsi era lo studio di criteri, metodi e modelli per l’unificazione dei formati e dei lessici, da impiegarsi nella costruzione degli archivi, e indispensabili per la loro utilizzazione. L’utente, aiutato dalla definizione dei criteri comuni di catalogazione, e dalle possibilità e potenzialità fornite dalla comparazione dei lessici, avrebbe potuto accedere ai materiali raccolti e schedati dai diversi archivi, anche in forma comparata.

Una volta completate le diverse fasi sopra descritte, si doveva passare alla sperimentazione dell’interfaccia finale di ricerca per l’utente, in grado di restituire le informazioni e i documenti nella complessità dei legami logici presenti nei diversi fondi documentali censiti, e di consentire una visualizzazione integrata fra informazioni e immagini del documento. Gli esiti di quest’ultima fase di lavoro, hanno consentito di verificare e correggere il modello di catalogazione comune.

Dal punto di vista dell’utente, ci si poneva l’obiettivo di offrirgli un accesso a fonti e dati appartenenti a archivi diversi, selezionati e relazionati con i criteri e i metodi sopra descritti ma anche la possibilità di consultare tali documenti nella lettura data dalle singole unità. Sarebbe così divenuto possibile mettere in relazione i dati raccolti, schedati, e archiviati, potenzialmente utili alle diverse esperienze di ricerca.

Le strutture coinvolte

Nella programma CriDaup erano ufficialmente coinvolte, e hanno partecipato, sette unità di ricerca afferenti a quattro diversi atenei. Per lo IUAV, il Centro Interdipartimentale Archivio Progetti (AP), il Centro Interdipartimentale di Ricerca, Cartografia ed Elaborazione (CIRCE), il Dipartimento di Urbanistica (DP) rappresentato dalla struttura ormai consolidata dell’Archivio Piani Urbanistici e dalla ricerca dipartimentale Archivio Ambiente, l’Area Servizi Bibliografici e Documentali; per l’Università La Sapienza di Roma, il progetto Archivi multimediali per la progettazione, gestione e monitoraggio dei piani; per il Politecnico di Milano, il Sistema Informativo Bibliotecario, il Centro Documentazione di Architettura; per il Politecnico di Torino, il Sistema Informativo Architettura Contemporanea Torinese.

Le unità di ricerca (che costituiscono i partner ufficiali del programma cofinanziato), tenendo conto delle specifiche situazioni di ogni ateneo, si sono a loro volta articolate in “unità operative”: queste sono state le effettive strutture nelle quali si è espresso il lavoro proprio di ciascuna sede.

Oltre alle unità di ricerca e alle unità operative, costituite ciascuna da una struttura di ricerca o di documentazione dei quattro atenei coinvolti, sono state impegnate sugli stessi temi altre strutture esterne, con le quali esistevano già rapporti di collaborazione, che sono: l’associazione Archinet, socio italiano dell’associazione europea Urbandata, il Coordinamento Archivi Piani Urbanistici e Territoriali (Capuet), l’Osservatorio Piani Area Vasta dell’Inu - Provincia di Bologna e la società Nexus di Firenze.

Lo svolgimento della ricerca

I materiali contenuti in questo fascicolo illustrano i risultati della ricerca CriDaup da diversi angoli visuali, e la raccontano in numerosi dei suoi aspetti. Un bilancio complessivo deve perciò essere costruito tenendo conto dell’insieme dei fili che la costituiscono, nonché degli interessi del lettore: esso sarà formulato da ciascuno al termine della sua personale lettura dei materiali. Qui si vogliono avanzare solo alcune considerazioni che riguardano l’insieme della ricerca, e possono forse aiutare a coglierne le diverse facce, e a comprenderne la sostanziale unitarietà.

Uno sterminato arcipelago

Fin dall’avvio della ricerca è apparso evidente che il vero nodo non è tanto l’assenza di archivi o il loro “riempimento” con informazioni e dati utili e aggiornati, quanto piuttosto la dispersione delle informazioni, la loro frammentarietà, la difficoltà di reperimento. Uno sterminato arcipelago di informazioni, privo di un sistema di riferimento geografico che consentisse di valutare le reciproche posizioni, e senza un alfabeto comune che consentisse di nominarne ciascuna in modo equivoco.

Di conseguenza, il tema e l’obiettivo centrale della ricerca sono stati costituiti dalla costruzione di un set di criteri e strumenti standard per la condivisione dei dati e la loro connessione. Ciò rendeva, allora, necessario offrire soluzioni all’assenza di omogeneità dei criteri di interrogazione, e quindi all’accesso al complesso di informazioni contenute in numerosi archivi specializzati, in un momento in cui si riflette – e non solo tra utenti dotati di particolare expertise e know-how – sui caratteri di “democratizzazione” del patrimonio culturale in rete, di “condivisione” del patrimonio di conoscenze, di avvio (in Europa) della “industria dei contenuti”.

Queste premesse, e i conseguenti obiettivi, sono stati condivisi da tutte le strutture afferentio al progetto. Esse infatti, proprio perché quasi tutte dotate di un proprio archivio informativo o in fase di costruzione, erano ben consapevoli dei limiti dei sistemi di archiviazione, tra i quali l’autoreferenzialità.

La necessità di aprirsi al confronto verso l’esterno è anche all’origine di un vincolo che i partecipanti alla ricerca hanno voluto porsi nella progettazione: quello cioè di porre in essere le condizioni perché il sistema potesse in futuro essere condiviso anche da altri soggetti che trovano nel prodotti elaborato lo strumento adeguato alle proprie esigenze: di reperimento di informazioni, di catalogazione e archiviazione ma anche (ed è l’aspetto di “democratizzazione” più importante) di diffusione e pubblicizzazione delle informazioni raccolte ed elaborate.

Sei gruppi di lavoro per sette unità di ricerca

La costruzione di un sistema aperto, flessibile, condivisibile ha indotto a definire una particolare organizzazione. Individuati i temi specifici della ricerca, corrispondenti all’articolazione del suo obiettivo, si sono costituiti altrettanti gruppi di lavoro, trasversali rispetto alle unità di ricerca. In questo modo, non solo si è favorita una maggiore integrazione delle diverse unità operative, ma si è soprattutto consentito che alcuni temi di ricerca più rilevanti potessero maturare parallelamente alle specifiche attività previste dalle singole unità di ricerca e unità operative, con cui i diversi gruppi di lavoro potessero confrontarsi sui risultati parziali ottenuti, e quindi procedere sempre in sintonia con gli altri gruppi ed in coerenza con i principali obiettivi della ricerca, e perché, inoltre, i risultati acquisissero carattere più operativo nella definizione degli strumenti necessari alla costruzione della “rete”.

I temi (articolazioni dell’obiettivo generale) in relazione ai quali sono stati costituiti i gruppi di lavoro sono stati:

1) lo standard di catalogazione dei materiali;

2) la formazione di un elenco di enti, istituti, università, centri di ricerca, che si sono occupati e si occupano di archiviazione di materiali di architettura, cartografia e urbanistica;

3) la formazione di un glossario di termini di urbanistica, architettura e cartografia, finalizzato allo spoglio dei piani e degli altri documenti;

4) la progettazione del sistema informativo comune alle unità di ricerca;

5) la definizione dei criteri di costruzione del thesaurus geografico;

6) la definizione dei criteri di costruzione degli authority file.

I gruppi di lavoro così articolati, hanno elaborato altrettanti prodotti, che sono serviti a costruire e strutturare il prodotto finale cioè il metadatabase, che attraverso la maschera di interrogazione, comune a tutte le unità di ricerca, mette in relazione i diversi archivi informatizzati e consente una ricerca incrociata dei diversi materiali schedati e catalogati.

I prodotti dei gruppi di lavoro

In questo paragrafo descriveremo in termini molto sintetici i risultati e i prodotti dei gruppi di lavoro, più ampiamente illustrati nei diversi saggi e note contenuti nella Parte Seconda di questo fascicolo.

Il “coordinamento” come elemento che valorizza le specificità

Il gruppo dello Standard, coordinato da Marisa Scarso, è partito dalle considerazioni e dalle elaborazioni prodotte dal gruppo di coordinamento volontario (CAPUeT) costituitosi prima della presentazione del progetto di ricerca al Murst. Nel gruppo standard sono state analizzate le procedure operative generali, gli standard descrittivi e le loro modalità di applicazione nelle agenzie catalografiche rappresentate nel gruppo di lavoro, per arrivare a definire uno standard comune. Questo è stato individuato nei seguenti campi: titolo, responsabilità, data, luogo. Va precisato che ogni agenzia catalografica segue proprie regole per il recupero delle informazioni, richieste dal tipo di materiale che raccoglie e cataloga. La differenziazione delle metodologie di utilizzo dei campi comuni non è però un elemento di ostacolo al coordinamento dei sistemi informativi, anzi offre utili indicazioni alla sua messa a punto; essa dipende infatti dalla diversità degli “oggetti” raccolti e descritti (materiale edito, bibliografico o cartografico, documenti in genere, disegni, lettere, plastici, edifici, piani urbanistici).

La ragione del coordinamento dei diversi sistemi informativi dovrebbe essere da un lato quella di dare all’utente la possibilità di recuperare, con un’unica ricerca, «tutto l’esistente» su un determinato argomento o oggetto, dall’altro quella di mettere in relazione i diversi sistemi, consentendo percorsi di ricerca ordinati e sistematici da un percorso principale, verso altri sistemi coordinati. Data la specificità dei singoli sistemi informativi, e le specificità di raccolta dei materiali selezionati (alcune unità di ricerca raccolgono solo cartografia, altre solo atti di pianificazione, altre principalmente progetti di architettura), non ha molto senso pensare a un unico sistema che li riunisca tutti in un unico prodotto, ciò che annullerebbe le singole specificità e le singole ricchezze, né tanto meno stabilire una gerarchia dei punti di accesso.

Il sistema che si profila, e che fa salva l’esigenza di mantenere l’individualità e la caratterizzazione specifica di ogni catalogo, nasce da un coordinamento nel quale ciascun sistema informativo può essere utilizzato come ingresso principale a seconda delle necessità del ricercatore, che dal percorso principale ha la possibilità di aprire percorsi di ricerca diversi attraverso l’accesso ad altri cataloghi, attivando quindi altre logiche di ricerca.

Un censimento per l’individuazione di nuovi percorsi e nuovi progetti

Il secondo gruppo, che si è occupato di Archivi esistenti e i vuoti informativi, ha costruito l’inventario degli archivi esistenti in Italia, e in parte in Europa, formati o in corso di formazione, che si occupano di questioni relative alla cartografia e alla pianificazione territoriale e urbanistica, ai progetti di architettura e all’architettura contemporanea costruita. L’individuazione dei vuoti informativi con riferimento alle strategie documentali e alle necessità informative, di carattere accessorio o complementare, di ciascun produttore di informazioni nell’ambito della ricerca, si è tradotto, per un verso, nella ricostruzione dello “stato dell’arte” e nella formazione di un quadro generale di riferimento che permetta a quanti si sono impegnati nella raccolta, catalogazione e ordinamento di questo tipo di informazioni una certa forma di orientamento, per l’altro conoscere in modo veloce il patrimonio culturale già raccolto e organizzato, possibili fonti per lavori di maggior dettaglio e peculiarità.

Il lavoro svolto è stato quindi quello di individuare gli archivi esistenti siano essi on-line o su CD-Rom, raggruppati in base ai seguenti argomenti e chiavi di lettura: «Cartografia territoriale»; «Pianificazione territoriale e urbanistica»; «Progetti di architettura e archivi di architetti e urbanisti»; «Architettura moderna costruita».

Il lavoro svolto e i risultati raggiunti sono descritti nel rapporto finale del gruppo, coordinato da Anna Tonicello, nel quale si evidenzia la presenza piuttosto limitata di banche dati disponibili on-line, sia liberamente accessibili, sia con accessi controllati e una certa difficoltà a coprire il panorama di banche dati informatizzate, esistenti o in formazione, su cd/rom o su sistemi locali non accessibili on-line. La presenza, inoltre, di numerosi progetti di informatizzazione e di costruzione di archivi informatizzati o di conversione su supporto digitale di banche dati, prefigura una prospettiva di disponibilità informativa più articolata in alcuni ambiti disciplinari anche se come rileva il rapporto redatto dal gruppo di lavoro, tali progetti, raramente, corrispondono a un piano sistematico teso ad esaurire l’informazione in un determinato settore geografico o argomento. In alcuni casi, sembra invece che più progetti si vogliano sovrapporre a scapito dell’integrazione di informazioni che hanno carattere di complementarietà. Quando la ricerca è stata avviata, l’interesse nei confronti dei processi di informatizzazione degli archivi cartacei era in notevole crescita, anche se le esperienze consolidate non erano molte. In questo panorama di fermento e di novità spiccava, senza dubbio, l’esperienza dell’Archivio Progetti dello IUAV che tuttora continua ad essere punto di riferimento sull’argomento.

Per un’efficiente interazione: la condivisione del “linguaggio”

Il terzo gruppo, coordinato da Fabrizio Bottini, si è occupato di Glossario e Lessico cercando di definire un approccio condiviso alla terminologia culturale e tecnica per i tre ambiti tematici architettura, cartografia e urbanistica. Molti sono coloro che si sono occupati o tuttora hanno in corso lavori di ricerca su glossari e lessici, sulla metodologia, sul riuscire a rispondere in maniera corretta alle esigenze di codifica da un lato e di esaustività dall’altro, di decodifica e di ricostruzione fedele della storia normativa, culturale, ecc. del termine (pensiamo ad esempio a come è cambiato il significato di Piano paesistico dalla legge del 1939 alla legge del 1985, la cosiddetta “legge Galasso”).

Il glossario, articolato su quei tre ambiti tematici, è stato costruito per definizioni brevi, di rapida lettura: finalizzato essenzialmente a fornire semplici e chiare definizioni a quanti, nelle varie agenzie, implementano gli archivi e producono schede. Il tentativo è stato quello di comporre un elenco alfabetico di termini condivisi fra discipline convergenti ma distinte, al fine di cominciare a definire un linguaggio interpretativo comune pur tra approcci distinti.

Le fonti bibliografiche, dalle quali il gruppo di lavoro è partito per la costruzione del glossario, sono state selezionate rispondendo ai tre filoni di interrogazione e cioè l’urbanistica, l’architettura e la cartografia. In alcuni casi ci si è avvalsi abbondantemente di opere a carattere enciclopedico generale, mentre in altri l’arricchimento delle proposte è stato rinviato alla successiva fase delle articolazioni e degli “allegati” grafici o testuali, che costituiranno il primo sviluppo del prodotto, e una occasione di confronto interattivo con una più vasta utenza.

Le “regole” definite per la costruzione del glossario sono state così individuate e sintetizzate:

Numero dei termini di cui fornire una definizione. Sono stati limitati a 150 circa il numero degli termini da proporre al “primo livello” di lettura; essi hanno poi articolazioni al secondo livello e definizioni al terzo livello. Ad esempio, nella traccia per i termini di urbanistica sono stati inserite al primo livello, le articolazioni di “legge” (urbanistica, di risanamento, paesisitica ecc.) e “piano” (regolatore, di bacino ecc.).

Dimensione dei testi. Non più di 2-3 parole per termine; non più di un breve paragrafo per la definizione. Questa scelta, come del resto la prima, non esclude necessariamente la possibilità di informazioni più approfondite, ma mette in primo piano una “scheda” sintetica, che ricorda alcuni termini fondamentali della definizione, ma rinvia per una informazione esaustiva: a) ad eventuali legami “orizzontali” con altri termini e definizioni; b) a un eventuale approfondimento sullo stesso soggetto, ad un altro livello. Per esempio, alla parola piano corrispondono alcune articolazioni (Piano regolatore, Piano territoriale di coordinamento), ognuna con una sua breve definizione, che a sua volta può rinviare: a) in “orizzontale” per esempio alle legge istitutiva di quel tipo di piano; b) in “approfondimento” a una definizione più lunga e dettagliata dei contenuti di quel piano.

Il metodo di compilazione è stato quello di individuare in primo luogo una “traccia logica” lungo la quale disporre termini e definizioni, e solo in un secondo momento mirare alla loro esaustività. Ciò si deve in parte al carattere di lavoro “aperto” che i glossari devono avere, sia in fase di prima compilazione e pubblicizzazione, sia nel loro percorso di interazione con eventuali contributi esterni, evoluzioni culturali e istituzionali.

Interessante rispetto al lavoro sul glossario, la collaborazione e la condivisione del lavoro con la ricerca Muleta, svolta dell’associazione europea Urbandata e finanziata dalla Commissione europea, che ha progettato il prototipo di un glossario multilingue, di cui si riferirà più avanti. Questa iniziativa testimonia come sia largamente sentito non solo il problema di “comprendersi”, ma anche quello di intendersi sul “senso” dei termini comunemente utilizzate: soprattutto nelle discipline dell’urbanistica e della progettazione esiste un apparente accordo su temi ricorrenti, che assume, in realtà, significati culturali, tecnici e ancor più politici molto differenti: Parole come «piano», «progetti», «programmi» solo apparentemente si equivalgono, se solo si faccia riferimento alla loro natura istituzionale, ai loro caratteri formali, all’ambito di interesse, alla specifica fase decisionale di cui essi risultano espressione, alla natura del promotore. Ed assume una valenza semantica ancor diversificata se oltre ai suoi contenuti, facciamo riferimento al contesto amministrativo in cui essi si collocano.

Da questo punto di vista il “glossario” non appare una semplice raccolta e catalogazione di termini, ma anche il primo nucleo di uno strumento interpretativo e di riflessione sui caratteri salienti delle discipline in questione. Anche per questo i lavori sul glossario sono stati aperti ad un gruppo di “esterni”, un gruppo di valutatori (docenti universitari, dirigenti presso enti territoriali, esperti dei diversi argomenti individuati), che hanno potuto valutare, criticare (e quindi favorire una “ricalibratura” del lavoro), ma anche offrire un contributo diretto sui temi.

Fattibilità tecnica della condivisione: dall’interrogazione alla confrontabilità

Il gruppo Sistema informativo, coordinato da Pierre Piccotti, si è preoccupato di definire il progetto “Sistema informativo”[1] di Cri_Daup e di condurre un’analisi di massima sulle soluzioni possibili da adottare.

Rispetto ai cinque campi individuati dal gruppo di lavoro dello standard, che costituiscono le chiavi di ricerca nelle diverse basi dati, è stato costruito un sistema di connessioni logiche e di interrogazione.

Le peculiarità, le diversità, le ricchezze intrinseche dei formati, pongono però la necessità di permettere all’utilizzatore dell’Opac, sia di conoscere quali sono i formati originali, sia di accedere direttamente alle basi dati originali, per poter usufruire dei legami esistenti nei record informativi delle diverse basi dati.

Praticamente l’utilizzatore interrogherà a partire dal sito CriDaup il metadatabase; una volta identificata la notizia, “cliccando” sull’indirizzo informatico (Url) di ogni singolo record lancerà una query sul sistema remoto possessore dell’informazione. Potrà quindi proseguire navigando attraverso i link eventualmente esistenti sul sistema remoto. Si sono poste così le basi di un sistema che potrà consentire (ove adeguatamente sviluppato) di utilizzare un servizio informativo analogo a quello che il gruppo di Napster ha reso agli amanti della musica: poter accedere liberamente alla documentazione prodotta dalle diverse agenzie e scaricarla sul proprio computer. In questa direzione, ovviamente, il lavoro di CriDaup è solo l’inizio di un percorso possibile.

La costruzione degli Authority Files

Il gruppo di lavoro sugli Authority Files, coordinato da Riccardo Domenichini, si è proposto di adeguare le diverse agenzie (biblioteche, centri di documentazione e cartografia, archivi di progetti di architettura) in relazione ai diversi tipi di materiali (progetti di architettura, piani urbanistici, materiali bibliografici, cartografie e manufatti architettonici) agli standard Rica (Regole italiane di catalogazione per autore) e Isbd (International Standard Bibliographical Description). Il seguire le norme prescritte dagli standard, che definiscono la forma e la scelta dell’intestazione, insieme all’utilizzo di un unico database per la catalogazione degli autori, consente di evitare ai catalogatori facili duplicazioni o errori e soprattutto facilita agli utenti il reperimento delle informazioni.

Un esempio di condivisione: lo strumento di indicizzazione dei luoghi

Il gruppo del Thesaurus geografico, coordinato da Laura Casagrande, ha lavorato congiuntamente al gruppo di lavoro degli authority files, ed ha puntato alla composizione di un elenco alfabetico di termini condivisi fra discipline convergenti ma distinte.

Partendo dalle conclusioni del gruppo di lavoro sullo standard, il gruppo di lavoro del thesaurus ha proposto alcune modalità operative per il trattamento dell’elemento descrittivo luogo, nella prospettiva di utilizzare un unico strumento di indicizzazione, quale il thesaurus geografico di EasyCat.

L’esigenza di disporre di appositi strumenti di indicizzazione per i luoghi è particolarmente sentita negli ambiti documentali dell’architettura e dell’urbanistica; non a caso il più conosciuto e completo thesaurus geografico per l’arte e l’architettura è stato realizzato dal Getty Research Institute; per quanto riguarda l’urbanistica e la pianificazione, l’esperienza più consolidata è quella francese di Urbamet che vanta uno strumento analogo, anche se di dimensioni più ridotte. A questo proposito vanno citati anche gli strumenti di indicizzazione geografica di cui dispone lo IUAV e cioè il thesaurus geografico di Bibliodata, creato in EasyCat a partire dalle descrizioni degli analitici di periodico, e il thesaurus geografico del Circe, creato in EasyCat a partire dalla descrizioni dei diversi materiali cartografici, prevalentemente provenienti da TinLib.

Lo sviluppo della ricerca CriDaupnel quadro europeo ed italiano

Se una ricerca è vitale, giunta a conclusione non può spegnersi: deve dar luogo ad altre iniziative, che ne prolunghino nel tempo l’ispirazione e l’utilità. In parte, la continuità della ricerca è garantita dal fatto che dei suoi risultati si avvalgono le diverse strutture che l’hanno costituita. Sono strutture che ora si “conoscono” meglio: sono tra loro in rete. Limitarsi a questo significherebbe però ridurre l’orizzonte rispetto a quello possibile: che è più ampio di quello costituito dall’insieme delle strutture direttamente coinvolte.

Come si è detto all’inizio, i temi della ricerca si collocano in coerenza a numerosi aspetti del dibattito nazionale ed internazionale sulla produzione di informazioni, sulla loro organizzazione, sull’arricchimento e miglioramento delle potenzialità degli archivi, ma anche sulla diffusione delle informazioni e l’allargamento dell’accessibilità di queste fonti, ormai imprescindibili per le attività di ricerca. E la ricerca si ritrova, anche, in linea con le nuove esigenze manifestate dalla Comunità Europea per lo sviluppo e l’utilizzo dei contenuti digitali europei nelle reti globali, e di promozione della diversità linguistica nella società dell’informazione.

E’ in questo quadro, quindi, che occorre collocarsi a riflettere e operare per lo sviluppo di CriDaup, oltre i suoi confini. Ricercando, in primo luogo, i possibili punti di forza da cui partire per costruire una rete europea.

L’associazione europea URBANDATA

Un primo punto di forza è l’associazione europea Urbandata, di cui l’IUAV è tra i partner rilevanti. URBANDATA è un consorzio fra produttori di informazioni sull'"abitare" nella Comunità Europea. Mira a favorire lo scambio internazionale e la diffusione delle informazioni sulle novità urbane, nonché a sviluppare nuovi prodotti e servizi che aiutino questi processi. Essa è stata costituita come associazione di diritto francese. I suoi membri sono: per la Spagna, il Centro de Información y Documentación Cientifica; per la Germania, il Deutsches Institut für Urbanistik, per la Gran Bretagna, la Greater London Authority, Research Library; per la Francia, l’Association Urbamet, che a sua volta raggruppa il Centre de Documentation sur l’Urbanisme della Direction Générale de l’Amenagement, l’Habitation et la Construction, l’Institut d’Amenagement et d’Urbanisme de la Région Ile-de-France ed alcune associazioni professionali; per l’ Italia, Archinet associazione per l'informazione di settore che a sua volta comprende l’IUAV il Coordinamento Nazionale delle Biblioteche i Architettura, il cetro di documentazione Quasco della Regione Emilia Romagna; per l’ Ungheria, il VATI Magyar regionális Fejlesztési és Urbanisztikai Közhasznú Társaság / Hungarian Public Nonprofit Company for Regional Development and Town Planning.

URBANDATA pubblica il CD-Rom Urbadisc, a periodicità semestrale, che contiene oltre 700.000 referenze bibliografiche sulla ricerca, la politica e la pratica urbana e sociale negli stati dei suoi membri e più in generare a livello internazionale. Altri progetti programmati concernono un migliore accesso ai documenti originali, scambi e cooperazioni sulla ricerca. Tra questi merita particolare cenno il progetto MULETA.

Il progetto Muleta

Muleta (MUltilingual and multimedia LExicon on Town planning and Architecture) è un prodotto, proposto da Urbandata (e per l’associazione definito da Alessandra Carini dell’OIKOS), sostenuto finanziariamente dalla Commissione europea nell’ambito del programma INFO 2000 MLIS. Esso ha dato luogo alla costruzione del prototipo di un lessico riguardante la pianificazione territoriale e urbana, la progettazione, l’architettura e la costruzione. Le cinque lingue inizialmente scelte sono il francese, l'inglese, il tedesco, l'italiano e lo spagnolo; tutte le lingue europee saranno inserite man mano nuovi partners nazionali si aggiungeranno.

Muleta è un attrezzo che fornisce, per ciascuno dei lemmi inseriti, la traduzione letterale nelle altre lingue, il termine equivalente, una immagine quando necessaria a comprendere meglio, e la pronuncia corretta in ciascuna lingua. Alla costruzione di Muleta hanno conribuito, oltre ai membri di Urbandata, anche il Centre d’Etude technique de l’Equipement di Bordeaux (CETE) e la società EUROGONE, anch’essa di Bordeaux.

Conclusa, con molta soddisfazione del committente, la fase di costruzione del prototipo finanziata dalla Commissione europea, ora è in corso l’implementazione dei lemmi, ad opera volontaria di alcune delle associazioni componenti Urbandata. Il sito è consultabile in internet.

Un tentativo: UrPlaNet

In connessione con i programmi europei che hanno per obiettivo la ricerca, lo sviluppo tecnologico e la comunicazione si sono definite, dopo la conclusione della ricerca CriDaup, le linee guida di un possibile progetto europeo, denominato provvisoriamente UrPlaNet (Urbanistic Plans Network). Mentre la validità del progetto è apparsa via via confermata, il suo carattere “ad ampio spettro” non ne ha reso immediata la traduzione negli specifici modelli recentemente assunti dai programmi europei a gestione comunitaria. Si è reso perciò necessario – mantenendone integre finalità e contenuti – pensare a una sua articolazione, tenendo conto delle fonti di finanziamento utilizzabili, sia in sede comunitaria che nel quadro della utilizzazione dei fondi strutturali.

Il progetto dovrebbe consistere:

- nel definire un modello europeo di scheda catalografica dei uiani urbanistici (UrPlanCard) finalizzato alla costituzione di un catalogo europeo distribuito dei piani urbanistici, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto CriDaup;

- nell'utilizzare per UrPlaNet il prodotto di Muleta per associare un thesaurus multilingue (UrPlanThes) finalizzato alla ricerca delle schede catalografiche dei vari piani urbanistici;

- nel costituire un server OPAC sperimentale di indicizzazione delle schede catalografiche (UrPlanIndex) da usare sia come "user query interface", che come "query router" verso i singoli cataloghi, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto CriDaup;

- nel coinvolgere alcuni Enti pubblici territoriali (o loro strutture tecniche) non solo allo scopo di popolare il catalogo con le informazioni di loro competenza, ma anche in qualità di beneficiari del progetto per sperimentare il modello di OPAC, anche rivolto a un’utenza allargata. .

Si tratterebbe, insomma, di allargare la portata dei progetti già finanziati ampliando a livello europeo la rete delle unità di ricerca coinvolte, ottenendo così un allargamento degli standard (catalografici, lessicali, informativi) individuati a livello nazionale, favorendo altresì una loro verifica sul campo, e inoltre la formulazione di un linguaggio comune a una pluralità intranazionale di addetti, sia nella direzione del coinvolgimento di molti paesi europei, sia in quella di favorire il passaggio dell'utilizzo dello strumento dall’utenza accademica (studioso e studente) ad una più generica di “addetti ai lavori” (utente tecnico e professionista), fino al cittadino.

Alcune direzioni di lavoro

Tenendo conto delle iniziative già avviate, dei risultati ottenuti dai progetti già finanziati, delle necessità del loro completamento e delle opportunità della loro proiezione, il proseguimento dell’attività di ricerca potrebbe orientarsi secondo alcuni filoni già in parte indicati nei precedenti paragrafi e cioè:

A. Consolidare la rete di relazioni già stabilite con i diversi partners italiani ed europei, e soprattutto confermare la volontà di una fattiva e concreta collaborazione che porti a consolidare il processo di omogeneizzazione dei criteri di interrogazione e interazione degli archivi;

B. Progettare un avanzamento ed uno sviluppo del progetto di rete CriDaup, articolandolo secondo diverse direttrici tattiche d’azione, ciascuna delle quali avvia collaborazioni con partner diversi.

Le articolazioni del programma di lavoro possono essere così sintetizzate:

·Costruzione di un archivio nazionale dei piani urbanistici, sviluppando il collegamento con l’Osservatorio Piani d’Area Vasta dell’Inu, nonché con alcune ricerche di analogo tenore recentemente messe a punto da istituti universitari e di ricerca.

·Costruzione di un archivio di materiali utili alla conoscenza del territorio elaborati in occasione della redazione degli strumenti urbanistici, o in connessione ad essi. È noto che in Italia non esiste alcun archivio di “letteratura grigia” (documenti ufficiali e ufficiosi, non pubblicati a stampa o disponibili in tirature limitate), mentre in altri paesi europei si tratta di patrimoni informativi esplorati e diffusi

·Sviluppo e proiezione a livello europeo del “glossario”, in connessione al progetto Muleta e alla partecipazione a un suo sviluppo e trasformazione, da semplice strumento di lavoro per la compilazione di schede, a indice di un sistema antologico di definizione dei termini.

·Costruzione sperimentale di una o più reti provinciali di Comuni, per la formazione e la gestione dei piani urbanistici, in collaborazione con una o più amministrazioni provinciali. Si tratta di verificare la possibilità di raggiungere l’obiettivo di condividere in corso d’opera informazioni relative alla pianificazione, tra Provincia e Comuni, consentendone l’accesso sia ai diversi uffici, sia ai cittadini.

·Sviluppo del sistema di condivisione delle informazioni che, superando gli scogli su cui si è arenato il progetto Napster, consenta a qualunque utente di percorrere una rete informativa europea (e universale) di archivi nei settori dell’urbanistica, dell’architettura, delle costruzioni ecc., di conoscere i documenti depositati negli archivi delle varie agenzie collegate, di ottenerli direttamente scaricandoli dagli archivi, risolvendo direttamente con le agenzie i problemi dei diritti d’autore.

[1]. Per sistema informativo Cri_Daup si intende: (i) possibilità di interrogare congiuntamente le basi dati documentali dei partner del progetto almeno per quanto riguarda i campi comuni individuati, d’ora innanzi definito, (ii) applicativi specifici che permettano la gestione in tutti i suoi aspetti dei documenti digitali, d’ora innanzi definito, (iii) applicativi specifici che permetteranno la catalogazione dei documenti, (iv) accessibilità condivisa agli authority file, thesaurus geografico e glossario.

In calce il sommario del numero speciale "In fondo ai Fori"

Era archeologo. Scrisse: “Il bello dell’archeologia è che la scoperta di un oggetto antico (qualora non si sia dei retori crepuscolari in cerca di assurde evasioni) è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perchè dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d’aver perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria”. Credo che in questo pensiero, contenuto in un suo scritto del 1951[1], ci sia la chiave del suo percorso: la ragione del suo diventare, da archeologo, combattente per la difesa delle risorse del territorio, giornalista e urbanista.

Come archeologo aveva compreso che la terra che calpestiamo, coltiviamo, abitiamo è un deposito di storia: contiene le radici del nostro essere partecipi della civiltà cui apparteniamo, rappresenta il mondo che è dentro di noi perchè è venuto prima di noi, e che dobbiamo trasmettere al futuro, ai nostri eredi. Il territorio era un valore inestimabile, ma veniva trattato come se fosse solo un’entità geometrica: mero recipiente neutrale per la costruzione di oggetti spesso privi di qualunque giustificazione, quasi sempre disposti con rozzezza. L’espansione disordinata delle città che avveniva in quegli anni (gli anni dei Vandali in casa e dei Brandelli d’Italia) trasformava le campagne e i paesaggi in una “repellente crosta di cemento e asfalto”. Un meccanismo mostruoso era in moto, distruggeva valore trasformandolo in merce, macinava bellezza e storia, minacciava la salute e la qualità della vita per produrre rendita nelle tasche degli speculatori e dei loro scherani.

Con l’indignazione, cresceva in Cederna la volontà di comprendere: per denunciare, con la rabbia del giusto, ma anche per ammaestrare, per spiegare come si poteva fare, come si era fatto e si faceva altrove, per evitare gli errori e gli scempi, per soddisfare le esigenze del presente senza sacrificare né passato né futuro.

Dal risvolto positivo della sua indignazione nacque così il suo interesse per l’urbanistica:

"La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese"[2].

Roma era al centro della sua passione. Lì raggiungevano il più alto livello sia il valore del lascito storico sia l’aggressiva ferocia della speculazione immobiliare:

"Distruzione di monumenti antichi e rovina del loro ambiente, sventramento di antiche città, trasformazione in sordidi agglomerati di cemento di colli, parchi e campagne, tali e non altri sono i risultati dell’attività della Società generale immobiliare. Ad essa manca qualunque principio urbanistico, che sia minimamente organico e unitario: suo unico scopo, al pari di qualunque piccolo affarista, è di sfruttare al massimo i propri terreni: un po’ poco, se si pensa alla prosopopea con cui essa presenta i suoi progetti, alla rispettabilità cui essa tiene e alla grande considerazione in cui è tenuta dai più. Guardiamo Roma. I mille tentacoli di questa piovra agiscono indipendentemente da qualunque visione generale: sia che costruisca a Monte Mario, sulla Trionfale, sulla Camilluccia, sulla Cassia, sulla Casilina, sulla Tuscolana, sull’Appia Antica, sull’Ardeatina o sulla C. Colombo, l’Immobiliare non fa che stirare ciecamente Roma in tutti i punti cardinali, e quindi realizzare trionfalmente l’espansione della città a macchia d’olio, incrementando paurosamente e rendendo cronica l’anarchia, stabile il caos e il fallimento dell’urbanistica romana"[3].

Implacabile è Cederna nel denunciare, oltre ai promotori delle devastazioni sistematiche del centro storico e della campagna romana, dei beni culturali e della vivibilità, anche i poteri pubblici inetti e i loro accomodanti tecnici (memorabile in proposito è la poesiola “A un architetto impegnato” che apre Brandelli d’Italia). A loro spetterebbe il compito di esprimere l’interesse generale di tutelare i valori comuni e di rendere civile la città, di dotarla di una struttura funzionalmente idonea (perciò la sua difesa tenace della strategia del Sistema direzionale orientale e della liberazione del centro storico dalle attività amministrative), di arricchirla di verde pubblico come tutte le grandi città europee, di commisurare l’invasione dell’Agro allo stretto fabbisogno indispensabile di nuove urbanizzazioni.

E a loro, ai politici e ai tecnici che tradivano la propria missione, si rivolgevano le sue più laceranti staffilate. E’ facile pensare alle espressioni che riserverebbe oggi a chi si propone di rendere urbanizzabili, senza alcuna necessità, 16mila ettari di Agro romano per rispettare inesistenti “diritti edificatori”

[1] “Il tempio sotto il melo”, ora in Antonio Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton editori, Roma 1991, pp. 17-23.

[2] A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, p. 18.

[3]A. Cederna, “Il leviatano Immobiliare”, in Il mondo, 26 giugno l956, ora in A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, pp. 411-412.

Sommario

del numero speciale di Carta Qui

"In fondo ai Fori"

Cederna, Petroselli il progetto dei fori [ Vezio De Lucia]

Lo chiamavano Tonino [ Giuseppe Cederna]

Le invasioni barbariche [ Edoardo Salzano]

Il triste destino della "sua" terrazza [ Italo Insolera]

Il foro nel parco [ Cartaqui]

La città è come un'infezione in mano ai trafficanti di suolo urbano [ Paolo Berdini]

Chi strangola il parco dell'Appia [ Anna Pacilli]

Il disegno della città non si fa a pezzi [ Antonello Sotgia]

Caro Rutelli, e il parco? [ Antonio Cederna]

Il nuovo Codice dei beni culturali, per alcuni aspetti sostanziali, costituisce un ribaltamento rispetto a impostazioni che sono maturate, in Italia, fin dalla formazione dello Stato unitario. Giuseppe Chiarante ricordava (l’Unità, 7/2/2004) che già nella prima legge organica sull’argomento[1], si proclamava l’assoluta inalienabilità dei beni culturali: la premessa della “linea italiana” sui beni culturali era insomma la sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica. Nel campo dei beni paesaggistici era stato affermato un altro principio cardine: la rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale. Lo aveva posto con grande chiarezza già Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti: il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo"..

Entrambi questi principi sono capovolti dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Contraddetto è di fatto anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio, non a caso posta tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale.

Nel corso della maturazione delle nuove concezioni della tutela, basata sulla pianificazione del territorio anziché sulle mera apposizione del vincolo, si era raggiunto[2] un delicato equilibrio tra le competenze (e i doveri) dei poteri pubblici espressione dell’unitarietà della nazione e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.

Mentre il Codice Urbani mantiene l’insieme del sistema di tutela/pianificazione definito dalla “legge Galasso” e l’equilibrio tra competenze statali e competenze sub-statali da esso accortamente messo a punto, da esso scompare totalmente il potere di annullamento, tradendo in tal modo un percorso culturale che aveva vittoriosamente attraversato tre stagioni della storia italiana: quella post-risorgimentale e giolittiana, quella fascista, e infine quella repubblicana. Pedaggio alla devoluscion, evidentemente, del quale pagheranno il prezzo le generazioni future; ma la sostenibilità non è di questo regime.

Edoardo Salzano,

Ordinario di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia

[1] Legge 20 giugno 1909 n. 364.

[2] Soprattutto con la legge 8 agosto 1985, n. 431 (“legge Galasso”).

È vero quello che molti hanno detto. I crolli delle case (a Foggia come a Roma), le frane e le colate di fango e l’esondazione dei fiumi e dei torrenti (in Campania e in Sicilia come in Liguria e in Piemonte) non testimoniano solo né tanto la fragilità dei nostri territori. Essi disvelano ogni anno, e più volte all’anno, i gravissimi guasti che alcuni dissennati decenni di rapine e di saccheggi hanno provocato: dagli anni forsennati di una ricostruzione postbellica all’insegna dell’ ognuno si arrangi come può , a quelli del boom dell’edilizia e dell’automobile. Ha ragione Franco Botta, quando sull’ Unità di ieri scrive: “L’arte dell’arrangiarsi ha consentito agli interessi miopi e speculativi di avere campo libero, e tutto questo ha prodotto città che sono invivibili e fragili”.

Non da oggi questo avviene. Non da oggi le case crollano e le montagne vengono giù a pezzi e le alluvioni travolgono paesi e città. Il guaio è che a questi eventi ci siamo assuefatti. Fanno parte della routine, ormai: ci si commuove per un po’, si accusano i soliti ignoti, e poi si dimentica, senza neppure provare a cambiare qualcosa nei meccanismi che di quei drammi sono all’origine.

Una volta non era così, giova ricordarlo. Giova ricordare quello che accadde, per esempio, nel 1966, all’indomani del crollo di Agrigento (decine di palazzi crollarono in una notte, miracolosamente senza vittime), e delle alluvioni dell’Arno e dell’eccezionale alta marea di Venezia (sorella acqua minacciò di affogare due gioielli della civiltà mondiale). L’opinione pubblica insorse, il Parlamento denunciò, discusse, e subito legiferò. Venne approvata (nel 1967) una legge urbanistica: non “la riforma”, ma alcune norme semplici e razionali. Si rafforzarono le regole di controllo dell’uso del territorio, si impose la pianificazione urbanistica ai comuni diventati complici dell’”arte di arrangiarsi” a danno della collettività, si disciplinarono le lottizzazioni dei terreni imponendo standard di spazi pubblici e perequazione tra i proprietari.

Poi vennero (nel 1970) le regioni, cui la Costituzione affidava importanti compiti di governo del territorio. Con esse, emersero con evidenza le differenze nei comportamenti pubblici delle diverse parti del paese: in alcune regioni (poche) si fecero delle buone leggi e si provò a pianificare l’uso del territorio e delle sue risorse, nelle altre ci si limitò a sommare i difetti della miopia dello stato centralistico con quelli della permissività delle amministrazioni locali.

Negli stessi anni si sviluppò (grazie anche al maggiore benessere) una nuova attenzione all’ambiente, al paesaggio, alla qualità della vita. Ciò provocò, dopo anni di dibattiti e di lavoro, alcune leggi positive: sulla difesa del suolo e delle acque, sulle zone protette, sul paesaggio. Leggi che davano strumenti per un governo del territorio le cui regole fossero ispirate alla prevenzione dei rischi, alla tutela delle risorse naturali, alla salvaguardia dei patrimoni della storia e del paesaggio.

Ma negli stessi decenni maturarono tendenze di segno opposto. L a compiacenza verso l’abusivismo, e addirittura la sua legalizzazione con i condoni. Lo svuotamento dei tentativi delle pianificazioni regionali, l’ insabbiamento delle leggi di tutela, l’allargamento delle deroghe concesse per ogni evento “eccezionale”: dalle alghe in Adriatico ai Mondiali di calcio. Mentre la crescente fragilità del territorio, devastato da decenni di spreco, avrebbe chiesto regole più rigorose, controlli più accurati, impiego delle risorse più mirato, pianificazione del territorio più generalizzata e penetrante, la moda (e gli interessi emergenti) spingevano nella direzione opposta: verso la deregolamentazione, anzi, verso il disprezzo di ogni regola, e la sostituzione ad esse del’ autocertificazione. (Sapete che una Regione ha introdotto l’ autocertificazione, cioè la dichiarazione unilaterale dell’ interessato, alla concessione edilizia anche in caso di costruzioni del tutto nuove?).

Sembrava che la scoperta e la denuncia di Tangentopoli, la rivelazione dei nessi tra il sistema della corruzione e quello della deregolamentazione urbanistica e dell’elusione dei controlli, aprissero una stagione nuova. Le indagini e i processi avviati dalle preture di Mani pulite sembravano aver aperto la strada alla riscossa di una politica capace di restituire centralità all’interesse collettivo (delle generazioni presenti e di quelle future). Sembrava che la riduzione dell’ingerenza dello stato (e dei partiti) dalla gestione delle aziende e dell’economia potesse aumentare l’efficienza dello stato nella sua autorità di costruttore e custode delle regole valide per tutti, e delle infrastrutture essenziali per la vita delle aziende e delle famiglie (il suolo e la città sono una di quelle essenziali).

Molti di noi pensano che così non siano andate le cose. E allora alcuni sono sollecitati, dal crollo di Foggia, a una conclusione amara. Piangere per i morti di Foggia sembra naturale. Lo è, se in un animo alberga la pietà. Dati i tempi, e il segno che in essi sembra prevalere, sarebbe forse più saggio rassegnarsi a convivere con i lutti del territorio.

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