La stagione è forse opportuna per riproporre il problema di quale debba essere il centro dell’azione e della riflessione dell’urbanistica: quel centro che, volta a volta, è stato visto nella razionalizzazione dei processi di uso del territorio o nella riforma del regime dei suoli, nelle conquiste ( e delusioni) sul terreno legislativo o nella pratica amministrativa e tecnica degli enti locali, nel ruolo delle regioni o nel nodo del “livello intermedio”.
In una fase in cui, per cambiare quel che c’è da cambiare, tutto è posto in discussione, è probabilmente opportuno partire da una base molto elementare, da una matrice indiscutibile: dall’affermare, cioè, che l’oggetto primordiale della nostra disciplina, al quale bisogna guardare con un’attenzione più marcata, e certo più incisiva e coerente, è il territorio, come realtà fisica nella quale è sedimentata e materializzata la storia della nostra civiltà e che costituisce non solo una primaria risorsa economica, ma la base stessa per la sopravvivenza, e per ogni possibile sviluppo, della nostra società.
A questa considerazione, molti eventi e molte esigenze, anche esterni, sollecitano. Le frane, gli smottamenti, le alluvioni, gli inquinamenti mortiferi (Severo) o morbosi (le metropoli, le fabbriche, i fiumi, i mari): i fatti, insomma, della vita e della cronaca quotidiana sono una prima indubbia sollecitazione in tal senso. Ma come non riconoscere e ricordare che l'impegno per la preservazione della base materiale della nostra esistenza è il portato della “tradizionale” cultura urbanistica italiana (quella dei Piccinato, dei Detti, degli Astengo)? Che gli effetti che oggi registriamo sono la derivazione immediata di cause lucidamente indicate, e combattute dai protagonisti della storia del nostro stesso istituto?
E c'è una seconda sollecitazione che spinge nella medesima direzione. Essa sta nel fatto che oggi, nel clima di diffusa sfiducia verso i temi e i modi più tradizionali dell'azione politica, una delle poche spinte sociali che esprimono una resistenza e una reazione nei confronti delle tendenze al riflusso verso il “privato” o al ripiegamento verso il “corporativo”, è quella che si manifesta nelle azioni e rivendicazioni e proteste e proposte sul tema dell'ambiente e della sua difesa: una spinta aggregante che va al di là delle pur rilevanti formazioni e organizzazioni ecologistiche. Le esigenze in tale direzione espresse, nelle quali è riconoscibile la vitale attenzioni di nuovi strati sociali verso il territorio, sono davvero distanti dalla nostra disciplina?
Ancora. È chiaro a tutti (fuorché ad alcuni “potenti”) che l'era dell'espansione è terminata. Ed è chiaro a noi che il tema determinante è oggi quello di «legare e cucire» (come scrive Bernardo Secchi); quello insomma di recuperare e riutilizzare e ricomporre case e infrastrutture, centri antichi e periferie moderne, tessuti degradati e tessuti sbrindellati. Ebbene, il recupero va limitato ad alcune “aree” o “zone”, è il contenuto di alcuni piani, o deve diventare il parametro essenziale dell'insieme della nostra azione? E non è allora il territorio in quanto tale, nella sua specificità fisica, storica, economica, sociale, nella sua unità strutturale e nelle differenze delle sue connotazioni e delle sue “densità”, a dover essere l'oggetto primario di ogni analisi e il punto di partenza di ogni progettazione della “città futura”?
Un'ultima considerazione. È viva l'esigenza (ne parlerà il presidente dell'Inu nella relazione al congresso di Genova) di ribadire e rafforzare l'autonomia dell'istituto dai partiti (come dai sindacati, dalle accademie e dalle altre organizzazioni e dimensioni della società). Ed è ovvio che questa autonomia ha un senso, ed è feconda di risultati anche sulla politica e sui partiti, se essa è l'espressione di un punto di vista, di un approccio alla realtà, di una dimensione dei problemi che sia propria della nostra disciplina, e a cui questa sia in grado di offrire sbocchi di analisi e di proposte. Dove ha sede, però, la matrice della distinzione che non ci oppone, ma ci distingue dalla politica e ci colloca con essa in posizione dialettica?
Sta, forse, nel fatto che la politica, in democrazia, è fortemente condizionata dalla ricerca del consenso, ed è quindi prevalentemente tesa alla conquista del consenso, ed alla soddisfazione delle esigenze, che si manifestano qui e oggi. Mentre, viceversa, l'urbanistica, proprio perchè ha quale proprio centro ed oggetto la difesa e valorizzazione e trasformazione del territorio secondo modi che non lo neghino ma ne esaltino le qualità, impone ed esige di guardar lontano e avanti: pretende la lungimiranza di chi, per mestiere, sa che occorre salvaguardare oggi e prevedere oggi, per rendere possibili condizioni di vita domani, esigendo la vista su un domani anche lontano.
Con un po’ d'ambizione, e con molto schematismo potremmo dire che la politica si occupa soprattutto degli uomini di oggi, e l'urbanistica soprattutto degli uomini di domani; e ciò proprio perchè essa si occupa di quel particolare oggetto che è il territorio come sede della vita e dell'attività degli uomini del presente e del futuro. È allora il caso, anche per questo, di occuparsi in modo più attento dell'oggetto (vorrei dire del protagonista) della nostra disciplina. E non sarebbe male proporci l’impegno di redigere, pubblicare, divulgare (e tentare di rendere efficace) una carta dei diritti del territorio): che, alla fine, coinciderebbe con la carta dei diritti dell’uomo di domani.