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Se si esaminassero parallelamente la storia delle teorie e delle proposte via via elaborate nel corso del dibattito, ormai secolare. sul problema dei centri storici, e la storia della nostra realta sociale e politica, non si avrebbe soltanto una puntuale conferma del nesso che collega sempre l'elaborazione culturale con il concrete cammino della realta civile, ma si giungerebbe anche facilmente a comprendere, io credo, quale sia il passaggio obbligato che occorre valicare per poter risolvere oggi, nella pratica, il problema dei centri storici

Un fatto, intanto, emergerebbe molto chiaramente: il singolare coincidere dell'allargarsi e dell’approfondirsi delta vita democratica italiana nei due decenni aperti dalla vittoria antifascista, con il sempre più accentuate liberarsi della cultura sui centri storici dagli originari moventi “aristocratici”. Si può dire infatti, mi sembra, che nel corso degli ultimi vent'anni gli urbanisti abbiano quasi del tutto superato non solo le concezioni piu arcaiche e ormai divenute reazionarie (quelle, per intenderci, basate sull'esclusiva considerazione del monumento isolate come valore da tutelare, e quindi singolarmente predisposte a divenir l'alibi per la prassi degli “sventramenti”), ma anche quelle stesse posizioni - certo ben più comprensive e mature - nel cui ambito il centre storico, se comincia a esser visto come una realta unitaria che ha valore nel sue insieme e non in questa o in quell'altra delle sue parti, rimane comunque ancora considerato come una realtà esclusivamente composta di forme, che è quindi possibile cristallizzare e imbalsamare come un grande museo.

Non a caso, dunque, ma proprio perche la storia del paese e lo sviluppo dell'elaborazione culturale sono venuti via via a dissolvere le radici aristocratiche della “cultura dei centri storici”, si è oggi indotti ad avere una consapevolezza sempre più precisa dell'”aspetto sociale” della questione dei centri storici, del problema dei “contenuti” di questi ultimi e delta loro “funzione” nell'organismo urbano e nell'intera realta nazionale.

Oggi la cultura urbanistica è giunta a comprendere che ogni centro storico ha una duplice caratteristica, una duplice funzione, e pone quindi una duplice serie d'esigenze, le quali altro non sono che le due facce d'una medesima medaglia. Da un lato, vi è la funzione che deriva al centri antichi dalla lore storicità: dal faito cioè che in essi si è verificata, nel corso dei secoli, una intensa accumulazione di valori, la quale fa oggi dei centri storici un patrimonio di grandissima rilevanza. Dall'altro lato, vi è la funzione che deriva dal fatto che nei centri storici si deve vivere, si deve lavorare, si deve abitare: che percio essi devono essere comunque porzioni vive, attive, dinamiche degli organismi urbani e territoriali di cui sono parte.

I due aspetti, come s'è accennato. sono strettamente intrecciati, e si sostengono anzi l'uno con l'altro. Infatti, mentre è ormai chiaro che i centri storici non trovano la ragione della loro bellezza solo nelle pietre e negli intonaci da cui sono costituiti, ma anche (e in modo essenziale) nella vita che in essi si svolge[1], è chiaro altresi che solo nella misura in cui diverranno un patrimonio effettivamente considerato come tale - e percio attivamente tutelato, valorizzato, concretamente utilizzato dalla collettività nazionale - i centri storici potranno diventare ancora una volta luoghi realmente vitali, sedi di attività non lesive dell'assetto formale che il trascorrer dei secoli e l'accumularsi del lavoro umano ha conferito a essi, ma capaci invece di integrarsi fecondamente con gli antichi valori.

Si apre a questo punto un problema di notevole rilevanza metodologica, al quale mi limiterò ad accennare. Tutelare in rnodo effettivo i centri storici significa, per quel che s'è detto, trovare un rapporto equilibrato e organico tra “strutture vitali” e “strutture formali”; significa in altri termini individuare, tra i “tipi organizzativi”, le attivita, le specifiche forme della vita produttiva presenti nella nostra epoca, quali siano quelli che possono non solo non risultar dannose all'assetto formale dei centri storici, ma anzi costituirne il contenuto organico e omo geneo, e perciò ravvivarlo e conferirgli nuova forza[2]. Il problema cui accennavo e appunto quello di individuare, nel concreto, quali siano i “tipi organizzativi” capaci di tanta impresa.

Su questo tema, comunque, la riflessione teorica e la ricerca scientifica sono (per quanto mi risulti) appena agli inizi. Non è tuttavia necessario, per intervenire nella tutela attiiva dei centri storici, attendere che la cultura urbanistica abbia proseguito i'iter della propria elaborazione; l'attesa, anzi, sarebbe estremamente dannosa, sia per il destino dei nostri centri storici (nei quali è in atto un gravissimo processo di disgregazione che deve a ogni costo essere arrestato), sia per la stessa cultura urbanistica, la quale ha oggi palesemente bisogno di verificare nelle con crete operazioni d'intervento le proprie acquisizioni.

Occorre domandarsi allora, a questo punto, quali siano le condizioni che devono realizzarsi se si vuole effettivamente consentire un positivo interi onto urbanistico nei centri storici. A me sembra che tali condizioni siano essenzialmente d'ordine politico.

E in effetti è chiaro, in primo luogo, che utilizzare in modo pieno e adeguato il patrimonio storico-artistico e ambientale dei centri antichi, e rendere cosi possibile una loro tutela attiva, vuol dire fare dei centri storici i poli specializzati di una vita culturale intensa. dispiegata, che coinvolga l'intera collettività nazionale: vuol dire percio rovesciare l'indirizzo attuale seguito nel nostro paese dai gestori del sistema capitalistico, e fare della cultura (e in particolare di quella umanistica) non piu la cenerentola, ma la regina nella nostra società. In secondo luogo, poi, è altrettanto evidente che se i centri storici devono essere considerati come parti integranti dellorganismo urbano, è indispensabile che l'insieme dell'assetto urbanistico del nostro territorio sia regolato da una discipiina urbanistica realmente innovatrice: ben diversa, dunque, da quella che l`attuale centro-sinistra ci promette. In terzo luogo, infine, è chiaro altresi che, se per dare un'adeguata sistemazione ai centri 'storici e necessario (come ormai la cultura urbanistica ha acquisito) affrontare con decisione il problema del rapporto tra gli uomini, il loro lavoro e la loro residenza, e perciò altrettanto necessario adottare tutti gli strumenti che possano consentire, attraverso una maggiore articolazione della vita democratica. una partecipazione sempre piu ravvicinata dei cittadini alle scelte in cui sono colnvolti.

Da qualunque punto insomma si affronti l'argomento, ci si rende conto che uno soltanto è il nodo da sciogliere: quello di giungere finalmente a vedere il problemi dei centri storici come un aspetto particolarmente qualificante delle grandi questioni nazionali: di quelle questioni, cioè, alla cui risoluzione tutte le forze positivamente presenti nella società civile sono vitaimente interessate, e su cui esse misurano la propria capacità rinnovatrice.

Se questo vero e proprio passaggio obbligato non venisse valicato, se il problema dei centri storici restasse ancora confinato nei limiti degli interessi particolari di questa o di quella categoria di specialisti, molte suggestive invenzioni la cultura urbanistica potrebbe ancora produrre; ma essa ormai verrebbe sernpre più a rinchiudersi nel ghetto angusto delle esercitazioni accademiche, mentre - quello che conta ancora di più - le nostre antiche città correrebbero. sempre piu velocemente, verso la loro totale disgregazione.

[1] “Nessuno può oggi seriamente ritenere utile la conservazione di pezzi di città come pezzi pregiati privi di sostanza attiva e di un ben definito ruolo nel contesto urbanistico” M. Manieri-Elia, Relazione al I Congresso nazionale dell’associazione “Italia nostra”, Roma novembre 1966.

[2] Cfr. l’intervento di G: C: De Carlo al Convegno nazionale sull’edilizia residenziale, Roma, febraio 1964.

Dall'articolo sul Salario, la Repubblica, 7 marzo 2008

Più piazze e meno cemento. L’impegno della Cgil vicentina per restituire la città alla società. Il caso Dal Molin, a cura di Oscar Mancini, Roma, Ediesse, 2007, pp. 236, €12,00

Dobbiamo essere grati alla CGIL, alla CdL di Vicenza, e soprattutto a Oscar Mancini per il grande regalo che hanno fatto con le iniziative di cui questo libro è la testimonianza. Per quelli di noi che si occupano del territorio (parlo degli urbanisti, ma non solo) il rapporto con il mondo del lavoro è questione centrale. Non sempre questo rapporto è positivo.

Naturalmente, quando parlo di urbanisti non parlo di quelli che attaccano il carro dove vuole il padrone (qualunque padrone, qualunque carro). E non parlo neppure di quelli che proclamano la neutralità della scienza e della tecnica di fronte alla dialettica che anima la società e attraverso la quale si disegna il suo cammino.

Parlo degli urbanisti che sono schierati, che sono “faziosi” (come definiscono eddyburg gli studenti del PoliMI). Quelli che ritengono che il nesso tra urbanistica e società, e tra urbanistica e politica, sia un nesso essenziale. E che si rendono conto che la frammentazione della società, e l’appiattimento della politica sugli interessi di breve periodo, rendono sempre più difficile e ingrato il loro lavoro.

E parlo di quegli urbanisti per i quali il territorio non è – come poteva essere per i nostri nonni – un contenitore generico e indifferenziato d’ogni possibile trasformazione e utilizzazione. Parlo di urbanisti territorialisti, che ritengono che il territorio sia un deposito di risorse che natura e storia hanno creato con la loro collaborazione: con il millenario investimento di lavoro e di cultura volto a guidare e utilizzare le risorse e le forze, i ritmi e le regole della natura, rispettandole e aiutando la natura a crescere.

Parlo degli urbanisti che ritengono che anche il territorio abbia dei diritti, se è vero che la sopravvivenza delle qualità in esso depositate è una risorsa che non può, non deve essere dissipata, consumata, logorata, distrutta dalle generazioni del presente, perché è patrimonio anche delle generazioni del futuro, e delle loro esigenze. “Terra a rendere”, lo slogan di Laura Conti è un impegno e una stella polare.

Per questi urbanisti il rapporto con il mondo del lavoro è essenziale, ma non è sempre facile. Il mondo del lavoro è anch’esso un mondo storicamente determinato. Il lavoro è parte (è la parte creativa) del sistema capitalistico di produzione. Nella sua forma contemporanea è necessariamente interno a questo sistema – anche perché fuori da questo sistema non c’è niente, se non sacche di arretratezza da una parte, e aspirazioni, sogni, speranze, progetti dall’altra parte.

A volte il mondo del lavoro si fa catturare dalle logiche del concreto sistema economico nel quale vive. Succede così che a volte il mondo del lavoro difende obiettivi e proposte che sono sbagliati dal punto di vista degli interessi generali, spesso è costretto a scegliere soluzioni che sembrano premiare nell’immediato ma compromettono il futuro.

Altre volte il mondo del lavoro è un grande alleato delle aspirazioni dell’urbanistica territorialista e schierata, faziosa, partigiana del “territorio come bene comune” e del primato, nel governo del territorio, del collettivo, del comune, del pubblico nei confronti dell’individuale, del privato.

Un momento importante dell’incontro tra le aspirazioni degli urbanisti e la spinta del mondo del lavoro è stato il grande sciopero generale del 19 novembre 1969.

Furono anni importanti, la cui storia è stata scritta ma poco studiata dai decisori. È la storia di un processo di riforme che ha tentato di sconfiggere le forze della rendita e della speculazione, di creare le condizioni che consentissero di dare razionalità, socievolezza e bellezza alla città e al territorio. Gli anni nei quali non si raggiunse l’obiettivo di una radicale riforma urbanistica, ma se ne conquistarono pezzi importanti: la politica degli spazi pubblici commisurati a standard adeguati, la politica della casa come diritto sociale, la politica di una pianificazione urbanistica capace di mettere la mordacchia alla rendita fondiaria.

Ebbene, avendo partecipato abbastanza da vicino a quegli avvenimenti, ricordo bene quanto fu decisivo il ruolo delle forze sociali. Del movimento delle donne (un ruolo protagonista nell’ottenere gli standard urbanistici fu quello dell’UDI) e del sindacato dei lavoratori. Il ricordo dello sciopero generale del 19 novembre 1969 (per la casa, i servizi, il trasporto, il Mezzogiorno) è ancora entusiasmante per chi lo vide da vicino.

Ecco, ogni volta che vengo a Vicenza ho la sensazione di vivere un momento analogo. Certo non con la stessa rilevanza, ma certamente con la stessa anima. E, in più rispetto ad allora, con una maggiore capacità di studiare, di comprendere, di utilizzare i saperi diversi ma anche di insegnar loro qualcosa che non sanno. Il lavoro che questo libro documenta, e offre a un pubblico più largo di quello che vi ha partecipato, è una testimonianza molto ricca di questo.

Ho letto cose molto interessanti, soprattutto sul rapporto tra lavoro e città, tra condizione e ruolo del lavoratore e condizione e ruolo del cittadino. Mi dispiace che non ci sia Paolo Nerozzi, impegnato nella contrattazione col Governo: ha scritto cose molto acute su questo punto, ma c’è Oscar Mancini, che ha questo tema nel suo cuore e lo ha posto nel cuore delle azioni che da anni promuove.

Io credo che bisogna lavorare a scavare ancora su questo argomento. Vorrei fornire un ulteriore spunto di riflessione.

“Lavoro” è un termine che esprime un valore profondo, primario, fondativo della nostra società. Per la nostra Costituzione il lavoro (non il mercato!) è il fondamento della Repubblica italiana. E in effetti, in modo diverso e con alleanze di classe diverse, le grandi forze che fondarono la Repubblica esprimevano tutte il mondo del lavoro: dal PCI e il PSI, alla DC, ai “partiti laici”.

La corrente di pensiero che, nella sua analisi e nella sua azione, ha posto come centrale il lavoro dell’uomo è comunque indubbiamente la marxista. E allora vale la pena di ricordare il modo in cui Marx definiva il lavoro:

“l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso [corsivo mio] di qualsiasi genere”.

E ancora:

“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.

Riflettere sul significato del lavoro dell’uomo nei contesti nei quali viviamo (dal governo attuale alla crisi planetaria) porta a sottolineare due connotazioni dei nostri tempi, l’una di carattere tattico e relativa al breve-medio periodo, l’altra di carattere strategico e relativa allungo periodo. Da esse scaturiscono due necessità dell’azione politica e di quella culturale: necessità certamente distinte, ma che sarebbe sbagliato separare.

Da un lato, è evidente che nell’attuale situazione italiana, così come questa si è determinata per colpa sia della destra che delle debolezze del centro-sinistra, il lavoro ha perso la centralità che la Costituzione gli assegnava. Lo rivelano l’espansione del precariato e la sua assunzione come “fattore di modernizzazione”, l’indebolimento dei sindacati dei lavoratori, lo squilibrio tra la tassazione dei redditi da lavoro e quella dei redditi finanziari, nonché, per riferirci a un tema centrale per queste pagine, la prevalenza della rendita (remunerazione della proprietà) sul salario (remunerazione del lavoro) e sul profitto (remunerazione dell’attività imprenditiva secondo una scuola, il frutto stesso del lavoro secondo un’altra).

Un governo che volesse ripristinare il rispetto della Costituzione su ciò che costituisce il fondamento della Repubblica dovrebbe assumere perciò come centrale la questione del lavoro, in tutte le articolazioni ora enunciate. Ora mi sembra che, mentre sul versante dei diritti del lavoro una pressione sulle forze moderate del governo c’è, sul versante del contrasto alle forze della rendita non ci sia con altrettanta determinazione.

Anzi. La cronaca dei nostri anni è piena delle cronache degli affari che amministrazioni strozzate dalla riduzione delle risorse assegnate consentono di fare agli speculatori per ottenere da loro qualche briciola, è piena di espressioni di considerazione di cui la politica gratifica gli immobiliaristi, denominati “capitani coraggiosi”. La rendita immobiliare, i plusvalori realizzati con le destinazioni urbanistiche e la localizzazione dei servizi, dovrebbe essere tosata per essere destinata a usi sociali, invece è diventata una componente significativa dello “sviluppo”, una grandezza del cui incremento ci si compiace perché accresce l’entità del PIL.

Ma accanto e dietro questo aspetto del problema del lavoro un altro se ne pone, che ne costituisce in qualche modo la prospettiva e lo scenario. La concezione del lavoro che ancor oggi nutre il pensiero economico e l’organizzazione sociale è quella propria del sistema capitalistico: il lavoro socialmente ed economicamente riconosciuto è quello finalizzato, direttamente o indirettamente, alla produzione di merci.

Se Marx, nel brano sopra citato, riferiva il lavoro alla produzione di valor d’uso, oggi invece per il calcolo economico, e per la stessa considerazione sociale, l’unico valore che è rimasto è il valore di scambio. I beni (siano essi oggetti o servizi) cui la produzione è finalizzata sono solo quelli riducibili a merce, e in tanto sono considerati in quanto sono ridotti a merce. Ciò che conta non è la loro utilità ai fini dello sviluppo dell’uomo e dell’umanità, ma la loro capacità di essere acquistati da un consumatore.

È morto un anno fa John Kenneth Galbraith. Fu lui che, nel lontano 1958, coniò per primo il termine “società opulenta” (affluent society). Con questa espressione si designa appunto una società nella quale la produzione ha perso qualunque profondo connotato umano, ed è finalizzata esclusivamente a vendere, in misura via via crescente, merci via via più lontane da ogni reale utilità per l’uomo.

Mi sembra che un lavoro finalizzato esclusivamente alla produzione crescente di merci superflue (spesso per di più dannose) non possa essere considerato durevole. Il ragionamento sul lavoro, e la rivendicazione della sua necessaria centralità si deve perciò connettere a quello attorno ai limiti dello sviluppo (di questo sviluppo, basato sulla riduzione dei beni a merci, sull’orgogliosa negazione dei limiti posti dal pianeta, sulla perdita di ogni finalità propriamente umana), al nuovo imperativo della “decrescita”, al pieno riconoscimento economico e sociale dei valori d’uso - e delle qualità culturali,ambientali, storiche del territorio.

Poiché il territorio è matrice rilevantissima di grandissima parte dei valori d’uso: lo ricorda nel libro Anna Marson, in apertura del suo scritto. Lottare per la sua salvaguardia, per la sua riqualificazione, per la sua salute è essenziale per conservare civiltà e speranza.

Ma è anche necessario inventare una economia che sappia conferire rilevanza, pienezza di diritti, cittadinanza piena nell’economia e nella società, al lavoro finalizzato alla produzione di valori d’uso.

Per concludere. Il caso della base americana Dal Molin, sul quale illibro fornisce abbontìdante materiale, è stato davvero un episodio significativo di una delle poche novità positive che si sono manifestate in questi anni: la crescita di un movimento radicato nel territorio, diffuso in ogni parte d’Italia, capace di durare, di contestare e insieme di proporre, di incidere concretamente sulle decisioni (il caso di Monticchiello e quello del cementificio di Torviscosa insegnano).

Per la nuova base militare americana a Vicenza grandi sono certamente le responsablità non solo del governo Berlusconi (e che cos’altro ci si poteva aspettare) ma anche del governo Prodi, che ben altro aveva promesso. Ma non dobbiamo trascurare le responsabilità del comune di Vicenza, succube e favorevole in ogni fase della vicenda.

Ebbene, io credo che si debba lavorare per far sì che il movimento nato per la protesta contro l’ulteriore espansione della base USA debba non solo durare e allargarsi, ma proporsi anche di incidere direttamente sul risultato delle prossime elezioni amministrative, sui programmi che saranno posti all’ordine del giorno e sulle forze che li realizzeranno.

2. La questione femminile

La tradizionale condizione femminile (quella condizione la cui presa di coscienza determinò il sorgere del movimento di emancipazione) ha una sua fondamentale caratteristica sociale nel fatto che tutti i consumi che si svolgono nell’ambito familiare vengono organizzati e gestiti dalla donna, la quale, privata di qualunque libertà nella scelta delle proprie opportunità di lavoro, è esclusivamente relegata al ruolo di erogatrice dei servizi necessari a fruire di tali consumi. Una simile situazione (che si risolve di fatto, quali che possano essere le coperture e le mistifìcazioni, in una piena servitù della donna) poteva comunque venir subita tranquillamente e quasi naturalmente, finché il lavoro femminile extra-domestico rimaneva un’eccezione; essa doveva però rivelare tutta la sua insopportabilità umana e sociale quando l’affermarsi della produzione capitalistica, con il suo progressivo allargarsi fino a investire l’ «esercizio di riserva» costituito dalla forza-lavoro femminile, conduceva all’ingresso di quest’ultima, in aliquote sempre più ampie, nell’attività produttiva.

In effetti, all’impiego capitalistico della forza-lavoro femminile non è venuta a corrispondere una sufficiente assunzione, da parte della società, dei compiti del lavoro casalingo. Di conseguenza, nel momento stesso in cui la donna, con il suo ingresso nel mondo del lavoro, ha dato inizio al processo della propria emancipazione, essa ha dovuto però pagare lo scotto d’essere sottoposta a un doppio lavoro: quello della fabbrica, o comunque delle sue mansioni nel processo produttivo al livello sociale, e quello casalingo della ‘gestione domestica.

È appunto per tutto questo, è appunto per liberare la donna dal peso inumano e insopportabile di un simile doppio lavoro, che i più consapevoli settori del movimento di emancipazione, mentre dovevano salutare, come un positivo portato allo sviluppo storico e come una sostanziale affermazione della libertà femminile, l’ingresso delle donne nella dimensione sociale della produzione, dovevano però, al tempo stesso, lottare perché le donne fossero affrancate dalla servitù dell’altro lavoro; perché dunque la custodia e l’istruzione della prole, la cura e la manutenzione degli alloggi, la preparazione dei pasti tutti gli aspetti, insomma, dell’”economia domestica” fossero progressivamente svolti sulla base, nelle forme e con l’efficienza di un vero e proprio lavoro, e non più attraverso la servile supplenza del «lavoro casalingo».

Ma uscire effettivamente dal «lavoro casalingo», organizzare come un vero e proprio lavoro i servizi tradizionalmente svolti dalla donna nell’ambito della famiglia, è evidentemente possibile solo se i consumi cui quei servizi sono ordinati mutano anch’essi radicalmente di segno; poiché è chiaro che i consumi domestici possono essere soddisfatti mediante l’erogazione di un lavoro che sia realmente tale ( di un lavoro cioè pienamente economico, nel senso di qualificato, efficiente, socialmente organizzato), soltanto se escono dall’individualismo che inevitabilmente li caratterizza finche vengono esclusivamente vissuti nell’ambito familiare, e si sviluppano in consumo comune.

Non è questa però - ormai lo abbiamo ampiamente argomentato - la strada seguita dal processo opulento; il consumo individualistico non si muta in consumo comune, ma viene anzi esaltato e sviluppato in modo parossistico e abnorme. Non si realizza perciò quella condizione necessaria, che sola può consentire alla donna di uscire dalla condizione inumana del “doppio lavoro”, senza nulla perdere della conquista raggiunta nel processo emancipatorio. Ma v’è di più. Nella società opulenta le donne non solo non vengono liberate dalla servitù casalinga; esse, mentre vengono ribadite nella loro condizione di erogatrici di servizi domestici, sono contemporaneamente sospinte ad abbandonare quell’unica e decisiva posizione che avevano raggiunto nella loro lotta emancipatoria. Le donne, infatti, vengono indotte dall’opulentismo a lasciare il mondo del lavoro e a chiudersi in quello di una “mistica femminile” nella quale rivivono, aggiornati e ammodernati, quegli antichi e mitici “valori femminili” che avevano mistificato e coperto la servitù casalinga della donna, presentandola come la connaturata e positiva prerogativa dell’ “angelo del focolare”.

Chiara è la ragione di ciò: non è forse il lavoro, nella società opulenta, economicamente inutile? E non sono ovviamente le donne le prime a essere sollecitate e praticamente costrette ad abbandonare quel mondo della produzione nel quale esse sono ancora, in definitiva, delle parvenues? È l’esperienza di questi anni, ormai, a dimostrarlo e a confermarlo in modo inoppugnabile.

Il testo integrale del libro Urbanistica e società opulenta, articolato in capitoli, è inserito nell'apposita cartella di eddyburg

Due aspetti del rapporto tra pubblico e privato

Il tema che mi è stato affidato è il nocciolo duro della questione urbanistica. Anzi, è la ragione che sta alla base della moderna pianificazione urbanistica. Questa infatti nasce, all’inizio del XIX secolo, all’apice del trionfo dell’economia capitalistica e nel cuore della società borghese, quando ci si rende conto che il mercato non riesce a risolvere i problemi che nascono nella città per effetto della sua crescita e dell’impetuoso sviluppo della produzione. Non solo la bellezza, ma la stessa efficienza dell’ambiente della vita e del lavoro degli uomini e delle aziende è minacciato dal caos inevitabilmente provocato dallo spontaneismo.

Mi sembra che il rapporto tra pubblico e privato sia oggi rilevante, nel nostro paese, per due aspetti: l’aspetto del potere e delle responsabilità, l’aspetto dell’economia e dell’impiego delle risorse.

I due temi sono stati sempre connessi, in modo più o meno esplicito, nelle vicende dell’urbanistica italiana. Rispetto agli altri paesi europei siamo arrivati tardi a disciplinare il modo di intervenire nel governo della città. Ma già la legge urbanistica del 1942 esprime in modo chiaro una scelta di campo decisiva su entrambi i punti:

(1) la responsabilità, e quindi il potere, di disegnare l’assetto della città spetta al governo pubblico e alle sue istituzioni; su questo principio è disegnato infatti l’intera impalcatura della pianificazione e delle sue procedure;

(2) in relazione a questo suo potere/responsabilità il governo pubblico ha la facoltà di sottrarre al mercato, tramite i collaudati meccanismi espropriativi messi a punto dalla borghesia nel corso del XIX secolo, le aree necessarie alle trasformazioni urbane.

Nel dopoguerra, superata la fase critica della Ricostruzione, si commise probabilmente un errore: invece di sviluppare le potenzialità della 1150/1942, si progettò un disegno che voleva essere interamente nuovo: la “riforma urbanistica”. confitto il tentativo di Il ministro democristiano Fiorentino Sullo propose una legge ispirata ai modelli di regioni europee non dominate dalla rendita fondiaria. Il suo tentativo fu sconfitto da quello che Valentino Parlato definì “il blocco edilizio”[i]. Infranto quel tentativo di modernizzazione si procedette comunque a un processo di completamento dell’edificio fondato sulla 1150/1942 attraverso alcuni passaggi decisivi.

Una stagione di riforme

Da testimone – sia pure molto marginale – di quegli anni posso dire che la sostanza della proposta Sullo era comunque quella che ispirò i diversi passaggi di quel faticoso processo di riforma, che si sviluppò, grosso modo, dal 1962 (la legge per favorire l’acquisizione delle aree per l’edilizia economica e popolare) al 1978 (equo canone e piano decennale per l’edilizia pubblica). Con qualche passo avanti rispetto alla stessa proposta Sullo.

Ribadita l’obbligatorietà della pianificazione urbanistica e territoriale, estesa quest’ultima al livello nazionale (i “lineamenti dell’assetto territoriale nazionale” del DPr 616/1977), arricchito l’armamentario della pianificazione attuativa (con i PEEP, i PIP e i Piani di recupero), introdotto (con gli standard urbanistici) il fondamentale principio del diritto dei cittadini a disporre di spazi adeguati per le strutture del “consumo comune”, si era intervenuti nella regolazione del rapporto pubblico/privato in tre aspetti di grande rilevo:

(1) si era stabilita la perequazione tra i proprietari privati negli ambiti di trasformazione lasciati all’iniziativa dei privati proprietari,

(2) si era superata l’impostazione ghettizzante dell’edilizia per i ceti meno abbienti, segregata in parti della città “specializzate” e sottodotate di elementi di qualità e di servizio, per dar luogo a quartieri caratterizzati dall’integrazione sociale, da adeguate dotazioni di servizi e dal regime pubblico dei suoli:

(3) si era introdotto il meccanismo del convenzionamento dell’edilizia, che – negli ambiti nei quali le aree erano preventivamente acquisite alla proprietà pubblica – avrebbe consentito di impedire il trasferirsi della rendita dall’area alla costruzione;

(4) si era messo a punto un meccanismo di amministrazione del prezzo delle locazioni che avrebbe potuto incidere significativamente sul valore della rendita immobiliare in tutto lo stock consolidato.

Da un lato, insomma, si era ribadito che il progetto della città doveva essere deciso dall’espressione rappresentativa della collettività, dagli istituti del potere pubblico democratico; dall’altro lato, si erano predisposti gli strumenti capaci di incidere sulla rendita immobiliare.

Si trattava di principi e di strumenti. Le leggi non potevano prescrivere che chi governava avesse la volontà politica di applicarle coerentemente. Quel “blocco edilizio” che aveva sconfitto il tentativo di Fiorentino Sullo non era stato dissolto.

Un momento in verità ci fu, in cui apparve possibile farlo. Fu quando nel paese si aprì uno scontro politico e sociale forte a partire dalla questione della casa e dei servizi. Ricordo lo sciopero generale nazionale per la casa, i servizi, i trasporti (novembre 1969), e ricordo le dichiarazioni dei padroni della FIAT, esponenti di quella borghesia capitalista moderna di cui oggi Corsero di Montezemolo si proclama il leader. Le dichiarazioni di Gianni Agnelli e di Umberto Agnelli vanno ricordate oggi, per sottolineare la distanza che ci separa da quel clima.

Nell'autunno del 1972 - con una intervista al settimanale Espresso e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'argomento. Affermava Gianni Agnelli:

“Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza”.

Ancora più reciso nelle sue formulazioni anche l'altro Agnelli, Umberto, l'amministratore delegato della Fiat:

“Per risolvere la crisi dell'edilizia e la carenza degli alloggi non bisogna fare marcia indietro sopprimendo la legge 865 per la politica della casa. La legge non ha dato buona prova, non perché fosse errata nei suoi presupposti, ma perché è risultata carente di strumenti operativi. Occorre quindi emendare con urgenza la legge, senza negarla peraltro nei suoi presupposti e nelle sue motivazioni, così da farne il punto di partenza per una organica politica della casa. In particolare occorre aumentare la responsabilità della Regione dandole un potere generale di surroga dei comuni inadempienti (...) Quanto alla polemica fra proprietà e affitto della casa, riemersa di recente, va chiarito che ammettere la proprietà della casa non è una concessione alla rendita e che questa, combattuta e eliminata nell'esproprio del terreno, non ha possibilità di risorgere a valle, quando la proprietà sia ottenuta nel quadro dell'edilizia convenzionale”

Interesse generale e rendita

La politica e la cultura di quegli anni erano basate su una concezione dell’interesse pubblico e su una concezione della rendita che è utile ricordare, per verificare quanto siano ancora vive nei soggetti che oggi animano la scena del governo e quella della governance.

Sul terreno della politica si riteneva che il compito di garantire la prevalenza dell’interesse spettasse alle istituzioni rappresentative nelle quali si esprimeva la prassi della democrazia. Si riteneva che la dialettica delle “parti” politiche, e degli interessi che ciascuna di esse rappresentava, fosse il modo per raggiungere la sintesi di una decisione la più vicina possibile a un “tutto” che fosse superiore alla somma aritmetica delle sue parti. E la politica veniva intesa come servizio alla collettività, non alle singole componenti della sua rappresentanza. Che l’interesse generale dovesse prevalere su quello di singoli gruppi e individui era un assioma indiscutibile: quella prevalenza era del resto la garanzia della tutela dell’interesse dei singoli, i quali dovevano avere essi stessi una prospettiva e una finalità “sociale”.

Sul terreno dell’economia si distinguevano nettamente le tre forme del reddito: salario, profitto e rendita. Al salario e al profitto veniva riconosciuto un ruolo pienamente sociale, utile all’avanzamento della società e al benessere dei suoi componenti. Al profitto si chiedeva – da parte delle forze politiche, non solo di sinistra, che si rifacevano ai movimenti dei lavoratori e ai principi del liberalismo – che producesse accumulazione, cioè reinvestimento nel processo produttivo per allargarlo; la dialettica era tra la quota della ricchezza da attribuire all’uno o all’altro, al salario e al profitto.

Per quanto riguarda la rendita essa era considerata, di per sé, una componente parassitaria della ricchezza della nazione. Veniva percepita e goduta dai soggetti che se ne appropriavano non in relazione a una funzione sociale, a un “lavoro” o a una “intrapresa” o a un “rischio”, ma unicamente alla circostanza di possedere un bene economico, cioè utile e scarso.

Della rendita immobiliare poi (fondiaria ed edilizia), e in particolare della sua componente differenziale, si sottolineava il fatto che essa non era comunque il risultato del lavoro del proprietario, ma del lavoro, delle decisioni e degli investimenti – attuali e storici – della collettività.

Che i padroni della più grande fabbrica italiana e massimi dirigenti della Confindustria si esprimessero nei termini che ho ricordato – pur senza essere sotto la minaccia della tortura – mi sembra significativo della condivisione ampia che queste convinzioni avevano raggiunto. E della distanza che separa il nostro oggi dal nostro ieri.

Dal Welfare State al Neoliberismo

La storia successiva, che inizia negli anni Ottanta, è infatti quella dello smantellamento della strategia costruita nei due decenni precedenti. È una vicenda che si inserisce in una storia più grande, che porta gran parte del mondo dall’assetto e dai principi che possiamo riassumere nelle figure di Franklin D. Roosevelt e di John M. Keynes a quelle che l’analisi di David Harvey effigia con le figure di Volckers, presidente della Federal Riserve, e di Margaret Tatcher, Ronald Reagan, Teng Shiao-ping: dal Welfare State, insomma, al neoliberismo.

In Italia, sul terreno che qui ci interessa, mi sembra che la fase più emblematica dell’inversione di marcia è compresa tra due momenti: quel fenomeno che fu definito Tangentopoli, e che esplose con l’inchiesta Mani Pulite, e quella vicenda culturale e legislativa che vide formarsi un largo consenso attorno alla legge che prese il nome dall’onorevole Maurizio Lupi.

Tangentopoli fu il rovesciamento secco della stagione di tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta. Mani pulite non riuscì a innescare un processo di rinascita: provocò oggettivamente la crisi del sistema di potere in atto ma non provocò (una vicenda giudiziaria non poteva provocare) un processo alternativo virtuoso. La rivincita del privatismo sul comune proseguì il suo cammino. Si aprì una fase che ha visto i condoni dell’abusivismo urbanistico, lo svuotamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, l’assunzione del mercato come misura di tutte le cose, la privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica di welfare.

Un fenomeno particolarmente significativo di questa fase è stato costituito, all’inizio del Millennio, dall’arrogante espressione del mondo della rendita: i cosiddetti “immobiliaristi”. L’incremento della rendita immobiliare, promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata, a cavallo del 2000 è stato così consistente da permettere a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico. Abbiamo potuto constatare allora come nel personale politico sia scomparsa del tutto quella distinzione, e quella valutazione differenziata, tra le tre forme di reddito costituite dalla rendita, dal salario, e dal profitto.

Dietro a questo fenomeno c’è però una realtà più profonda. C’è il fatto che la borghesia capitalistica italiana ha deciso di approfittare delle grandi occasioni di arricchimento consentite dall’appropriazione di rendite, finanziarie e immobiliari. Ingenti risorse e capacità affaristiche (non le chiamerei “imprenditive”) sono state spostate dall’attività industriale a quella finanziaria e immobiliare. All’assenza di una politica industriale (e della ricerca, che ne dovrebbe essere l’anima) ha corrisposto una grande attenzione dei politici alle vicende finanziarie e immobiliari. Possiamo dire che l’attenzione dei politici si è spostata dal salario e dal profitto alla rendita? Temo di si.

Sul terreno legislativo il documento più espressivo della fase che definirei del “neoliberismo urbanistico”è stata probabilmente la cosidetta “Legge Lupi”: in essa si proclamava, e lucidamente si perseguiva, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa” (il termine viene adoperato con un chiaro intento dispregiativo), cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività negoziale, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[ii].

Una proposta positiva

In Parlamento giacciono oggi quattro proposte di legge. L’ultima presentata è quella di deputati dei gruppo DS e DL, sulla quale vorrei brevemente soffermarmi per tre ragioni: perché è quella più recente, quindi diene conto delle proposte avanzate precedentemente; perché è quella che copre lo spettro più ampio di argomenti, e probabilmente costituirà la base di un testo unificato; infine perché è presentata dal gruppo politico maggioritario. E’ il testo che ha come primo firmatario l’on. Raffaella Mariani, eletta in questa regione, e ha visto nella sua redazione un contributo consistente dei DS della Toscana.

La proposta Mariani recupera più d’un elemento della tradizione dell’urbanistica italiana, cancellata ope legis o lasciata cadere in desuetudine dalle pratiche recenti di “governo del territorio”. Rende esplicito il “principio di pianificazione”, con una formulazione efficace. Ribadisce la non indennizzabilità dei “vincoli ricognitivi”, cioè delle tutele poste per ragioni oggettive su parti del territorio dotate di qualità o soggette a rischi. Recupera gli standard urbanistici, sia pure con formulazioni non sempre convincenti. Ripristina alcuni strumenti caduti in desuetudine, come i “lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale”. Riprende gran parte delle formulazioni sul contrasto al consumo di suolo della proposta di legge degli “Amici di eddyburg”.

Voglio sottolineare due punti della proposta Mariani che modificano rispetto a posizioni che precedentemente avevano ottenuto legittimazione culturale e politica da ambienti della sinistra: la perequazione urbanistica e i diritti edificatori.

Nella proposta:

(1) si riconduce la perequazione urbanistica a strumento attuativo della pianificazione urbanistica, e quindi se ne ripristina il ruolo di compensazione degli interessi immobiliari all’interno degli ambiti attuativi (il collaudato meccanismo dei piani di lottizzazione convenzionata);

(2) si sostituisce il termine impegnativo di “diritto edificatorio”, che compariva nelle precedenti stesure della legge, con il dal termine “previsioni urbanistiche”.

Parlare di “diritti edificatori” avrebbe significato rendere impossibile la cancellazione di previsioni urbanistiche ritenute eccessive, oppure aprire la strada alla necessità di trasferimenti di cubatura, compensazioni, e altre manovre profondamente discorsive per la definizione di un adeguato progetto di città. Ritenere che la facoltà di edificare prevista da uno strumento urbanistico dia luogo a un “diritto” del proprietario, anziché un “legittimo interesse”, sarebbe stato del resto in contrasto con tutta la legislazione e la giusrisprudenza elaborata dagli anni 60 in poi, come ho avuto modo in altra sede di dimostrare per tabulas.

“Concorrenzialità” per i proprietari immobiliari?

Tra i punti della proposta Mariani che sollevano perplessità e preoccupazione vorrei riprendere la questione già sollevata su eddyburg da Marco Massa. Si tratta del tema del ruolo del privato nell’attuazione della pianificazione operativa, affrontato dall’articolo 20, il cui titolo è “Concorrenzialità”. L’articolo ribadisce la “titolarità pubblica della pianificazione del territorio”, ma consente alle regioni di istituire “forme di confronto concorrenziale”, che possono essere rese addirittura “obbligatorie” per “promuovere e selezionare capacità e risorse imprenditoriali e progettuali private e pubbliche, garantendo pubblicità e trasparenza del processo, nonché un equo trattamento della proprietà e assicurando la coerenza con il piano strutturale”.

So che la pratica della gara per la scelta di soluzioni urbanistiche è stata introdotta anche in Toscana. Essa a mio parere si basa su un presupposto erroneo, e presenta rischi gravi per il quadro pianificatorio nel quale si inserisce.

Il presupposto erroneo è quello di non comprendere, o di voler trascurare, che la proprietà immobiliare non è l'impresa, e che è sbagliato voler introdurre regole proprie del mercato concorrenziale in un ambiente economico che del mercato concorrenziale ha poco o nulla. Nel governo del territorio la concorrenza ha senso se è tra le imprese: come poteva essere quando le aree su cui si costruiva erano di proprietà pubblica, com’era per l’edilizia residenziale pubblica o i servizi sociali. Dimenticare questo significa a mio parere restituire alla proprietà un ruolo di direzione nella definizione sia del progetto di città sia di programmazione della successione temporale degli interventi di trasformazione. È un passo indietro rispetto alla prassi – introdotta dalla legge 10/1977 e rapidamente cancellata dalle legislazioni regionali – della programmazione degli interventi di traformazione nel tempo.

Un vero pasticcio. L’unica certezza è che il bandolo della matassa, la facoltà di proporre e di guidare il gioco è della proprietà immobiliare.

Se almeno le pratiche concorsuali fossero inquadrate in una pianificazione strutturale sufficientemente precisa, accuratamente sorvegliata nella sua logica e nei suoi meccanismi interni, se la successione degli interventi di attuazione del piano fosse garantita in sede di strumento formato d’intesa tra comune, provincia e regione, se si ammettesse (come precisa la proposta Mariani) che le decisioni della pianificazione strutturali concernenti le tutele e le strategie sono “conformative della proprietà”, allora si potrebe ragionare. Ma non mi sembra che le cose stiano così.

Osserva Marco Massa che le prime sporadiche applicazioni sono discutibili, che in Toscana ci sono Regolamenti urbanistici che hanno aperto una complicata fase di trattative e altri che hanno introdotto norme ambigue come le “aree a previsione urbanistica differita”, per le quali l’approfondimento delle indicazioni del Piano strutturale (localizzazione delle edificazioni, degli spazi pubblici e delle infrastrutture, ripartizione delle funzioni, modalità di realizzazione) è rinviata al bando di avviso pubblico”.

Io credo che le trasformazioni della città, per il significato che hanno, per gli interessi sociali coinvolti, per le prospettive che devono aprire, debbano essere attribuiti, e fortemente gestiti, dal potere pubblico. E sono fortemente preoccupato di constatare che il principale soggetto di attenzione nella pianificazione e progettazione della città non è il cittadino e la sua partecipazione, ma la proprietà immobiliare.

Ancora sulla rendita e sulla questione della casa

La questione della casa sembra tornata all’attenzione della politica. Non è però affatto chiaro in che modo sarà sfrontata. Speriamo che non ci si limiti a costruire qualche nuovo quartiere “pubblico su pubblico”, destinato ai poveri. Abbiamo già sperimentato i ghetti e, con la legge 167/1962 abbiamo provato a superarli. Speriamo che con le risorse pubbliche non si agevoli l’affitto di patrimonio privato, ricorrendo al mercato immobiliare e alimentandolo ulteriormente. Abbiamo sperimentato anche questo e abbiamo visto che affidare l’affitto al mercato significa aggravare il problema. E speriamo che non si prosegua con la promozione dell’urbanizzazione di nuove aree in cambio di qualche agevolazione su una percentuale del nuovo costruito: sarebbe un errore grave dilapidare lo scarso territorio ancora non incrostato di cemento per un temporaneo sollievo a qualche fortunato.

Ho ricordato come tra il 1962 e il 1978 erano stati predisposti gli strumenti per una strategia complessa, che toccava tutti gli aspetti della questione: quartieri integrati, dotati di abbondanti servizi, risorse per l’edilizia a canone sociale, recupero edilizio finanziato e agevolato, programmazione statale e regionale sulla base dei fabbisogni comunali, governo dei canoni di locazione del patrimonio privato.

Quella strategia non va bene? Sostituiamola con un’altra, ma che sia alla medesima altezza. E che mantenga fede a tre principi non rinunciabili: 1. la casa, a un prezzo rapportato alle capacità di spesa, è un diritto per tutti; 2. l’intervento deve essere organico e deve promuovere integrazione sociale e qualità urbana; 3. la mano pubblica deve ricompensare il salario e il profitto, non la rendita.

Siamo tutti convinti che la rendita urbana non deriva (per adoperare le parole di Roberto Camagni) “da una prestazione produttiva specifica, ma da elementi del tutto esterni: dai processi generali di urbanizzazione della popolazione e delle attività, dalla prossimità delle infrastrutture di trasporto, di un ‘centro’ urbano, di altre attività collegate”. Quindi dovremmo impiegare le politiche urbane, a partire dalla pianificazione urbanistica, per ridurre la rendita immobiliare non per aumentarla.

E poiché la rendita è comprimibile ma non è eliminabile, bisognerebbe ricominciare a fare ciò che fece la buona borghesia, anche in Italia, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900. Bisognerebbe lavorare sulla leva fiscale, e sulle altre leve del potere pubblico (statale, regionale e comunale) per far tornare alla collettività una parte consistente della rendita, che è prodotta dalla collettività, e non da altri.

Lo ricordava Eugenio Scalfari domenica scorsa: fu la Destra storica che “pagò attraverso l’imposta fondiaria il 52 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato nel periodo in cui governò, tra il 1861 e il 1876. Il 52 per cento”. E, aggiungon io, fu il governo Giolitti, non il Soviet, che prescrisse nel 1907 il sacrosanto principio per cui, in caso di espropriazione, si pagava al proprietario il valore immobiliare che aveva dichiarato a fini fiscali.

Non credo che sia un paradosso affermare che la rendita urbana, nella misura in cui non è eliminabile, è un bene comune. È da qui che bisognerebbe ricominciare a ragionare e decidere sul rapporto tra pubblico e privato.

[i] Valentino Parlato, Il blocco edilizio, in “il manifesto”, nn.3-4, 1970. Ora in: “Lo spreco edilizio”, a cura di F. Indovina, Marsilio, Padova 1972.

[ii] Rnvio all’ampia rassegna delle critiche sollevate alla legge, approvata nella XIV legislatura da uno solo dei due rami del Parlamento, contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», Firenze, Alinea editrice, 2005.

Premessa

Il mio obiettivo è di contribuire alla preparazione, con il dibattito di stamattina, della presentazione e discussione del libro No Sprawl, curato da Maria Cristina Gibelli e da me, edito da Alinea, che avverrà nel pomeriggio.

Vi racconterò alcune cose di carattere generale sullo sprawl e sulle ragioni per le quali secondo me bisogna innanzitutto contrastarlo. E vi parlerò di ciò che si propone in Italia per farlo.

Parleremo perciò di leggi, poiché in una materia quale la nostra le leggi sono lo strumento indispensabile per governare i rapporti tra interesse generale e poteri dei privati, dato che la proprietà immobiliare (la proprietà delle componenti elementari dello spazio, i suoli e gli edifici) è prevalentemente privata.

Esaminando le leggi che ci riguardano scopriamo che il termine “urbanistica” è stato sostituito dall’espressione “governo del territorio”. Mi interrogherò sulla ragione di questo spostamento e cercherò di spiegarlo.

Questo mi aiuterà anche a rispondere alla domanda finale: perché un gruppo di urbanisti si è dato da fare per elaborare, discutere e far presentare a qualche parlamentare un progetto di legge urbanistica, che ha al suo centro la lotta allo sprawl?

Spero che su questi argomenti quello che vi dirò solleciterà qualche discussione.

LO SPRAWL

Che cos’è

Se cerchiamo nella letteratura troviamo un gran numero di definizioni di un fenomeno che sta diventando sempre più preoccupante. Possiamo raggrupparle in diverse categorie:

- definizioni che attribuiscono al fenomeno il carattere di una mutazione della città, di una forma nuova della città cui peraltro si dà un significato negativo (ville éclaté = città esplosa, ville eparpillée = città sparpagliata, città diffusa)

- definizioni analoghe alle precedenti, che assumono però il fenomeno acriticamente, come registrazione di un evento indiscutibile (non assoggettabile a discussione), oppure addirittura come fenomeno positivo (osserva Cristina Bianchetti, in riferimento alla posizione di Bernardo Secchi, che per lui “non solo è vano, ma è male comprimere gli esiti territoriali di questo prepotente e rinascente individualismo”)

Preferisco adoperare termini che, a differenza dei precedenti, esprimano con chiarezza il concetto che il fenomeno è un fenomeno negativo, e che in quanto tale deve essere essere contrastato. Quindi preferisco definizioni le quali, pur senza prescindere dall’origine “urbana” del fenomeno, sottolineano il fatto che l’insediamento che ne nasce non ha i titoli per essere definito città. Termini come il francese étalement urbain (spalmatura urbana), o “diffusione insediativa” Mi sembra che il termine sprawl sia altrettanto efficace, nel suo significato di insediamento “sguaiatamente sdraiato” sul territorio.

I danni

Nel libro che discuteremo oggi pomeriggio troverete numerose testimonianze e descrizioni dello sprawl in Italia e all’estero. Qui vorrei sottolineare i danni di questo irrazionale sparpagliamento dell’insediamento sul territorio. Li distinguo nelle due categorie classiche della valutazione del portato negativo di un atto: il danno emergente e il lucro cessante.

Il danno emergente è certamente costituito dallo spreco di risorse pubbliche e dall’aumento del disagio sociale che esso provoca:

- l’aumento del rischio determinato dall’indifferenza della dispersione insediativa nei confronti delle caratteristiche proprie dei suoli,

- l’allungamento crescente del costo e del tempo dei trasporti,

- la ridotta funzionalità di tutte le reti e i servizi dell’urbanizzazione e la necessità di ricorrere a modi individuali di soddisfare esigenze di massa,

- la sottrazione al ciclo biologico di risorse insostituibili per l’equilibrio tra uomo e natura,

- l’indebolirsi dei legami cui è affidata la coesione sociale,

la distruzione di testimonianze preziose della storia e della cultura della nostra civiltà e di quelle che l’hanno preceduta,

- il danno estetico: dell’aggressione alla bellezza dei paesaggi, pesantemente guastati dai modi che assume la squallida edilizia della “città diffusa”.

Il lucro cessante è di duplice ordine.

Da un lato, vengono sottratte all’uso agricolo parti del territorio che storicamente erano finalizzate all’alimentazione della città: adibite a produzioni ortive e frutticole rese obsolete dal prevalere dell’agricoltura industrializzata, oggi di nuovo tornate alle fortune del mercato a causa della ricerca, sempre più diffusa, di consumi alimentari meno artefatti e più sani di quelli prodotti col largo impiego di manipolazioni chemiofisiche.

Dall’altro lato, la perdita di quella risorsa, indispensabile per elevare la qualità dell’habitat umano, e quindi anche per attirare residenti e visitatori, costituito dalla bellezza, dall’ordine, dalla civiltà – in una parola, dalla qualità – della città e del territorio sul quale vive.

Lo sprawl in Europa

Vedremo oggi pomeriggio (e vedrete nel libro che presenteremo) in che modo l’Europa combatte lo sprawl, e come negli stessi USA ci siano pratiche virtuose per contrastare fenomeni analoghi.

A me sembra che si debba innanzitutto segnalare come al di là delle Alpi il fenomeno sia molto meno vistoso e drammatico e diffuso di quanto non sia da noi. Direi che qui una certa dose di mancanza di controllo dell’espansione urbana c’è dappertutto, non solo nelle gigantesche “diffusopoli” che gli studi territoriali indagano dai tempi delle prime analisi di Giovanni Astengo e di Giuseppe De Matteis.

Basta sorvolare in aereo qualunque parte dell’Austria o della Germania o di molte regioni della Francia o della Gran Bretagna per osservare come lì ci sia un netto taglio che divide l’area urbana (di una città o un paese o un villaggio) e il territorio rurale. Non ci si può non domandare allora perché il Italia ci sia, da un lato, una diffusione così ampia del fenomeno e, dall’altro lato, un così grave ritardo nel contrastarlo.

Perché e come in Italia

Nel mio contributo al libro No Sprawl osservo che la sottovalutazione italiana non è priva di motivazioni forti: non è distrazione, è coerenza. Osservo che è coerenza con una concezione dell’economia che vede l’indicatore del progresso nella crescita quantitativa di qualsiasi entità prodotta (sia essa costituita da cibi, indumenti, farmaci, libri, oppure calce, mattoni, asfalto, oppure inutili orpelli, oppure ancora strumenti di distruzione e di morte), e con una pratica della politica che la vede serva di quella concezione dell’economia. (Vedi l’articolo di Pierluigi Sullo su Carta 7/2007 e l’editoriale di Carta 8/2007, entrambi su eddyburg.it)

Ed è coerenza con una connotazione specifica del nostro paese, che rende l’Italia diversa dalla maggior parte degli altri paesi europei: il fortissimo peso che ha, nella nostra economia e nella nostra società, la rendita immobiliare.

Nel valutare le condizioni del territorio e dell’economia in Italia non bisogna mai dimenticare l’incompiutezza della rivoluzione capitalistico-borghese nel nuovo Stato italiano, il compromesso che la borghesia del Nord strinse con la proprietà latifondista del Sud (e poi con l’aristocrazia all’ombra del Cupolone). È lì che sono le radici delle distorsioni parallele del territorio e dell’economia: la rendita fondiaria come componente rilevante della ricchezza della classe dirigente, lo sfruttamento del territorio a fini edilizi come sua “vocazione”.

Alla strategia implicita in questa distorsione di fondo è funzionale anche l’altra caratteristica dell’assetto economico-sociale del nostro paese: la forte spinta all’affermazione della proprietà privata in tutte le sue forme e articolazioni.

La proprietà privata non come premessa e base per l’invenzione di nuovi modi di produrre e di arricchirsi, ma come assicurazione contro le incertezze della vita, non come fattore di dinamismo ma come elemento di stabilità sociale. In termini più prossimi alla dialettica territoriale, la proprietà privata come formatrice di quelle “fanterie” che, aggregate attorno agli stati maggiori del ”blocco edilizio”, hanno impedito ogni riforma seria dei modi del governo del territorio.

CHE FARE CON LO SPRAWL?

Posizioni diverse

Credo che ciascuno di noi, nel valutare lo sprawl, debba innanzitutto compiere una scelta di campo, alla quale ho fatto riferimento all’inizio di questo ragionamento. È un fenomeno che vogliamo studiare proponendoci innanzitutto di interpretarlo, assecondarlo, correggerlo nei suoi effetti, mitigarlo? Diamo insomma per scontato che “è male comprimere gli esiti territoriali di questo prepotente e rinascente individualismo”?

Oppure, al contrario, riteniamo che l’impegno prioritario debba essere quello di comprimere decisamente “questo prepotente e rinascente individualismo”? È quest’ultima, ovviamente, la mia opinione.

Come contrastare lo sprawl

Molti progetti di legge in materia di urbanistica (o governo del territorio) sono stati presentati al Parlamento. Più d’uno dichiara la volontà di contrastare lo sprawl.

La proposta dell’on. Mantini e Jannuzzi della Margherita dichiara (articolo 5, comma 5):

“Il territorio non urbanizzato è edificabile solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l’agricoltura, l’agriturismo e l’ambiente. Le regioni stabiliscono i casi di edificabilità, attraverso l’individuazione, per categorie generali, degli ambiti del territorio non urbanizzato”.

Quella che l’Unione, per iniziative dei DS, sta per presentare dichiara a sua volta, nella stesura del 28 dicembre 2006 (articolo 3, comma 6):

“L’utilizzazione di territorio non urbanizzato è ammessa solo quando non sussistano alternative derivanti dalla riorganizzazione funzionale dei tessuti insediativi esistenti e dalla sostituzione di parti dell’agglomerato urbano”.

Me nelle stesure successive l’affermazione sembra sostituita da indicazioni molto più blande.

Entrambe le proposte si limitano comunque a dichiarare l’intenzione e il principio, non precisano i termini dell’impegno richiesto al legislatore regionale né si preoccupano in altro modo dell’efficacia della dichiarazione di principio.

Come vedrete, nel libro No Sprawl, nel contributo di Luigi Scano, anche le legislazioni regionali si limitano a dichiarare, più o meno perentoriamente, il principio della tutela del territorio e della conseguente limitazione del consumo di suolo, ma non vi è nessun precetto di immediata efficacia o meccanismo pianificatorio che garantisca l’efficacia di questa perorazione.

La proposta di eddyburg

In appendice al libro No Sprawl è pubblicata una proposta di legge, elaborata da un gruppi di “Amici di eddyburg” che fu a suo tempo presentata a tutti i gruppi politici del centro-sinistra, e successivamente presentata al Senato da un gruppo di senatori di PRC, DS, PCdI e Margherita e alla Camera dai deputati di RC. Questa proposta contiene due ordini di indicazioni:

- da una parte, precetti rivolti al legislatore regionale, poiché rientrano negli argomenti che riguardano il “governo del territorio”, e quindi appartengono al novero della “legislazione concorrente”;

- dall’altra parte, precetti rientranti nelle specifiche competenze statali, quindi immediatamente efficaci sul territorio.

Vediamole distintamente.

In materia di legislazione concorrente

L’articolo 7 ha come titolo “Il contenimento dell'uso del suolo e la tutela delle attività agro-silvo-pastorali

La premessa è la dichiarazione che “nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti”.

Per concretare questo obiettivo le leggi regionali “assicurano che, sul territorio non urbanizzato, gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi”.

Le leggi regionali devono anche stabilire che le trasformazioni consentite siano assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali sia prevista la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l'impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici, o delle loro parti, attivando utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente all'estensione richiesta per la trasformazione ammessa.

Le leggi regionali devono anche disciplinare “le trasformazioni ammissibili dei manufatti edilizi esistenti“ escludendo la demolizione e ricostruzione; devono prevedere “la demolizione senza ricostruzione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria”, come è già previsto dalla legislazione toscana; infine, “possono disporre ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, in relazione a condizioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente”.

In materia di competenze esclusive dello Stato

Non abbiamo voluto limitarci a prescrivere regole perché le leggi regionali e poi la pianificazione comunale provvedessero alla tutela delle aree rurali attraverso particolari contenuti della pianificazione. Abbiamo voluto introdurre un altro elemento, per assicurare un’efficacia immediata alla volontà di limitare il consumo di suolo. Abbiamo proposto che all’elenco delle categorie di beni paesaggistici tutelati ope legis (inizialmente dalla legge Galasso del 1985, e poi via via dalle varie stesure del Testo unico e adesso del Codice del paesaggio, alle varie categorie dei beni tutelati ope legis (i boschi, le coste, i corsi d’acqua ecc.), si aggiungesse il territorio rurale.

Quindi l’articolato propone che alle varie lettere, alle varie categorie di beni da tutelare, si aggiunga anche “il territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale".

Si dispone poi che “i comuni, d'intesa con la competente soprintendenza, individuano, nell'ambito dei rispettivi strumenti di pianificazione, il territorio” di cui sopra. Fino ad allora il territorio vincolato “coincide con l’insieme delle zone di cui alla lettera E) dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444”. Naturalmente l’utilizzazione di quei territori per “realizzare nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali può essere definita ammissibile, nei nuovi strumenti di pianificazione, d’intesa con la competente soprintendenza, soltanto ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture o attrezzature esistenti”. Infine, “il piano paesaggistico prevede obiettivi e strumenti per la conservazione e il restauro del paesaggio agrario e non urbanizzato", e “fino all’adeguamento delle leggi regionali” e fino “all’entrata in vigore dei piani paesaggistici”, “all’eventuale adeguamento degli strumenti urbanistici, è vietata ogni modificazione dell’assetto del territorio, eccezione fatta per quelle finalizzate alla difesa del suolo e alla riqualificazione ambientale”.

QUALCHE SPUNTO SUL NOSTRO MESTIERE

Dall’”urbanistica” ...

Nelle leggi nazionali non si parla più di “urbanistica”. Si parla di “governo del territorio. Ho cercato di capire a che cosa corrispondesse questa sostituzione di termini: che cosa si intendesse per urbanistica nella legislazione nazionale dal 1942 e in poi, e che cosa si intenda per “governo del territorio” dal 2001 in poi.

Partiamo dalla legge madre dell’urbanistica italiana,la 1150 del 1942. L’articolo 1 definisce la “Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi”:

“L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno sono disciplinati dalla presente legge. Il Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo”.

Arriviamo alla definizione di urbanistica dell’articolo 80 del DPr 616 del 1977:

“Le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”.

Osserviamo il profondo cambiamento tra la formulazione del 1942, limitata ai centri abitati e al loro ampliamento edilizio, e la formulazione del 1977, che estende l’urbanistica all’intero territorio e “a tutti gli aspetti” del suo governo

…al “governo del territorio”

Vediamo che cosa si definisce “governo del territorio in due testi legislativi i quali, seppure non abbiano raggiunto l’approvazione completa, sono stati condivisi da maggioranze parlamentari alla Camera dei deputati.

Il testo unificato licenziato dalla Commissione parlamentare del gennaio 2001 (“legge Lorenzetti”)

“Governo del territorio: le disposizioni e i provvedimenti per la tutela, per l'uso e per la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono”.

Il disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005 (“Legge Lupi”):

“Il governo del territorio consiste nell’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie”.

Si osservi l’analogia del primo testo (Lorenzetti) con la definizione di “Urbanistica” del 1977. Il secondo testo (Lupi) riprende alcuni elementi della definizione del 1942 (“obiettivi di sviluppo del territorio”), ma non contraddice il carattere generale del “governo del territorio”

Contenuto semantico del passaggio

A me sembra che questa lettura delle trasformazioni legislative abbia due significati, che non si elidono necessariamente.

Da una parte, possiamo parlare di carnevalata. L’espressione “governo del territorio” copre esattamente lo stesso contenuto del termine “urbanistica”. Si chiama oggi “governo del territorio” ciò che ieri si chiamava “urbanistica”.

Ma dietro questa verità un’altra si cela. Il vecchio significato di “urbanistica”, (l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio, il rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città) è stato interamente superato dalla nuova definizione urbanistica (1977), che veda questa disciplina come l’insieme delle disposizioni e dei provvedimenti per la tutela, per l'uso e per la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono.

L’urbanistica è insomma considerata dal legislatore nazionale una disciplina ampia, che dal disegno della città si è espansa, in relazione alle trasformazioni effettive e oggettive del fenomeno urbano, alla considerazione dell’intero territorio, letto e disciplinato nei suoi aspetti edilizi, paesaggistici, ecologici, comprendenti l’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo.

Il buffo è che, nel 2001, a differenza che nel 1977, il legislatore non ha ritenuto sufficiente prendere atto del più ampio significato di un termine antico. Ha voluto inventare un termine nuovo. Ma questo fa parte di quel vezzo di “modernizzare” l’abito conservando immutati i vecchi corpi.

La nascita dell’urbanista in Italia

La riflessione sul mutato significato di “urbanistica” mi sollecita a ripensare a quanto avvenne in Italia quando si “invento”, nel nostro paese, il termine “urbanistica” e si definì il processo formativo dell’urbanista e la sua fisionomia professionale.

A differenza che in altri paesi in Italia l’urbanista è nato come una specializzazione della figura dell’architetto: un architetto che, invece di progettare edifici, progetta città. Quasi con le stesse tecniche (magari integrandole con scienze irrimediabilmente ausiliarie, quasi servili), quasi con la stessa impostazione al cospetto della realtà: il prevalere dell’“idea progettuale”, il ruolo dell’Autore del piano (simile a quello dell’Autore del progetto), la fiducia di poter dominare da solo l’insieme del progetto (del piano), anticipandone nella sua previsione l’intera realizzazione.

È interessante osservare (a riprova del fatto che la storia che conosciamo non è l’unica storia possibile) che per giungere a questa soluzione si discusse a lungo tra due proposte alternative. A quella dell’Architetto-Urbanista si contrapponeva infatti la proposta dell’Urbanista come esperto della gestione urbana, e quindi versato non nelle belle arti, ma soprattutto nelle discipline dell’amministrazione e dell’ingegneria civile

Negli anni tra il 1922 e il 1926 sostenitore della prima proposta, poi vittoriosa, era l’architetto romano Alberto Calza Bini, libero professionista e accademico. Propugnatore della seconda era Silvio Ardy, funzionario comunale in Liguria e in Piemonte. Materiali su questo dibattito consultabili in http://eddyburg.it.

Nelle successive vicende, il ruolo e la formazione dell’urbanista si sono notevolmente divaricate rispetto all’impostazione originaria. Oggi l’impiego diretto nella amministrazioni pubbliche, o la collaborazione con queste dall’esterno, costituiscono il campo d’applicazione più vasto degli urbanisti. Alla loro formazione è dedicato, a partire dal 1971, uno specifico corso di laurea nelle facoltà di architettura e, a partire dal 2001, una facoltà di pianificazione del territorio. E nella preparazione dei documenti di panificazione nei quali le amministrazioni sono impegnate il ruolo del “progetto di città” appare sempre meno rilevante rispetto a quelli dell’attuazione, della valutazione, del monitoraggio, della ricerca del consenso e delle energie necessarie per la sua implementazione. Un ricorso sempre più largo all’interdisciplinarità, una capacità sempre maggiore di coordinare e finalizzare a un’operazione complessa equipe articolate, una sensibilità alle nuove tecnologie, un’attenzione ai moti della società: questi sono – mi sembra - tra i principali requisiti del mestiere dell’urbanista.

Il ruolo sociale dell’urbanista

Ma qual è il nocciolo del ruolo sociale dell’urbanista? Diamo uno sguardo fuori d’Italia.

Scrive il documento fondativo del Conseil Français des Urbanistes: “bisogna sempre ricordare che l’urbanistica è di ordine pubblico e d’interesse pubblico” (“Il convient toujours se rappeler que l'urbanisme est d'ordre public et d'intérêt public”),

Afferma il codice deontologico dell’American Institute of Certified Planners: “Il primo dovere di un urbanista è di servire il pubblico interesse” (“A planner’s primary obligation is to serve the public interest”).

Decretano le “Norme di deontologia professionale” del Consiglio Europeo degli Urbanisti: l’urbanista deve “agire sempre nell’interesse del proprio cliente o committente”, ma con la “consapevolezza che l’interesse pubblico deve restare preminente”,.

Poiché il concetto di pubblico interesse è oggetto di elaborazione e dibattito, il documento dell’American Institute of Certified Planners si preoccupa di definire i paletti entro i quali l’urbanista deve comunque inscrivere la propria azione. Ne sono elementi essenziali la consapevolezza del carattere sistemico e della lunga portata temporale delle decisioni sul territorio, la completezza e la chiarezza dell’informazione fornita al pubblico, l’attenzione agli interessi delle categorie più svantaggiate, all’integrità dell’ambiente naturale e alla tutela del patrimonio culturale.

L’urbanista del futuro

In Italia siamo depressi per la scarsa considerazione che il mestiere di urbanista riceve nella pubblica opinione. Quale sarà il futuro dell’urbanista? Aiuta a dare una risposta un recente studio che si riferisce alla situazione della Gran Bretagna: Future Planners: Propositions for the next age of planning, redatto da P. Bradwell, Inderpaul Johar, Clara Maguire e Paul Miner, febbraio 2007 (tradotto da Fabrizio Bottini per eddyburg.it[1]

“Quella del planner è una professione moderna. Sin dal suo emergere negli anni ’20 ha avuto alti e bassi, a seguito di mutamenti nelle ideologia politiche e del contesto sociale. È possibile tracciare una storia professionale contemporanea a partire dagli anni ’80, decennio contrassegnato da una fede politica nel libero fluire del mercato e nella deregulation. Il sistema di pianificazione era considerato un ostacolo all’incremento della crescita economica. Ma oggi assistiamo a un ritorno dell’idea di pianificazione come elemento chiave per consentire uno sviluppo sostenibile legittimato democraticamente”.

Il rapporto prosegue delineando i nuovi ruoli che spettano al planner dei nostri tempi. In tutti viene sottolineata “la sua funzione chiave nella redazione e gestione di progetti per realizzare valori pubblici”. La ribadita preminenza di tali valori pubblici è la chiave per comprendere in quale contesto si collochino i nuovi ruoli di “negoziatore”, “facilitatore”, “mediatore” che al planner vengono attribuiti: un contesto radicalmente diverso dal nostro. In Italia infatti, nel XXI secolo, quei ruoli non alludono alla rapporto tra istituzioni pubbliche tra loro o con i cittadini, ma a quello tra i decisori e gli interessi immobiliari.

Sono convinto che il mestiere dell’urbanista può trovare una sua nuova affermazione se riesce a restaurare la sua tradizione di mestiere fortemente radicato nelle esigenze, nei problemi e nelle speranze della società, vista non come mero aggregato di individui, ma non come massa, ma come portatrice di valori e interessi comuni.

[1] I testi cui mi riferisco in questo e nel precedente paragrafo sono disponibili in internet; sono raccolti nel mio sito http//eddyburg.it

Qui di seguito alcuni stralci. In calce il link al testo integrale in .pdf

1. LA FILOSOFIA DEL PPR NEI DOCUMENTI CHE HANNO AVVIATO IL LAVORO

Le “Linee guida”

“I principi ispiratori per il lavoro di predisposizione del Piano Paesaggistico Regionale” sono stati definiti dal documento Linee guida per il lavoro di predisposizione del PPR (deliberazione Giunta regionale 13 maggio 2005).

Il paesaggio

La prima parte del documento è dedicata alla definizione del concetto di paesaggio, così come risulta dai più aggiornati documenti prodotti dalle istituzioni mondiali, europee e nazionali. Emergono le interpretazioni del paesaggio “come luogo di cultura fatto di elementi del contesto naturale e ambientale, del contesto storico, del contesto delle trasformazioni apportate dall’uomo”, come “ fenomeno sociale, come ambiente di vita e parte integrante della cultura della regione”, non riducibile “a un semplice dato naturale da conservare immobilizzandolo”, ma “fattore determinante della qualità della vita sia nelle aree urbane che in quelle rurali, sia nei territori degradati che in quelli di pregio”, come realtà cui è necessario riferirsi prendendo “in considerazione non solo i paesaggi eccezionali, ma anche quelli della quotidianità e del degrado”.

Del paesaggio si mette in evidenza il carattere dinamico e processuale, la necessità di “una visione di sintesi più complessa”, che affronti “la ricchezza della diversità e della dinamicità anche conflittuale”, la conseguente necessità di gestire i “processi di trasformazione fino alla previsione della progettazione di nuovi paesaggi contemporanei di qualità”.

Si afferma che se “il paesaggio è insieme prodotto e produttore di identità” la pianificazione paesaggistica, insieme alle politiche di governo del territorio e dello sviluppo sostenibile, deve muovere da una riflessione sull’identità in quanto valore condiviso, da preservare, arricchire e rielaborare costantemente”. Quindi “l’idea di identità da assumere quale base della pianificazione paesaggistica deve essere in grado di coniugare la conservazione con l’innovazione”. Un’identità “modellata e rimodellata continuamente nel confronto con la contemporaneità, che faccia delle peculiarità del nostro paesaggio plasmato dalla storia e dalla cultura delle comunità locali il valore aggiunto delle preziose risorse naturali e ambientali”.

Nella medesima parte del documento si svolgono considerazioni sul rapporto del paesaggio e gli strumenti della pianificazione ordinaria e specialistica, la sostenibilità di vario ordine e grado, le attività economiche e in particolare il turismo, la governance e la partecipazione.

Obiettivi strategici

Alla parte definitoria il documento della Giunta fa seguire un abbozzo di descrizione delle caratteristiche peculiari del paesaggio della Sardegna, visto alla scala dell’intera regione, e una illustrazione della vicenda dei precedenti piani paesaggistici. A partire da questi elementi, il documento definisce sinteticamente gli obiettivi strategici cui la pianificazione paesaggistica deve essere improntata: “tutelare e valorizzare l’identità culturale e ambientale del paesaggio della Sardegna; governare in forma sostenibile le trasformazioni del territorio, ricercando e assumendo principi di sviluppo fondati sulla sostenibilità e a perseguire” una serie di obiettivi così definiti:

”- alta qualità ambientale, sociale, economica, come valori in sé, come indicatori di benessere e nel contempo come condizioni per competere nei mercati globali;

”- mantenimento e rafforzamento dell’identità della regione come sistema (la storia, la cultura, il paesaggio, le produzioni, ecc.) e della sua coesione sociale”.

Le tendenze in atto

Il documento pone l’accento sugli aspetti inquietanti delle tendenze che hanno prevalso nel passatoi. Si osserva che “le trasformazioni intervenute negli ultimi cinquanta anni sul territorio regionale non sono state assecondate” dalla “capacità di prevederne gli effetti irreversibili e le alterazioni ricadenti sull’ambiente e sul paesaggio”. La crescita economica, “a lungo e disordinatamente perseguita”, è avvenuta “non anteponendo i necessari sistemi di regolazione e di equilibrio nel rapporto tra popolazioni e territorio”. Così, “al paesaggio storico-ambientale si sono sovrapposte, con sempre maggiore intensità, forme, modelli e funzioni standardizzate, prevalentemente estranee alla cultura storicamente consolidata ed agli equilibri fisici e biologici del territorio sardo”.

Tutto ciò, in assenza di “una complessiva pianificazione e senza tutele ha provocato una riduzione della funzionalità degli ecosistemi, un indebolimento della qualità e quantità delle risorse ambientali”. La qualità dell’ambiente “costituisce, nella percezione generale, una delle principali criticità”. Infatti – prosegue il documento – “all’usura dei sistemi naturali dovuti all’incuria e allo spopolamento, alla scadente qualità ed incoerenza degli insediamenti ed in genere al degrado della naturale armonia del paesaggio”, si aggiungono elementi e processi che “situazioni gravi di insicurezza e vulnerabilità del territorio”.

Le parole del Presidente

Il Presidente della Regione ha espresso in più occasioni la filosofia che si intendeva esprimere con lo strumento del PPR: con parole rivestite di poca tecnicità, quindi forse più efficaci a rendere trasparenti le intenzioni del governo regionale. Si danno qui alcuni stralci che si ritengono significativi, di scritti pubblicati anche nel sito eddyburg.it.

Al Comitato scientifico

[...]

Ai sindaci

[...]

2. LA FILOSOFIA DELLA PIANIFICAZIONE PAESAGGISTICA NELLA CULTURA E NELLA PIANIFICAZIONE

La tutela del paesaggio

dal vincolo alla pianificazione

Premessa: la cultura e la legge

L’evoluzione culturale sulle materie delle quali ci stiamo occupando (il paesaggio e la sua tutela e pianificazione, l’’urbanistica, l’ambiente e il territorio, i beni culturali) e le grandi leggi che le hanno disciplinato nel tempo, hanno sempre avuto un rapporto molto stretto. Il dibattito culturale ha in qualche modo preparato il terreno, stimolato la necessità, formato lo stesso linguaggio con il quale le leggi sono state poi redatte. Spesso gli esponenti più autorevoli del dibattito culturale hanno direttamente concorso alla formazione delle leggi.

Si può dire in definitiva che le leggi esprimono quanto del dibattito e dell’elaborazione culturale emerge come più condiviso e più realistico – naturalmente con tutte le approssimazioni che derivano dal filtro che le opportunità politiche e le necessità del linguaggio legislativo frappongono. Ma al tempo stesso si deve dire che le leggi stesse, e la giurisprudenza che la loro applicazione produce, fanno a loro volta cultura: non solom orientano il dibattito e l’elaborazione culturali, ma direttamente le arricchiscono e nutrono.

Una prima intuizione: il paesaggio come espressione della Patria

[...]

La legislazione d’avvio

[...]

Il paesaggio nella Costituzione

[...]

Tutela del paesaggio e proprietà privata

[...]

Le legge Galasso (1985)

[...]

Gli elementi cardine

della pianificazione paesaggistica

Due percorsi per la lettura del paesaggio

[...]

La questione delle competenze

[...]

Gli ambiti e i rapporti con la pianificazione locale

[...]

Le condizioni alle trasformazioni

[...]

“Statuto dei luoghi” e “invarianti strutturali”

[...]

3. BENI PAESAGGISTICI E AMBITI DI PAESAGGIO

NEL PPR DELLA SARDEGNA

La forma del piano

Un piano per il paesaggio

Tra le due modalità consentite dalla legislazione nazionale (“piano paesaggistico” oppure “piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici”) si è scelta la prima. Ciò significa che si è avuta fin dall’inizio la consapevolezza che il piano non si propone di definire tutti gli aspetti della disciplina e del funzionamento del territorio, ma ne costruisce i presupposti con l’individuazione delle regole e delle azioni necessarie per consentire che le trasformazioni del territorio, che saranno definite dalla successione delle varie fasi della pianificazione (comunale, provinciale, regionale) siano funzionali alla tutela delle caratteristiche qualitative proprie della configurazione del territorio.

La sottolineatura di questa scelta mi sembra assolutamente necessaria. Essa comporta infatti che l’obiettivo della qualità delle trasformazioni, che è un obiettivo fondamentale della politica territoriale della Regione, sia perseguita coerentemente nelle successive fasi della pianificazione e delle sua implementazione. Il carico di responsabilità che viene attribuito dal PPR a quanti (amministratori e tecnici) concorreranno alle successive fasi è davvero grande.

Una città bella è una città costruita da belle architetture, ma non esistono belle architetture se non sulla base di una buona urbanistica: questa è una verità proclamata da molti studiosi dell’architettura e dell’urbanistica, da Hans Bernoulli a Leonardo Benevolo. Analogamente si può affermare che la ricerca e la costruzione di una maggiore qualità del paesaggio sardo ha nel PPR solo il suo inizio e la sua matrice, l’indicazione delle invarianti da rispettare e delle opportunità da cogliere, ma essa avverrà unicamente se a livello locale si saprà proseguire secondo il medesimo indirizzo.

Le “tavole” e le “norme

Come ogni piano che si rispetti il PPR è costituito da una stretta collaborazione degli elaborati cartografici ed elaborati testuali (nel linguaggio corrente, le “tavole” e le “norme”. I primi elaborati, specificamente riferiti al territorio simulato dal sistema informativo, sono il prodotto delle ricognizioni e delle analisi che hanno via via condotto a individuare, a classificare e a perimetrare le differenti porzioni di territorio sottoposti alle diversificate discipline (regole e azioni). I secondi elaborati esprimono i contenuti delle regole e delle azioni cui si dà luogo (e che quindi devono essere rispettate dai diversi soggetti) o che devono a loro volta guidare l’azione delle successive azioni tecniche e amministrative di pianificazione, regolamentazione e promozione.

“Tavole” e “norme” devono essere visti, compresi e interpretati nel loro insieme. Le une senza le altre sono monche, incomprensibili, inutili. La loro efficacia deriva unicamente dalla loro sinergia: il loro insieme costituisce la componente paesaggistica del progetto di territorio di cui il PPR è il primo tassello.

Due strati del progetto di paesaggio

Riepilogando quanto ho esposto, il PPR imprime al territorio un duplice ordine di indicazioni, risultanti da due distinte letture analitiche ed altrettante efficacie normative.

Da un lato, è stato necessario individuare le categorie di beni che è necessario sottoporre a tutela, a partire da quelle definite dalla legislazione vigente ma articolandole e arricchendole sulla base dello specifico contesto territoriale e culturale. Si è trattato di partire da quanto disposto dalle leggi nazionali (dalla L. 431/1985 al DLeg 157/2006), costruendo un ulteriore tassello – regionale - di quella “riconsiderazione assidua” del territorio “alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” che la Corte costituzionale ritiene necessaria.

Dall’altro è stato indispensabile tener conto che il paesaggio non è costituito dalla mera giustapposizione di elementi di particolare rilievo, ma anche dall’integrazione che si è determinata tra gli stessi elementi e il contesto territoriale intorno: quella integrazione che ha condotto storicamente alla costituzione di specifiche individualità territoriali.

Il PPR, in risposta alla duplice esigenza ora ricordata, si basa nella sostanza sulla complementarietà di due strati normativi, che si distinguono non tanto per la scala o il grado di specificazione, ma per la loro funzione diversamente “regolatrice” della pianificazione:

Il primo strato, espresso in una prima serie di tavole e nei corrispondenti titolo delle norme, è riferito sia ai singoli oggetti o elementi territoriali per i quali è necessaria e possibile la tutela ex articoli 142 e 143 del DLeg 42/2004 (beni paesaggistici appartenenti a determinate categorie a cui è possibile ricondurre i singoli elementi con criteri oggettivi, in jure “vincoli ricognitivi”), sia alle componenti ambientali-territoriali che, pur non essendo dei beni (anzi magari essendo dei “mali”, come ad es. i siti inquinati o le aree di degrado) devono essere tenute sotto controllo per evitare danni al paesaggio o per favorirne la riqualificazione.

È importante notare che, ai sensi del Codice, questo primo insieme di norme implica un esplicito riconoscimento di quegli oggetti di disciplina da considerare come “beni paesaggistici”, al fine di assicurarne la “puntuale individuazione” ai sensi dell’art.143 e di differenziarli dalle altre componenti (pur dotate di valenza paesistica, come gran parte dei beni culturali che il Piano intende valorizzare) non solo sotto il profilo procedurale (l’obbligo di specifica autorizzazione paesaggistica per gli interventi che li concernono) ma anche sotto il profilo sostanziale, in relazione al ruolo che essi svolgono nel determinare la qualità complessiva dei contesti in cui ricadono. Ciò implica anche che l’individuazione dei beni paesaggistici, pur prendendo le mosse dalle categorie già definite a livello nazionale (come le categorie dell’art. 142), si è fondata su quelle maggiori specificazioni che fanno riferimento alla concreta realtà regionale (ad es. distinguendo zone umide, apparati dunali, falesie ecc.); specificazioni che a loro volta possono comportare ulteriori approfondimenti conoscitivi da sviluppare nelle fasi successive della pianificazione paesistica.

Il secondo strato normativo è riferito ad ambiti territoriali – ambiti di paesaggio ai sensi dell’art. 135 del Codice - per la definizione dei quali i caratteri paesaggistici ed ecologici sono determinanti, e che sono la sede per definire indirizzi, direttive e prescrizioni anche di tipo urbanistico, da rendere operativi mediante successivi momenti di pianificazione; in particolare per precisare la definizione degli obiettivi di qualità paesistica, gli indirizzi di tutela e le indicazioni di carattere “relazionale” volte a preservare o ricreare gli specifici sistemi di relazioni tra le diverse componenti compresenti.

Va rilevato che la disciplina degli ambiti, ordinata alla tutela e al miglioramento della qualità del paesaggio, è anche la sede nella quale cercare, come prevede la Convenzione Europea all’art. 5d, di “integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio”.

Le categorie di beni paesaggistici

Tre letture su tre aspetti del paesaggio

l paesaggio è il risultato della composizione di più aspetti. È anzi proprio dalla sintesi tra elementi naturali e lasciti dell’azione (preistorica, storica e attuale) dell’uomo che nascono le sue qualità. È quindi solo a fini strumentali che, nella pratica pianificatoria, si fa riferimento a diversi “sistemi” (ambientale, storico-culturale, insediativo) la cui composizione determina l’assetto del territorio, e dei diversi “assetti” nei quali tali sistemi si concretano.

Anche la ricognizione del territorio effettuata come base delle scelte del PPR si è articolata secondo i tre assetti: ambientale, storico-culturale, insediativo. Tre letture del territorio, insomma, tre modi per giungere alla individuazione degli elementi che ne compongono l’identità. Tre settori di analisi finalizzati all’individuazione delle regole da porre perchè di ogni parte del territorio siano tutelati ed evidenziati i valori (e i disvalori), sotto il profilo di ciò che la natura (assetto ambientale), la sedimentazione della storia e della cultura (assetto storico-culturale), l’organizzazione territoriale costruita dall’uomo (assetto insediativo) hanno conferito al processo di costruzione del paesaggio.

Ciascuno dei tre piani di lettura ha consentito di individuare un numero discreto di “categorie di beni”: cioè di tipologie di elementi del territorio, cui il disposto degli articoli 142 e 143 del Codice del paesaggio consente di attribuire l’appellativo di “beni paesaggistici”.

Dalla ricognizione e dall’individuazione delle caratteristiche dei beni nasce la definizione delle regole. Sicché dalle tre letture sono nati i tre “capitoli” delle norme. Ciascuno di essi detta le attenzioni che si devono porre perchè, in relazione ai beni appartenenti a ciascuna categoria, le caratteristiche positive del paesaggio vengano conservate, o ricostituite dove degradate, o trasformate dove irrimediabilmente perdute.

Tra prescrizioni e indirizzi

I beni e le componenti appartenenti alle diverse categorie hanno gradi diversi di rilevanza e necessitano di regole differenziate per la loro tutela. Per alcune categorie nella norma di tutela prevale un contenuto immediatamente prescrittivo, nel senso che vengono imopedite azioni suscettibili di compromettere irrimediabilmente i beni che a quella categoria appartengono. Per altre categorie la tutela richiede prevalentemente un’analisi più attenta e dettagliata, che non può che avvenire alla scala locale: nella norma di tutela prevale quindi un carattere più di indirizzo, di guida e di indicazione anche stringente per la pianificazione sottordinata.

SI può dire, in senso generale, che per le categorie derivate dalla lettura ambientale prevalgono le indicazioni immediatamente prescrittive (sebbene non manchino certamente quelle di orientamento alle successive azioni), per quelle relative al sistema insediativo prevalgono (e anzi sono largamente maggioritarie) quelle di indirizzo e direttiva, mentre quelle di carattere storico culturale i due tipi di precetti si bilanciano.

Rinviando all’intervento dell’ing Cannas una più puntuale disamina dei contenuti del piano relativo alle diverse categorie di beni, vorrei soffermarmi su due situazioni, entrambe di grandissimo rilievo in quanto rappresentano la testimonianza più significativa di un rapporto equilibrato e virtuoso tra l’uomo e la natura e di una sapienza plurisecolare nel costruire paesaggi dei quali oggi è indiscutibile il valore: gli insediamenti storici e le zone agricole.

Il significato, le modalità d’individuazione, il carattere e il contenuti delle regole sono – mi sembra – sufficientemente chiariti nel tetso delle norme e nella relazione. Mi limiterò a sottolineare alcuni aspetti.

La fascia costiera

La legge Galasso già indicava già i territori costieri compresi nella fascia dei 300 m dalla linea di costa come bene paesaggistico meritevole di tutela. Tale limite, meramente geometrico, costituiva una prima “sciabolata” (comne tutte le altre indicazioni quantitative, dal decreto del 1983 al Codice del 2006)..

Tra i beni a matrice prevalentemente ambientale gioca quindi, in particolare in Sardegna, un ruolo del tutto particolare il bene costituito dalla fascia costiera nel suo insieme. Questa, pur essendo composta da elementi appartenenti a diverse specifiche categorie di beni (le dune, le falesie, gli stagni, i promontori ecc.) costituisce nel suo insieme una risorsa paesaggistica di rilevantissimo valore: non solo per il pregio (a volte eccezionale) delle sue singole parti, ma per la superiore, eccezionale qualità che la loro composizione determina.

Essa non può essere artificiosamente suddivisa, se non per scopi amministrativi, ma deve mantenere il suo carattere unitario complessivo soprattutto ai fini del PPR e, pertanto, deve essere considerata come un bene paesaggistico d’insieme, di valenza ambientale strategica ai fini della conservazione della biodiversità e della qualità paesistica e dello sviluppo sostenibile dell’intera regione.

Tra prescrizioni e indirizzi

I beni e le componenti appartenenti alle diverse categorie hanno gradi diversi di rilevanza e necessitano di regole differenziate per la loro tutela. Per alcune categorie nella norma di tutela prevale un contenuto immediatamente prescrittivo, nel senso che vengono imopedite azioni suscettibili di compromettere irrimediabilmente i beni che a quella categoria appartengono. Per altre categorie la tutela richiede prevalentemente un’analisi più attenta e dettagliata, che non può che avvenire alla scala locale: nella norma di tutela prevale quindi un carattere più di indirizzo, di guida e di indicazione anche stringente per la pianificazione sottordinata.

SI può dire, in senso generale, che per le categorie derivate dalla lettura ambientale prevalgono le indicazioni immediatamente prescrittive (sebbene non manchino certamente quelle di orientamento alle successive azioni), per quelle relative al sistema insediativo prevalgono (e anzi sono largamente maggioritarie) quelle di indirizzo e direttiva, mentre quelle di carattere storico culturale i due tipi di precetti si bilanciano.

Rinviando all’intervento dell’ing Cannas una più puntuale disamina dei contenuti del piano relativo alle diverse categorie di beni, vorrei soffermarmi su due situazioni, entrambe di grandissimo rilievo in quanto rappresentano la testimonianza più significativa di un rapporto equilibrato e virtuoso tra l’uomo e la natura e di una sapienza plurisecolare nel costruire paesaggi dei quali oggi è indiscutibile il valore: gli insediamenti storici e le zone agricole.

Gli insediamenti storici

Per gli insediamenti storici il piano definisce una serie di prescrizioni, indirizzi e direttive rivolte alla pianificazione locale: un’elencazione minuziosa delle attenzioni che occorre porre nell’analizzare i contesti e i loro elementi, nel leggere le stratificazioni, nel progettare la conservazione cogliendo le opportunità fornite dai vuoti e dalle situazioni di pronunciato degrado per migliorare la qualità degli insediamenti.

In attesa della formazione dei nuovi piani locali, adeguati alla filosofia e ai contenuti del PPR, questo prevede una norma di salvaguardia, resa indispensabile dalle numerose e pesanti manomissioni consentite dalle ancora vigenti disposizioni legislative. Le norme prescrivono infatti che, “fino all’adeguamento dei piani urbanistici comunali al PPR, tenuto conto (sic) delle perimetrazioni riportate nelle cartografie di PPR, sono consentiti”, per i comuni non dotati di piani particolareggiato, solo gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia interna.

Dato il “principio di precauzione” che ogni piano paesaggistico assume come proprio, le perimetrazioni degli insediamenti storici del PPR sono generalmente più ampi di quelli dei vigenti piani comunali. Ciò mi sembra assolutamente ragionevole, non solo per quel principio che ho or citato, ma anche perché la tendenza naturale, in tutte le città italiane dove negli amministratori alberghi saggezza, è allargare i confini della protezione e della qualità inserendo in essi elementi che magari venti o dieci anni fa ci sembravano privi di valore, mentre oggi ne riconosciamo l’importanza.

Comunque, come la recente circolare precisa, si tratta di perimetri che potranno essere rivisti nelle fasi successive della pianificazione.

L’edificazione in zone agricole

In tutte le regioni europee la tutela delle aree extraurbane e la lotta allo sprawl (allo sguaiato sdraiarsi della città sulla campagna) sono diventati impegni nazionali. Nel nostro paese questo non è ancora avvenuto, e in ciò è una delle ragioni che rendono il nostro paese ancora per molti aspetti ai margini dell’Europa evoluta.

Hanno cominciato le regioni a tutelare le aree extraurbane, o con norme protezionistiche di tipo paesaggistico oppure riducendo drasticamente, già a livello di legislazione urbanistica regionale, le possibilità di edificazione nelle campagne. La tendenza che si sta prevalendo (a cominciare dalla Toscana, dove il territorio agricolo è considerato un valore anche economico per l’immagine che riverbera sulla produzioni locali) è quella di commisurare strettamente l’edificazione in zona extraurbana allo stretto necessario per l’utilizzazione agricola o silvo-forestale dell’area.

Nelle legislazioni regionali più evolute la stessa realizzazione di manufatti al servizio dell’agricoltura è strettamente vincolata alla durata dell’attività produttiva, e chi chiede e ottiene l’autorizzazione a realizzare un edificio legato alla produzione rilascia al comune una fideiussione per la riduzione in pristino del’area provvisoriamente occupata dal manufatto ove l’attività economica non lo renda più necessario.

Il PPR si colloca esattamente in questa linea. Non poteva non farlo, poiché il paesaggio extraurbano caratterizza fortissimamente l’immagine stessa della Sardegna, e il suo degrado a opera della diffusione urbana (lo svillettamento della campagna) è privo di qualsiasi giustificazione. La recente circolare ribadisce e precisa le ragioni e i termini delle limitazioni all’edificazione nelle aree che devono essere riservate alla naturalità e alla difesa, e ricostituzione, delle connotazioni essenziali del paesaggio.

Nelle epoche più felici della nostra storia civile la bellezza della città e la bellezza della campagna erano l’una la condizione e il riflesso dell’altra. La bellezza del territorio e del paesaggio, e la testimonanza del “buon governo” era nella esatta simmetria di questa due facce, diverse ma strettamente connesse, della qualità comune e della comune identità. Per lasciare ai nostri posteri qualcosa di meglio di cò che abbiamo ereditato, bisogna che – mentre rendiamo più bella la città attraverso la buona urbanistica e la buona arcgitettura– riusciamo a rendere più bella la campagna che ne è la il complemento.

Gli ambiti di paesaggio

Il contesto

Le tre letture di cui al punto precedente hanno consentito di individuare e regolare i beni appartenenti a ciascuna delle categorie individuate. Ma, nella concretezza del paesaggio – come si è detto - ogni elemento del territorio appartiene a un determinato contesto, e in quel contesto entra in una particolare relazione con beni (e, più generalmente, con elementi del territorio) appartenenti ad altre categorie.

Ecco perchè, all’analisi del territorio finalizzata all’individuazione delle specifiche categorie di beni da tutelare in ossequio alla legislazione nazionale di tutela, si è aggiunta un’analisi finalizzata invece a riconoscere le specificità paesaggistiche dei singoli contesti. Sulla base del lavoro svolto in occasione della pianificazione di livello provinciale si sono individuati 27 ambiti di paesaggio, per ciascuno dei quali si è condotta una specifica analisi di contesto.

Per ciascun ambito il PPR prescrive specifici indirizzi volti a orientare la pianificazione sottordinata (in particolare quella comunale e intercomunale) al raggiungimento di determinati obiettivi e alla promozione di determinate azioni, specificati in una serie di schede tecniche costituenti parte integrante delle norme.

Gli ambiti di paesaggio costituiscono in sostanza una importante cerniera tra la pianificazione paesaggistica e la pianificazione urbanistica: sono il testimone che la Regione affida agli enti locali perchè proseguano, affinino, completino l’opera di tutela e valorizzazione del paesaggio alla scala della loro competenza e della loro responsabilità. In tal senso la disciplina proposta per gli ambiti di paesaggio è la parte del PPR che più viene segnalata agli interlocutori locali della discussione dei documenti di piano, perchè è su di essa che le verifiche, gli arricchimenti, le correzioni e integrazioni avranno maggiore utilità per il completamento del piano.

Gli ambiti come laboratori del progetto di paesaggio

Il paesaggio, soprattutto nell’accezione che ne danno la cultura e la giurisprudenza italiane, è una realtà dinamica. Solo in alcune sue parti, e per alcuni suoi elementi, esso può essere considerato una realtà da conservare intatta, mediante una manutenzione e una gestione accorta. Spesso esso deve essere oggetto di interventi di restauro, che lo salvino dalla prospettiva di degrado inevitabile in tutte le parti che non hanno raggiunto la fase del climax. Spesso deve essere ripristinato, utilizzando le tecniche della rimozione degli elementi che lo hanno danneggiato e quelle della ricostituzione delle condizioni ottimali – dove queste sono individuabili e raggiungibili. Altre volte infine (molto spesso) devono essere realizzati paesaggi nuovi, che sostituiscano quelli foggiati dall’incuria, dalla rozzezza, dalla miopia dello sfruttamento immediato.

È una grande scommessa che si presenta agli amministratori e ai tecnici. In particolare agli urbanisti che disegneranno i nuovi piani locali raccogliendo e prolungando il messaggio del PPR, adeguandosi criticamente agli indirizzi e alle direttive contenute nelle norme della pianificazione regionale.

Il momento della pianificazione urbanistica locale è un momento decisivo, se è vero che (ripeto le parole di Leonardo Benevolo) è solo dalla buona urbanistica che nasce la buona architettura. Ma un altro momento decisivo è quello costituito dal recupero delle tecniche, dei materiali, dei mestieri che hanno caratterizzato la Sardegna e le sue diverse regioni, che hanno dato luogo alla realizzazione degli edifici e dei manufatti che ne caratterizzano il paesaggio, e che costituiscono un prezioso elemento della sua identità.

Gli ambiti come luoghi del rapporto tra spazio e società

Gli ambiti di paesaggio, per la loro natura, il loro ruolo e i modi in cui sono stati delimitati, sono anche i luoghi nei quali si esprime più compitamente il rapporto tra le esigenze e le dinamiche della società e le trasformazioni che la forma del territorio ha subito. Si tratta di un rapporto le cui caratteristiche sono fortemente mutate nel tempo. Nelle epoche (lunghe) nelle quali quel rapporto è stato positivo, la società ha collaborato con la natura e con la storia: ha sviluppato in modo organico ciò che preesisteva, ha completato e arricchito ciò che i suoi predecessori avevano costruito, ha guidato la natura utilizzandone le regole senza usarle violenza. Da ciò sono nati i paesaggi cui oggi riconosciamo valore.

Tutto è cambiato, ahimè, nella breve fase che speriamo (senza esserne sicuri) essere alle nostre spalle. Il mito dell’onnipotenza delle “tecnologie innovative”, l’omogeneizzazione di costumi e di sentimenti indotta dalla globalizzazione, il prevalere della miopia nelle visioni politiche e nella gestione dei patrimoni, la tendenziale riduzione d’ogni bene in merce, tutto ciò ha provocato una cesura profonda nel modo in cui la società, e i suoi membri e gruppi, considerano e vivono le due essenziali componenti del paesaggio: la natura e la storia.

Oggi molti di noi sentono in se stessi il conflitto tra due esigenze. Da una parte, l’esigenza ottimisticamente fatta propria dalla Convenzione europea del paesaggio, che nella stessa definizione del paesaggio mette al centro la percezione che del paesaggio hanno i suoi abitanti. Dall’altro lato, la consapevolezza che negli attuali abitatori dei nostri paesaggi dominano concezioni, interessi, culture che vedono nel paesaggio più una miniera dalla quale estrarre quanto più minerale è possibile che un patrimonio da custodire vivendolo in modo adeguato al suo valore. Se così non fosse, non si spiegherebbe perché luoghi la cui bellezza originaria non dovrebbe trovare cuori insensibili e cervelli guastati dalla miopia (penso alla Gallura come alla Val d’Orcia), perché simili luoghi possono essere devastati, o minacciati di devastazione, proprio dai poteri locali, espressione delle locali popolazioni.

Credo che da questo conflitto si possa uscire solo con una consapevolezza e un impegno.

La consapevolezza che, fino a quando la tutela del paesaggio non sarà sentita coime una necessità vitale dagli stessi abitanti dei luoghi, e dalle loro rappresentanze elettive, la tutela del bene comune che il paesaggio costituisce sarà sempre il risultato di una lotta faticosa, dura, sgradevole, incerta negli esiti, logorante negli sforzi che richiede, ma indispensabile per garantire il futuro di noi tutti.

L’impegno ad adoperare la pianificazione, a tutte le scale, come un momento e uno strumento per far sviluppare nelle coscienza la consapevolezza che la qualità del nostro territorio, dei suoi paesaggi urbani ed extraurbani, prodotti dall’uomo e prodotti dalla natura, è un bene, al quale molte merci sono sacrificabili: è un interesse della civiltà che in tal modo esprimiamo.

La Sardegna ha due primati: è la prima regione italiana il cui presidente abbia rifiutato il titolo mediatico di “governatore”, che rappresenta un simbolo delle velleità autoritarie e centralistiche che una fase del regionalismo ha conosciuto, ed è la prima regione italiana che abbia messo il paesaggio al centro della sua attenzione. Renato Soru ha ripreso in questo senso una grande intuizione di Benedetto Croce: il paesaggio come espressione concreta della identità del paese. Il paesaggio della Sardegna come valore in sè: è valore, perciò non ha bisogno di essere “valorizzato”. Soprattutto se guardiamo al modo in cui altri hanno “valorizzato le coste della Sardegna costruendo orrori di finti paesi, omologhi a quelli che sorgono in ogni altro luogo ridente del mondo, e sconvolgendo la vita dei territori circostanti: “hanno costruito villaggi fantasma, e hanno reso fantasmi i villaggi vivi”, ha detto il presidente Soru nell’aprire i lavori del Comitato scientifico.

Questo paesaggio va in primo luogo difeso, perché è soggetto a tensioni fortissime a una trasformazione che è distruzione: distruzione della memoria, della bellezza creata dalla collaborazione del lavoro e della cultura dell’uomo con la natura, distruzione di una ricchezza che è risorsa per il futuro, e che può essere resa risorsa economica anche per il presente. Conservare infatti non equivale a congelare né a lasciar deperire. Anzi, conservare significa impiegare impegno, risorse, attività, saperi per mantenere, per ripulire, per ridare vita a ciò che si è lasciato morire – e anche per costruire di nuovo là dove l’intervento recente dell’uomo ha distrutto ciò che vale per sostituirlo con oggetti privi di qualità e di storia: per “costruire collaborando con la terra”, come ha scritto Giorgio Todde.

Il piano paesaggistico regionale vuole dare gambe a questa filosofia, regole e indirizzi a una serie di attività tutte coerentemente orientate a questo grande progetto, di cui la Giunta regionale ha definito le premesse e i lineamenti e a cui sono orgoglioso di essere stato chiamato a collaborare. Nella speranza che l’esempio della Sardegna venga seguito anche dalle regioni, dalle province e dai comuni del resto dell’Italia: che, in questo senso, la Sardegna non sia più un’isola, ma si impadronisca del continente.

Il seminario “I protagonisti del consumo e le trasformazioni del territorio. Quali regole del gioco?” è stato organizzato dal Centro di studi urbani dell’Università degli studi di Sassari, Dipartimento di Economia, istituzioni e società

Il tema di questo seminario (non avevo ancora ascoltato la bella relazione di Antonietta Mazzette) mi ha fatto venire in mente un duplice percorso, una duplice serie di echi. L’uno è in qualche modo legato alla storia della città e alla sua essenza: riguarda il rapporto tra la città e il consumo. Il secondo ha a che fare con l’oggi, con l’attuale forma della città - il territorio urbanizzato – e con il rapporto del territorio con l’attuale economia – con il mercato.

Consumo e città

Il rapporto tra la città e il consumo ha profondamente a che fare con il mio mestiere, l’urbanista. Un mestiere che quindi è legato ontologicamente a questa grande invenzione dell’uomo che chiamiamo città.

Ebbene, la città, così come la civiltà umana l’ha inventata e creata nell’ambito della cultura che si è attestata tra le sponde del Mediterraneo e quelle del Mare del Nord, è strettamente legata a una specifica forma del consumo.

La città è nata e si è conformata, ha trovato la sua identità, ha espresso una comunità padrona dei propri destini, quando ha trovato nei luoghi ordinati al consumo comune della comunità i suoi centri ordinatori, i suoi fuochi.

La città è il luogo che gli uomini hanno creato quando hanno dovuto vivere insieme per svolgere una serie di funzioni che non potevano svolgere da soli: custodire e difendere i frutti del proprio lavoro, il sovrappiù della loro produzione; scambiare il sovrappiù tra loro, e con gli abitanti di altri luoghi.

Come tutti sanno, la città è originariamente legata alla difesa e allo scambio: le mura e il mercato sono i primi elementi fondativi della città, le prime funzioni urbane. E le storie della città ci raccontano come le funzioni urbane si siano via via arricchite, e altre necessità e funzioni comuni si siano aggiunte a quelle della difesa e del commercio: la celebrazione dei valori e delle speranze comuni - la religione -, la tutela dei diritti e la decisione sulle liti - la giustizia -, lo scambio di informazioni e di conoscenze e l’apprendimento di esse - la scuola -, la rappresentanza e l’azione nell’interesse della comunità - la politica e il governo.

Il ruolo del “consumo comune” nell’affermazione della città

A queste funzioni hanno corrisposto specifici luoghi: i templi e le cattedrali, la piazza e il foro, il tribunale, il bargello, il palazzo del governo, si sono aggiunti al mercato e alla rocca per costituire i luoghi della comunità in quanto tale: i luoghi che si sono differenziati e distinti dalla casa, dal luogo della famiglia, in quanto erano finalizzati ad esprimere, rappresentare e servire non gli interessi del singolo individuo, ma la comunità in quanto tale; non i consumi individuali, ma i consumi collettivi, dell’uomo in quanto membro della società.

Sono proprio i luoghi del consumo comune dei cittadini quelli che hanno costituito l’anima della città, la sua ragion d’essere. La decadenza della città, la sua crisi, è cominciata proprio quando i valori comuni, le ragioni profonde dello “stare insieme”, della cittadinanza, sono stati via via erosi, scavalcati, e alla fine emarginati e sostituiti dal trionfo dei valori dell’individualismo.

A me sembra che l’emblema, il simbolo, la rappresentazione fisica della crisi della città sia nel confronto tra due assetti del medesimo spazio:

- la piazza, questo luogo topico della civiltà europea e mediterranea, il luogo dell’incontro tra gli uomini di età e di ceti sociali e di mestieri e di condizioni diversi, il luogo dello scambio di merci e d’informazioni e di sentimenti e d’affetti, il luogo dello spettacolo e della cerimonia e del gioco comune, del vedere e del farsi vedere – la piazza com’era una volta e come in alcuni luoghi felici è ancora,

- e la piazza com’è oggi: parcheggio o rotatoria o svincolo, o l’uno e l’altro insieme, orribile deposito e luogo di scorribande di quelle scatole di latta, ingombranti consumatrici d’energia e d’aria, nelle quali si esprime il consumo individuale di massa – la piazza ridotta a mero spazio urbano dal quale è stato espulso l’insieme di quei momenti che ne facevano il gioiello d’una civiltà.

Gli standard urbanistici

La trasformazione delle piazze in parcheggi è l’emblema di una mutazione e di una crisi che caratterizzano la città contemporanea e la rendono il luogo dei molteplici disagi. È una crisi che nasce un paio di secoli fa, e che è il risultato del conflitto tra il carattere sociale della città e l’individualismo dominante in due fondamentali settori: quello della proprietà delle aree urbane, e quello – che qui più direttamente ci interessa – dei luoghi del consumo comune.

Negli altri paesi si è riusciti da moltissimi decenni ad affrontare questa crisi dandole risposte positive. In Italia si è dovuto aspettare gli anni 60 del secolo scorso, alcune vistose calamità naturali provocate dall’insipienza dell’uomo, e un vasto movimento sociale per ottenere che gli spazi pubblici, almeno in termini quantitativi, riconquistassero un ruolo significativo nella città.

Fino ad allora, alle scuole e al verde, alle attrezzature collettive e ai luoghi d’interesse comune era lasciato qualche lotto marginale e scomodo, nel disegno di una città dedicata alla valorizzazione edilizia della proprietà fondiaria. Da allora, dal 1967, grazie a una volontà politica sollecitata da un vasto e durevole movimento di massa, almeno metà delle aree urbane devono essere dedicate agli spazi pubblici e d’uso pubblico. È un risultato solo qualitativo, che tecnici avveduti e amministratori lungimiranti possono tradurre (hanno potuto tradurre) nella forma di una città non divorata dall’individualismo.

Una ricerca sul modo in cui il raggiungimento del diritto sociale agli standard urbanistici si è tradotto nel disegno di una città più umana sarebbe un lavoro molto interessante nel quale accingersi. Non ora però: ora è tempo di avviarmi nel secondo percorso cui avevo accennato all’inizio: il rapporto tra territorio e mercato.

Dalla città al territorio urbanizzato

Nel corso dei secoli che abbiamo alle spalle sono accaduti eventi che hanno trasformato il modo di vivere e di pensare di masse sterminate di uomini. Molti riguardano l’argomento su cui stiamo ragionando. Vorrei sottolinearne due.

Da un lato la città, nonostante la sua crisi e l’incapacità di offrire in modo generalizzato condizioni di vita soddisfacenti ai suoi cittadini, è diventata la forma praticamente esclusiva dell’insediamento umano. Non solo nel senso che è aumentata enormemente la quota degli abitanti che risiedono negli agglomerati urbani statisticamente censiti come tali, ma anche nel senso che la città (la civiltà urbana, il modo di vivere urbano) ha interessato l’intero territorio. La città non solo si è ingrandita enormemente, ma è uscita dai suoi confini. Oggi non ha più senso parlare di città e territorio come due realtà separate: oggi si deve parlare di territorio urbanizzato.

Ma dall’altro lato è nata e si è via via consolidata la consapevolezza che il territorio non è tabula rasa, non è un insieme neutrale di luoghi amorfi, non è un’estensione omogenea e isotropa, uguale in tutte le direzioni, come la immaginavano gli economisti dello spazio e gli urbanisti dell’espansione. Il territorio è un insieme di risorse scarse, essenziale per la vita del genere umano (e delle numerosissime specie che ne accompagnano il destino). Il territorio è il deposito vivente di risorse (minerali, vegetali, energetiche; appartenenti al mondo biotico e a quello abiotico; quali antichissime, quali antiche, quali recenti, quali in divenire continuo) molte delle quali hanno la caratteristica di non essere riproducibili, e tutte quella di essere limitate.

Risorse limitate e crescita infinita

Risorse limitate, ma in una società (in un sistema economico sociale) che ha assunto quale sua ideologia di riferimento, quale suo valore massimo, quale suo metro di misura per l’efficacia di qualunque azione, quella della crescita esponenziale indefinita. Ecco allora che dinnanzi all’urbanista, dinnanzi all’operatore che aveva a che fare ieri con la città, oggi con il territorio urbanizzato, si apre una seconda contraddizione, dopo quella tra il carattere intrinsecamente sociale della città e il carattere intrinsecamente individualista della società contemporanea: la contraddizione tra limitatezza delle risorse e tendenza alla continuità indefinita della crescita.

Come diceva Kenneth Boulding, uno dei padri dell’ecologia: "Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista" [1].

Uno degli aspetti del conflitto tra il dato della limitatezza delle risorse e la regola della crescita indefinita è il consumo di suolo. Per decenni abbiano considerato il suolo un bene privo di valore. Nelle città, e nelle loro sempre più estese periferie, e in quella loro aberrante mutazione che viene chiamata “città diffusa” o “villettopoli” o “sprawl urbano” (e che a me sembra un orribile BLOB urbano) – insomma, nel territorio urbanizzato il consumo di suolo è aumentato enormemente. Si valuta che, in Italia, nell’ultimo mezzo secolo, il territorio urbanizzato, sottratto alla naturalità, al ciclo biologico, alla capacità di produrre e riprodurre materia viva, è aumentato del 1000 per 100. E questo in presenza di un trend demografico nel quale le nascite non compensano i decessi.

È un conflitto grave, che ha dei riflessi pesanti e gravi non solo sul generale destino del nostro pianeta e, su di esso, del genere umano (in questo senso, un destino che è grave per noi quanto lo è per gli americani e i cinesi e gli africani), ma anche sul particolare destino, sulle particolari risorse, sulle particolari potenzialità dei nostri territori: qui in Sardegna, come nell’intera Italia, come nell’intera Europa. Qui, infatti, godiamo – grazie all’investimento di lavoro e di cultura dei nostri progenitori – di una particolare risorsa territoriale: il paesaggio, la forma che al territorio è stato impresso, nei secoli e nei millenni dalla collaborazione tra la natura e il lavoro intelligente dell’uomo.

Il paesaggio: un valore nuovo

Non si può dire che in Italia l’attenzione al paesaggio sia recente. Già nei primi decenni del secolo scorso si promuovevano studi finalizzati a formare leggi di tutela, ed è a Benedetto Croce, ministro della Pubblica istruzione all’inizio degli anni 20, che si deve la prima intuizione del paesaggio come identità del Paese: “Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo” [2].

Nel dopoguerra, l’inserimento nella parte più solida della Costituzione repubblicana della tutela del paesaggio non fu il frutto di un capriccio o di una disattenzione, ma di una consapevole scelta formata in un animato dibattito.

Certo è, però, che una consapevolezza di massa, generalizzata, diffusa del paesaggio come un valore che appartiene a tutti e a ciascuno, come un patrimonio che è colpevole ridurre o degradare o svendere è un’acquisizione abbastanza recente. L’associazione Italia Nostra nacque negli anni 50 del secolo scorso e ad essa aderivano poche decine di eletti. Oggi non si contano le associazioni ambientaliste e protezioniste, che sono centinaia e forse migliaia se a quelle nazionali aggiungiamo le moltissime che nascono e si esprimono a livello locale – magari intrecciando le tematiche paesaggistiche e ambientali a quelle della democrazia, della partecipazione, del pacifismo.

Il paesaggio è diventato un valore. E quando qualcosa diventa un valore ecco che nascono subito tre tipi di iniziative: quelle orientate a tutelarlo, quelle volte a consumarlo, e quelle dirette a sfruttarlo.

A proposito delle prime accennerò solo al fatto che, con la legge Galasso del 1985, si è passati da una concezione della tutela di alcuni “monumenti” del paesaggio mediante vincoli essenzialmente procedimentali, a una concezione del paesaggio come forma del territorio nazionale e delle sue parti e alla sua protezione mediante la pianificazione territoriale e urbanistica. Vorrei ragionare un momento di più sul consumo di paesaggio, perché mi sembra un argomento centrale in questo seminario.

Il paesaggio consumato

Il termine consumo ha un doppio significato: significa fruire, utilizzare qualcosa per crescere, per svilupparsi, per migliorare, per godere, e significa logorare, togliere qualcosa (o tutto) a ciò che si consuma, degradare, ridurre. Consumare una poesia di Emily Dickinson arricchisce ciascuno di noi ma non le toglie nulla alla composizione. Un’immagine diversa del consumo si ha invece guardando il piede della statua di San Pietro in Vaticano, ridotto a un moncherino dalle devote carezze di migliaia di pellegrini.

Nel paesaggio questi due termini sono strettamente associati. E vorrei dire che la scommessa che abbiamo di fronte, e che molti di noi sono impegnati a vincere, è proprio questa: fruire del paesaggio senza logorarlo.

Oggi ci si comincia a rendere conto che – come ha scritto Carla Ravaioli - “è stato il turismo, ricco o povero, di massa o d’élite, la causa prima della mostruosa cementificazione delle coste, non solo italiane, ma spagnole, greche, turche, nordafricane, e via via del mondo intero, invase da alberghi albergoni pensioni seconde e terze case”[3]. Ce ne siamo resi conto nelle città più belle, e soprattutto e innanzitutto in quelle dove la limitata dimensione accentuava l’effetto dissacrante e massacrante delle masse di turismi: prima quindi a Venezia e a Firenze che a Roma e a Parigi. Ma anche nelle valli alpine, e soprattutto nelle coste più belle. E se nelle prime spesso la consapevolezza delle popolazioni ha saputo tradursi in regole amministrative che hanno salvaguardato gli interessi di lunga durata delle popolazioni locali (come nelle valli ladine delle Dolomiti), nelle seconde, nelle coste, la grande domanda di fruizione si è incontrata con la propensione allo sfruttamento immediato; con il terzo tipo di iniziative, dunque, alle quali sopra alludevo.

Il punto è che dobbiamo imparare sempre meglio a distinguere il consumo che nasce da un bisogno autentico dell’uomo (bisogno di conoscenza, di ricreazione, di riposo, di godimento) da quello che nasce da un’esigenza del sistema produttivo dato (bisogno di vendere le merci, magari inutili).

Il turismo

Stiamo parlando del turismo. E stiamo in bilico tra il passato e il futuro. Sullo sfondo di un mondo in faticoso trapasso da un´economia del possesso a un’economia dell´accesso, come ha scritto Jeremy Rifkin.

Stiamo ancora nell’ambito di una concezione e una prassi del turismo come industria che trasforma, distrugge le materie prime per costruirne altre (tendenzialmente tutte uguali, tutte ugualmente ricche di kitch e di cattivo gusto “perché così vuole la gente”), totalmente artificiali, lontane dalla cultura e dalla storia quanto lo sono dalla natura e dall’identità del sito.

E stiamo cercando di passare verso una concezione e una prassi del turismo come momento della conoscenza del mondo, dell’approfondimento di sé attraverso la frequentazione degli altri e dei loro mondi – così belli e nuovi perché così diversi da quelli frequentati tutti i giorni, così pregevoli perché ricchi di valori e di costumi e di storie così diversi da quelli che erano i soli nostri.

Siamo in bilico tra

- un turismo che acchiappa qualche pezzo di territorio, lo ritaglia dal resto, lo rende omogeneo a quei villaggi di bengodi che le soap opera ci hanno abituato (hanno abituato gli stupidi) a considerare il paradiso in terra – con le loro villette isolate o a schiera, i loro shopping center o le loro plaza, i loro praticelli rasati col tosaerba, i loro parchi robinson dove abbandonare i bambini e i parcheggi nascosti tra oleandri per abbandonare le automobili,

- e un turismo, invece, che abbia la sua base e il suo inizio nel rispetto di ciò che c’è e di ciò che c’è stato, nel sapore e nell’odore dei luoghi così come sono, e li sappia visitare in punta di piedi, e che perciò trasformi il meno possibile, e si addentri il più possibile nei rapporti che legano la vita di oggi a quella di ieri.

Sono convinto che solo a questo tipo di turismo possiamo attribuire il termine di sviluppo, se con tale termine non intendiamo l’irragionevole crescita oltre ogni misura delle grandezze quantitative, ma il miglioramento della qualità della nostra vita – insieme, di quella dei visitatori e di quella delle popolazioni che in quei luoghi risiedono stabilmente.

La pianificazione

Cercare di rendere possibile questo nuovo tipo di turismo richiede certo sforzi notevoli, perché significa percorrere strade alternative a quelle del mercato. Significa comprendere e proteggere i luoghi in quanto beni, in quanto oggetti dotati di loro specifiche qualità e potenzialità, anziché usarli in quanto merci, cioè cose fungibili, trattabili, alterabili, falsificabili. Ma il mercato è lungi dall’essere lo strumento capace di risolvere qualsiasi problema, di comprendere qualsiasi valore. È lungi dal poter costituire l’unica regola.

Che il mercato non fosse uno strumento adeguato a raggiungere obiettivi nell’interesse di tutti lo compresero un paio di secoli fa, a New York, nel cuore pulsante dell’America capitalista ed individualista. Allora si comprese che il mercato non solo non riusciva a dare razionalità all’uso del suolo, ma ansi – nel campo delle decisioni sull’uso del suolo urbano – provocava conflitti, disagi, caos, diseconomie crescenti che il mercato subiva ma non riusciva a contenere.

È lì e allora (a New York nel 1811, e non a Mosca nel 1917) che nacque la pianificazione urbanistica, come unico metodo, e insieme di strumenti, capace di conferire ordine, razionalità, coerenza alle trasformazioni del territorio. La pianificazione urbanistica, per governare nell’interesse collettivo il funzionamento e le trasformazioni della città. La pianificazione territoriale, quando si comprese che la città aveva travalicato i propri confini e invaso l’insieme dei luoghi raggiungibili e utilizzabili. La pianificazione paesaggistica, quando emerse e si affermò la consapevolezza che la tutela del paesaggio, di questo grande patrimonio collettivo che non può essere privatizzato, trasformato e goduto nell’interesse di pochi, ma deve esserlo nell’interesse della collettività, non può essere assicurata da un sistema di vincoli, ma trovando una sintesi tra le diverse esigenze che il territorio deve soddisfare.

Una sintesi – affermano molti – nella quale i valori della bellezza, del futuro e della storia, abbiano il primato sugli altri, e i diritti delle popolazioni future non siano calpestati in nome delle miopie di oggi.

In Sardegna, oggi

Vedo oggi, in questa bellissima isola, molti sforzi impegnati nel tentativo di costruire una simile sintesi. Vedo le iniziative della Regione Autonoma e del suo presidente Soru, e condivido pienamente la valutazione che ne faceva Mazzette. Esprimo anch’io la speranza che le iniziative sacrosante per la difesa del paesaggio non restino un’isola, ma conquistino il Continente. E vedo uno sforzo per molti aspetti analogo nelle iniziative e nelle ricerche del cantro di Studi Urbani di questa Università, al quale sono onorato di aver chiesto l’adesione.

Ma ha ragione Fois: la sintesi deve tradursi in regole. A mio parere la premessa delle regole è in questa proposizione: il suolo è un bene comune. Di questa frase voglio sottolineare entrambi i termini: il territorio è un bene, non una merce; ed è un bene comune, appartiene a tutti, gli uomini e le donne di oggi, e quelli di domani. Aveva ragione Bonnes a sottolineare il carattere severo di sostenibilità nell’accezione originaria, quella della Commissione Brundtland: voglio vedere i politici e gli amministratori, e la stessa cultura d’oggi, a misurare effettivamente la trasformabilità del territorio adoperando questo metro di misura, e rinunciare a tutto ciò che riduce le risorse non riproducibili.

Per conto mio, nella situazione data in Italia e in Europa, porrei al centro due regole. La prima: arrestare lo sprawl urbano, adoperando i due strumenti impiegati ormai in molte realtà europee e statunitensi: la definizione di un limite invalicabile all’espansione delle città, la decretazione della non trasformabilità delle aree extraurbane. La seconda regola: non privare le città del commercio, che è stato la ragione della loro nascita ed è la ragione della loro vita; una vita pesantemente minacciata dalla costruzione delle grandi cattedrali dello commercio.

Ho sentito dire anche qui che le grandi multinazionali del consumo, preoccupati del declino delle cattedrali che hanno costruito, vogliono arricchirle di contenuti, trasformare in città. Questo mi fa venire in mente un’ulteriore domanda, e un’ulteriore preoccupazione: chi realizzerà la nuova città a partire dalle Outlet Factories del commercio o dai Villaggi Vacanze? Le multinazionali, o gli istituti della democrazia? In altri termini, chi stabilisce le regole? Forse dovremo difendere la democrazia e i suoi istituti, come difendiamo la città e la sua complessità e il territorio e le sue risorse.

Grazie.

[1] Kenneth E. Boulding, The economics of the coming Spaceship Earth, in: H. Jarrett (editor), “Environmental quality in a growing economy”, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1966, p. 3-14

[2] Benedetto Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920.

[3] Carla Ravaioli, Il turismo inquinante, in http://eddyburg.it/article/articleview/2531/0/142/

Buongiorno agli ascoltatori del Naso di Pinocchio. Sono Edoardo Salzano, ed oggi vi parlerò del condono edilizio che il governo sta introducendo con la prossima legge finanziaria.

L’ultima iniziativa, lo sciagurato condono edilizio, è solo uno degli episodi di dissipazione della ricchezza comune. Ricordiamo gli altri:

Ricordiamo la svendita del patrimonio immobiliare pubblico, ricco di beni culturali di grande pregio, di luoghi di straordinaria bellezza, che avrebbero potuto diventare produttivi anche conservando la proprietà nelle mani della collettività.

Ricordiamo la smania di privatizzare tutto quello che può diventare lucroso per i privati anche a danno dell’efficacia del servizio pubblico: dall’ energia elettrica ai trasporti collettivi, dalla sanità alle pensioni, dalla scuola alla ricerca.

E ricordiamo anche le iniziative che impoveriscono la ricchezza morale del paese: come i condoni fiscali, che premiano i furbi e gli evasori e riducono la credibilità della legge, che dovrebbe essere uguale per tutti.

Ma il condono edilizio è più grave di tutte le altre iniziative compiute per battere cassa. Lo ricordava l’urbanista Vezio De Lucia nell’editoriale del Manifesto di domenica 28 settembre:

II condono edilizio è peggio del condono fiscale. Di quest'ultimo, fra vent'anni, con uno sperabile e progressivo recupero della legalità, potrebbe essersi persa la memoria. Non è così per la sanatoria edilizia perché le ferite inferte dagli abusi al territorio e alle città sfidano i secoli.

Ecco il punto: i danni del condono edilizio non sono recuperabili: durano per sempre, sono una ferita non rimarginabile.

Il condono è una ferita. Che cosa colpisce, precisamente? Ci aiuta a comprenderlo l’appello lanciato dall’associazione Libertà e giustizia, che ha già raccolto 20mila firme contro il condono edilizio:

Il nostro paesaggio è la nostra storia, la nostra identità, la nostra anima profonda. Ogni ferita al nostro territorio e alle nostre città è una ferita inferta a noi stessi, alla nostra memoria collettiva, a qualcosa di inestimabile che abbiamo creato nel tempo e con cui abbiamo convissuto di generazione in generazione, attraverso i secoli. Ferire a morte quest’eredità delicata e preziosa non è solo un “cruccio” culturale, ma anche un calcolo economico miope e dissennato.

Tornerò sul “calcolo economico miope e dissennato”. Vorrei informarvi che il condono berlusconiano ha fatto riaccendere sull’Italia i riflettori del mondo.

L’autorevole quotidiano statunitense, The Washington Post, ha scritto pochi giorni fa che, con il condono edilizio, “la cultura dell’impunità torna in forze in Italia”.

In effetti, un simile fenomeno – l’abusivismo e il successivo condono – è un fenomeno che non esiste né in altri paesi d’Europa né nel Nordamerica: solo nella nobile e grande Italia, settima potenza industriale del mondo sviluppato, e in alcuni paesi del Terzo mondo.

Il condono premia e incentiva l’abusivismo urbanistico ed edilizio. Premia chi ha costruito in barba alle regole comuni, premia chi ha costruito là dove non si poteva costruire, e induce i furbi a credere che si può continuare a farlo, tanto prima o poi verrà un altro condono.

E in realtà in 18 anni ci sono stati tre condoni: uno firmato Craxi-Nicolazzi, nel 1985, uno firmato Berlusconi-Radice, nel 1994, e, adesso, con la griffe ancora della premiata ditta Berlusconi e dei suoi soci Tremonti e Lunardi.

Devo dirvi che non m’interessa tanto l’aspetto morale del condono. Mi interesse soprattutto il danno che esso arreca al patrimonio di tutti: al benessere, alla vivibilità, all’ ambiente nel quale viviamo e vivranno i nostri posteri, al Belpaese che i nostri antenati hanno saputo lasciarci in dono, e ci rende invidiati in tutto il mondo. Quel danno che Salvatore Settis ha così bene descritto su Repubblica, al primo apparire della minaccia del nuovo condono. Voglio leggervene un passo:

[…] condono edilizio vuol dire legittimare l´abuso col sigillo della legge, premiare chi ha violato le regole a scapito di chi le ha rispettate. Vengono in tal modo sanciti e anzi incoraggiati e promossi, innescando una reazione a catena senza fine, gli scempi che deturpano, e […] sempre più deturperanno le nostre città, i nostri paesaggi. Interesse primario dei cittadini e dello Stato è, al contrario, la rigorosa difesa della legge e delle regole, la tutela dei valori architettonici, urbanistici, paesaggistici che possono valere anche poco se presi uno per uno, ma hanno valore inestimabile nel loro insieme e nel loro contesto. Fanno dell´Italia quello che è, il Paese al mondo con la più alta intensità di conservazione del patrimonio (pubblico e privato), con la più ricca tradizione di tutela.

Così Settis, su Repubblica del 15 luglio scorso. Ma cerchiamo di capire bene che cos’è l’abusivismo urbanistico ed edilizio.

Io l’ho conosciuto bene. Negli anni 60 ero a Roma, ero consigliere comunale, di opposizione. A Roma c’erano decine di insediamenti abusivi, dove vivevano centinaia di migliaia di persone.

Erano nati nel dopoguerra. Il grande fervore dell’attività edilizia nella capitale richiamava mano d’opera, la crisi delle attività agricole spingeva gli abitanti delle zone interne e del Mezzogiorno ad abbandonare i loro paesi e i loro campi per correre là dove si trovava lavoro. Andavano a Roma per costruire case, ma le case erano troppo care per loro. Per ripararsi compravano un piccolo terreno nella più lontana periferia, o nell’aperta campagna, e tiravano su una casa lavorando il sabato e la domenica. Abusivamente, ma il Comune chiudeva un occhio: era un abusivismo di necessità, la necessità era il suo alibi.

Negli anni 70 il fenomeno era già cambiato. L’abusivismo di necessità era stato il cavallo di Troia dietro al quale si era sviluppata una vigorosa speculazione. Non più baracche e casette a un piano, ma palazzine di 4 o 5 piani, magazzini all’ingrosso, fabbriche, ville con piscina e parco.

A Roma il fenomeno è stato macroscopico. Si valuta in 800 mila gli abitanti nelle borgate e nei palazzi costruiti abusivamente. Ma l’abusivismo si è sviluppato dappertutto. Non solo alle periferie delle città, ma anche (e soprattutto) nelle zone più pregiate: le coste, i boschi, le montagne. Gli articoli che Gian Antonio Stella ha scritto sul Corriere della sera (spero proprio che usciranno in un unico volume) documentano con abbondanza di esempi lo scempio del territorio che è stato compiuto.

Ho detto “dappertutto”, ma non è vero. L’abusivismo non c’è stato, o ha avuto dimensioni modestissime, là dove le amministrazioni comunali hanno saputo governare il territorio.

Dove i piani regolatori sono stati redatti e approvati tempestivamente, aggiornati e migliorati ogni volta che era necessario, dove gli uffici pubblici hanno funzionato e rilasciato le concessioni edilizie con rigore, e i vigili urbani hanno saputo vigilare, l’abusivismo non ci è stato – o si è limitato alla recinzione senza licenza o alla loggia chiusa con un infisso. Non c’è abusivismo in Emilia Romagna, in Lombardia, in Toscana, in Piemonte, in Liguria, in vaste parti del Triveneto e dell’Umbria.

Se sovrapponessimo una mappa dell’abusivismo a una mappa del buon governo urbanistico, vedremmo che dove c’è l’uno non c’è l’altra.

L’abusivismo, quindi, non è inevitabile. Anzi, anche dove si è sviluppato perché nel passato le amministrazioni non sono state attente, anche là può essere combattuto e vinto. Francesco Erbani, il bravo giornalista di Repubblica, ha pubblicato quest’estate un paio di servizi di grande interesse a questo proposito. Voglio citarne uno.

Eboli, una città del Sud, nel Salernitano. Una grande pineta litoranea, costruita dallo Stato all’inizio degli anni 50 e subito riempita di casette e ville abusive. I colpevoli: non poveracci, ma professionisti, commercianti, possidenti.

Un bravo sindaco, Gerardo Rosania, appena eletto con una maggioranza di sinistra decide si far cessare lo scempio. Una lotta incredibile, ma ci riesce. Con l’aiuto della magistratura e dell’esercito, 400 ville abusive vengono abbattute in pochi anni: dal 1997 al 2000. Ma oggi, a Francesco Erbani che lo intervista Rosania parla così:

«Se avessimo dovuto farlo ora, non avremmo abbattuto niente, nessuna villetta, nessun abuso». Lo sguardo di Gerardo Rosanìa, sindaco di Eboli, si spegne nel vuoto, vaga sulle pareti del suo ufficio, poi torna a fissare un punto. «Quella stagione si è esaurita. E poi oggi chi me li darebbe i soldi per le ruspe e per alloggiare i militari?».

Rosania è certamente un esempio, ma non è l’unico sindaco che si è comportato così, nel Mezzogiorno tormentato da un abusivismo spesso associato a camorra, ndrangheta e mafia. Ed è anche per questo che il nuovo condono perpetrato da Berlusconi è particolarmente odioso. Come si scrive sull’appello dell’associazione Polis, è un condono che va combattuto

perché vanifica gli sforzi delle amministrazioni più coraggiose, impegnate nella difesa del territorio e nel rispetto delle regole comuni.

Va combattuto, insomma, perché mortifica gli amministratori più coraggiosi, quelli che si sono battuti per contrastare gli abusi e nel praticare un'urbanistica rigorosa. Favorisce invece gli amministratori collusi con gli interessi illegali, gli amministratori insensibili al disordinato sviluppo del territorio e alla distruzione del paesaggio: della ricchezza di tutti.

Un delitto, quindim e un incentivo a compiere altri delitti. E in nome di che cosa?

Qual è il vantaggio del condono? Assolutamente ridicolo. Si spera che porti 2,5-3,0 miliardi di €. Ma De Lucia ricorda che

il condono edilizio è comunque un disastro per le pubbliche finanze. E' stato calcolato che, fatto 100 l'ammontare delle oblazioni, è pari almeno a 300 la spesa che i poteri locali devono sostenere per urbanizzare adeguatamente i territori infestati in ogni direzione dagli insediamenti abusivi.

Anche le associazioni ambientalistiche (Legambiente, Italia Nostra, WWF) sollevano la questione del “vantaggio economico” e ricordano che:

con il secondo condono generalizzato del 1994 si sono ulteriormente aggravate le spese dei comuni per regolarizzare la situazione: a Roma ad esempio, sulla base di dati ufficiali, a fronte di introiti dei condoni 1985 e 1994, pari a 477 milioni di euro, c’è stata una spesa del Comune in opere di urbanizzazione pari a 2.992 milioni di euro, cioè sei volte tanto.

E Italia Nostra domanda:

Chi ha fatto i conti? Oggi i comuni e il catasto sono ancora impegnati nello svolgimento delle pratiche dei condono precedenti (si parla di oltre 400.000 pratiche arretrate). Quale è il senso di fare cassa nell’immediato a livello nazionale per scaricare gli oneri e i costi a breve termine sugli enti locali (urbanizzazioni e servizi oltre che lo smaltimento delle pratiche) e a lungo termine sullo stesso Stato centrale per porre rimedio alle devastazioni del territorio?

L’associazione Polis fa una osservazione e una proposta interessanti:

Il condono farà incassare allo Stato una cifra inferiore a quella che occorre per finanziare il ponte sullo Stretto di Messina. Possiamo rinunciare a entrambi e immaginare un’Italia diversa. Senza ponte, ma onesta.

Si rinunci insomma a costruire il Ponte di Messina, il cui costo preventivato è 10 mila miliardi, e si rinunci all’entrata dei 3mila miliardi che si spera di ottenere dall’ignobile mercato del condono edilizio.

Ma nella logica di Berlusconi e dei suoi uomini, condoni edilizi e opere faraoniche (l’inutile Ponte sullo Stretto di Messina, il dannoso MoSE nella Laguna di Venezia) fanno parte della stessa linea di pensiero.

Si liquida il patrimonio comune (il patrimonio di valori morali e beni materiali) per rimpinguare transitoriamente le casse dello Stato e finanziare opere inutili, dannose o non prioritarie, e far lavorare così le aziende vicine al Cavaliere. Ma è un calcolo non solo distruttivo e rapace, è anche miope.

Gli industriali non sono certo favorevoli al condono, e l’hanno detto in tutti i modi. Del resto, chi lavora nel settore delle costruzioni sa bene che premiare l’abusivismo significa punire le imprese oneste, che sono (ancora) la maggioranza.

Il costruttore abusivo non paga tasse, non paga previdenza sociale, paga salari in nero, non paga oneri di urbanizzazione, utilizza materie prime scadenti e quindi meno costose. E può vendere perciò a prezzi molto inferiori a quelli del costruttore onesto: può cacciarlo dal mercato, o costringerlo ad espatriare.

In ultimo, la questione della legittimità costituzionale. La solleva, tra gli altri, Italia nostra, ponendo due domande:

Ma l’urbanistica e il territorio non sono già di competenza regionale? Quali poteri si vogliono dare con le riforme della Costituzione ai poteri locali e regionali se oggi gli si toglie perfino la possibilità di governare e pianificare quello che è già di loro competenza: il proprio territorio.

Dove è l’urgenza? Il decreto d’urgenza è incostituzionale perché dovrebbe essere utilizzato solo in casi particolari e imprevisti, mentre di condono il governo Berlusconi parla da tre anni, in occasione di ogni finanziaria.

Possiamo essere certi che a queste domande nessuno risponderà. A meno che.

A meno che i cittadini non riescano a far sentire la loro voce. Adesso, subito. Prima che il governo Berlusconi venga spazzato via da un voto ragionevole degli italiani. Prima che esso cada dilaniato dai contrasti interni (contrasti che non sono riusciti a impedire nessuno degli scempi). Prima che il funesto decreto legge venga ratificato dal Parlamento e venga firmato dal Capo dello Stato.

Non c’è molto tempo. 60 giorni dopo il 1 ottobre il decreto diventerà definitivo. La pressione popolare può impedirlo. Occorre che in ogni città si organizzino manifestazioni contro il condono. A Roma, le associazioni ambientaliste hanno organizzato un sit-in, una postazione permanente a Piazza Navona per tutta la durata dei sessanta giorni.

Dobbiamo far sentire tutti la nostra voce. Questa è la democrazia, non solo votare ogni cinque anni per il parlamento e il governo.

Prima di lasciarvi vorrei informarvi che sul mio sito web, eddyburg.it, trovate tutti gli articoli e i documenti che ho citato, e anche la scaletta di questa chiacchierata.

Buona giornata a tutte e a tutti.

Radio Base: http://www.radiobase.net/radiobase/

La risorsa

Il territorio rurale è una risorsa per molte ragioni.

È una risorsa perché è un serbatoio di naturalità addomesticata, che racconta la storia del rapporto fecondo dell’uomo con la natura, che conserva quindi per noi e per i posteri la memoria della nostra civiltà.

È una risorsa perché è una riserva di natura viva, capace di restituire alla vita nostra (e dei nostri posteri) l’ossigeno, l’energia vivente, la ricreazione serena che sono gli indispensabili antidoti per i veleni che il nostro “sviluppo” produce.

Ed è una risorsa perché è la matrice di una produzione di beni i quali – se sottratti alle tendenze all’omologazione e alla mercificazione che li sta mano a mano privando di ogni individualità – possono costituire strumenti importanti sia di uno sviluppo economico sostenibile sia una vita la cui qualità non si riduca a quella degli hamburger, della coca cola e delle vitamine in pillole.

Una risorsa per la memoria dunque, una risorsa per il benessere fisico, una risorsa per lo sviluppo economico sostenibile. (E vorrei precisare che per sviluppo sostenibile intendo quello che consente di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere il diritto delle generazioni future di soddisfare i loro, secondo la classica e collaudata definizione dell’ONU).

Il degrado

Questa risorsa è minacciata e sottoposta a una pesante azione di degrado. Come del resto accade, nei nostri anni, a molte altre risorse, dai beni culturali alla memoria, dalla solidarietà alla libertà d’opinione (penso ai giudici cui il ministro per la Giustizia vorrebbe tagliare la lingua, penso al monopolio nei mass media).

Non mi dilungo a illustrare le forze che spingono verso il degrado: sono troppo note ai presenti perché mi dilunghi su questo punto. Vorrei sottolineare il fatto che la risorsa costituita dal territorio rurale può essere salvata dal degrado, che in varie forme la minaccia, solo attraverso un’azione che sappia collegare le esigenze della società (esigenze di cultura e di salute, di vitalità economica, di conservazione della memoria e dell’identità, di garanzia del futuro) alle specifiche condizioni fisiche e sociali delle aree rurali.

Non bastano quindi le affermazioni di principio, che sono certo necessarie, perché è sui principi giusti che si basano le azioni corrette ed efficaci, ma non sono sufficienti se nelle azioni non si proiettano. Non bastano i vincoli, sebbene siano certo indispensabili, poiché ogni volta che si individua un valore universale in una determinata categoria di beni la prima responsabilità è quella di proteggerli, quindi di sottoporli a un vincolo. Oltre ai principi, oltre ai vincoli, occorre un’azione di governo. In termini più specifici, occorre un’azione di governo del territorio.

La pianificazione territoriale a scala provinciale può svolgere un ruolo di rilievo proprio per la sua capacità di sintesi tra esigenze, risorse, potenzialità, rischi di diversa provenienze. In quest’ottica vorrei illustrare brevemente alcuni aspetti del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Foggia, giunto alla conclusione di una prima fase della sua formazione.

Le risorse nel PTC della Provincia di Foggia[1]

Nel PTC della Provincia di Foggia la tutela e la riqualificazione dell’ambiente, la sostenibilità ambientale, le risorse naturali e storiche del territorio, la sua integrità fisica e identità culturale, l’ecologia – insomma, le diverse accezioni e definizioni e accentuazioni delle risorse territoriali – hanno un peso rilevante nella indicazione degli obbiettivi e dei contenuti della pianificazione.

Il termine “risorse” è utilizzato nella sua accezione più ampia. Ne fanno parte, a pieno titolo, sia le testimonianze del lavoro della natura o dell’uomo (dagli elementi naturali ai paesaggi agrari, dai centri storici alle aree archeologiche), sia le infrastrutture e gli elementi più significativi del sistema insediativo (dalle aree industriali ai grandi servizi) che – per la loro rilevanza – costituiscono le dotazioni necessarie per assicurare il buon funzionamento del sistema socio-economico della provincia e un vero e proprio patrimonio collettivo.

Il riconoscimento del carattere di risorsa a questo complesso di elementi, implica necessariamente porsi l’obbiettivo della loro conservazione. All’utilizzo e alla trasformazione del territorio sono stati anteposti i limiti derivanti dall’esigenza di tutelare alcuni elementi territoriali, ritenuti particolarmente preziosi. A differenza del vincolo – che di necessità è meramente passivo - la conservazione possiede un carattere attivo; essa può essere definita come una gestione oculata, e sottintende un impegno attivo da parte dell’uomo e non una semplice astensione dall’apportare modifiche allo stato di fatto. La conservazione implica piuttosto la scelta di incentivare tutte e solo quelle attività che consentono la manutenzione e la riproduzione dei beni considerati come risorse e – contemporaneamente – ne assicurano un utilizzo efficiente.

È in questo quadro che il PTC colloca la sua considerazione del territorio rurale.

Il territorio della Daunia

Tra tutte le province italiane quella di Foggia, l’antica Daunia, è quella nella quale la produzione agricola ha il peso maggiore nell’economia locale. La produzione di grano duro, di’uva e d’ortaggi del Tavoliere è di eccezionale resa e qualità.

Le città (Foggia, San Severo, Lucera, Manfredonia, Cerignola) hanno conosciuto in misura limitata, perché proporzionale alla loro grandezza, la frenetica crescita che ha invaso e distrutto le campagne una volta alla periferia di Roma e di Napoli, di Milano e di Bari. Benché la frangiatura urbana abbia degradato le periferie rurubane dei centri maggiori, ampie porzioni di campagna sono tuttora libere da insediamenti, come forse accade in poche altre parti d’talia.

E se un turismo disordinato ha cominciato a occludere segmenti anche rilevanti del fronte mare, nei lunghi litorale a Ovest e a Sudest del Gargano e di Manfredonia, consistdenti porzioni del cordone dunoso sono ancora pressoché intatte. Se il turismo delle villette ha intaccato il complesso montuoso naturalisticamente e paesaggisticamente più rilevante e famoso – il Gargano – ha risparmiato però (e per ora) l’altro elemento a forte prevalenza naturalistica, l’arco collinare e montano del preapennino Dauno, che chiude la provincia sul versante occidentale, verso la Campania.

La trama del sistema ambientale

Vi ho descritto così, molto sinteticamente, l’essenziale della morfologia naturalistica della Daunia, caratterizzata dai due sistemi dominanti dell’arco preappeninico e dal massiccio del Gargano con le sue “code” litoranee, e dalle intercluse pianure agricole, solcate dagli avvallamenti dei corsi d’acqua che corrono prevalentemente da ovest ad est congiungendo idealmente i due archi montano e litoraneo. La sua lettura , e l’analisi delle sue trasformazioni, sono state compiute con i brillanti metodi che Antonio Diu Gennaro (della cui preziosa collaborazione la Provincia di Foggia ha avuto la fortuna di giovarsi) ha qui illustrato poco fa a proposito del territorio campano.

Nel disegno complessivo della bozza di Piano territoriale di coordinamento – che l’Ufficio di piano ha consegnato alla Giunta nel maggio scorso – gli elementi salienti del territorio dauno – il preappenino, la fascia litoranea con il massiccio boscoso del Gargano, le incisioni e le tracce dei corsi d’acqua – costituiscono nel loro insieme la struttura portante del sistema ambientale: una rete ecologica, elemento locale della rete ecologica nazionale.

Si tratta in definiva di quegli stessi elementi che Giuseppe Galasso aveva posto al centro di quei suoi provvedimenti normativi che diedero vita alla legge 431 del 1985. Oggi essi non cambiano solo la loro denominazione: assumono un significato più ampio.

Secondo le linee guida emanate dal Ministero dell'Ambiente, la rete ecologica nazionale costituisce

“un’infrastrutturazione ambientale in grado di mettere in relazione gli ambiti territoriali dotati di un maggiore grado di naturalità, ove migliore è stato ed è il grado di integrazione delle comunità locali con i processi naturali, recuperando e ricucendo tutti quegli ambiti territoriali che hanno mantenuto viva una, seppur residua, struttura originaria".

La rete nazionale, a sua volta, si inserisce nella rete Natura 2000 che, a scala europea, identifica il progetto di realizzazione di un sistema coordinato e coerente (una "rete") di aree destinate alla conservazione della diversità biologica presente nel territorio dell'Unione stessa ed in particolare alla tutela di una serie di habitat e specie animali e vegetali indicati nella direttiva " Habitat". La rete europea nasce dunque con una finalità strettamente mirata alla conservazione della natura.

Obbiettivi e strategie

Realizzare una rete ecologica a scala provinciale significa innanzitutto conservare gli habitat di maggiore valore, estendendoli e connettendoli fra loro, ove possibile, per incrementare la capacità di resistere alle pressioni indotte dalle attività umane. I capisaldi della rete ecologica provinciale, facenti parte della rete nazionale, sono: l’Appennino Dauno, il Gargano, le isole Tremiti, le aree protette della rete Natura 2000.

Le aree boscate e i fondovalle dei corsi d’acqua costituiscono la trama che, attraverso le colline e la pianura del Tavoliere, è in grado di connettere tra loro i capisaldi della rete. Per rafforzare le connessioni il PTC prevede di concentrare in queste aree gli sforzi volti alla rinaturalizzazione e alla progressiva estensivazione degli usi, applicando in modo finalizzato le misure di sostegno economico al settore primario e i finanziamenti per lo sviluppo locale.

Alcuni ambiti particolari (i laghi di Lesina e Varano, la foce dell’Ofanto e le Saline di Manfredonia) costituiscono aree di attenzioneprioritaria per promuovere iniziative di riqualificazione: in tali ambiti, infatti, sono elevati sia i valori di naturalità e di fragilità del sistema ambientale, sia la pressione antropica.

Regole e azioni

La bozza di PTC delinea i capisaldi delle regole che ci si propone di definire per gli elementi della rete ecologica

1. Tutela degli ecosistemi a maggiore naturalità, secondo le regole indicate negli indirizzi normativi.

2 Estensione delle aree boscate e interventi di rinaturalizzazione delle sponde, anche attraverso l’applicazione prioritaria delle misure del Por rivolte all’Asse I – Risorse naturali.

3 Protezione e valorizzazione del patrimonio idrico (di cui occorre completare il censimento), attraverso la progressiva eliminazione degli scarichi abusivi, il miglioramento dei sistemi di depurazione, l’introduzione di misure volte a un efficiente uso delle acque a scopo civile, agricolo e industriale.

4 Promozione prioritaria di progetti di riqualificazione degli ambiti a maggiore rischio di degrado, da concordare con Parco del Gargano, Comunità montane ed enti locali: laghi di Lesina e Varano, saline e ambito costiero tra Manfredonia e Margherita di Savoia.

5 Promozione di iniziative per l’istituzione di aree protette e in particolare del parco del Subappennino Dauno e dei Parchi dell’Ofanto e del Fortore.

Ripensare il territorio aperto

“Ripensare il territorio aperto” è uno degli slogan della bozza del PTC. Si intende per territorio aperto l’insieme del territorio rurale, di quello forestale e di quello comunque caratterizzato dalla prevalenza di naturalità.

La rete ecologica italiana, differenziandosi in questo da quella europea, punta a rafforzare il legame fra ambiente e comunità insediate. In questa prospettiva, le iniziative da intraprendere non riguardano esclusivamente la conservazione o il ripristino di condizioni di naturalità, in ambiti di particolare protezione concepiti come isole. Piuttosto induce a pensare a un progetto complessivo che riguarda unitariamente il territorio aperto, che pomuova uno spettro di attività il più possibile “radicate nelle vocazioni e nel consenso locale, in grado di generare azioni di conservazione e valorizzazione del patrimonio ambientale, capaci di assicurare opportunità di lavoro stabili, non assistenziali e continuative". La tutela ambientale dovrebbe essere immaginata non soltanto un “requisito di qualità” per le politiche di sviluppo, ma il fulcro dello sviluppo stesso.

È all’interno di questa prospettiva che si collocano le scelte relative al territorio rurale, le quali assumono per la Provincia di Foggia una rilevanza decisiva, data l’importanza storica, sociale ed economica del settore primario.

Obbiettivi e strategie

La bozza di PTC sostiene che promuovere una nuova politica per il territorio aperto in Provincia di Foggia significa considerare in modo radicalmente diverso dal passato il territorio rurale.

Da un lato si afferma che

devono essere poste regole più severe per l’edificazione e per l’infrastrutturazione, evitando che la sommatoria di piccoli e grandi interventi porti a una compromissione delle qualità paesaggistiche, già oggi percepibile in alcune aree critiche.

Dall’altro occorre ci si propone di

orientare le iniziative di sostegno all’agricoltura in modo tale da coniugare la valorizzazione delle produzioni tipiche locali e la conservazione del paesaggio e dell’ambiente.

Nel documento di sostiene, in particolare, che la struttura dell’economia foggiana

risulta particolarmente “sbilanciata” verso il settore agricolo; tale elemento, di apparente debolezza dell’economia locale, va considerato invece come un’opportunità per la crescita di tutto il sistema produttivo. L’agricoltura può rappresentare, da un lato, il perno di una filiera produttiva in grado di connettere le coltivazioni agricole alle attività di trasformazione agro-industriale e ai servizi di commercializzazione dei prodotti trasformati e, dall’altro, potrebbe costituire una potente leva per lo sviluppo del settore agri-turistico e, più in generale, per la crescita di un turismo ambientale grazie al quale si possa allentare la pressione antropica stagionale sulle fasce costiere e rivitalizzare invece i comuni delle aree più interne. Soprattutto per quest’ultimo motivo, le misure economiche per il settore primario non devono essere applicate in modo indistinto, bensì devono essere strettamente riferite alle specifiche caratteristiche delle diverse componenti territoriali che si intende preservare o ripristinare.

Regole e azioni

Le regole che la bozza di PTC propone per il territorio rurale sono le seguenti:

1. Escludere di ogni edificazione nel territorio aperto che non sia finalizzata allo svolgimento dell’attività agricola, secondo le regole indicate negli indirizzi normativi.

2 Applicare specifiche procedure di progettazione e valutazione volte a garantire il corretto inserimento nel paesaggio delle infrastrutture stradali, ferroviarie e tecnologiche.

3 Costruire un atlante dei paesaggi agrari locali, accompagnato da un censimento del patrimonio edilizio e infrastrutturale legato alle produzioni tipiche.

4 Sostenere la valorizzazione delle produzioni tipiche locali, accompagnata dalla conservazione dei paesaggi agrari (vigneti, agrumeti, pascoli e simili).

6 Calibrare le strutture per la trasformazione dei prodotti agricoli alle effettive esigenze, eliminando le strozzature tra produzione, trasformazione e commercializzazione.

7 Sostenere la valorizzazione turistica del territorio aperto, attraverso la costituzione di itinerari tematici per il tempo libero (sentieri, ippovie, piste ciclabili, itinerari stradali).

Proteggere la campagna dalla disordinata espansione urbana

Come si è accennato, la sfrangiatura della disordinata espansione delle centri urbani della Daunia costituisce uno dei punti di crisi del rapporto tra uomo e ambiente e di degradazione del paesaggio rurale. Un puntuale lavoro di analisi ha consentito di individuare le diverse tipologie di degrado e di rischio, e ha indotto a dettare degli indirizzi normativi (vedi allegato 2) orientare a interrompere questo fenomeno.

Si tratta di tentar di generalizzare l’applicazione del principio di definizione di limiti rigorosi dell’espansione urbana, da porre come “invariante strutturale” nella pianificazione comunale. Un principio, e una pratica, che si propone già in numerose esperienze italiane recenti, e che viene seguito da tempi in altre regioni dell’Europa e degli Stati uniti. ( Red contours e Urban growth boundaries).

Strategie di sviluppo rurale per la provincia di Foggia

Le misure del POR (Piano operativo regionale)e del PSR (Piano di sviluppo regionale) della Regione Puglia rappresentano - insieme alle azioni comunitarie Leader, Interreg, Equal ed Urban - i principali strumenti al servizio di una politica di sviluppo rurale provinciale.

A scala provinciale, l’applicazione delle misure può essere resa più efficiente attraverso una loro territorializzazione rigorosamente mirata.

Le indagini condotte per la formazione del piano hanno consentito di individuare, nell’ambito dei Grandi sistemi di terre definiti con l’applicazione del metodo illustrato da Di Gennaro, ambiti territoriali, denominati “subsistemi del territorio aperto”, ragionevolmente omogenei per quanto concerne le strategie di tutela e valorizzazione delle risorse del territorio rurale.

Per ciascuno di essi si sono individuati i principali obiettivi del piano, in termini di risultati attesi e di azioni necessarie sono state individuate le specifiche azioni del POR e del PES da selezionare e le condizioni specifiche per ciascuna di esse.

Nel sito dell’Ufficioo del piano della Provincia di Foggia trovate il materiale che ho sinteticamente illustrato. Ma prima di concludere questo intervento vorrei svolgere una brevissima considerazione sull’intervento che stamattina ha svolto Franzina, e che abbiamo tutti molto apprezzato.

Valore di non uso o valor d’uso?

Franzini ha fatto riferimento al “valore di non uso”, e all’opportunità di compensare la mancata utilizzazione di terreni compiuta per favorirne la rigenerazione. A me i termini che ha adoperato hanno fatto venire in mente unn problema, che mi sembra di fondo. Quando parliamo di territorio, di paesaggio, di campagna (e di centri storici di monumenti di casali e di filari di alberi, do colline e di terrazzamenti), noi parliamo di “beni”: di oggetti che ci interessano in relazione all’uso (estetico, didattico, ricreativo, ecc.) che se ne può fare.

E in effetti l’economia classica (Adamo Smith, David Ricardo, Karl Marx) ha individuato due valori (o due aspetti, due componenti del valore): il valore d’uso e il valore di scambio. Solo che l’economia pratica del sistema capitalistico (l’unico vigente) si è polarizzata solo su quest’ultimo: conosce solo il valore di scambio, la moneta, gli schei. L’intera economia si è ridotta a questo, e il valore d’uso è scomparso dalla scena. Ogni bene è stato ridotto a merce, e il bene in quanto tale non ha più alcun riconoscimento. Questo è il punto, questo l’obiettivo da raggiungere nella riflessione teorica e nella pratica del sistema economico: restituire legittimità economica a realtà (i “beni”9 che oggi hanno solo legittimità morale.

[1] I lavori del PTC sono stati svolti dall’Ufficio del piano, formato dall’architetto Stefano Biscotti, responsabile, e dai collaboratori ing. Giovanna Caratù, arch. Cosmo Damiano Lovascio e arch. Mirella Vitale. Esso è stato coadiuvato dai consulenti Edoardo Salzano, Luigi Scano e Mauro Baioni.

Sulla base di un protocollo di intesa con la Provincia di Bologna, è stato affidato a quest’ultima il compito di collaborare al trasferimento delle specifiche metodiche di lavoro all’ufficio di piano. Alessandro Delpiano, Marco Guerzoni, Elettra Malossi e Michele Tropea hanno materialmente svolto il lavoro.

Al lavoro ha colaborato un gruppo di esperti di settore composto da:

- Antonio di Gennaro, responsabile dello svolgimento coordinato delle analisi sul sistema agroforestale e sul paesaggio e della loro funzionalizzazione alle scelte del piano;

- Luigi Pennetta, responsabile dello svolgimento coordinato delle analisi sul sistema idrogeomorfologico e della loro funzionalizzazione alle scelte del piano;

- Pasquale Dal Sasso, responsabile dello svolgimento coordinato delle analisi sul sistema beni culturali (analisi) e sul sistema insediativio e della loro funzionalizzazione alle scelte del piano;

- Società TPS –S.r.l. di Perugia, responsabile dello svolgimento coordinato delle indagini sul sistema della mobilità e della loro funzionalizzazione alle scelte del piano;

- Stefano Ciurnelli, responsabile dello svolgimento coordinato delle analisi sul sistema della mobilità e della loro funzionalizzazione alle scelte del piano (convenzione stipulata il 13 giugno 2002);

- Gianfranco Viesti e Francesco Chiarello, responsabili dello svolgimento coordinato delle indagini sul sistema socio-economico e della loro funzionalizzazione alle scelte del piano.

Vi sono diverse ragioni per cui vale la pena di leggere il libro di Camagni, Gibelli e Rigamonti. In primo luogo, perché affronta un problema reale, imponente, cui è legato il destino della città; se è vero, come sostiene Francesco Indovina, che “questa nuova strutturazione dello spazio tende a diventare una modalità ricorrente di organizzazione dello spazio nel nostro paese” (F. Indovina, La città diffusa, DAEST 1990, p. 22). In secondo luogo, perché affronta quel problema sulla base di una posizione culturale, di una idea di città, che condivido: compattezza, mixité, vicinanza, riconoscibilità, confine mi sembrano infatti attributi necessari della città in quanto tale. Ancora, perché inquadra l’argomento in una prospettiva non provinciale, ma aperta all’Europa e attenta anche a ciò che avviene oltre Atlantico: sebbene – mi sembra – senza alcuna subalternità culturale; ciò che è abbastanza inconsueto tra quanti “parlano le lingue”. Infine, perché appoggia le sue conclusioni su un lavoro di misura economica che mi sembra molto serio e rigoroso – benché questo non sia il mio campo.

Sulla questione dei numeri.

Nel lavoro di Camagni, Gibelli, Rigamonti si opera una distinzione molto corretta tra costi collettivi e costi pubblici (ho apprezzato molto l’attenzione continua a precisare il significato dei termini adoperati). E si elencano in modo che mi sembra completo i temi “cruciali” del costo della dispersione urbana (pp. 25-26). Li riassumo così:

- il costo economico del consumo/spreco dei suoli agricoli e dei beni naturali,

- il costo ambientale delle esternalità negative scaricate sui comuni vicini in termini di mobilità,

- il costo di un ammortamento accelerato della città centrale

- i costi di impatto ambientale relativi al consumo di risorse finite o scarse

- i costi sociali in termini di perdita dell’”effetto città” e in termini di segregazione

- i costi di inquinamento estetico

- il costo pubblico per la costruzione di infrastrutture di trasporto.

All’inizio del capitolo dedicato all’analisi quantitativa si riprende l’elencazione delle categorie di costo, polarizzandola sostanzialmente su quelli attinenti alla mobilità, al traffico, alla costruzione e gestione di reti e di servizi pubblici (pp. 79-80).

Dalla successiva analisi quantitativa mi sembra che scompaiano, o che vengano considerati solo metaforicamente ed allusivamente, alcuni dei costi, quelli

- dello spreco di risorse naturali, se non in termini di estensione delle aree consumate o dell’energia impiegata nei trasporti,

- dell’ammortamento accelerato della città centrale,

- della perdita dell’”effetto città” e della segregazione,

- dell’inquinamento estetico.

Non credo affatto che questo dipenda da scarsa attenzione degli Autori. E però da questo rilievo vorrei far scaturire due osservazioni:

La prima, di carattere pratico: mi sembra che comunque il costo collettivo della dispersione urbana sia molto maggiore da quello quantificato dal lavoro di analisi quantitativa il quale, appunto, deve trascurare alcune sue componenti. E questo, se fosse vero, mi sembrerebbe un elemento da sottolineare.

La seconda, di carattere teorico: nonostante gli interessanti studi empirici di alcuni studiosi, non mi sembra che le attuali categorie della scienza economica (e quindi della sua derivata applicativa, l’econometria) siano pienamente capaci di misurare il valore – e quindi il costo – dei beni non riducibili a merci: il valore che non sia valore di scambio. E quei quattro costi ai quali mi riferivo mi sembrano esprimere appunto beni e valori d’uso.

Ma veniamo ad argomenti che conosco meglio.

Sulla definizioni dei modelli di urbanizzazione

Molto opportunamente nel libro si precisa il termine adoperato (“città dispersa”) in relazione a quelli presenti in letteratura (pp. 17-18). Condivido in particolare la volontà di distinguere la propria analisi (e il termine adoperato per individuarne l’oggetto) da quelle che in qualche modo tendono a prendere atto passivamente del nuovo “modello urbano”. Riprendendo i termini di ville eparpillée, ville éclatée, mitage urbain, si vuole insomma scegliere

un approccio dinamico ed evolutivo, meno legato alla sola descrizione fenomenica, maggiormente attento alle pratiche sociali ed economiche e alle possibili conseguenze sul benessere collettivo e dulla sostenibilità di lungo periodo.

Implicita in questa scelta (ma del tutto esplicita per chi legga il libro) è la presa di distanza dalle interpretazioni giustificazioniste di questo modo di occupare il territorio e di organizzare l’insediamento dell’uomo. E il rifiuto del modello analizzato è già chiaro nelle prime pagine del libro, la dove si definisce in modo secondo me convincente la dispersione urbana:

(…) possiamo identificare la dispersione urbana recente con un modello di urbanizzazione a bassa densità relativa, dilatato fino ai margini estremi della regione metropolitana, ad alto consumo di suolo, discontinuo, tendenzialmente segregato e specializzato per destinazioni monofunzionali, prevalentemente dipendente dall’automobile, fondato su processi di filtering down che consentono l’accesso dell’abitazione in proprietà a gruppi sociali a reddito prevalentemente basso, caratterizzato dall’assenza di strumenti di pianificazione strategica, e quindi con debole capacità di pianificazione e gestione alla scala vasta dei processi di trasformazione insediativa (p. 17)

Mi domando però se il rifiuto non apparisse più netto ove si facesse un ulteriore passaggio. Se al termine “città dispersa” si sostituisse quello di “urbanizzazione dispersa”, o “dispersione urbana” o – meglio ancora – “dispersione insediativa”, chiarendo così che a questa forma di urbanizzazione non compete il titolo di “città”, comunque temperata da attributi riduttivi.

Sono espressioni, quelle che suggerisco, che pur vengono impiegate nel libro come sinonimi di quello scelto come “maggiore” Capisco però che gli editori ragionano in un altro modo, e che “città dispersa” è un titolo più accattivante che altri termini magari più precisi. Del resto, il titolo che avevo proposto per il mio ultimo libro era “La Storia e la Norma”, e l’editore ha preferito “Fondamenti di urbanistica” per ragioni di appeal commerciale.

Sul confronto europeo

La cosa che più mi ha affascinato e sorpreso (e non parlo adesso del libro, ma della realtà che esso restituisce) è l’apprendere che non solo in gran parte d’Europa il fenomeno della diffusione urbana esiste (sebbene forse sia necessario distinguere i diversi modi in cui avviene), ma che in tutti i paesi d’Europa (e anche negli stessi USA) si dia luogo alle medesime riflessioni sul che fare, e in particolare sul come correggere quella distorsione del liberalismo che è il neoliberismo deregolativo.

Si afferma infatti conclusivamente, dopo averlo ampiamente documentato, che

A partire dagli anni ‘80 la “città dispersa” si è affermata anche in Europa, per effetto di stili abitativi e di tendenze localizzative delle attività economiche che hanno privilegiato gli spazi suburbani, ma anche per effetto delle politiche di deregolamentazione che, in molti paesi, hanno delegittimato la pianificazione d’inquadramento d’area vasta consentendo l’affermarsi di politiche locali svincolate da un quadro di coerenze complessive (p. 150)

Ecco, semmai mi verrebbe voglia di aggiungere che, a differenza che in altri paesi europei, in Italia non si è delegittimata solo la pianificazione d’area vasta, ma la pianificazione tout court. Per cui negli altri paesi la reazione di oggi è reazione rispetto a un fenomeno che – in Francia come in Germania, in Olanda come in Gran Bretagna – si è sviluppato in modo meno perverso e più controllato che da noi.

Sulla “pianificazione strategica d’area vasta”

Nel libro si fa più volte riferimento alla “pianificazione strategica d’area vasta”: sia individuando nella sua assenza o nella sua debolezza, e nella deregolamentazione urbanistica, una delle cause delle dispersione insediativa, sia proponendo nella ripresa della pianificazione strategica d’area vasta uno (e forse il principale) degli strumenti impiegabili per contrastare il fenomeno.

Concordo del tutto con questo insistito rilievo. È indubbio che la frantumazione localistica delle decisioni sull’uso del suolo è una ragione importante della dispersione urbana quando non è corretta e sorretta da una efficace politica di area vasta. È indubbio che non il principio di sussidiarietà, ma la “banalizzazione e (…) interpretazione in chiave deregolativa” (p. 55) di quel principio è stata l’ideologia che ha consentito la prassi della dispersione. È indubbio che restituire (o, in Italia, conferire) potere e centralità al governo d’area vasta della dinamica del sistema insediativo è un passaggio decisivo per ridurre la massa di sprechi connessi alla dispersione insediativa.

Vorrei però chiedere a mia volta una precisazione, che non è solo terminologica.

A me sembra che il termine “pianificazione strategica” sia abbastanza ambiguo. Che vi siano vari modi di esprimere il coordinamento sovracomunale. Che in definitiva sia necessario precisare che “la pianificazione d’area vasta” che è richiesta oggi è una pianificazione che compia scelte sul territorio secondo modalità, e sulla base di poteri, che rendano le decisioni di pianificazione “opposables au tiers”: privati e pubblici che siano.

La pianificazione d’area vasta che è necessaria richiede certo la visione di lungo periodo (la strategia), la capacità di disegnare e proporre scenari, di costruire su questi il consenso. Ma essa deve essere anche regolativa. Deve proporre, a alla fine imporre, vincoli, condizioni, confini (gli Urban Growth Boundaries e i Red Contour – p. 62), deve stabilire invarianti e condizioni non negoziabili. Cero,non in modo impiccione, come ha presunto di fare a volte la pianificazione tradizionale, ma rispettando sul serio il principio di sussidiarietà correttamente inteso.

Mi sembra che la necessità di questa pianificazione sia chiara agli Autori del libro, i quali la sostengono non solo per le personali convinzioni, ma sulla base di un’ampia analisi di ciò che si sta muovendo fuori dai confini dell’Italia. Come quando si afferma che, in Europa,

non emergono tendenze alla deregolamentazione urbanistica e alla semplificazione procedurale a livello comunale senza uno speculare rafforzamento dei compiti di inquadramento strutturale, degli ambiti di decisione non negoziabili attribuiti ad enti di pianificazione di livello intermedio (p. 75)

E quando si ricorda, citando Dino Borri, che prevale la direzione di

una presa di distanza dai modelli di pianificazione strategica di derivazione “aziendale” praticata negli anni ’80, e una precisa preoccupazione che l’”interazione”, nei processi di pianificazione, anche se certamente necessaria, non sia però sufficiente a garantire risultati socialmente desiderabili e di lungo periodo, ma che anzi rischi di tradursi in forme continuamente rinnovate di deregolamentazione e di “ ad hoc-isme” (…) se non è accompagnata da alcune regole formali condivise che impegnino i differenti partner sul piano etico (p. 73)

Del resto, mi sembra che anche in Italia, sia pure con diversità e approssimazioni, ci si muova nelle stessa direzione: in quella, cioè di

un approccio top-down – sia pure corretto da procedure di concertazione intergovernativa, consultazione degli interessi e coinvolgimento della popolazione – che garantisca autorevolezza,stabilità ed efficacia all’azione pubblica in materia di salvaguardia ambientale e salvaguardia sociale (p. 73)

Mi riferisco ad alcune leggi urbanistiche regionali dell’ultimo decennio, da quelle della Toscana, della Liguria e del Lazio a quelle della Basilicata e dell’Emilia Romagna, nelle quali vorrei sottolineare tre elementi che mi sembra vadano in quella direzione.

- il carattere strutturale (e non solo strategico) dei momenti e strumenti sovracomunali della pianificazione,

- l’efficacia (sia pure spesso solo indiretta attraverso la pianificazione comunale) delle scelte della pianificazione d’area vasta,

- la distinzione – nelle pratiche di concertazione – tra il ruolo degli interessi pubblici e di quelli privati, e quella tra l’attore responsabile del procedimento e quelli consultati.

Sul “che fare”

Concordo infine pienamente con le indicazioni concernenti il “che fare”, contenute nell’ultima pagina del libro.

Concordo con le tre “direttrici strategiche che emergono” in ambito internazionale: realizzare un modello “giudiziosamente compatt0”; integrare le politiche di urbanizzazione e le politiche di trasporto pubblico; aumentare la diversificazione funzionale (la mixitée) alla scala locale.

Concordo ugualmente con le “nuove regole” proposte: il divieto di nuove urbanizzazioni di frangia in assenza di piani sovracomunali (a condizione che questi abbiano un efficace carattere regolativo); l’obbligo alla perimetrazione di un preciso confine di crescita (i Red Contours e le Urban Growth Boundaries, dovrebbero costituire un limite invalicabile e una invariante strutturale).

A queste direttive e a queste regole ne aggiungerei però un’altra. Che la positiva tendenza alla compattazione e alla densificazione, che le auspicabili politiche orientate al recupero delle aree urbane centrali, non si traducano in un’indiscriminata occupazione edilizia degli spazi ancora liberi, né di quelli a più alto gradiente di trasformabilità. Che, anzi, gli spazi liberi e liberabili delle aree urbane, e gli spazi e i tracciati dotati di qualità naturali e storiche delle aree della dispersione insediativa, vengano ricomposti in un disegno volto alla costruzione di un sistema, una rete degli spazi di qualità storica, naturale, sociale, liberamente fruibili e percorribili: una sorta di alternativa, o almeno di controcanto, alla continuità della rete formata dagli edifici ed dalle strade.

Iniziamo la costruzione del sito dell’associazione culturale Polis. Che cosa questa sia, potete apprenderlo andando alla pagina Che cos’è , e potete facilmente scoprire Come ci si associa . Qui vogliamo dirvi due cose di oggi.

Il sito comincia a funzionare in un momento particolare. La vittoria elettorale della Casa della libertà (di cui non sono stati responsabili solo i vincitori) sta producendo un sistema di governo, di comunicazione, di pensiero che non esitiamo a definire “regime”, assumendo questo termine nella pienezza del suo significato negativo. Questo sistema di governo, questo albeggiante “regime”, sta provocando reazioni, prevalentemente spontanee (se non sempre nella loro nascita, nel modo in cui confluiscono in un ampio moto di protesta), movimenti , che si stanno organizzando, nelle forme, “libere” e “ moderne”, della rete.

Polis, con questo sito, si propone di concorrere alla formazione di questa rete: una rete che, nelle nostre intenzioni e speranze, va dai “ girotondi” alla CGIL, dalle associazioni ambientaliste ai movimenti nati all’insegna del “Resistere, resistere, resistere”. A questa rete Polis vuole portare un valore aggiunto.

Nelle parole d’ordine dei movimenti di questi mesi sono presenti questioni rilevantissime: i diritti comuni e la libertà di espressione, la giustizia e il lavoro, la solidarietà e la certezza del diritto. Ne manca una altrettanto rilevante:quella costituita dal governo del territorio, l’ambiente, il paesaggio, i beni culturali . Ciò che il Governo Berlusconi sta facendo a proposito del “ patrimonio comune dell’umanità” rappresentato dal Bel Paese è inenarrabile. Molte associazioni si adoperano per scongiurare il disastro avviato: da Polis a Italia Nostra, dall’Associazione Bianchi Bandinelli all’Associazione per la bellezza “Antonio Cederna”, dal WWF Italia alla Sinistra Ecologica, dalla Lega Ambiente alla Compagnia dei Celestini (e chissà quante ne dimentichiamo). Polis si mette al servizio di queste associazioni, e della rete che esse tendenzialmente costituiscono. Vogliamo chiamarla, provvisoriamente, la “rete per la protezione del patrimonio comune”?

Intanto, cominciamo a lavorarci. Condividendo materiali, documenti, analisi, informazioni: gli strumenti per combattere la Repubblica delle banane, e costruire una Repubblica dei valori e delle regole.


Mesdames et Messieurs, je vous remercie d’avoir voulu me choisir pour être le Président d’Urbandata pour les deux ans prochains. J’ai dit deux ans, car je m’engage à suivre l’exemple de M. Allet et à raccourcir aussi la durée de mon mandat. Le nombre des associés d’Urbandata augmente, il est donc de plus en plus nécessaire rendre la rotation plus rapide.

Je n’ai pas de grand programme ni de retentissantes nouveautées à vous proposer. Les lignes de notre travail futur sont tracées par notre histoire – par le travail que nous avons fait. Nos projets seront la poursuite et le développement de ceux qui ont été réalisés dans les années fertiles où l’Association a été dirigée par Anne Page et Claude Allet: je les remercie, comme je remercie Mme Bersani, véritable initiatrice d’Urbandata.

Se proposer d’élargir encore nos partenaires européens – comme je vous le propose – signifie marcher dans la même ligne dans laquelle nous sommes déjà engagés. Nous sommes très heureux d’avoir salué aujourd’hui nos amis hongrois – qui nous ont révélé aujourd’hui un véritable patrimoine de données et de méthodes - mais je crois qu’il faut travailler pour augmenter encore le nombre des membres d’Urbandata: je pense aux pays de l’Europe du Nord, au Portugal et à la langue lusitaine, aux pays de langue slave. Mais je ne veux pas néanmoins que ces propositions puissent apparaître come une exclusion – donc je me borne à indiquer une direction dans laquelle nous sommes tous appelés à travailler.

Je crois que l’utilisation même de nos outils – Urbadisc et Muleta – peut ètre le véhicule de l’élargissment d’Urbandata. Le travail même que nous accomplissons – diffuser dans les différents pays de l’Europe et du monde, dans les différents milieux professionels, culturels, de la recherche, de l’enseignement, de l’administration publique – la documentation en matière d’urbanisme, c’est un travail qui s’insère parfaitement dans les orientations les plus récentes de l’Union Européenne. Je rappelle à toutes et à tous que le Conseil européen de Lisbonne a expressement souligné, il y a quelques mois, l‘importance de “l ’industrie des contenus” qui – je cite textuellement le document – “créent de la valeur ajoutée en tirant partie de la diversité culturelle européenne et en l’organisant en réseau”. “ L’industrie des contenu”: cette expression se réfère au matériaux qui gisent dans les archives que nous nous proposons d’exploiter, de mettre en valeur, de diffuser.

Nous pouvons nous proposer, dans les prochaines années, d’augmenter la dimension et le nombre des banques de données rassemblées en Urbadisc, d’enrichir et de rendre plus conviviaux les outils à travers lesquels les usagers peuvent les atteindre, de transformer Muleta en un vrai et complet lexique multilingue et multimédia, riche de tous les mots utiles pour nos métiers.

Nos instruments – et surtout le plus récent, Muleta - doivent aider les femmes et les hommes de toute l’Europe à franchir les bornes des différentes langues et à transformer les différentes cultures, d’un ensemble de frontières, en une plus grande richesse de tous et de chacun.

Et la poursuite de Muleta, ainsi que le développement d’Urbadisc, est le premier des objectifs pratiques qu’il faut se poser. Mais ensemble, nous devrons chercher à travailler dans la direction de nouveaux projets dans la même ligne: je pense aux propositions que nous avons faites lors de la rencontre de Venise d’avril 2000, et le proget UrPlaNet que nous avons commencé à définir.

Je crois que - dans le cadre que j’ai synthétiquement énoncé - des objectifs se posent à chacun de nos membres, et des objectifs se posent à l’Association.

Chaque membre d’Urbandata doit devenir encore plus qu’aujourd’hui un point de repère d’un réseau national, ce qui pourrait nous permettre d’élargir le domaine soit des producteurs soit des usagers de l’information. Ainsi, par exemple, en Italie nous sommes encore faibles sur le terrain des administrations publiques, tandis qu’en d’autres pays, les relations avec l’Université pourraient être enrichies et élargies.

Et chacun de nous pourrait enrichir également les banques des données qu’il verse dans le dépôt commun d’Urbadisc, couvrant dans son pays les espaces de documentation que d’autres ont déjà exploité dans leurs pays. Par exemple, en Italie on n’a pas encore travaillé dans le champ vaste et difficile de la littérature grise (bien que quelque perspective intéressante se soit ouverte), tandis que nous sommes probablement parmi les premiers à nous poser la question de mettre en fichier le plan d’urbanisme et les materiaux cartographiques.

De son côté l’Association devrait à mon avis – tout en prolongeant et développant l’activité dans les domaines dans lesquels nous sommes déjà engagés – surtout conquérir une plus large visibilité.

On devrait utiliser plus largement, et dédier plus d’efforts, au site Web d’Urbandata.

On devrait (et on pourra) utiliser largement le nouvel outil des Portails spécialisés, receuillant toutes les synergies entre le différents projets qu’on est en train de réaliser (je pense au Portail européen d’urbanisme que les amis français nous proposent, je pense au projet Planum qu’on est en train de mettre au point, je pense au projet que l’IUAV est en train de lancer pour un Portail commercial d’architecture).

Et pourquoi ne pas penser à utiliser les ressources de la Commission Européenne pour présenter nos produits – notamment Muleta, que la Commission même a financé – pour faire connaître plus largement Urbandata, en organisant une Conférence dans une ville européenne?

Finalment, je crois que nous devrions avoir quelques idées pour aider le travail de notre groupe technique. C’est eux qui constituent l’âme – et ensemble le corps – de notre Association. C’est dans notre intérêt – dans l’intérêt d’Urbandata – qu’il puissent de plus en plus devenir le noeud d’un réseau qui, dans chaque nation et dans l’Europe dans son ensemble – rallie et coordonne toutes les personnes et les instituts qui travaillent autour de la documentation des archives dans les domaines qui nous concernent. Mais de cela, on aura le temps de parler. Pour maintenant, merci à toutes et à tous, et bon travail, d’aujourd’hui jusqu’à Budapest!

Edoardo Salzano

Paris, octobre 2000

Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un'altra, una cifra dall'altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un'icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea. Questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si sono così potute osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem.solving. I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo (persone ferme ai questionari uno e due) si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l'80 per cento in entrambe le prove). Tra i paesi partecipanti all'indagine l'Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici.

Nelle ultime settimane, però, alcuni mezzi di informazione hanno parlato con curiosità del fatto che parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo. Questa curiosità vagamente moralistica è meglio di niente? No, non è meglio, se porta a distrarre l'attenzione dalla ben più estesa e massiccia presenza di persone incapaci di leggere, scrivere e far di conto (quello che in inglese chiamiamo illiteracy e innumeracy e in italiano diciamo, complessivamente, analfabetismo). È notevole che l'analfabetismo numerico (l'incapacità di cavarsela con una percentuale o con un grafico) non abbia neanche un nome usuale nella nostra lingua.

È grave non saper leggere, scrivere e far di conto? Per alcuni millenni - dopo che erano nati e si erano diffusi sistemi di scrittura e cifrazione - leggere, scrivere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l'intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fare per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquillamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali venivano trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i potenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti. Carlo v poteva reggere un immenso impero, ma. aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa.. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti almeno in alcune aree del mondo. Dal cinquecento in parte d'Europa la spinta della riforma protestante, con l'affermarsi del diritto-dovere di leggere direttamente Bibbia e Vangelo senza mediazioni del clero, si è combinata con una necessità creata dal progredire di industrializzazione e urbanizzazione: quella del possesso diffuso di un sapere almeno minimo. In seguito è sopravvenuta l'idea che tutti i masch i abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche. La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto. Il solo saper parlare non bastava più. E in quelle che dagli anni settanta del novecento chiamiamo pomposamente "società postmoderne" o "della conoscenza”; leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari oggi all'inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia.

L'analfabetismo italiano ha radici profonde. Ancora negli anni cinquanta il paese viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59.2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento). Fuga dai campi, bassi costi della manodopera,, ingegnosità (gli "spiriti vitali" evocati dal presidente Napolitano) lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazione attraverso una fase industriale fino alla fase postindustriale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni (da Umberto Zanotti Bianco o Giuseppe Di Vittorio a Paolo Sylos Labini), l'invito a investire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica "gente". Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascolta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e democratica.

Edoardo Salzano, pianificatore, già preside della facoltà di Pianificazione, è autore di molti saggi. L'ultimo è Ma dove vivi? La città raccontata.

Continua l'indifferenza della «politica» per la città. Nessun programma si occupa della questione, neanche quello della Sinistra. Non ti pare che questa indifferenza sia molto grave, non solo per la città ma per la stessa qualità della politica, essendo la città il luogo della «condensazione», delle contraddizioni e ineguaglianze della nostra società?

È grave e incomprensibile. Non solo per le ragioni che dici tu, ma anche perché la città è il luogo della possibile speranza. Le contraddizioni e le ineguaglianze possono essere risolti in tanti modi: emarginandone i portatori, cioè espellendo e ghettizzando i soggetti più deboli oppure trasformando la protesta che nasce dal disagio e dalla sofferenza in una carica di rinnovamento. La prima strada è quella seguita dalle destre italiane (quella di Berlusconi e quella di Veltroni), che la persegue abbandonando la città al mercato, al potere degli immobiliaristi, alla deregolamentazione e alla rinuncia del potere pubblico. Non afferrare il nodo della questione urbana significa perciò per la sinistra abdicare a una delle poche possibilità di rappresentare un'alternativa.

D'accordo, anche perché nella città si costruisce il senso collettivo, senza il quale non c'è politica, non c'è rappresentanza, ma solo rappresentazione. Si dice che l'intervento pianificato nella città sia di ostacolo allo sviluppo, alla crescita, fa fuggire investitori, mentre noi insegniamo che un intervento ordinatore crea opportunità non di speculazione ma di crescita ordinata, quindi socialmente più produttiva. Come mai questo semplice concetto non riesce a fare breccia nell'opinione pubblica?

Se andiamo al fondo delle cose troviamo che esistono concetti e connessioni che non sono veri, ma sono diventati, nell'ideologia corrente, verità assolute. Tra queste due pesano particolarmente nell'annebbiare e distorcere la consapevolezza della condizione urbana. La prima è la convinzione (il dogma) che ci sia una connessione ineliminabile tra sviluppo economico dell'economia data (ritenuta l'unica ipotizzabile), crescita di determinate grandezze (quelle misurate con il termometro del Pil), e il mercato (cioè la libertà per qualsiasi proprietario di qualsiasi cosa di farne ciò che vuole). È solo il mercato che consente, attraverso la crescita, di conseguire uno sviluppo (quello sviluppo). Quindi, viva il mercato. Questo dogma è anche molto comodo perché rinunciare, nel campo dell'organizzazione urbana, alla pianificazione e abbandonarsi alla spontaneità del mercato riduce la responsabilità del politico, e gli consente di giocare a tutto campo sulla «scena urbana» per svolgere il suo ruolo di «rappresentazione». La seconda verità è l'annebbiamento di una delle due componenti ineliminabili della natura dell'uomo moderno, cioè della sua dimensione pubblica. La bilancia si è nettamente spostata sulla dimensione individuale (vedi Richard Sennett, Il declino dell'uomo pubblico). Questo è nefasto per la città, la quale può esistere, può essere trasformata secondo una logica olistica (quale è quella che la città necessariamente richiede) solo se l'uomo si sente ed è cittadino. Ove si riduca a cliente, tutto è perduto.

Ma c'è una realtà non eliminabile: nella città ci si rende conto che non tutto può essere risolto individualmente, la dimensione non solo della collettività ma anche della soluzione collettiva di molte nostre necessità si tocca con mano. Non ti pare che mettere in evidenza, politicamente, questa dimensione sia anche un modo per combattere il declino dell'«uomo pubblico»?

Non c'è dubbio. Ma quella che tu chiami «realtà non eliminabile» è stata eliminata dalla maggioranza delle coscienze. Perciò credo che ci sia da compiere in primo luogo un duro lavoro culturale, non più solo sulle élites universitarie; perciò ho scritto quel libro che hai citato all'inizio, che è rivolto a tutti. Perciò credo che uno dei pochi segni di speranza siano in quei comitati, gruppi, associazioni che nascono per affrontare insieme un, sia pur piccolo, problema comune nell'assetto della città. Si tratta di lavorare perché imparino a passare dal particolare al generale e poi dal sociale al politico, perché solo in una politica rinnovata c'è un futuro accettabile.

Com'è oggi la situazione delle diverse città? Un tempo alcune erano esaltate per il loro livello di pianificazione e di crescita ordinata. Oggi la situazione è ancora articolata e differenziata?

Molto, molto meno che nel passato. C'è una forte tendenza all'omogeneizzazione. La politica come spettacolo, l'amministrazione come rappresentazione, la ricerca di uno «sviluppo» a qualsiasi costo, perfino l'introduzione della concorrenza contro le altre città come impegno decisivo (ecco un'altra applicazione ideologica del mercato a realtà che col mercato non c'entrano), tutto questo mi sembra caratterizzare le città italiane in modo generalizzato. Ricordo sindaci che legavano il loro ruolo e il loro orgoglio al fatto di aver dato alla loro città un buon piano regolatore, pur sapendo che gli effetti di quel progetto di città si sarebbe visto a lunga scadenza. Oggi anche le istituzioni, come la politica, sono appiattite sul breve periodo: quello spendibile alla scadenza del mandato amministrativo. Del resto, se non c'è più un progetto di società come può esserci un progetto di città?

Oggi la città si estende nel territorio, dando luogo a nuove conformazioni urbane. La comprensione del fenomeno è ancora non piena, la discussione sugli strumenti vaga. Ci si riferisce con insistenza al «piano di area vasta», ma senza un'autorità in grado di governarlo rischia di essere solo una speranza. Lo sviluppo urbano nel territorio quali problemi pone al pianificatore?

Invece di città e territorio, da vedere come due entità separate, preferisco parlare dell'ambiente della nostra vita sociale come territorio urbanizzato. I principi da seguire, e anche le regole, secondo me sono le stesse nell'affrontare le trasformazioni della città e quelle del territorio. Non pone quindi problemi nuovi dal punto di vista metodologico, ma semplicemente problemi diversi dal punto di vista dei fenomeni. Direi che gli urbanisti avevano compreso che i fenomeni urbani richiedevano una capacità di controllo e di governo a livello di area vasta. La politica non li ha seguiti. Pensa allo stesso tentativo di riforma della legge 142 del 1990, che prevedeva un riordinamento dell'assetto territoriale in funzione del diverso assetto delle urbanizzazioni. Una riforma modesta, che comunque poteva permettere (attraverso le città metropolitane in alcune aree, un nuovo ruolo delle province altrove) di governare i fenomeni di diffusione. Ma si è ritenuto che fosse complicato modificare i cristallizzati equilibri politici tra comuni maggiori e minori, comuni grandi e province e così via. Si è preferito non applicare la legge. Si è lasciato che l'espansione delle città, abbandonata agli interessi fondiari e allo spontaneismo, provocasse quelle nuove estese periferie a bassissima densità (e altissima domanda di energia) che conosciamo.

Non credo di riuscire a essere presente all’Assemblea di sabato e domenica. Credo che sarà una riunione importante se riuscirà a costruire qualcosa che duri, e che riesca a esistere, a resistere e ad avanzare in un mondo dominato da forze e interessi che hanno smarrito ogni continuità con ciò che, a mio parere, è l’essenza di una formazione (e prima ancora di un’idea) di sinistra ai tempi d’oggi.

Credo che oggi sia più che mai necessario avere il proprio punto di riferimento - il Nord della propria bussola - nella critica all’attuale forma del sistema capitalistico e nella ricerca di un sistema di rapporti economici, sociali e umani del tutto nuovo.

So che lo sbocco di questa ricerca non è dietro l’angolo: che limiti intellettuali, culturali e materiali frenano i tentativi e allontanano l’obiettivo. Che non è facile immaginare un’alternativa al sistema dato, che sia dotate di concretezza e credibilità, né trovare una forza sociale capace di costruirla ,in un mondo molto lontano da quello nel quale la critica al capitalismo è nata. Ciò rende la ricerca più dura, ma non meno necessaria. E richiede di comprendere (per superarli) l’insieme dei mali prodotti dall’attuale capitalismo: il degrado delle risorse della natura e della storia, l’emarginazione del lavoro, l’impoverimento nei rapporti tra le persone, la crescita della povertà, della segregazione, delle disuguaglianze nell’insieme del mondo e in ogni mondo.

So anche che, in una situazione siffatta, è essenziale porsi tappe intermedie, che servano: a mantenere aperte le possibilità della democrazia, resistendo ai tentativi di impoverirla e mistificarla ulteriormente; a conquistare adesioni alla critica del sistema dato e alla convinzione della necessità di superarlo; a costruire le alleanze sociali, culturali e politiche necessarie perché una posizione di minoranza (come indubbiamente la sinistra attualmente è) diventi maggioritaria.

La mia speranza è che la nuova formazione sappia tenere insieme strategia e tattica: costruzione del mondo nuovo e lavoro nella concretezza del mondo attuale.

Venezia, 4 dicembre 2007

L’urbanistica non è l’architettura. La pianificazione della città e del territorio ha poco a che fare con la progettazione di un edificio. Il fatto che l’urbanistica sia nata come una costola dell’architettura è una caratteristica propria dell’Italia. Altrove non è così. Ed è noto che, nella prima metà degli anni Venti del secolo scorso ci fu una discussione accesa tra due tesi alterative: l’una vedeva l’urbanistica come figlia dell’amministrazione e dell’ingegneria delle reti, l’altra come un’estensione della progettazione fisica alla città. Prevalse la seconda.

La formazione dell’urbanista in modo radicalmente diverso da quello dell’architetto avvenne, ad opera soprattutto di Giovanni Astengo, in un duro confronto all’interno dell’IUAV. Si accetto di costituire un corso di laurea in urbanistica, con una sua spiccata autonomia da tutti i punti di vista: da quello della sede a quello del percorso formativo. Come negli altri paesi europei la matrice architettonica fu profondamente integrata con le scienze della sociologia, del diritto, dell’ecconomia, della geografia, della statistica, della geologia e, più tardi, delle altre scienze dell’ambiente naturale. Alcuni architetti-urbanisti di grande rilievo culturale, come Giancarlo De Carlo e Giuseppe Samonà si opposero allora alla “separazione” dell’urbanistica dall’architettura: essi temevano che gli architetti, senza l’urbanistica, avrebbero perso il contatto con la visione della città, e più in generale del contesto, che un buon architetto deve avere. Ma non credo che sia dipeso dalla formazione di una specifica scuola di urbanistica se, negli anni recenti, l’architettura si sia “deterritorializzata”, e spesso ridotta alla produzione di oggetti avulsi dal contesto.

La trasformazione del corso di laurea un una facoltà (di Pianificazione del territorio) fu una conseguenza naturale di quella prima decisione, e avvenne quando l’IUAV si trasformò, da ateneo monofacoltà, in ateneo articolato – come tutti gli altri in Italia – diverse facoltà.

Ai tempi di Giovanni Astengo, e della formazione dei primi corsi di laurea in urbanistica, il clima politico e culturale era molto diverso da quello attuale. Allora, la pianificazione urbanistica era sentita come una rilevante necessità sociale. Era la fase delle riforme, che condussero ad amplissime discussioni politiche sui contenuti- Alla fine, cadute le illusioni di una riforma che incidesse sui modi di esercitare il diritto di proprietà, il dibattito politico e culturale e la conseguente azione legislativa condussero comunque a riforme consistenti (dalla generalizzazione della pianificazione comunale e dagli standard urbanistici e dal loro finanziamento, fino all’edilizia sociale e alla programmazione temporale dell’attuazione dei piani). Il mestiere dell’urbanista era essenziale per le forze politiche diversamente impegnate in un rinnovamento socialmente orientato del paese (dai socialisti e comunisti, fino ai democristiani, ai repubblicani, perfino ai liberali).

Oggi non è più così. L’ideologia della prevalenza del mercato in tutte le dimensioni della società ha portato a dimenticare che la pianificazione urbanistica era nata, nei regimi borghesi, proprio per risolvere i problemi che il mercato non poteva risolvere. Il “declino dell’uomo pubblico” (per adoperare le parole di Richard Sennett), ossia la spiccata prevalenza data nell’ideologia dominante alla dimensione del privato e dell’individuale ha logorato quella consapevolezza degli interessi comuni che era la base per una partecipazione dei cittadini alla pianificazione. La prevalenza dei poteri economici su quelli politici ha indotto questi ultimi a sacrificare la regolazione della città, e a preferire di dedicare l’uso della città allo sviluppo delle componenti parassitarie del reddito. Siamo arrivati addirittura a leggere, nel programma della maggiore formazione nata dall’eredità dei novecenteschi partiti di sinistra che “in tema di pianificazione dell’uso e di governo del territorio, l’ideologia della regolamentazione è cattiva consigliera”!

Ha senso, in una situazione come questa, proporsi di istituire una facoltà di pianificazione del territorio? Io penso di si, alla condizione che si sappia restare ancorati ai principi dell’urbanistica (primato dell’interesse comune, responsabilità pubblica della pianificazione, carattere olistico delle scelte sul territorio, interdisciplinarietà della formazione e del lavoro dell’urbanista). E che si sappia evitare di scendere a patti con i “poteri forti”, o addirittura di porsi al loro servizio

Percezione e condizionamento sociale

Il participio presente “percepito” è adoperato sempre più largamente. La Convenzione europea del paesaggio definisce il paesaggio “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni”. A proposito di povertà si distingue quella misurata in termini di possibilità o meno di soddisfare i bisogni di sussistenza da quella “percepita” in relazione a un mix desiderato di consumi: si sa che non era tanto la fame che spingeva gli albanesi a gettarsi nei gommoni che li portavano in Italia quanto gli orpelli di vita beata formiti dalle nostre televisioni. Anche in termini di sicurezza e di rischio ci si riferisce sempre di più a quelli “percepiti” che a quelli reali, statisticamente comprovati.

Questa enfasi posta sull’elemento soggettivo della percezione individuale è certamente il portato di quel rifluire sull’individualismo e sull’intimismo che pervade l’insieme della nostra vita – e su cui tornerò fra breve. Ma io vorrei a questo punto porre una questione: quanto, dell’insicurezza che alimenta le nostre paure nella condizione urbana e metropolitana è davvero sentimento che nasce da un rischio effettivo, e quanto invece è il prodotto di un’azione penetrante, sistematica, vorrei dire cocciuta, degli organi di formazione dell’opinione pubblica? Di quegli organi – i grandi giornali e le loro appendici gratuite, la pubblicità, e soprattutto la televisione – che hanno ormai sostituito non solo la parrocchia e la casa del popolo, ma finanche la scuola e la famiglia nel formare le coscienze.

Non voglio negare affatto, con questo, la realtà di una situazione nella quale i rischi per l’incolumità personale sono davvero cresciuti rispetto al passato: nelle strade, nelle piazze e nei giardini – come peraltro nelle case e nelle famiglie. Non voglio negare che le città sono più pericolose che nel passato – che le città e le metropoli sono più pericolose di quanto non fossero i paesi e le cittadine. E neppure voglio soffermarmi sulla considerazione che le città di oggi sono in realtà non più, ma diversamente pericolose rispetto a quelle di ieri, perché abbiamo comunque drasticamente ridotto il rischio, allora dominante, di epidemie, di malattie urbane, di miseria endemica (vi invito a leggere le splendide pagine di Matilde Serao nel suo “Il ventre di Napoli).

Vorrei dire soltanto che ciò che appare profondamente e intimamente individuale, privato, soggettivo – appunto la percezione - è a sua volta il portato di un forte condizionamento sociale.

Individuale e sociale

Individuale e sociale sono termini che esprimono due tensioni, due presenze, due caratteristiche della persona che fanno parte entrambe della nostra natura. La bilancia tra l’una e l’altra deve essere in equilibrio, perché la persona non sia annegata in una massa indistinta, oppure al contrario racchiusa nella sua più infernale solitudine.

Richard Sennett, uno studioso a un tempo della società e della città e delle reciproche relazioni, afferma che il prevalere dell’individuale (dell’intimismo) sulla socialità è un processo che inizia da un tempo assai lontano, ma ha avuto la sua esplosione nei decenni più vicini. Colloca l’inizio del processo alla fine dell’Ancien régime e alla nascita del sistema capitalistico-borghese.

Ma quella fase della nostra storia, voglio sottolineare, aveva non uno, ma almeno due modelli di città: la città soggetta al Signore, al Feudatario, al Padrone delle terre, e la città del medioevo comunale, la città della nascente borghesia e del nascente diritto di cittadinanza. La città del Castello assediato dalle casupole della povera gente e dalle “cafonerie”, e la città delle piazze e dell’orgoglio comunale, la cui aria rende liberi.

La nostra città, la città che amiamo (ricordo una bellissima poesia di Luigia Rizzo Pagnin, che trovate in eddyburg.it), è una città nella quale il momento individuale e il momento sociale sono entrambi presenti – come lo erano nel villaggio e nel paese, prima che la grande città, la città cosmopolita, divenisse il modello prevalente. Ma il villaggio e il paese erano, e sono ancora, fortemente caratterizzati da un’identità e una società (una comunità) chiusa: lo straniero, il diverso, l’estraneo vi è immediatamente individuato, controllato, isolato. Non può divenire un rischio solo perché è sottoposto a uno stringente controllo sociale.

La città moderna, la città della nostra epoca, la città formatasi e affermatasi con le vittoria della produzione industriale su quella agricola, la città cosmopolita ha rotto gli steccati delle individualità chiuse. La città è diventata sempre di più il luogo dell’incontro con l’altro, con il diverso, con lo straniero. La città è, per definizione, il luogo dell’incontro, dello scambio: il mercato è l’emblema della sua nascita e, ancora oggi, ne è forse il luogo più significativo. L’incontro e lo scambio con chi? Evidentemente con l’altro, con colui che viene da fuori – il foresto -, con il diverso.

La città può inglobare l’altro, il nuovo arrivato, può assorbirlo nella sua vita sociale. E la storia di molte nostre città è stata questo: penso alle città-porto mediterranee, come penso alla stessa Venezia. Il diverso, il foresto, anziché un rischio può diventare una ricchezza, a causa della sua stessa diversità e dell’accrescimento della nostra comprensione del mondo che provoca.

Ma perché ciò avvenga sono necessarie due cose: (1) che nella città ci sia una vera vita sociale, (2) che questa vita sociale abbia i luoghi nei quali esprimersi. Occorre che la città sia polis e civitas, politica e società, oltre che urbs, città fisica. Che ci sia la politica, la partecipazione piena alla vita della città, e che ci siano i luoghi nei quali la politica, lo stare insieme, l’incontrarsi per riconoscersi e scambiarsi opinioni, passioni, soluzioni sia possibile, sia un condimento della quotidianità, non la sua negazione.

La tendenziale scomparsa del sociale dalla città

La storia della città della nostra epoca, dell’età della sua affermazione come città cosmopolita, come modello di vita vincente su tutti gli altri, lo città del sistema capitalistico-borghese è caratterizzata da un vizio di fondo: la contraddizione tra il carattere profondamente sociale, collettivo, comune che la città rappresenta ed esprime, e l’individualismo che, dal momento dell’economia si è impadronito dell’insieme del pensiero e della prassi della società.

La città non è un aggregato di case, è la casa della società, dico spesso ai miei studenti. Ma l’individualismo ha dissolto il legami che univano gli uomini tra loro. Da cittadini siamo diventati consumatori. Gli spazi pubblici sono scomparsi un quanto tali.

Scrive Richard Sennett:

“I traumi del capitalismo ottocentesco spinsero chi ne aveva i mezzi a tutelarsi in qualche modo dagli sconvolgimenti di un sistema economico incomprensibile […]. La volontà di controllare e modellare la sfera pubblica andò progressivamente scemando, e la gente badò sempre più a difendersene. La famiglia divenne uno di questi ‘scudi’. […] finì per apparire sempre meno il centro di una sfera particolare, privata, e sempre più un rifugio idealizzato, un mondo a sé, con un valore etico superiore rispetto alla sfera pubblica[1]”.

La casa, il luogo del privato, non si apre più verso la strada e la piazza, verso l’esterno. Le donne non piazzano più la loro sedia fuori dall’uscio per chiacchierare con le vicine e i passanti, per aprirsi al mondo. Si rinchiudono al terzo o quarto o dodicesimo piano di una casa, segregata in una “zona residenziale”, divenute ormai un mero aggregato di case: di alloggi individuali.

Ci sarebbe molto da ricordare e commentare su questa vittoria dell’individuale sul collettivo, del privato sul pubblico. A me interessa sottolineare come dalla città moderna e contemporanea siano scomparsi gli spazi pubblici in quanto tali, in quanto luoghi dell’incontro e dello scambio, della con-presenza di persone appartenenti a età, mestieri, ceti, condizioni – ed etnie, culture, lingue – diversi. Si sono trasformate nei luoghi dai quali si passa per andare altrove – gli spazi del traffico – oppure sono stati sostituiti nei luoghi nei quali si va per comprare – i centri commerciali, i mall, gli outlet – oppure ancora dove si va per assistere a spettacoli.

Resistono miracolosamente in alcuni luoghi: a Venezia, nei suoi incomparabili campi, e in qualche città minore, in qualche paese. Non conosco molti altri esempi di piazza viva, luogo pubblico nel senso pieno del termine, dove urbs e civitas s’incontrano nella polis.

C’è un punto solo cui vorrei ancora accennare a questo proposito. Parallelamente al dato sociologico e antropologico del prevalere del privato sul pubblico, dell’individuale sul comune, vi è stato un fenomeno ancora più strutturale che ha inciso sulla trasformazione della città: la privatizzazione del suolo urbano e la sua utilizzazione come strumento per l’arricchimento dei suoi proprietari. È una questione complessa, sulla quale vi invito ad altre letture (è appena uscito il mio “Ma dove vivi?”, dove cerco di spiegare questo e altri aspetti della città e dell’urbanistica in modo semplice) e che, se vorrete, potremo riprendere nella discussione.

Qui mi serve soltanto ricordare che la lotta contro la proprietà privata del suolo urbano ha cominciato ad esser vinta, sia pure parzialmente, proprio in occasione di una battaglia per l’esistenza nelle nostre città di spazi pubblici in quantità adeguata, con provvedimenti legislativi che dobbiamo in gran parte alla rivendicazione del movimento femminile. Voglio concludere parlando brevemente della questione degli “standard urbanistici”.

La vicenda degli standard urbanistici

Si intende per “standard urbanistici” la determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi. Lo standard è un valore minimo, considerato come livello di dotazione obbligatorio e come soglia minima al di sotto della quale non si può considerare soddisfatto il disposto normativo.

Per molti anni, in Italia, nei piani urbanistici nei quali di definisce il futuro della città gli spazi pubblici sono stati considerati dei residui, scampoli di terra poco utilizzabili per altri usi, localizzazioni spesso marginali. Nei casi migliori, lotti della lottizzazione edilizia, uguali a tutti gli altri. Nessuna attenzione alla quantità dello spazio necessario né alla sua accessibilità, nessuna attenzione alla centralità che i luoghi dell’interesse pubblico dovrebbero avere, come hanno sempre avuto nei momenti felici della storia della città. Questa è indubbiamente una conseguenza del fatto che la città moderna è diventata il luogo dell’individualismo, il piano regolatore è diventato lo strumento per la regolazione e la valorizzazione della rendita fondiaria, gli interessi comuni sono stati relegati ai margini.

Nel 1967 fu introdotto per legge (con la “legge ponte” urbanistica” l’obbligo di prevedere, in tutti i piani urbanistici, una determinata quantità di aree da destinate alla costituzione di spazi pubblici: dalle scuole ai parchi, dalle attrezzature sanitarie a quelle culturali e religiose, dai parcheggi ai mercati. L’esigenza che fino allora veniva soddisfatta con qualche brandello strappato alla speculazione fondiaria ora diventava una parte consistente della città: circa metà del suolo urbano doveva essere destinato agli usi collettivi, doveva diventare pubblico.

In questa sede voglio ricordare, come faccio ogni volta che parlo o scrivo su questo argomento, il contributo che diede il movimento delle donne, negli anni Sessanta, all’introduzione anche in Italia di questo strumento essenziale per rendere più vivibile la città. In quegli anni era forte la rivendicazione organizzata, soprattutto delle associazioni delle donne (l’UDI), per ottenere più spazio nelle città per gli asili, il verde, le scuole: come strumento per essere sollevate dall’obbligo del lavoro casalingo, come tensione a uscire dalle mura domestiche e impadronirsi della città. La rivendicazione condusse appunto a stabilire, per legge, che i piani urbanistici dovevano riservare, per ogni abitante, un certo numero di metri quadrati nella città a spazi pubblici e di uso pubblico.

Naturalmente non basta una soglia quantitativa per migliorare la città e renderla più vivibile. Serve – una volta raggiunto quell’obiettivo - il lavoro degli urbanisti e quello degli amministratori; servono l’elaborazione e l’attenzione della cultura e della politica, che alimentano e sorreggono gli operatori sul campo. Il lavoro di questi attori non si è sempre diretto nella direzione giusta, né sempre con la necessaria intelligenza e determinazione. Spesso gli standard sono stati considerati un mero adempimento burocratico, e non un primo passo verso la progettazione di una città radicalmente diversa da quella attuale. Spesso gli standard sono stati utilizzati come pedaggio da pagare (più scarsamente possibile) per uno sviluppo urbano misurato in termini di cubature edificabili.

Io credo che proprio da qui - dalla rivendicazione e dalla conquista e dalla gestione degli spazi pubblici - si debba partire per costruire una città nella quale la paura del diverso non sia più un sentimento pervasivo. Una città che non si chiuda in se stessa, ma si apra all’altro, al diverso, allo straniero, come a qualcuno a cui dare e da cui prendere, a cui insegnare e da cui apprendere.

Non illudiamoci però che l’urbanista e l’architetto, prevedendo spazi pubblici in quantità è di qualità adeguate, aperti alla socialità e non al traffico di automobili o alla vendita di merci, luoghi di sosta e di convivialità e non luoghi di passaggio e di spettacolo, possano risolvere i problemi di cui stiamo parlando. Ma certo possono offrire alcuni strumenti, alcune occasioni e alcuni obiettivi di una battaglia da ingaggiare per costruire (o ricostruire) nella città uno spirito pubblico: unica strada per vincere la paura.

[1] R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Milano 2006 Bruno Mondatori editore, p. 23.

Eddyburg è una piazza virtuale, luogo di incontro e confronto pubblico. Da quale urgenza nasce?

Avevo un piccolo sito nell’ambito del sito della mia università, l’IUAV. Oltre alle lezioni e all’altro materiale didattico ho cominciato a inserire altre cose, nelle “pagine personali”: articoli che mi sembravano interessanti, poesie e altre cose belle, ricette,e altre cose che mi sembrava interessante condividere. Questa parte ha cominciato a diventare via via più ampia e a interessare molti navigatori. Allora gli stessi responsabili del sito web dell’IUAV mi hanno consigliato di rovesciare la struttura e di rendere autonomo il mio sito a partire dalla “pagine personali”. Così è nato Eddyburg. L’abbonamento a un servizio di statistiche e la realizzazione di una newsletter, cui i lettori si abbonano automaticamente,mi ha permesso di constatare che il numero di frequentatori è aumentato a dismisura: oggi tocca i 2000 visitatori unici” al giorno, e la media supera i mille.

Io mi limito a pubblicare quello che mi interessa e che trovo sui giornali, sulle riviste, sui libri di poesia, delle ricette, commentando brevemente nella presentazione di più ampiamente nelle postille, quando mi sembra necessario. Ma il motore, da parte mia, è un desiderio di condividere quello che mi interessa e che mi sembra utile.

Poi ci sono le reazioni degli altri, a cui rispondo. Devo dire che non sono moltissime rispetto a quelli che leggono giornalmente il sito. Quelli che si fanno vivi non sono molti, è come se acchiappare la penna e scrivere sia faticoso

La sua è una “comunità” di amici, di pensiero, che esprime insieme un modo di guardare e di “essere nel mondo”…

Direi che la comunità è limitata: quelli che condividono le mie idee, collaborano spesso e mi mandano materiale, sanno tra le trenta e le cento persone.

Che rapporto c’è con i lettori?

Ricevo molte mail, alcune le inserisco nel sito. Molti mi segnalano materiale da inserire nel sito, La grande maggioranza sono persone che non conosco,o non conoscevo: spesso diventiamo amici, e magari non ci siamo mai visti.

Io credo di aver colto un bisogno di informazione, documentazione, orientamento - che è latente nel mondo di quelli che si occupano di pianificazione, urbanistica, città, territorio - che non trova espressione in nessuno strumento di informazione e di formazione dell’opinione pubblica e nemmeno nelle associazioni. Ormai l’associazionismo è quasi tutto locale. Neanche l’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica), di cui sono stato presidente 10 anni, è più un luogo di discussione aperta. Non ci sono più luoghi - pensiamo ai partiti - in cui si discute. Quindi chi è sveglio si accontenta dei siti virtuali che trova, nonostante la loro modestia.

Internet consente un’espressività diversa da parte della società. In che modo l’anonimato modifica la comunicazione?

L’anonimato è scarso. Tutto quello che ricevo è sempre firmato. Io credo che, anzi, ci sia un bisogno di espressione firmata. Chi scrive vuole che si sappia che è lui che si esprime.

Lei dice che “Un politico che ignora la città e la società è un cattivo politico. Come è un cattivo urbanista chi trascura la società”. Si può fare politica in rete? In che modo l’architettura “dialoga” con la realtà attraverso internet?

Domanda difficile…Se devo dirle il mio pensiero fino in fondo, internet è uno strumento secondario, la cui importanza supplisce ad una carenza. La piazza virtuale è una piazza che, in una società giusta, dovrebbe integrare la piazza reale. La piazza reale non c’è, e allora la piazza virtuale si carica di aspettative, attese e bisogni che non trova soddisfatti nella piazza reale.

Nel sito c’è un’attenzione all’attualità, non solo dell’architettura. Mettendo in rilievo alcuni fatti, s’interviene sulla realtà stessa, sulla coscienza che si ha di essa. C’è uno scambio osmotico tra la realtà e il modo di guardarla, di percepirla…

Si certo. Noi ci facciamo condizionare da quello che leggiamo e comunicando quello che vediamo, che selezioniamo - comunicare significa selezionare: privilegiare certe cose e trascurarne molte altre - modifichiamo la consapevolezza comune su quelle cose. Almeno nel piccolo universo che ci segue. Quindi c’è un’interattività in questo senso. La fisica insegna che qualunque strumento di misura modifica il fenomeno a cui si riferisce.

In che modo la sua formazione, anche politica, l’ha portata a comprendere e interpretare il ruolo di internet…

Il rapporto con internet è quello di chi vede uno strumento e riesce ad usarlo; all’inizio quasi per gioco e, mano a mano, grazie alla curiosità ne scopre le possibilità e riesce ad applicarle. È uno strumento come un altro, non sono un apologeta di internet. Lo uso come una volta usavo la penna a sfera.

È uno strumento che offre una possibilità di scambio con la realtà…

È una possibilità che mi lascia sempre qualche perplessità. È troppo casuale per essere del tutto vera. Avrebbe bisogno di strumenti di verifica reali. La piazza reale…ma il problema è che le piazze oggi non ci sono più.

Che ruolo svolge Eddyburg nei confronti dell’architettura e della città?

Non mi occupo molto di architettura, non sono architetto. Ieri ho letto un intervento - che mi sarebbe piaciuto moltissimo mettere nel sito, ma non sono riuscito a scaricarlo - di Vittorio Gregotti in Laboratorio Italia; condivido pienamente quello che dicono persone come lui e Carlo Melograni e pochi altri, è cioè che l’architettura svolge il suo ruolo se rende migliore la città. Mentre oggi l’architettura tende a costruire la città come un insieme di oggetti disparati. I miei interventi sull’architettura, dove non valorizzano posizioni di architetti come quelli che ho citato, è un intervento critico.

In che modo la società civile e politica raccoglie le istanze e i problemi che vengono segnalate sul sito? Avete avuto delle risposte?

No. La politica oggi è sorda e cieca. Cammina a tentoni. Guarda, non dico il breve periodo, ma quello che succede domani. Punto e basta. Rarissime eccezioni. Io spero che siamo in una fase in cui si cominci a capire che, se la politica continua ad andare avanti cosi, perde completamente il contatto con la società. E, dato che in natura non esiste il vuoto, qualche potente barbarie si affaccerà e vincerà definitivamente...Spero che la politica capisca questo.

Pochi gli esiti dalla comunità virtuale a quella reale? C’è uno scollamento

Qualche esito c’è, per l’amor di Dio, almeno si dà un po’ di volontà di resistere a chi è propenso a resistere. Senza falsa modestia, sono convinto che sulla non approvazione della Legge Lupi Eddyburg abbia influito. Non perché abbia smosso i gruppi parlamentari, ma perché ha fatto capire a qualcuno che resistere si doveva; qualcuno ha resistito e qualche granello di sabbia, e magari qualcosa di più, nelle ruote della privatizzazione dell’urbanistica è stato messo.

Internet è democratica, libera, accessibile. Entrando nella rete si diventa “tutti uguali”, si e è al tempo stesso visibili e sommersi da milioni di voci … come si fa a differenziarsi, é una questione di qualità, di stile?

Intanto, deve far parte del proprio stile quello di essere attenti al potenziale lettore o ascoltatore: esprimersi per gli altri, non per se stessi. Poi bisogna ricordare che internet è solo uno strumento e che gli strumento che evono essere usati per comunicare con gli altri sono numerosi. Non ci si può limitare ad uno soltanto. Per esempio noi, il gruppetto di amici che mi dà una mano, che mi consiglia, l’anno scorso abbiamo organizzato una scuoletta, l’abbiamo chiamata la Scuola di Eddyburg, abbiamo fatto una settimana di lezioni, di studio comune sul consumo dei suoli e abbiamo costruito una piccola comunità, che poi si è consolidata nel tempo, ha mantenuto dei legami e così via. Adesso il settimanale “Carta” mi ha chiesto di pubblicare, ogni settimana, un pezzo firmato Eddyburg, Ecco, io credo che bisogna non contentarsi di adoperare un solo strumento, e ogni strumento deve essere integrativo di altri.

Internet è uno strumento “di massa”, la stampa non lo è mai stata. Tuttavia, scrivere su un giornale, può offrire una visibilità maggiore?

Adesso sono felicissimo, per esempio, del fatto che Eddyburg abbia dato luogo a più di un libro: un libro di Fabrizio Bottini su quello che succede nel campo della distribuzione e del commercio, un libro di Lodo Meneghetti in cui raccoglie i suoi scritti su Eddyburg, quel libretto di critica alla Legge Lupi in cui Cristina Gibelli raccoglie i materiali di critica usciti su Eddyburg, fra poco un libro sul consumo di suolo, Carta… Secondo me bisogna sempre usare più strumenti, perchè ogni strumento ha il suo pubblico e il suo specifico.

Abbiamo detto delle potenzialità, quali limiti dell’uso di internet?

È un potentissimo mezzo di comunicazione il cui rischio è l’immensità. C’è tutto dentro internet. Bisogna costruirsi delle nicchie, mettere in rete le proprie nicchie con quelle altrui, rendere identificabile il proprio sito e metterlo in comunicazione con altre realtà analoghe. Io credo che la forza di Internet sia nella sua capacità di mettere in rete.

Oltre ai suoi “Scritti”, “Società e politica”, “Città e territorio”, tra le più visitate, su Eddyburg c’è un’area dedicata alle ricette di cucina e una dal titolo “Poesia e non poesia” in cui raccoglie frammenti di bellezza; È un modo molto affettuoso di condividere…

L’intento è proprio questo. La presenza di cose diverse, che caratterizzano una realtà di vita complessa, non appiattita su una sola dimensione. Penso che “l’uomo a una dimensione” non piaccia più.

Dunque, politica, verità e bellezza stanno assieme…

E certo, devono stare insieme!

Un augurio…

Che la politica riapra le orecchie e gli occhi.

Edoardo Salzano, urbanista, ideatore di eddyburg , sito dedicato alle questioni di carattere paesaggistico ed urbanistico, è stato professore ordinario di urbanistica del Dipartimento di pianificazione dell'Università Iuav di Venezia, ed è consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale e urbanistica. A lui abbiamo chiesto di fare un bilancio sulla politica del ministero dei beni culturali e di rispondere alle recenti polemiche che hanno contrapposto Rutelli a Rifondazione sulla questione dell'ecomostro di Alimuri, in Campania, che il ministro vuole abbattere concedendo però al proprietario una nuova licenza di costruzione in un altro punto delicato della costiera sorrentina. Quando poniamo quest'ultima domanda Salzano vuole ricordare in che mani è la proprietà della costruzione abusiva. «Ho sentito dire - sostiene il professore - che si tratta di persone vicine al presidente della Regione Bassolino».

Professore, a parte questa sgradevole vicenda, già stigmatizzata da Rifondazione, Verdi ed altre associazioni ambientaliste, che cosa pensa, complessivamente, della politica del ministero presieduto dall'ex sindaco di Roma?

Io trovo apprezzabile in Rutelli l'attenzione che presta sulle questioni e la sua capacità di presenza sugli argomenti più scottanti. E tuttavia non ho ancora trovato una risposta adeguata ad alcune attese che ci sono in particolare a proposito del paesaggio. L'attuazione del codice che è uno strumento molto importante per la tutela appunto del paesaggio, dovrebbe vedere gli uffici del ministero molto potenziati e rafforzati. Hanno delle gigantesche responsabilità e dei giganteschi campi di azione. Non si deve distruggere dopo che i vari ecomostri sono stati costruiti ma intervenire prima.

Che cosa prevedono a riguardo le attuali normative?

La legge dà al ministero, e anche a quello dell'ambiente, il potere di realizzare d'intesa con le regioni i piani paesaggistici. Cioè dà il potere di decidere prima che cosa deve essere tutelato di ogni territorio. Invece in questo Rutelli si dà da fare con dichiarazioni, attenzioni, protocolli d'intesa, ma lavoro concreto per rafforzare gli uffici delle regioni e metterli in condizione di lavorare non se ne vede. Insomma si fanno più proclami e conferenze stampa che azioni reali di tutela del territorio comprendendo e utilizzando pienamente gli strumenti che ci sono a disposizione.

Anche le sovraintendenze dovrebbere e protebbero svolgere un ruolo importante. Ma anche in questo caso sono depotenziate e spesso in conflitto con il ministero...

Voglio citare a questo proposito il caso del Friuli Venezia Giulia dove un bravo sovraintendente ha bocciato e chiesto modifiche ad un intervento nel comune di Duino Aurisina, in Baia di Sistiana. Il progetto è stato appunto bocciato e poi restituito al comune, il comune avrebbe dovuto correggerlo e ripresentarlo ma lo ha invece ripresentato tale e quale, il sovraintedente lo ha bocciato di nuovo e Illy e il sindaco del comune hanno incontrato Rutelli il quale gli ha detto che il progetto sarà ora esaminato dalla direzione generale. Adesso voglio vedere che cosa dice la direzione generale! Il ricorso diretto al ministro può diventare un escamotage per quelli che vedono i loro interventi tecnicamente criticati dalla sovraintendenza.

Oltre alla doverosa tutela del territorio, compito di un ministero è anche sostenere la produzione culturale italiana, letteraria, cinematografica e via dicende. Anche su questi aspetti Rutelli ha deluso le aspettative?

Io resto sempre un po' deluso dalle promesse dei ministri. Mi ricordo, tanto per cambiare personaggio ma rimanere sempre con gli ex sindaci di Roma, che Veltroni quando era ministro aveva lanciato lo slogan "non si interrompe una emozione", riferendosi alle interruzioni pubblicatarie in televisione durante la trasmissione di un film. Ebbene le mie emozioni sono continuamente interrotte dalle pubblicità. I ministri devono promettere di meno e fare di più in tutti i settori. Purtroppo la politica ormai ha come esclusivo obiettivo colpire l'opinione pubblica generica. Conta più quello che appare di te in televisione o sulla stampa di quello che concretamente fai. Più la scena che il monitoraggio continuo. Chi governa ha dei poteri gravidi e bisogna che li eserciti una volta per tutte

E’ facile dire che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica. Lo è in modo così evidente!

Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.

Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai reggitori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini.

E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film, l’antagonista dello speculatore Nottola (splendidamente interpretato da Rod Steiger), è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.

È una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film, Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il medesimo ruolo che svolge sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. È stato facile allora, per Rosi, scegliere come attore un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano di quegli anni.

Molti anni sono passati. Grazie anche agli uomini e ai partiti che allora combattevano contro chi metteva “le mani sulla città” oggi le cose sono un po’ migliori. Ma è segno dei tempi che oggi non ci siano forze politiche come quelle che allora si adoperavano per un’urbanistica riformata e, nel frattempo, là dove potevano amministrare, applicavano le regole del buongoverno.

Venezia, 8 novembre 2003

Appendice

dal sito www.filosofia.unina.it

La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche.

Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni.

"I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce"

Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni.

L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività.

Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città.

Audio

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Scheda tecnica del film:

Francesco Rosi "Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105')

Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella.

Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo

d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale

Tratto da http://www.filosofia.unina.it/corsoperf/corsoperf01/qmfad/QPol_eco/lemani.html

Franco Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004, p. 12

Per un lungo periodo i partiti sono stati il punto di condensazione privilegiato della cittadinanza, gli strumenti attraverso i quali i cittadini, anche quelli meno potenti, hanno esercitato il loro peso sulle grandi decisioni. I movimenti della cittadinanza attiva trovavano in essi la loro sede principale, anche se non unica, di espressione. A lungo quindi i partiti e lo sviluppo della democrazia di massa hanno marciato con lo stesso passo. Ma oggi ai partiti s'impone di mutare in modo radicale l'immagine di sé e di evitare di rimanere seduti su una soddisfatta e pericolosa autarchia ad ammirare i trofei vinti nelle passate competizioni. Una volta essi ospitavano, accanto agli interessi organizzati, il dibattito culturale e una straordinaria quantità di lavoro volontario. Troppo spesso invece oggi rassomigliano ad agenzie di collocamento, affollate da creditori impazienti di riscattare gli anni di passione commutandoli in piccole o grandi poltrone, convinti di detenere in modo permanente il monopolio legittimo della rappresentanza. Il briciolo di follia, che accompagnava la militanza volontaria e il dibattito culturale nei partiti, si è spostato altrove, alla ricerca di altri canali e altre forme di espressione civile. Si tratta di una ricerca difficile e, come accade alle ricerche vere, tutt'altro che immune da errori e semplificazioni,che pone un problema di grande rilievo: i partiti non possono più pretendere il monopolio della rappresentanza politica, ma devono accettare la sfida della competizione e del confronto, la sfida della cittadinanza. Noi non crediamo che i partiti siano finiti, ma la qualità della vita che li aspetta è nelle loro mani, dipende dalla loro capacità di muoversi nelle nuove condizioni, di tornare ad intercettare ancora un po' di quella follia.

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