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Il mondo non è più giusto

Il mondo non è oggi più giusto di quanto fosse quando, 50 anni fa, ho cominciato ad occuparmi di politica. E non è aumentata rispetto ad allora la speranza di cambiarlo.

La distanza tra chi possiede la ricchezza e i mezzi di produzione e chi ne è escluso è aumentata, e così è aumentata (nell’insieme del mondo, in ciascun paese, nelle nostre città) la povertà: sia quella reale sia quella percepita.

L’equilibrio tra la dimensione pubblica e quella privata di ogni uomo si è rotto, e l’individualismo sta tendenzialmente cancellando ogni diverso principio, a partire dalla solidarietà.

Il trionfo della globalizzazione sta cancellando ogni realtà culturale diversa da quella della cultura dominante.

La crescente consapevolezza dei limiti dello sviluppo non ha significativamente cambiato il rapporto tra utilizzazione delle risorse naturali e loro disponibilità: anzi, questa sta vistosamente decrescendo.

La riduzione dei beni, anche i più essenziali alla vita, a merci aumenta ogni giorno, e riduce la disponibilità di beni comuni.

Nelle stesse parti del mondo favorite dallo sviluppo economico in atto è cresciuta la precarietà del lavoro e con essa l’insicurezza del futuro, ed è minacciata la stessa coesione sociale.

Scomparsa la ricerca di alternative

Ciò è certamente dovuto alla fase attuale del proteiforme sistema capitalistico-borghese. Ma, a differenza che nelle fasi precedenti, è venuta meno (nel mondo, in Europa, in Italia) la presenza di forze antagoniste caratterizzate dalla ricerca di soluzioni alternative.

Il crollo dell’Unione sovietica e del blocco dei paesi socialisti; il disfacimento del tentativo dei paesi del Terzo mondo, iniziato nel 1955 col Patto di Bandung, di costruire un’alternativa all’ideologia e alla prassi dei due blocchi antagonisti; la pesante erosione delle conquiste del Welfare state nei paesi del “capitalismo avanzato”; la crescente subordinazione delle politiche verso il Sud del mondo alla logica dell’espansione del mercato capitalistico: tutto ciò è implicito nella compiaciuta constatazione del “crollo delle ideologie”.

I nuovi dogmi universali

Ciò ha comportato – sul piano culturale, sociale e politico –il costituirsi di un’ideologia, largamente condivisa e tendenzialmente egemone, caratterizzata da un numero rilevante di opinioni tramutate in verità indiscutibili, in veri e propri dogmi. Enunciamone alcuni:

- il primato del “mercato” come misuratore dell’efficienza delle soluzioni non solo nel campo della produzione di merci ma in ogni settore della vita sociale e culturale;

- la validità indiscussa e generale (indipendentemente da ogni contesto economico, sociale e culturale) di una democrazia rappresentativa in cui la delega tende a cancellare ogni partecipazione, e comunque depurata da ogni possibilità di conflitto;

- la fiducia illimitata nella tecnologia e nelle sue “innovazioni” come risolutrice di ogni conflitto tra espansione produttiva e ambiente naturale;

- l’assunzione di parametri meramente quantitativi, e riducibili alla moneta, quali misura del valore d’ogni realtà umana e sociale;

- di conseguenza la crescita del prodotto interno lordo come obiettivo dominante e misuratore dello sviluppo.

Le opzioni politiche del passato

Ancora mezzo secolo fa le opzioni politiche, in Europa e nel nostro paese, erano riassumibili in tre:

- quella moderata, che assumeva il sistema capitalistico-borghese come l’unico orizzonte possibile;

- quella socialdemocratica, che assumeva quel sistema come suscettibile di correzioni e “riforme” che lo rendevano accettabile;

- quelle social-comunista, che si proponeva di sostituire quel sistema economico-sociale con uno radicalmente diverso.

In Italia queste tre opzioni assumevano caratterizzazioni peculiari, dovute sia alla presenza nel blocco moderato di componenti ideologiche anticapitalistiche, sia al carattere gradualistico della transizione “oltre il capitalismo” proposta dal blocco social-comunista.

Il comune riconoscimento di principi incarnati nella resistenza al fascismo e ratificati nella carta costituzionale consentiva di introdurre significative trasformazioni, in particolare per quanto riguarda il ruolo del lavoro nel processo economico e nel contesto sociale, e la crescente introduzione di elementi di Welfare. Ciò nel quadro di una democrazia concepita e vissuta come delega nutrita dalla partecipazione comportata dal carattere stesso dei “partiti di massa”.

In definitiva, in una realtà radicata nel sistema economico-sociale capitalistico, esisteva un’ampia, e a volte maggioritaria, tensione verso la costruzione di un orizzonte alternativo.

Il nuovo quadro politico

Oggi il quadro è radicalmente mutato. Esso è caratterizzato, da un lato, dal formarsi di una destra che non si riconosce più nel sistema di principi della Resistenza e della Costituzione e che, soprattutto, ha estremizzato i principi di subordinazione della legge all’interesse individuale, di riduzione dello stato a mero erogatore di servizi all’interesse privato più forte, di riduzione del lavoro a mero strumento per l’accrescimento dei redditi dei proprietari dei mezzi di produzione, e ha promosso la sostituzione dell’incremento dei patrimoni finanziari e immobiliari all’investimento produttivo (della rendita al profitto).

Ma dall’altro lato la crisi del social-comunismo e quella del blocco moderato a direzione democristiana hanno dato vita a una formazione politica che, dissolta nel Partito democratico la componente originata dal Partito comunista italiano, non si definisce più di sinistra. Essa ha assunto integralmente la concezione “interclassista” tipica del moderatismo democratico-cristiano, fino a proclamare la scomparsa della “lotta di classe”, come se questa fosse un’azione politica e non invece in primo luogo un dato strutturale del sistema economico-sociale capitalistico.

Lo sbocco impresso da Veltroni al processo iniziato con le esperienze di maggioranze di “centrosinistra” segna un mutamento radicale del quadro politico. La forza che dichiara di opporsi alla destra e di esserne l’unica alternativa, ha tagliato ogni ponte alla sua sinistra, nella prospettiva della scomparsa di quest’ultima e del graduale assorbimento dei suoi componenti (e soprattutto dei suoi elettori).

Le esternazioni dei suoi esponenti più significativi, a cominciare dal suo leader, lasciano comprendere facilmente come i “valori” in cui essi si riconoscono sono gli stessi che alimentano l’ideologia della formazione elettoralmente antagonista. Sono esattamente quei “dogmi universali” di cui ho prima elencato i più significativi.

Rischi per la democrazia

Le prossime elezioni sembrano giocarsi tutte tra due soli contendenti in campo: il Pdl e il PD. Nonostante gli sforzi di tenere aperto il confronto a tutte le componenti in campo, il risultato elettorale rischia di essere quello del dominio dell’uno o dell’altro dei due contendenti maggiori. Oppure, nel caso di un pareggio, dell’intesa tra loro.

Questa prospettiva è estremamente rischiosa, in primo luogo per la democrazia. Il perverso meccanismo elettorale, creato dalla destra ma tollerato dalle altre forze in campo, provocherà qualcosa che si avvicina molto a quella che Alexander Hamilton definì, due secoli fa, “la tirannia della maggioranza”.

La pervasività con la quale sono diventati opinioni correnti quei “dogmi universali” che nutrono l’ideologia delle due formazioni dominanti; l’incapacità delle formazioni alternative di trovare un’unità sufficiente; la magistrale rapidità e determinazione con la quale Veltroni ha liquidato ogni rapporto politico, ideale e culturale con la sinistra: tutto ciò rende il risultato elettorale estremamente rischioso.

La prospettiva è riassumibile nello slogan: due partiti, una ideologia, un dominio.

La chiusura del futuro

La piattaforma comune ai due partiti, il PdL e il PD, e il substrato della loro comune ideologia, è l’assunzione del sistema economico-sociale dato (quello capitalistico nella fase della globalizzazione neoliberista) come l’unica realtà possibile. Il loro dominio (sia che fossero congiunti sia che rimanessero disgiunti) rappresenterebbe perciò anche la scomparsa d’ogni significativo sforzo di costruire un futuro diverso:

- nelle coscienze dei cittadini, dimostrando la fallacità, o almeno la discutibilità, di quei “dogmi universali”, e la validità di principi diversi e, dove necessario, alternativi;

- nella garanzia di futuro rappresentata dalla difesa dei risultati dei progressi compiuti quando erano egemonici i principi nati dalla Resistenza e definiti dalla Costituzione, in particolare per quanto riguarda la dignità del lavoro, i diritti del welfare, la tutela dei beni comuni;

- nella possibilità di sperimentare, propagandare, affermare nella realtà modi alternativi di regolare il rapporto tra uomo e ambiente, tra sviluppo delle persone e della società e meccanismi economici, tra dimensione privata e dimensione pubblica.

Una scelta di sinistra

Per chi condivide queste considerazioni la scelta elettorale è obbligata. Esiste una sola lista nella quale si esprime una posizione critica nei confronti del sistema economico-sociale in atto e dei suoi “dogmi universali”, e che si riferisca a principi adeguati e condivisibili. È una formazione che è oggi un insieme di posizioni e storie che non hanno ancora trovato una sintesi tra le diverse esigenze che esprimono: in particolare, quella che assume come principio fondamentale la difesa del ruolo sociale del lavoro, e quella che concentra la sua attenzione sulla difesa dell’ambiente. Si tratta comunque, in ogni caso, di esigenze che esprimono una critica di fondo del vigente assetto, e che hanno trovato primi momenti di sintesi nelle varie esperienze “rosso-verdi”.

Sia pure con le approssimazioni dei programmi elettorali troppo sintetici, in quello della Sinistra l’Arcobaleno appaiono impegni rilevanti su punti molto concreti (sui quali invece il programma di Veltroni appare largamente allineato con quello della destra). Mi riferisco in particolare alla difesa del ruolo e dei diritti del lavoro e del welfare, al diritto alla casa e a quello al trasporto collettivo, al rifiuto delle Grandi Opere coerenti con il veltroniano “ambientalismo del fare”.

Una sinistra da costruire

Vedo il voto per La Sinistra l’Arcobaleno come il primo passo verso un impegno politico volto a contribuire alla costruzione di una formazione politica interamente nuova. Di essa anzi si può cominciare a costruire la piattaforma - culturale, prima ancora che politica - approfondendo il confronto sui diversi aspetti del generale problema: come pensare, sperimentare, costruire il superamento del vigente sistema economico-sociale, su quali principi, con quali forze sociali, e salvaguardando in primo luogo le conquiste delle fasi più alte delle stagioni delle riforme del sistema economico-sociale.

Una piattaforma da aiutare a costruire a partire dalle questioni proprie dei mestieri e degli interessi di ciascuno di noi.

Un grande campo di lavoro mi sembra che si apra proprio sui temi della città e della sua vivibilità, del territorio e del paesaggio, della tutela e dello sviluppo dei beni comuni: campo nel quale, se il PdL è apparso come il partito degli speculatori e il PD come quello dell’ambiguità, la Sinistra ha dimostrato un’attenzione del tutto insufficiente.

Una sinistra aperta

Il confronto non deve restare chiuso nell’ambito dell’attuale formazione Sinistra l’Arcobaleno. Deve essere aperto nei confronti delle realtà sociali che non si riconoscono in nessuna delle formazioni politiche presenti, ma che esprimono la tensione verso nuove strade per un impegno politico capace di costruire una società profondamente diversa da quella attuale.

E deve essere aperto nei confronti delle stesse posizioni oggi confluite nel PD. Questo si presenta oggi come un contenitore elettorale, in cui l’apparato mediatico e gli slogan di facile consumo nascondono una grande varietà di posizioni, certamente non tutte riconducibili all’ideologia dominante e ai suoi dogmi. Il modo in cui il contenitore è stato costruito e bloccato ha impedito ogni dibattito con le posizioni di sinistra, ed è certamente sentito come una mortificante limitazione per persone e gruppi spinti ad aderire al PD unicamente dal timore di non esprimere, votando a sinistra, un “voto utile” alla sconfitta di Berlusconi.

Così come non può non manifestarsi disagio per la posizione del tutto anomala che il PD ha assunto nel quadro europeo, dove molte socialdemocrazie hanno mantenuto fermo il loro riferimento sociale alle forze del lavoro dipendente e aperta la ricerca per la costruzione di un’alternativa al sistema economico sociale dato.

Dopo le elezioni, se la Sinistra l’Arcobaleno avrà raggiunto un sufficiente consenso sarà possibile costruire, su questa base, il lavoro necessario per sconfiggere compiutamente non solo Berlusconi, ma il più esteso berlusconismo.

Edoardo Salzano

Venezia, 24 marzo 2008

Sugli argomenti toccati da questo scritto si vedano i cocntributi raccolti nella cartella per altre valutazioni e analisi sul quadro politico italiano, quelli nella cartella " Capitalismo oggi" sulle questioni più di fondo: che si sbaglierenne a trascurare o sottovalutare.

Perché, quando, come fu prodotto il fotopiano? A queste domande voglio sinteticamente rispondere per far sì che il lettore, navigando all’interno di questo meraviglioso prodotto della scienza e della tecnica moderne (lo strumento, il CD-rom) e della scienza e della tecnica storiche (l’oggetto, Venezia), sappia un po’ del suo spessore.

Nel 1980, a Venezia, era stata rieletta la maggioranza di sinistra e ricostituita la giunta. Esaurito il tentativo di correggere e attuare i piani particolareggiati del 1974, mi posi l’obiettivo (ero di nuovo assessore all’urbanistica) di avviare una pianificazione del tutto rinnovata. Per farlo, strumento indispensabile era una cartografia di qualità adeguata. Per la città storica, la qualità del sito e il livello di dettaglio che volevamo dare al nuovo PRG erano tali da richiedere un prodotto d’eccezionale contenuto cognitivo. Da qui nacque la decisione di avere, tra gli strumenti, un fotopiano a colori in una scala di precisione topografica: quella del rapporto 1:500 ci parve adeguata.

Edgarda Feletti, allora dirigente dell’ufficio centro storico dell’assessorato all’urbanistica e protagonista della costruzione e della gestione del fotopiano, gettò le basi del progetto. Insieme scegliemmo gli esperti che avrebbero dovuto aiutarci come collaudatori (Rosa Bonetta dell’iuav e Corrado Mazzon del sifet), e per la messa a punto e l’attuazione del progetto (l’impareggiabile Mario Fondelli, che ci guidò passaggio dalla concezione tradizionale a quella digitale del sistema cartografico, di cui il fotopiano costituiva il primo tassello).

Le gare (per il fotopiano, per le riprese aeree per la cartografia, per la restituzione cartografica) furono bandite nel 1981. La commissione giudicatrice scelse la Compagnia Generale Ripresearee del comandante Licinio Ferretti. Mai scelta si rivelò più oculata. Ferretti fece un lavoro splendido, e seppe rischiare. Prima ancora che il contratto con il Comune fosse stipulato e che fossero rilasciate le autorizzazioni, la CGR non seppe rinunciare ad approfittare di una giornata eccezionalmente limpida (il 25 maggio 1982) e volò: eseguì le riprese (78 strisciate, 1129 fotogrammi) in un solo giorno per il centro storico, in tre giorni successivi per il resto del territorio della Laguna e della Terraferma.

Un anno quasi impiegammo nel tentativo di rimuovere le richieste dell’amministrazione militare di cancellazione degli “obiettivi strategici”. Ci aiutò Andrea Manzella, allora Capo di gabinetto del ministro della Difesa Spadolini. Ma raggiungemmo il successo solo quando, ottenuto un appuntamento con il comandante dell’IGM, gli portammo a Firenze i primi campioni del fotopiano. Il generale Zanetti comprese che non si poteva mutilare un’opera così eccezionale (per l’oggetto, e per la tecnica impiegata) mascherando con improbabili aiuole l’Arsenale o l’Ospedale civile: come era stato fatto, pochi anni prima, per il fotopiano alla scala 1:5.000 della Regione.

Secondo il contratto la CGR doveva consegnarci tre copie fotografiche delle 186 tavole a colori relative alla città storica: una per lavorarci, una per il pubblico, la terza da archiviare. Appena vedemmo il prodotto comprendemmo subito che non era possibile tenerlo per noi: chiunque, a Venezia e nel mondo, avrebbe voluto vederlo, goderne, utilizzarlo. Facemmo una gara ulteriore. Scrivemmo a 22 editori italiani chiedendo chi fosse interessato alla commercializzazione del prodotto. Ponemmo una sola condizione: il primo dei prodotti ricavati dal fotopiano doveva essere la sua riproduzione originale e integrale, in piena fedeltà del formato, dei colori, dei segni; la precisione doveva restare quella di una carta topografica alla stessa scala.

Solo la Marsilio Edizioni si dimostrò interessata, e chiese di vedere le tavole. Emanuela Bassetti, amministratore delegato, s’innamorò del prodotto. Lavorò intensamente per trovare sponsor che condividessero le ingenti spese d’impianto, e per risolvere i mille problemi tecnici che si ponevano. Nacque così l’edizione Venezia forma urbis, presentata all’opinione pubblica nel 1985, e poi i fortunati “sottoprodotti”. L’ Atlantedi Venezia (poi tradotto in edizioni inglesi e francesi, dalla Princeton Press e da Flammarion), e il diffusissimo poster miniaturizzato alla scala di 1:3.623.

Con questo CD-Rom il fotopiano acquista un’altra dimensione ancora. Si può navigarci dentro, percorrerlo in tutte le direzioni, scegliendo quale, dei mille luoghi di Venezia, ammirare da 1.000 metri d’altezza. Una sensazione altrettanto intensa quanto quella che dovettero avere i tecnici della flotta del comandante Ferretti quando, quel 25 maggio 1982, sorvolarono la città più bella del mondo per assicurarne a tutti la veduta dall’alto.

Piacevole (è scritto in buon italiano, ciò che è abbastanza raro nella letteratura di genere) e in gran parte condivisibile, il saggio di Francesco Ventura: nell’ispirazione di fondo che lo muove, nella passione che lo anima, nei puntuali appunti che muove all’urbanistica della Toscana Felix. In gran parte condivisibile, se non fosse per due errori, tra loro strettamente connessi, che rendono poco utile l’intero ragionamento.

In sostanza Ventura propone che sia il decreto di vincolo a definire i criteri che le azioni dell’uomo devono rispettare perché i beni siano tutelati nei loro caratteri propri. Scrive Ventura: “È l’atto di vincolo, e non il piano, che deve dire in concreto in quel luogo quali sono i limiti che qualsiasi atto di piano, pubblico o privato, deve rispettare. Il vincolo deve determinare inequivocabilmente l’oggetto concreto della tutela in ogni specifico luogo, se si vuol tentare di raggiungere una tutela efficace, rigorosa e certa”.

Ventura non spiega perché un atto amministrativo essenzialmente monocratico (il decreto di vincolo) dovrebbe compiere quella medesima operazione che le leggi vigenti affidano alla pianificazione: una procedura soggetta a garanzie di trasparenza e di coerenza (spesso violate, ma chi si oppone alle violazioni?), pienamente conforme al regime democratico nel quale viviamo (pieno di difetti, lo sappiamo: ma vogliamo abolire la repubblica per restaurare il Re, esautorare il parlamento e i consigli comunali per ripristinare i tiranni e i podestà?). O per meglio dire, lo spiega con un pre-concetto: la pianificazione è essenzialmente, strutturalmente, per sua propria natura cattiva.

Questo è appunto il secondo errore di Ventura. Egli ritiene che la pianificazione territoriale e urbanistica, e anche quella “con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, sia esclusivamente, univocamente, totalitariamente fondata sul valore venale. È un errore identico a quello che avrebbe fatto uno scienziato (quale Ventura indubbiamente è) il quale, avendo conosciuto solo le donne ospitate nel manicomio criminale, sostenesse che tutte le donne sono assassine. La pianificazione è uno strumento. Come tutti gli strumenti può essere adoperato in più modi, buoni e cattivi. Peccato che Ventura abbia conosciuto solo quella cattiva, o solo da quella sia stato conquistato.

Per carità, si tratta di una tesi perfettamente legittima sotto il profilo culturale. Ma ha senso discuterne? Non sarebbe meglio comprendere che cosa precisamente la legislazione vigente dispone, e far sì che sia rispettato? Lavorare perché effettivamente le soprintendenze siano attrezzate per entrare nel processo di pianificazione? I contenuti che Ventura vorrebbe attribuire al vincolo sono esattamente quelli che la buona pianificazione (quella fedele alle prescrizioni e alla ratio della legge Galasso e delle successive versioni del Codice del paesaggio) deve possedere. E che già possedeva quando Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli tutelavano le colline e i paesaggi di Siena, Edoardo Detti quelle di Firenze e Giovanni Astengo quelli di Assisi.

Ventura aiuti a far sì che la Regione Toscana rispetti la priorità dei precetti dettati dall’esigenza della tutela su ogni ammissibile trasformazione che quelle leggi, e le sentenze costituzionali, prescrivono a tutte le istituzioni della Repubblica. Temo che sostenere che la pianificazione è in ogni caso, e irrimediabilmente, perversa finisca per essere utilizzato come alibi da chi vuole utilizzarla per spalmare “perequazioni” anche sui beni paesaggistici. Dimenticando che, a partire dalle sentenze costituzionali 55 e, soprattutto, 56 del 1968 tutti dovrebbero sapere che le limitazioni determinate da ragioni di tutela paesaggistica non danno diritto a nessun indennizzo delle proprietà vincolate.

Urbandata è nata da successive integrazioni. L’avvio è stato l’unificazione degli archivi di due grandi produttori europei: il Centre de Documentation sur l’Urbanisme (cdu), organismo della Direction Générale de l’Urbanisme, de l’Habitat et de la Construction del Ministère de l’Èquipement, des Transport et du Logement, e il London Research Center (lrc), centro di ricerche e consulenza al servizio di una trentina di comunità locali e del governo del Regno Unito. Successivamente, grazie ai contatti intrattenuti dal Coordinamento nazionale delle biblioteche di architettura, dal Sistema bibliotecario e documentale dello iuav e dall’Oikos di Bologna, anche l’Italia è entrata nella collaborazione, costituendo ad hoc l’associazione Archinet. Contemporaneamente aderiva la Spagna, tramite il Centro de Informaciòn y Documentaciòn Cientifica (cidc) del Consejo Superior de Investigaciones Cientificas (il csic è l’equivalente spagnolo del Consiglio nazionale della ricerca).

Nel 1997 ha aderito all’iniziativa anche una rilevante struttura di ricerca della Germania, il Deutsches Institut für Urbanistik (difu), il cui ruolo è fornire documentazione e svolgere ricerche per le comunità locali della Repubblica democratica tedesca. Nel 1999 è entrato tra i partrner di Urbandata il Vati ( Magyar regionális Fejlesztési és Urbanisztikai Közhasznú Társaság / Hungarian Public Nonprofit Company for Regional Development and Town Planning), prestigiosa struttura di pianificazione regionale e locale magiara. Con la costituzione, nel 2001, della Greater London Authority e lo scioglimento in essa del London Research Center, partner inglese è divenuto la Gla . Contemporaneamente in Francia è stata costituita l’associazione Urbamet, che comprende il due precedenti soci francesi e quindi li ha sostituiti.

Dal 1998 Urbandata è costituita come associazione di diritto francese. Oggi i suoi membri sono: Urbamet (Francia), il difu (Germania), la Gla (Gran Bretagna), l’associazione per l'informazione di settore appositamente costituita Archinet (Italia), e il Cindoc-Csic (Spagna), Vati (Ungheria): qui accanto i collegamenti ai siti dei partner I presidenti dell’associazione sono stati: Catherine Bersani, Anne Page, Claude Allet, Edoardo Salzano; dal dicembre 2000 è presidente Carmen Vidal.

Urbandata produce un CD-rom, Urbadisc, che contiene le banche di dati prodotte dalle diverse agenzie nazionali. Oggi esso contiene i seguenti archivi: Acompline and Urbaline (Regno Unito), con circa 150.000 documenti; Docet, Bibliodata, Art-Press, e Archivio Progetti A Masieri (Italia): 55.000 documenti circa; ORLIS (Germania): 200.000 documenti circa ; Urbamet (Francia): 207.000 documenti circa; Urbaterr (Spagna): 87.000 documenti circa. È aperta la ricerca per il passaggio dal formato CD-rom al formato web, deciso dall’Assemblea generale dei soci di Budapest (2001) e ribadita a Londra (2002). Sulla ricerca sono impegnati particolarmente i partner italiano e francese.

Membri di Urbandata, associati ad altri operatori, hanno svolto una ricerca con finanziamento dalla Commissione europea (MLIS2000) per predisporre un prototipo di lessico multimediale e multilingue nel campo della pianificazione e della costruzione. Il prototipo Muleta è stato realizzato e ne è in corso l’implementazione.

Edoardo Salzano, urbanista contro

CAGLIARI. Edoardo ‘Eddy’ Salzano è professore ordinario di urbanistica nel dipartimento di pianificazione dell’università Iuav di Venezia, dove è stato presidente di corso di laurea e preside della facoltà di Pianificazione del territorio.

Consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale e urbanistica in tutta Italia, ha scritto saggi importanti e pubblicazioni specializzate.

E’ nato a Napoli, ha vissuto a lungo a Roma e dal 1975 abita a Venezia.

Salzano è stato amministratore pubblico sia nel Lazio sia in Veneto. Autore di un aggiornatissimo sito (www.eddyburg.it) diventato rapidamente un riferimento per chiunque si occupi di urbanistica e ambiente, è oggi impegnato in una battaglia pubblicistica aspra contro la realizzazione di opere faraoniche come il Mose a Venezia e il ponte sullo stretto di Messina, che giudica inutili e dannose.

Non ha paura di schierarsi: sulla porta della sua casa nel quartiere storico di Dorsoduro, vicino a piazza San Marco, campeggiano due bandiere con la scritta ‘No Mose’.

A settantacinque anni, Salzano è considerato una delle massime autorità nel suo campo ed è sulla base dei suoi titoli che Renato Soru l’ha chiamato a coordinare il comitato scientifico incaricato di elaborare la filosofia del nuovo piano paesaggistico regionale, approvato di recente dalla giunta sarda di centrosinistra.

Sulla scia delle polemiche nate attorno alla scelta del governo Soru di mettere all’asta il compendio storico minerario del Sulcis gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune delle critiche lanciate in questi giorni dagli oppositori del piano. Ecco che cosa ci ha risposto.

VENEZIA. - Professor Salzano, la Regione ha messo all’asta il compendio minerario del Sulcis, vuole farne un paradiso delle vacanze con campi da golf. Il bando scade domani. Condivide la scelta?

«Quando un ente pubblico decide di alienare i suoi beni io sono sempre contrario. Una cosa sono le regole delle trasformazioni fisiche, un’altra sono le funzioni che si stabiliscono attraverso i piani, un’altra ancora è il regime proprietario. Come regola generale io sono anti-tremontiano, la proprietà è una garanzia in ogni caso. Ho apprezzato l’iniziativa di Renato Soru di avviare la conservatoria delle coste ma in questo caso sono contrario. Bisogna però vedere che cosa si fa col ricavato della vendita...».

- La base d’asta è 44 milioni per 647 ettari di terre pregiatissime. Chi compra fa un affare...

«Sì, in termini generali io sarei per una concessione onerosa. Dà garanzie maggiori al pubblico».

- Lei ha coordinato l’elaborazione del piano paesaggistico della Sardegna, cui hanno lavorato intellettuali di diversa provenienza e inclinazione. A leggerne la filosofia sembra che l’orientamento sull’uso degli spazi storici fosse diverso. Nel testo sono numerosi i richiami alla salvaguardia dell’identità dei luoghi e alla conservazione filologica dei manufatti. Ma nel bando è prevista anche la demolizione.

«L’orientamento era di escludere le seconde case, per ora sulla fascia costiera. Qui le garanzie le abbiamo messe e sono chiare».

- Però nel piano si parla in termini aspramente critici di corsa alla privatizzazione. Gli oppositori dicono che la scelta di vendere il Sulcis minerario va in controtendenza rispetto allo spirito dello strumento di pianificazione.

«Nel nostro lavoro siamo partiti con un fantasma davanti agli occhi, quello dei villaggi turistici, queste oscenità... Un gruppo milanese o belga va in Sardegna, compra la terra dell’allevatore e ci costruisce uno di quegli obbrobri che conosciamo. Invece la trasformazione di certi edifici pubblici, che io comunque tenderei a evitare, non mi scandalizza. Se l’ipotesi è realizzare alberghi e gli alberghi sono necessari, se li fanno i privati e la Regione ha bisogno di vendere per raccogliere quattrini utili a comprare aree a rischio sulla costa e finanziare la conservatoria...».

- Sta dicendo che il fine giustifica i mezzi?

«No, ripeto: il pubblico è meglio che conservi il proprio patrimonio immobiliare».

- In questo caso anche un patrimonio affettivo, forse per questo la protesta sta montando...

«Va ricordato che il piano è solo un atto amministrativo, non può imporre un atteggiamento ascetico».

- La relazione scientifica allegata al piano sembra qualcosa di più che un semplice atto amministrativo.

«Certo, ci hanno lavorato anche scrittori... Mi spiego meglio: io sono nettamente contrario alla privatizzazione generalizzata. Ma se dietro alla dismissione c’è un ragionamento, una finalizzazione, allora se ne può discutere, purchè le finalizzazioni ci siano e siano conformi al piano. Lo slogan di partenza è stato ‘non vogliamo cancellare il turismo, vogliamo modificarlo’ per godere in modo controllato di questo patrimonio di bellezza incentivando le attività ricettive».

- Ma lei è convinto che il turismo possa essere davvero una risorsa economica per la Sardegna del futuro?

«Solo se la Sardegna riesce a conservare la qualità dei suoi siti».

- Nel piano la parola valorizzazione, riferita ai luoghi, viene definita parola fantasma, rottame di parola.

«I grandi economisti del passato, da Adamo Smith a Carlo Marx, distinguevano due valori: il valore d’uso e il valore di scambio. Il valore usato per le sue caratteristiche proprie e quello che ha in quanto merce. L’aria non è un valore di scambio, come l’acqua pulita. Allora: quando noi parliamo di valorizzare un bene possiamo parlarne nel senso di rendere quel bene una merce e far sì che il proprietario ne ottenga un lucro. Oppure che mettiamo in evidenza, conserviamo e accresciamo il valore d’uso, l’eccezionalità, la rarità, la qualità propria di quel bene. In genere il termine valorizzazione viene usato nel primo senso, a me quello giusto sembra il secondo».

- Qual è la linea di confine tra uso e abuso del bene ambientale?

«Capire quali sono le trasformazioni ammissibili per quel determinato bene, nel senso che ne conservano e ne mettono in evidenza il valore, e quelle che invece ne diminuiscono la qualità».

- E’ accettabile che a individuare questa linea di confine siano i politici?

«Questa è la democrazia, baby (sorride) ... non ci si può far niente. Per pianificare la Sardegna sono state scelte persone che fra di loro non avevano alcun rapporto, io non conoscevo Soru e lui non conosceva me...».

- Un’anomalia felice?

«Diciamo pure che dopo lunghi tira e molla siamo rimasti tutti soddisfatti di questo piano paesaggistico».

- Malgrado molti amministratori locali dicano che il piano è generico, che è troppo complesso?

«E’ un piano che richiede una collaborazione da parte di chi deve approfondire le cose. Da questo punto di vista è difficile, perchè chiede a Province e Comuni un impegno nell’approfondimento dell’analisi, chiede di definire meglio i confini che noi abbiamo individuato, di farsi carico di una serie di cose di cui l’urbanistica tradizionale non si faceva carico perchè era rivolta alla ricostruzione, mentre qui il piano è finalizzato alla tutela del paesaggio».

- C’è però chi lo legge come un piano di divieti.

«Non c’è dubbio, lo è per l’urbanistica edificatoria. Ci sono due modi di pianificare: il primo è dire ‘sul territorio si può fare tutto’ in base alle convenienze dei privati o della comunità locale. L’altra impostazione è legata alla legge Galasso, che risale al 1985 e dice: il territorio è quello che è, verifichiamo in primo luogo che cosa si può trasformare e secondo quali regole. Quando abbiamo individuato le aree in cui le trasformazioni possono anche essere pesanti, allora decidiamo che cosa si può fare in queste aree. Ma partiamo dal territorio, non dal cemento. La domanda è: questa impostazione a quali classi economiche, ceti sociali, interessi economici serve e quali contrasta?».

- Risposta scontata...

«Purtroppo gli oppositori più accaniti di questa impostazione sono i più dotati di mezzi di comunicazione, questo è il problema...».

- E’ un piano ambientalista?

«E’ un piano che piace agli ambientalisti, che consente di realizzare qualità nuove in coerenza con quelle attuali».

- Non toccare il territorio intatto, un passaggio del piano che colpisce per l’idea di rigore che contiene.

«E’ un pallino di Soru. Ci ha detto: per favore, quello che non è stato toccato si lascia stare, sul resto discutiamo. Io sono d’accordo. Stiamo per presentare a un gruppo di parlamentari dell’Ulivo un disegno di legge in cui diciamo che l’obbiettivo è fare come altri paesi del mondo: il territorio non edificato e urbanizzato viene trasformato solo se si dimostra che le cose che si vogliono fare là non si potevano fare altrove».

- In Sardegna sono proprio i Comuni che hanno il territorio intatto a protestare per i divieti.

«Non capiscono che sono i più fortunati. Ma una carenza nel piano c’è: quando noi diciamo che le costruzioni vanno realizzate nelle aree adiacenti i centri urbani non diciamo che poi bisognerà farsi carico di un sistema di trasporti fra questi centri e la costa. E’ un problema di organizzazione della mobilità, che non significa fare strade ma sistemi di trasporto leggeri. Bisogna lavorarci sopra, ma questo è un compito che spetta alla successiva pianificazione».

- Che cosa direbbe al sindaco di un piccolo paese costiero della Sardegna che protesta: io non ho altro modo per dare lavoro ai miei compaesani, ci sarebbe il turismo ma la Regione...

«Gli direi che vicino al paese può costruire... vediamo quante case vuote ci sono in quel paese. C’è da fare un enorme lavoro di recupero del patrimonio edilizio esistente. Fra l’altro chi costruisce un villaggio turistico ex novo compra i materiali all’esterno e li assembla in Sardegna, finestre, stipiti... e dunque il moltiplicatore economico è bassissimo. Chi invece ristruttura e riorganizza impiega manodopera locale, materiale, artigianato locale... lo dice Soru e ha ragione».

- C’è qualche carenza importante?

«Le norme sono ancora un po’ confuse. Sarebbero stati necessari altri sei mesi di lavoro per realizzare una cosa più semplice dal punto di vista dell’utilizzatore delle norme. Sono d’accordo sul fatto che ci siano diverse categorie di beni da tutelare, che la Regione individua. E norme riferite agli ambiti di paesaggio che rinviano alla pianificazione successiva. Con un ulteriore sforzo si poteva fare qualcosa di più semplice, ma trovo miracoloso come sia stato raccolto il materiale informativo, un grande risultato che oggi viene citato con favore da molti autorevoli urbanisti. Roberto Gambino del Politecnico, membro di molti organismi internazionali, non è soddisfatto di alcune cose ma comparativamente giudica il piano il migliore in Italia. E lui ne ha fatti molti».

- A cosa è ancorata la critica di Gambino?

«Alla distinzione dei livelli di qualità dei siti e io sono d’accordo con lui. Non ha senso dire: questo bene vale più di quest’altro e un po’ meno di quest’altro ancora. Bisogna individuare le caratteristiche proprie di quel bene e poi tutelare quelle. Ma questa distinzione compare nel codice Urbani, anche se per fortuna nell’ultima edizione si è un po’ stemperata».

- Qual è il bene più importante da tutelare nell’isola?

«La consapevolezza che i sardi hanno della qualità del proprio territorio».

- Che cos’è il paesaggio, professore?

«Secondo il modello europeo, secondo me pericoloso, è quello che viene percepito dalla gente. Ma io chiedo: quale gente? Quale? Se noi pensiamo a com’è la gente oggi, il termine gente lo abolirei, ci rendiamo conto che molte situzioni prima di poterti affidare all’intuito e alla comune opinione della gente devi fare un’opera di educazione che è stata interrotta. Allora meglio rivendicare la responsabilità dei poteri centrali, garantita dalla legge».

- E’ cresciuta la sensibilità ambientale negli ultimi anni?

«Solo in porzioni minoritarie della popolazione. L’Italia è ancora il paese in cui la gente spazza l’immondizia fuori sulla strada perchè poi sulla strada ci pensano gli altri».

- Allora questo è un piano impopolare?

«Dipende da come funziona la Sardegna... i sardi che conosco hanno un grande orgoglio del proprio territorio, anche se poi non si traduce sempre in atti reali».

- L’eolico, professore. Giusto frenarne la diffusione?

«C’è stato purtroppo un gap fra le parole d’ordine dell’ambientalismo e l’attuazione pratica. L’ambientalismo ha detto giustamente: energie rinnovabili. Una è l’eolico. Dopo di che è mancato il passaggio del potere pubblico: studiare e verificare quali sono le fonti di energia rinnovabili, quali i vantaggi di ciascuna di queste e sulla base di questo fare un piano energetico nazionale. Quindi i progetti, gli standard per realizzare questo o l’altro, infine largo alle imprese. Qui l’iniziativa è partita dalle imprese, che portano enormi materiali assolutamente invasivi. Provocano enormi devastazioni nel paesaggio e sono impianti che non vanno bene in un terreno accidentato come quello sardo. Dove invece si potrebbe sviluppare il fotovoltaico».

- Nel piano manca una disciplina della luce, dell’uso dell’illuminazione pubblica.

«E’ un problema che non ho mai visto trattato in uno strumento di pianificazione, certo poteva essere un’occasione visto che negli ultimi tempi se ne parla molto in Italia e in Europa. Ma guardi... non è mai stato fatto un piano paesaggistico così imponente in tempi così ridotti. Si è fatto il possibile».

- Qual è il prossimo passo?

«Dovremo lavorare sulla legge Floris, che partiva da un decreto sugli standard, sulle quantità minime di spazi pubblici. Sulle zone interne penso che sarà elaborato un piano a parte. Certo le pressioni e gli interessi sono minori, quindi non c’è urgenza. Forse però prima di trattare i problemi dell’interno sarebbe utile definire la legge urbanistica regionale e fare una pianificazione non solo paesaggistica. La legge Galasso dava due possibilità: fare diversi piani paesaggistici oppure piani ordinari con particolare considerazione ai valori paesistici e ambientali, i piani territoriali di coordinamento. Ecco, forse varrebbe la pena di fare un piano territoriale regionale».

CriDaup: una rete universitaria italiana

Nell’affrontare, tempo fa, una ricerca sulla pianificazione territoriale ambientalmente orientata ci si è resi conto che non esiste, allo stato attuale, una forma codificata e condivisa di schedatura degli strumenti urbanistici, il corrispettivo delle schede bibliografiche, e ciò nonostante l’elevato numero di soggetti interessati dagli atti di pianificazione, dalla loro formazione, dai loro effetti. Molte sono infatti le categorie di utenti che a diverso titolo usufruiscono (o avrebbero interesse a usufruire) di dati e informazioni relativi alla pianificazione: studiosi, studenti, progettisti, enti, proprietari immobiliari, operatori immobiliari, politici, utenti della città, delle sue parti, dei suoi servizi.

Ci si è anche resi conto che, di fronte a questa realtà, alcune strutture interne ed esterne all’università si erano poste il problema ed avevano avviato (con metodi, finalità specifiche, criteri, target diversi) programmi di schedatura o archiviazione di piani urbanistici. Con queste strutture si è avviata perciò una collaborazione che ha attraversato diverse tappe. La tappa attualmente in corso è costituita da una ricerca, finanziata dal MURST come ricerca condivisa, denominata CriDaup (Costruzione di una Rete Informativa in materia di Documentazione In Architettura, Urbanistica, Pianificazione).

Urbandata: una rete europea

Parallelamente alla ricerca CriDaup agisce una rete europea, costituita da alcuni dei soggetti coinvolti in CriDaup e da altri soggetti, in prevalenza governativi, francesi, britannici, spagnoli e tedeschi. Si tratta della rete Urbandata, finalizzata alla produzione e alla condivisione di informazioni e documenti in materia di urbanistica. L’associazione Urbandata produce un CD Rom di informazioni bibliografiche e documentali ed ha avviato un progetto, finanziato dalla CE, finalizzato alla costruzione di un lessico multimediale e multilingua in materia di urbanistica, pianificazione e architettura (Muleta).

Un nuovo progetto europeo: UrPlaNet

Il 5° Programma quadro europeo per la ricerca, lo sviluppo tecnologico e la comunicazione offre l’occasione per proseguire ed estendere il lavoro iniziato con CriDaup allargandolo ad altri paesi dell’Europa e implementando le componenti del progetto suscettibili di rivolgersi all’utente finale. La presente nota, finalizzata alla ricerca di partner e di beneficiari dell’iniziativa, dopo aver illustrato in modo più compiuto i contenuti dei progetti CriDaup e Urbandata, propone le linee guida di un progetto che si intende presentare alla Commissione europea. Si è denominato provvisoriamente tale progetto UrPlaNet (Urbanistic Plans Network). Le finalità del progetto, i suoi contenuti e la sua articolazione potranno essere definiti in seguito, sulla base delle adesioni ricevute e dei soggetti intenzionati a partecipare alla sua costruzione e attuazione.

Finalità del progetto UrPlaNet

Se vi sono almeno altri due paesi nell'ambito della EU in cui si sia sviluppata o si intenda sviluppare una iniziativa analoga al CriDaup, il nuovo progetto potrebbe consistere:

- nel definire un modello europeo di scheda catalografica dei Piani Urbanistici ( UrPlanCard) finalizzato alla costituzione di un catalogo europeo distribuito dei piani urbanistici, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto Capuet;

- nell'utilizzare per UrPlaNet il prodotto di Muleta per associare un thesaurus multilingue ( UrPlanThes) finalizzato alla ricerca delle schede catalografiche dei vari Piani Urbanistici;

- nel costituire un server OPAC sperimentale di indicizzazione delle schede catalografiche ( UrPlanIndex) da usare sia come "user query interface", che come "query router" verso i singoli cataloghi, utilizzando l’esperienza acquisita del progetto CriDaup;

- nel coinvolgere alcuni Enti pubblici territoriali (o loro strutture tecniche) non solo allo scopo di popolare il catalogo con le informazioni di loro competenza, ma anche in qualità di beneficiari del progetto per sperimentare il modello di OPAC, anche rivolto a un’utenza allargata. .

Si tratterebbe, insomma, di allargare la portata dei progetti già finanziati ampliando a livello europeo la rete delle unità di ricerca coinvolte, ottenendo così un allargamento degli standard (catalografici, lessicali, informativi) individuati a livello nazionale, favorendo altresì una loro verifica sul campo, ottenendo inoltre la formulazione di un linguaggio comune a una pluralità intranazionale di addetti, sia nella direzione del coinvolgimento di molti paesi europei, sia in quella di favorire il passaggio dell'utilizzo dello strumento dall’utente accademico (studioso e studente) al generico addetto ai lavori (utente tecnico e professionista), nonché al cittadino.

I possibili partner

I partner sono individuabili in varie direzioni:

- le attuali unità di ricerca dei progetti CriDaup e Muleta, o una parte di esse

- unità di ricerca, universitarie o non universitarie, che si pongano compiti di documentazione o diffusione della documentazione in materia di atti di pianificazione in altri paesi europei (in primo luogo, la rete Urbandata)

- soggetti suscettibili di implementare le basi dei dati, quali gli enti pubblici produttori di piani urbanistici (o loro strutture tecniche)

- soggetti interessati all'utilizzo della base dati (tra cui rientrano gli enti pubblici produttori di piani urbanistici).

Beneficiari del progetto

Occorre domandarsi a questo punto a chi serve, e a chi potrebbe servire, la formazione di un sistema di catalogazione di piani urbanistici alle varie scale e alla loro connessione con altri archivi informativi in materia di pianificazione, urbanistica, architettura, abitazione, ambiente, quale quella che è consentita dalla connessione con la rete Urbandata.

- Il gruppo di utenti classico è quello delle università: docenti e ricercatori, studenti (“accademia”).

- Quasi senza soluzione di continuità con questo gruppo vi è quello costituito dai professionisti (urbanisti, architetti e ingegneri, geometri, giuristi e avvocati ecc,) che operano nei settori indicati (“professioni”).

- Accanto ai gruppi “accademia” e “professioni” vi è una potenziale utenza molto più ampia costituita dalle persone che sono coinvolte nella formulazione dei piani o semplicemente interessate a conoscere i piani in quanto “utenti della città”. Si tratta di un insieme di soggetti complesso, che comprende chi si occupa pubblicamente dello sviluppo della città (amministratori e politici), chi usa la città a fini economici (proprietari immobiliari, imprese di costruzione), chi usa la città come utente (imprese, cittadini, associazioni).

La cerniera tra il mondo dei produttori di informazione e quello dell’utente “cittadino” è costituito dal sistema degli enti locali, il quale ha nei comuni la sua articolazione di base e nelle province il suo possibile punto di coordinamento. L’inserimento nel progetto di alcune reti locali, attraverso le province, è quindi più di un utile arricchimento della ricerca: è il vettore per una sua finalizzazione ai temi della comunicazione (servizio) e della partecipazione (democrazia).

Per informazioni:
edoardo@iuav.it

Per rendere “competitivo” il nostro povero paese hanno deciso di anticipare alcuni dei più perversi istituti della proposta di legge Lupi accompagnandoli con una fortissima dose di centralismo statale. L’articolo 9 del disegno di legge che accompagna il decreto per la competitività introduce infatti procedure che raggiungono due risultati: scardinare le procedure garantiste ed autonomiste della pianificazione urbanistica, aumentare il peso della grande proprietà immobiliare. Ma ecco in sintesi la legge (allegato il testo dell’articolo 9 presentato in Commissione, e le note ministeriali d’accompagnamento).

Il Governo (e per esso, oggi, il ministro Lunardi), “per promuovere lo sviluppo economico”, individua (con qualche segno di pennarello su una carta geografica, o magari un semplice elenco) “gli ambiti urbani e territoriali di area vasta, strategici e di preminente interesse nazionale, ove attuare un programma di interventi in grado di accrescerne le potenzialità competitive a livello nazionale ed internazionale, con particolare riferimento al sistema europeo delle città”. D’intesa con le regioni interessate. E se le regioni non ci stanno? Il Governo si propone di adottare “procedure sostitutive”. In queste aree i comuni, anche sulla base delle proposte di privati, formulano i programmi d’intervento. Se sono in contrasto con i piani urbanistici, si può derogare con l’accordo di programma. Per attuare gli interventi i comuni, o i soggetti da loro delegati, possono disporre il “trasferimento di diritti edificatori” e possono attribuire “ incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana”. Se mi regali un parco o l’area per una scuola, in cambio di permetto di edificare il doppio o il triplo di quanto sarebbe giusto e necessario.

Ad alcune “aree strategiche” vengono affidati compiti specifici. Così, nell’area Messina-Reggio Calabria il compito affidato ai comuni (o a chi per loro) è quello di prevedere tutto quello che serve per realizzare ilk Ponte sullo Stretto.

L’esigenza dello “sviluppo”, magari “sostenibile”, fornisce la pelle d’agnello sotto la quale camuffare il solito lupo della vecchia, familiare, speculazione immobiliare. Ho rivisto da poco Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi. Le forme sono certamente molto cambiate, la sostanza è la stessa. In più, una dose di centralismo.

Anche per me, come per molti che lo conoscono e ne hanno scritto, di Pietro Ingrao sembra esemplare soprattutto lo stile: il modo in cui esercita, e vive, il difficile mestiere del politico. Pensare a Ingrao significa pensare alla possibilità che la politica sia qualcosa di diverso, di profondamente e radicalmente diverso, dall’immagine corrente della politica (e dei politici) di oggi. Oggi, che la politica è diventata nel migliore dei casi politique politicienne (possiamo tradurre “la politica politicante”), nei peggiori, politica affaristica – e nella media, politica come personale affermazione sociale.

Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta perciò su tre versanti.

Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.

Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani alla fine lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.

E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, ricordo un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; in un angolo del podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando nelle questioni che erano state sollevate, nelle proposte che erano state formulate. Il merito delle cose - al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile – era questo che contava: con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.

Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un'eccezione).

I fatti

Baia Sistiana. Guardando dal mare: a sinistra, un’alta falesia alleggerita da chiazze di macchia mediterranea (nella quale d’autunno spicca il rosso sommàco), percorsa in cima dal Sentiero di Rilke: là dove il poeta, ospite del barone Turn und Taxis, passeggiava. A destra, la lunga bassa costa rocciosa della Costa dei Barbari. Al centro, l’incavo verdeggiante della Baia, occupata alla base dal relitto di un antico albergo austriaco, da qualche costruzione utilitaria, dalla darsena ripiena di imbarcazioni da diporto. Alla destra della Baia, l’ampia ferita della Cava: Duino Aurisina (in sloveno Devin Nabrezina), il comune carsico che s’affaccia al mare con la Baia di Sistiana, è luogo d’escavazioni di calcare fin dai tempi dei romani..

La Baia è il naturale sbocco a mare degli abitanti del Carso e dei suoi borghi, e dei triestini, che d’estate affollano la spiaggetta della Baia e la Costa dei Barbari. La proprietà è tutta di una unica società; anche la piccola porzione del demanio regionale è stata recentemente svenduta ai privati. L’utilizzazione consolidata nelle proposte di tutte le componenti dell’opinione pubblica locale e regionale è quella turistica. Questa utilizzazione era confermata da tutti i piani regolatori vigenti nel comune.

Baia Sistiana è venuta alla ribalta delle cronache nazionali nel 1990, quando un progetto attuativo del PRG fu presentato al Consiglio comunale. Del progetto, redatto da Renzo Piano per la proprietà (allora Finsepol), non piacevano le cubature eccessive, la trasformazione edilizia della Baia, l’altezza delle costruzioni nella Cava, la minaccia di privatizzazione della fruizione del litorale. L’operazione fu bloccata da una campagna di stampa e da un NO all’ultim’ora del ministro Facchiano (Beni culturali). Un ruolo decisivo lo ebbe allora Antonio Jannello, instancabile tessitore di trame per la salvaguardia dei residui brandelli del Belpaese.

Fu redatto un nuovo PRG (alla cui progettazione fui chiamato a collaborare) che ridimensionò fortemente le cubature, previde un sistema di parcheggi a monte e l’eliminazione del traffico lungo la costa, definì le garanzie per la fruizione libera degli spazi balneari. L’obiettivo era quello di promuovere, accanto alla balneazione, un turismo a rapida rotazione d’uso e lunga durata, legato alla convegnistica e ad altre funzioni di profilo internazionale. La prospettiva di Baia Sistiana era inquadrata in una serie di scelte per l’intero territorio comunale che attribuiva il primato alla tutela del paesaggio carsico (la tipica landa del Carso è erosa sia dall’inselvatichimento boschivo che dalle colture), alla difesa delle attività agro-silvo-pastorali dalla pressione della domanda di seconde case dei triestini, alla tutela dell’identità dei borghi carsici e al rilancio del loro ruolo. Il piano fu discusso con le associazioni ambinntalistiche prima della sua adozione ed ebbe da esse valutazioni molto positive

Nel 2003 la polemica è divampata di nuovo, e fino ad oggi non è cessata. Essa esplose allorché furono presentate e discusse il PP attuativo in parziale variante al PRG, e fu reso pubblico dalla proprietà un progetto architettonico che chiariva la prospettiva verso la quale si muove.

La variante, il PP e il connesso progetto preoccupavano per motivi condivisibili e gravi: 1) la modifica delle utilizzazioni consentite nelle nuove costruzioni, che prefiguravano un destino di “villaggio residenziale al mare”: funzionalmente, una periferia balneare di Trieste; 2) la tendenza strisciante verso la privatizzazione della fruizione balneare (altro non significava una “regolamentazione degli accessi” affidata alla proprietà); 3) il livello modestissimo della progettazione architettonica, ispirata a modelli assolutamente inaccettabili (si ricostruisce in vitro un falso stile locale, mai esistito, denominato “istro-veneto”).

Le reazioni molto allarmate delle associazioni ambientaliste, animate da Wilma Diviacchi (purtroppo prematuramente scomparsa), misero in evidenza gravi difetti nelle procedure che condussero a ripetuti annullamenti da parte del Tribunale amministrativo regionale.

Una nuova fase si aperta all’inizio del 2005. È sceso pesantemente in campo il presidente della Regione Friuli – Venezia Giulia, Riccardo Illy, esprimendo il suo aperto sostegno ai proprietari e ai loro progetti: una discesa in campo così plateale da provocare scandalo in chi è rimasto legato al rispetto delle istituzioni del loro ruolo nei confronti dei privati e nelle loro funzioni specifiche: il presidente aveva infatti espresso il suo sostegno a un progetto che il Consiglio comunale competente non aveva ancora discusso. Quasi a corollario di questo intervento le osservazioni dei cittadini e delle associazioni al piano particolareggiato, la cui ignoranza da parte del comune aveva indotto il TAR ad annullare l’approvazione, aveva indotto il sindaco e la giunta regionale a parlare di “mere formalità”.

Una riflessione

Fin qui i fatti. Nella vicenda ho avuto un ruolo di un certo rilievo. Ho contribuito a far esplodere la polemica contro il progetto della Finsepol, firmato da Renzo Piano. Ho collaborato con il comune (sindaci prima Giorgio Depangher, poi Marino Vocci, entrambi di sinistra) nella progettazione del PRG oggi vigente. Sono stato informato dei successivi “slittamenti” che, con interpretazioni e varianti, allontanavano il progetto dalle impostazioni iniziali. Ugualmente sono stato informato dei passi che le associazioni ambientaliste facevano per arrestare lo svilimento del progetto, condividendoli.

Da tempo mi pongo una domanda: come mai si è passati, attraverso piccoli passi nessuno dei quali in contrasto palese con il PRG, a uno snaturamento dell’impostazione di partenza? Ho dato una prima risposta intervenendo su Il Giornale dell’Architettura. Scrivevo che l’esito deludente dell’operazione è dovuto al fatto che non si è mai posta sul tappeto la opzione zero” da parte dell’amministrazione e di tutte le forze politiche e sociali. D’altra parte, il privato giocava in una situazione di monopolio: il Comune poteva trattare con lui e solo con lui. Regione e provincia sono stati latitanti, e anzi la prima di fatto collusa con la proprietà, cui ha svenduto l’unica parte pubblica dell’area.

Il potere formale è certamente nella mani dell’amministrazione pubblica. Ma se questa vuole “fare”, deve necessariamente avvalersi di soggetti privati: soggetti proprietari o soggetti imprenditori. Ma determinate operazioni non sono alla portata di qualunque imprenditore. A Baia Siriana era necessario un imprenditore capace di puntare su un risultato di alto livello qualitativo, d’avanguardia, realmente (per adoperare un termine alla moda) “innovativo”. Occorreva studiare, esplorare, cercare e promuovere nel mercato internazionale correnti di visita legate alla qualità dei servizi offerti. Occorreva investire (e rischiare) nella ricerca di modi nuovi di offrire i servizi di un territorio di pregio eccezionale. Un’operazione capitalistica: ma di un capitalismo serio, che punta sul profitto ottenibile dalla qualità del prodotto-servizio offerto, non dalla rendita di posizione. Nei fatti, questo imprenditore non s’è trovato. Chi possedeva il tesoro collettivo della Baia e della Cava ha preferito comportarsi da palazzinaro: progettare per vendere lotti edificabili.

Temo che sia così non solo in quel caso, ma in tutt’Italia. Impresa capitalistica e proprietà immobiliare sono indissolubilmente legate. Le facili rendite che si possono ottenere sfruttando la seconda scoraggia dall’investire nella prima. La ragione prima è quella storica: sta nel modo in cui è stata fatta l’unità d’Italia, attraverso un’alleanza tra borghesia capitalistica e aristocrazia fondiaria nella quale “il morto ha afferrato il vivo”. Gli interessi capitalistici hanno potuto svilupparsi solo lasciandosi condizionare da quelli fondiari, utilizzando il sostegno statale per compensare la propria debolezza. Più tardi, si sono strettamente intrecciati con quelli immobiliari. La percezione di rendite (immobiliari e finanziarie) ha coperto i livelli non competitivi del profitto.

Anche nei decenni più vicini a noi nessuna forza politica (salvo, sul finire degli anni Sessanta, la sinistra comunista e socialista) si è posta il problema di sconfiggere la prevalenza della rendita sul terreno della sua formazione: il governo della città e del territorio. Nessuna forza sociale (se si esclude qualche barlume nei sindacati operai e qualche flebile tentativo del mondo dell’industria avanzata, in quella medesima stagione) ha posto con forza e continuità questo problema, proponendo gli strumenti adeguati.

È anche in questo la radice (una delle radici) dell’attuale decadenza dell’industria italiana: le risorse sono affluite nei settori della rendita, dove non erano necessarie né innovazione né accumulazione, poiché non era necessaria competizione. Ed è certamente in questo la ragione principale della svendita delle qualità del territorio che i governanti promuovono (a livello nazionale, regionale e locale) ogni volta che ci si pone il problema dello “sviluppo”.

Che fare?

Che fare in una situazione siffatta? La soluzione razionale, solidamente ancorata alla tradizione dell’urbanistica moderna e ai fondamenti del pensiero liberale: sarebbe quella che la comunità locale divenisse di nuovo, come suggeriva Hans Bernoulli, “padrona del proprio suolo”. Concretamente, se i costi dell’acquisizione pubblica delle aree fossero coerenti con le finanze comunali.

Se la comunità fosse, o diventasse, padrona del proprio suolo allora essa potrebbe individuare, o aspettare, l’imprenditore giusto per realizzare il “suo” progetto di utilizzazione. E nel frattempo, potrebbe svolgere quei compiti minimali di sorveglianza, manutenzione, messa in sicurezza a rinaturalizzazione delle aree degradate dal saccheggio di cava. Oggi, che perfino gli istituti storici degli urbanisti e le loro accademie relegano le acquisizioni pubbliche di aree nell’archivio dei ferrivecchi, oggi che la mano pubblica si sbarazza (lo abbiamo visto proprio a Baia Sistiana) dei loro patrimoni, questa via non sembra proprio percorribile. Ci hanno consegnati, mano e piedi legati, alla privata proprietà immobiliare.

Così stando le cose, non credo neppure che la pianificazione urbanistica possa essere così poderosamente trasformata dalle pratiche concertative e strategiche, dall’abbandono del government per la governance, da poter porre al proprio interno l’attivazione di particolari capacità imprenditoriali; anzi, lo slittamento dalla pianificazione verso la valutazione rende l’urbanista più vicino allo spettatore che all’attore. Allora forse l’unica soluzione possibile è quella, tutta politica, di porre la “opzione zero” tra le possibilità della politica urbanistica

A Baia Sistiana, si avrebbe dovuto avere l’acume politico di prendere atto dell’’incapacità dell’imprenditoria italiana (o almeno di quella sua parte legata alla masima utilizzazione delle rendite) ad affrontare la questione nei termini desiderati. Avrebbe dovuto dimostrare questo acume politico certo la comunità locale, ma soprattutto quei livelli di governo che, per essere teoricamente custodi di interessi territoriali più vasti, ed essendo teoricamente più distanti, e “superiori”, rispetto agli interessi economici locali. Nello specifico, dato anche il ruolo subalterno e marginale che viene in quella parte d’Italia lasciato alla Provincia, il necessario colpo d’ala avrebbe dovuto venire dalla Regione: erede, tra l’altro di un passato, mai formalmente rinnegato, di buona custodia delle qualità del territorio e della sua identità.

L’insegnamento

L’insegnamento che viene da Baia Sistiana ha un valore generale. Esso può essere espresso in tre punti.

1. La rinuncia alla battaglia per conservare, e soprattutto applicare nel concreto, la capacità di espropriare le aree quando ciò è necessario è stata un errore grave che la cultura urbanistica dominante (stimolata dalla cultura politica dominante) ha perpetrato.

2. Nelle aree la cui qualità può essere conservata solo con un progetto di trasformazione intelligente e “innovativo”, se l’intelligenza e l’innovazione necessarie non si manifestano occorre avere il coraggio di dire: meglio aspettare tempi migliori che distruggere quello che c’è

3. Non è detto che “chi è più vicino al popolo” abbia sempre ragione. Esistono interessi generali, la cui tutela spetta strutturalmente a chi rappresenta comunità più vaste. Ruolo della Regione non è quello di sommare le domande (e le miopie) localistiche, ma di vedere più grande e più lontano. In Friuli-Venezia Giulia non ci si è riusciti (altrove, per fortuna, si).

Obiettivo: proteggere le residue aree non urbanizzate, e in particolare quelle che conservano vistosi segni del rapporto tra lavoro e natura – i paesaggi rurali, i paesaggi forestali, i lacerti di natura intatta – dall’invasione immotivata e ingiustificata delle trasformazioni che quei segni hanno cancellato da gran parte del territorio del Belpaese. Un vincolo di immodificabilità del residuo paesaggio rurale: un vincolo di salvaguardia di una specie in via di estinzione.

Obiettivo forte, ma essenziale per conservare alle generazioni future la nostra civiltà. Occorreva trovare un ancoraggio giuridico altrettanto forte: l’abbiamo trovato nel decreto Galasso, poi tradotto nella legge 431/1985, infine inserito nel Codice Urbani (d. lgs 42/2004).

Nel decreto Galasso, poi nella legge 431, oggi nel 1° primo comma dell’articolo 142 del decreto legislativo del 2004, la collettività nazionale ha inserito - fin dal 1985 - l’elenco dei beni (anzi, delle categorie di beni) che si ritiene debbano essere sottoposti a tutela: i corsi d’acqua e le coste, i monti e i boschi, i ghiacciai e le aree archeologiche.

Noi proponiamo che in questa lista di categorie venga inserito anche “il territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agrosilvopastorale”. Per questo territorio “ il piano paesaggistico prevede obiettivi e strumenti per la conservazione e il restauro del paesaggio agrario e non urbanizzato": queste sono le trasformazioni primarie cui la tutela è finalizzata

La legge (un testo snello, costituito da due soli articoli) stabilisce che l’individuazione specifica del territorio non urbanizzato sia effettuata dai “comuni, d'intesa con la competente soprintendenza, […] nell'ambito dei rispettivi strumenti di pianificazione”. E fino all’individuazione sono considerati soggette al vincolo tutte le zone agricole definite dagli strumenti di pianificazione vigenti.

Poichè la proposta non vuole essere estremistica ma realistica, si prevede che i nuovi strumenti urbanistici possano prevedere l’utilizzazione del territorio così individuato “per nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali”, ma ciò solo a due condizioni: che ci sia l’intesa con la competente soprintendenza, e che “ non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture o attrezzature esistenti”.

Il secondo articolo della proposta definisce i “principi fondamentali in materia di governo del territorio con riferimento al territorio non urbanizzato” che la legislazione regionale deve applicare. Tra questi voglio sottolineare i seguenti:

- “gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali”

- “la demolizione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria”, norma già applicata dalla Regione Toscana,

- la possibilità di stabilire “ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, relativamente al territorio non urbanizzato, o a sue definite articolazioni, per ragioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente”

Per comprendere la legge, e in particolare l’essenzialità dell’ancoraggio alla lista delle “categorie di beni”, occorre ricordare il percorso culturale e politico che ha condotto al Codice del paesaggio.

Nel 1968 due sentenze costituzionali turbarono la coscienza degli urbanisti e dell’opinione pubblica, in quegli anni ben più vigile di oggi: la 55 e la 56. La prima dichiarava l’incostituzionalità dei vincoli urbanistici preordinati agli espropri (e quindi dei vincoli posti dai piani per gli spazi pubblici e d’uso pubblico), perché discrezionali e di incerta indennizzabilità. La seconda dichiarava la costituzionalità di una legge della provincia di Bolzano che attribuiva particolari limitazioni all’insieme dei beni vincolati dalla legge del 1939i.

La Corte costituzionale precisò, nelle sentenze e in sue successive letture interpretative, la portata della decisione e inviò al legislatore un messaggio chiaro ed esplicito: è legittimo vincolare le utilizzazioni, e la stessa appartenenza, di determinate categorie di beni, a condizione – appunto – che non si tratti di singoli beni, ma di intere categorie di beni, che svolgano una funzione riconosciuta d’interesse generale e che il legislatore definisca ope legis vincolate. In questo caso l’azione di individuazione del singolo bene a quella determinata categoria, e quindi l’apposizione del vincolo sul singolo bene, è un atto meramente amministrativo ed esecutivo d’una volontà chiaramente espresso dal legislatore.

La Corte costituzionale ha ribadito questa sua dottrina in tutte le successive sentenze che ha emesso in relazione a un infinità di casi. Non solo, ma ha ulteriormente precisato che la tutela dei beni culturali non si esaurisce nell’azione a livello nazionale, ma deve completarsi in un’opera di “assidua ricognizione”, che si sviluppa a tutte le scale da parte delle diverse componenti del sistema del potere pubblico democratico. Poteri elettivi nazionali, regionali, provinciali e comunali sono tutti articolazioni di un unico Stato, strumenti di un’unica nazione, tutti ugualmente impegnati all’individuazione e alla tutela dei beni appartenenti alle categorie stabilite dalla legislazione.

La 431 del 1985 s’inserisce pienamente in questa linea della giurisprudenza costituzionale. Giuseppe Galasso (di cui stamattina la Presidente ha giustamente ricordato i meriti) già nel suo decreto che apre la strada alla legge sviluppa l’intuizione di Benedetto Croce, e vincola le categorie di beni che esprimono l’identità del paesaggio italiano, i suoi lineamenti percepibili a scala dell’intero paese.

La legge 431 introduce un’ulteriore rilevante innovazione: supera la separazione tra tutela e pianificazione ordinaria (che il legislatore del 1939/1942 non era riuscito a superare), invitando a conferire “specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” a tutti gli strumenti di pianificazione ordinaria”. Mi sembra che si possa dire che con la 431/1985 si introduce la tutela del paesaggio tra gli obiettivi di un lavoro congiunto tra sistema delle autonomie (la pianificazione ordinaria) e organi nazionali preposti alla tutela nazionale d’un interesse di rilevanza nazionale.

È in questa linea culturale che si inserisce dunque la proposta che il gruppo di lavoro di Italia Nostra presenta oggi, e che vi ho sinteticamente descritta. Qualcuno stamattina mi ha chiesto se sono ottimista o pessimista sulla possibilità che questa proposta diventi legge.

Se guardo alle tendenze generali in atto nel nostro paese dovrei dire che nutro il pessimismo implicito in ogni azione che sia controcorrente.

Noi infatti proponiamo di tutelare, nell’interesse pubblico un bene che è certamente interesse di tutte le donne e gli uomini, di oggi e di domani, conservare e migliorare nella sua qualità. Proponiamo quindi di allargare l’area dei beni, dei servizi, delle condizioni di godimento soggetti al primato dell’interesse pubblico. Proponiamo di subordinare a questo interesse quello economico dello sfruttamento immediato. Proponiamo di guardare ai beni, non alle merci. E “in un mondo che fa della cultura una merce”, come ha scritto Desideria Pasolini, questa nostra volontà è certamente controcorrente.

Basta pensare alle dismissioni dei patrimoni pubblici, ai condoni edilizi e urbanistici, all’indebolimento del ruolo degli organismi di tutela.

Basta pensare alla finanziaria che ha eliminato la finalizzazione degli oneri di urbanizzazione alla realizzazione delle opere essenziali alla vita civile delle comunità.

Basta pensare – voglio qui sollevare un preoccupato allarme – alla legge per il governo del territorio, oggi in lento e sicuro cammino alla Camera dei deputati, secondo un percorso reso agevole dalla complicità di fatto degli stessi partiti d’opposizione.

È una legge – se vedesse la luce – che cancellerebbe molti decenni di riforme sostanziali.

Cancellerebbe quella saldatura tra tutela del paesaggio e dei beni culturali e pianificazione del territorio, di cui ho dianzi parlato.

Cancellerebbe (l’ha scritto l’altro giorno, plaudendo,Il Sole – 24 ore) gli standard urbanistici; cancellerebbe quell’obbligo di riservare determinate quantità di spazi pubblici per il verde, le scuole, la sanità, la ricreazione, lo sport e le altre esigenze sociali. Quegli standard urbanistici che furono il prodotto della collaborazione e della fatica comune di intellettuali (ricordo il contributo di Mario Ghio e Vittoria Calzolari), di organizzazioni sindacali, del movimento associativo e di quello femminile, delle associazioni culturali, di forze politiche una volta aperte ai problemi e alle speranze della società.

Cancellerebbe infine il primato del pubblico nel governo del territorio, affidando al motore dell’interesse privato – e diciamolo, degli interessi immobiliari – le stesse decisioni della pianificazioni, contraddicendo così un principio che non la rivoluzione d’ottobre ha introdotto nella prassi delle collettività moderne, ma l’esigenza del sistema economico-sociale basato sui principi delle rivoluzioni borghesi e dell’economia capitalistica di conferire ordine, funzionalità e bellezza ad aspetti della vita collettiva che il mercato, da solo, si era rivelato incapace di soddisfare.

Se guardo a quanto sta accadendo nell’Italia ufficiale dovrei quindi essere pessimista. Ma se ascolto i segnali che ci vengono dal paese credo di poter nutrire un ragionevole ottimismo. Voglio assumere come simboli della speranza, e stimoli a un ragionevole ottimismo, due messaggi che ho udito qui: il messaggio del presidente Carlo Azeglio Ciampi, che ci ha ricordato il valore innovativo della conservazione, e l’invito del progetto MACRICO, che ci sollecita a impegnarci anche personalmente per la salvaguardia di valori comuni.

Oggi , 16 dicembre, il Comitato dei ministri presso il Consiglio d'Europa tornerà a esaminare la vicenda giudiziaria di Paolo Dorigo, condannato a 13 anni e 6 mesi di carcere per un attentato incruento alla base Nato di Aviano e per una rapina, reati di cui fu accusato dalla confidenza di un detenuto, che non testimoniò in aula al dibattimento. Dorigo, ha già scontato oltre 11 anni di pena, si è sempre proclamato innocente ed è reduce da due lunghi scioperi della fame per sollecitare la revisione del processo ed esami medici che ritiene indispensabili. Nell'aprile del 1999, dopo una decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo, il Comitato dei ministri stabilì che nel suo caso vi furono «violazioni del diritto a un equo processo». Altre risoluzioni sono state poi adottate periodicamente dallo stesso organismo europeo, che, l'ultima volta il 10 febbraio scorso, «invita immediatamente le autorità italiane ad assicurare nel più breve lasso di tempo l'adozione di misure che permettano di cancellare le conseguenze della violazione». Quella di Dorigo è una situazione esemplare e paradossale che si cerca di fare sprofondare nel silenzio. Anche l'appello lanciato il 3 dicembre da 26 autorevoli «testimoni vigili», tra i quali Abbado, Biagi, Cardini, Elia, Ingrao, Luzi, Ronconi, Saramago e Zanzotto, è caduto nel vuoto. Sembra che l'Ue e le sue istituzioni siano considerate importanti solo quando risultano utili al proprio tornaconto.

C’è una cosa che bisogna sempre ricordare quando si parla di urbanistica. L’urbanistica moderna – l’urbanistica della società capitalistico-borghese, della società ad economia capitalistica e a regime politico-sociale democratico rappresentativo – è nata per compiere uno specifico servizio, per svolgere una specifica missione: il servizio e la missione di risolvere una serie di problemi di organizzazione della città e del territorio che le forze del mercato, le leggi della spontaneità e dell’iniziativa privata, di per sé non erano capaci di risolvere.

Non a caso il primo piano regolatore moderno che le storie dell’urbanistica ricordano è il piano di New York del 1811: proprio perché quel piano resprime in modo limpido (nella sua genesi, più che nella sua forma) questa ragione dell’urbanistica: anzi, della pianificazione urbanistica. Di un’urbanistica cioè che non vuole essere solo descrizione, racconto, analisi, ma vuole diventare azione: azione di regolazione della città e del territorio perché le cittadine e i cittadini possano vivere meglio, perché le aziende possano produrre meglio e vendere più facilmente.

Se ricordiamo questo (e credo che dobbiamo ricordarlo sempre quando parliamo di urbanistica) allora ci vengono alla mente due domande: perché l’urbanistica è sempre stata considerata, in Italia, una “materia” di sinistra? E perché oggi in Italia anche la sinistra sembra aver abbandonato l’urbanistica? Non è difficile – come a molti di voi è subito venuto in mente – rispondere alla seconda domanda: in molte cose la sinistra, parte larga della sinistra, ha abbandonato le proprie tradizionali parole d’ordine, i propri tradizionali principi. Ma a me interessa di è più, e comunque preliminarmente, rispondere alla prima domanda: perché in Italia l’urbanistica è sempre stata di sinistra?

Per comprenderlo bisogna ricordare il rapporto che c’è tra tre componenti del sistema sociale. Il tempo mi obbliga a essere schematico e approssimativo. Semplificando al massimo dirò che queste tre componenti sono la cittadinanza, l’impresa, la proprietà immobiliare. Continuando a essere schematico, possiamo far corrispondere queste tre figure sociali alle tre forme classiche di percezione del reddito: il salario, il profitto, la rendita.

Queste tre figure hanno visioni e interessi molto diversi a proposito di ciò che vogliono dalla città.

Il cittadino vuole abitare meglio, muoversi meglio, avere un livello il più alto possibile di vivibilità.

L’impresa vuole il massimo possibile di funzionalità: che le merci (ivi compresa la forza lavoro) arrivino il più velocemente possibile alla fabbrica o alla loro destinazione, che il prezzo delle merci che comprano (compresa la forza lavoro) siano i più bassi possibili (e quindi che le famiglie degli operai spendano poco per abitare, mangiare, vestirsi) e così via. Il terzo soggetto, la proprietà immobiliare, vuole invece che la sua proprietà ottenga il massimo possibile di valore (valore di scambio).

E’ evidente che - in questo schema logico – gli interessi di quello che abbiamo definito cittadino e quella che abbiamo definito azienda sono confluenti, mentre sono in contrasto con quelli del terzo soggetto, il proprietario immobiliare.

Ora il fatto è che in Italia l’alleanza che ha battuto l’ancienregime, l’alleanza che ha sconfitto le monarchie e il papato e ha fondato in Italia uno Stato unitario, non è stata l’alleanza tra borghesia e proletariato, ma è stata quella tra la borghesia capitalistica e le forze sociali che rappresentavano la proprietà fondiaria. Quindi, vedendo le cose dall’alto dei nostri giorni, possiamo dire che l’Unità d’Italia è stata fatta a spese della vivibilità e della funzionalità della città, e a spese delle cittadine e dei cittadini.

Così, quando in Italia la sinistra ha fatto proprie, sul terreno politico, le parole d’ordine, i tempi, le proposte, le pratiche della buona urbanistica (penso all’e “regioni rosse” negli anni Sessanta e Settanta, penso alle battaglie urbanistiche di Aldo Natoli nei primi anni Sessanta, all’intervento alla Camera di Mario Alicata dopo Agrigento nel 1966 – e giù giù fino all’intervento di Achille Occhetto contro il pasticcio della Fiat-Fondiaria a Firenze nel 1989) - quando la sinistra ha praticato la buona urbanistica non ha fatto altro che “raccogliere le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango”.

Per comprendere il carattere e la qualità culturale e politica delle scelte urbanistiche il ruolo che viene assegnato alla proprietà immobiliare è una cartina di tornasole: è un indicatore efficacissimo della qualità della proposta. E allora dobbiamo dire che cui a Verona, che nel Veneto, che nell’Italia di oggi andiamo malissimo. Vorrei dirvi due parole sull’Italia di oggi.

Alla Camera, nel chiuso della Commissione parlamentare, sta procedendo (stancamente, ma tenacemente) la discussione del disegno di legge in materia di “governo del territorio”. Questa discussione vede la sostanziale convergenza delle proposte della “Casa delle libertà” e di quelle della parte maggioritaria del centro-sinistra: sostanzialmente, del disegno di legge dell’on. Lupi, di Forza Italia, e di quello dell’on. Mantini, della Margherita.

A me non preoccupa tanto la convergenza in sé, quanto il contenuto della convergenza. E il contenuto sta proprio nel sostanziale accordo sul nuovo ruolo da attribuire alla proprietà immobiliare nelle decisioni sul territorio.

La scelta più significativa è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati”.

Chi sono i “soggetti interessati”? Siamo in Italia, e sappiamo benissimo che i “soggetti interessati” nella pianificazione non sono i cittadini, non sono le associazioni ambientaliste, non sono i sindacati, ma sono i proprietari immobiliari. Sono loro che partecipano in prima persona alle scelte: dai tempi del “terzo sacco si Roma”, con le giunte democristiane fustigate dalla stampa liberale e democratica negli anni Cinquanta e Sessanta, ai mille episodi di Tangentopoli, a tutte le pratiche attivate negli ultimi dieci anni con i “progetti integrati”, i “programmi complessi”, e programmi complessi intergrati e innovativi” e così via. Fino a ieri la loro partecipazione era sottobanco, era un “peccato” che si cercava di nascondere, oggi sono riconosciuti come i motori della pianificazione urbanistica.

Nella concreta situazione italiana, le proposte quelle quali si sta trovando un consenso in Parlamento è questo: ciò l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.

Naturalmente oggi gli interessi immobiliari non sono più rappresentati dagli eredi dei grandi feudatari (come era, ad esempio, ai tempi del sacco di Roma denunciato dal Mondo e dall’Espresso negli anni 50 e 60) ma le banche, le industrie decotte, i grandi gruppi finanziari che arricchiscono più con le operazioni finanziarie e immobiliari che con le attività imprenditive. Possiamo dire che i nuovi interessi immobiliari sono in larga misura il prodotto del disfacimento del nostro sistema industriale.

Qui nel Veneto non si è avuto bisogno di una legge nazionale. L’articolo 6 della nuova legge urbanistica della Regione Veneto invita infatti le amministrazioni ad “assumere nella pianificazione proposte di progetti e iniziative di rilevante interesse pubblico”, e questo accordo “costituisce parte integrante dello strumento di pianificazione cui accede”.

Intendiamoci. Negare l’impostazione del rapporto pubblico/privato sotteso all’impostazione della Casa delle libertà non significa affatto negare la “contrattazione” (quella esplicita, non quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). Essa fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.

Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno di avere l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e magari contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?

E’ un sistema, quello della pianificazione, che funziona bene? Certo che no. Da molti decenni si propongono le modifiche necessarie. Ma i risultati sono stati raggiunti solo in parte molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire la destra sul suo terreno: senza tener conto del fatto che per la destra italiana l’obiettivo non è lo sviluppo dell’impresa, della produzione industriale di merci e di servizi, ma è la valorizzazione immobiliare, la rendita, l’accrescimento dei patrimoni che danno ricchezza solo a chi ne è proprietario, ma impoveriscono la collettività a la nazione.

Gli interventi che ascolteremo ci diranno in che modo qui a Verona si stia camminando su questa strada, se vi sono anticorpi che consentano di andare in direzioni diverse o che iniziative occorre prendere per ottenere che ci si incammini per strade diverse . più moderne, più europee, più vicine alle esigenze delle cittadine e dei cittadini di oggi e di domani.

Non sarebbe male che si costituisse un osservatorio che informi e documenti su come si sta trasformando la città, su come i diversi interessi (quelli delle cittadine e dei cittadini, quelli delle imprese, quelli della proprietà immobiliare) siano serviti dagli strumenti urbanistici che si stanno predisponendo. Come fanno da alcuni anni a Bologna, per esempio, gli urbanisti e i cittadini riuniti nella Compagnia dei Celestini.

E non sarebbe male che questi osservatori – o questi punti di osservazione – si mettessero in rete tra loro. So per esempio che a Padova si sta discutendo su alcune scelte di apportare varianti al PRG, o addirittura di autorizzare pesanti interventi in deroga, che consentono 50mila mc di edificabilità distruggendo uno dei residui “cunei verdi” del sistema stellare immaginato da Luigi Piccinato. E certo eventi analoghi stanno avvenendo anche nelle altre città.

Non sarebbe male, infine, che le forze politiche mettessero di nuovo al centro delle loro proposte e dei loro programmi la questione del governo del territorio: non per rincorrere su questo terreno quegli stessi interessi parassitari premiati dalla destra, ma per combatterli in nome di una città più giusta e più amica. Il giornale di RC, Liberazione, ha da tempo una lettera di alcuni assessori di Rifondazione comunista che propongono di aprire un dibattito vasto su questo tema. Io spero che Piero Sansonetti troverà presto un po’ di spazio per avviare questo dibattito. Sarebbe ora che la sinistra ricominciasse a scoprire che le questioni delle quali discutiamo oggi non sono questioni specialistiche, ma sono questioni rilevanti per tutti.

Caro Presidente,

un lettore di Eddyburg mi ha inviato l’articolo di Pierluigi Properzi, che ti allego. Sono veramente indignato. Mi dicono che il Properzi è stato anche vicepresidente dell’INU, e che è ancora membro del gruppo dirigente.

Come sai è da tempo che non condivido la linea dell’INU. Devo dire che le ragioni di fondo erano già presenti quando mi dimisi da direttore di Urbanistica informazioni, e sono state confermate in tutta la gestione successiva alla sconfitta della mia posizione al congresso di Milano. Speravo che con la tua presidenza le cose sarebbero cambiate, ma così non è stato. Anzi, le nostre recenti polemiche dimostrano che le differenze si sono consolidate.

Ciò non mi avrebbe sollecitato a un passo per me così doloroso come quello che sto per compiere, perché la differenza delle posizioni è il sale della crescita culturale, dei singoli e delle comunità. Ma che un membro del gruppo dirigente dell’INU si permetta di insultare una persona come De Lucia è veramente qualcosa che non riesco a sopportare. Significa, tra l’altro, che l’INU ha perso la memoria della propria storia, quindi della propria natura.

La consapevolezza di ciò – come la presenza nell’INU di tante persone cui sono legato da vincoli di stima e di amicizia - mi rende molto amaro, caro Paolo, quanto sto per fare. Ti chiedo infatti di comunicare al Consiglio direttivo, perché ne prenda atto, le mie dimissioni da appartenente all’INU e alle strutture delle quali l’Istituto mi ha designato membro.

I film che abbiamo visto, nella postazione fuori dalla sala e qui dentro, ci danno molti elementi per comprendere un momento della nostra storia che è stato decisivo: la fase della ricostruzione del paese dopo la fine della guerra e la sconfitta del nazismo e del fascismo.

Molti elementi, non tutti. Alcuni li dobbiamo aggiungere noi, utilizzando qualcosa che abbiamo appreso dai libri e dai giornali e – i più vecchi di noi - la memoria personale.

Abbiamo visto - nella pellicola “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiata da Carlo Doglio e girata per la regia di Nicolò Ferrari - qual’era la situazione di miseria e di arretratezza del nostro paese, dopo la guerra e – soprattutto – dopo il ventennio fascista.

Le immagini e le parole sulle campagne, sul Mezzogiorno, sui paesi arroccati sulle montagne e sulle colline o dispersi nei latifondi e sul loro isolamento e il loro abbandono, sulla mancanza d’acqua in vaste zone del paese, sui metodi arcaici dell’agricoltura dove uomo e animale quasi si scambiano i ruoli – tutto questo ce lo hanno raccontato.

Abbiamo visto la complessità e l’impegno del grande sforzo di ricostruire su basi diverse – modernizzando ma senza rompere il tessuto tradizionale di solidarietà sociale – un paese diventato vecchio, e dissanguato dai conati imperialisti del regime di quel tempo. Le immagini e le parole sull’esperienza dei nuovi borghi rurali della Basilicata (in primo luogo la Martella) e quelle sulla riforma agraria, ne hanno dato immagini ed episodi.

Non abbiamo visto però, se non marginalmente, il motore di quella tentativo di cambiare l’Italia, riscattando dalla miseria, dall’abbandono, dalla sete, dall’ignoranza, dalla sottoccupazione endemica masse sterminate di abitanti delle campagne, delle zone interne, del Sud.

Non abbiamo visto l’epopea dell’impegno collettivo - immane, generoso, spesso punito nel sangue - delle lotte sindacali e contadine: l’impegno dell’ intero movimento sindacale e operaio italiano.

Un impegno unitario, pienamente nazionale, teso a liberare il Mezzogiorno e le campagne dall’arretratezza e dalla miseria.

Un impegno unitario e nazionale che trovò la sua espressione - più che il suo simbolo - nel fatto che un uomo del mondo bracciantile del Sud, un uomo di Cerignola, in terra di Puglia, Giuseppe Di Vittorio, diventasse negli anni difficili del dopoguerra e della ricostruzione il più grande leader dell’intero movimento sindacale italiano.

Ma si sa, dodici minuti di pellicola non possono raccontare tutto. Io però voglio sottolineare il nesso tra

- processo di riforma (di riforme strutturali, quali erano quelle per cui si lottava allora, non di riforme elettorali e istituzionali, quali quelle di cui sciaguratamente ci si limita a parlare oggi) - tra processo di riforma e processo di rinnovamento delle basi della società da un lato,

- e movimenti e lotte di popolo dall’altro: movimenti e lotte guidati da una politica che era tesa, allora, a incidere sui meccanismi reali della società, e non solo sul gioco superficiale dei poteri.

Quel nesso che del resto è perfettamente individuato e sentito da Carlo Doglio – il generoso sociologo bolognese d’adozione, apostolo del riscatto della “povera gente” attraverso l’intreccio tra pratiche sociali e pratiche urbanistiche – negli ultimi fotogrammi del film.

Doglio individua con molta precisione il nocciolo dei valori che la storia sociale ha depositato nella città e che non devono essere perduti, dei valori che nella città moderna (anche quella disegnata con le migliori intenzioni) rischiano invece d’essere smarriti.

Avete visto le immagini dei casermoni anonimi e tristi, dei quartieri recintati e chiusi, degli insediamenti nei quali i bambini venuti in città dalle campagne non sanno dove giocare. E avete visto, per converso, come quel popolo, quei cittadini vivessero prima nei paesi “poveri ma accoglienti” – dice il film - , dove le piazze, gli spazi pubblici erano i luoghi nei quali la comunità si riconosceva come tale, e l’uomo si sentiva parte di una società.

Insomma, il ruolo degli spazi pubblici come vera cerniera tra l’ uomo sociale e la città umana Carlo Doglio l’aveva colta quasi cinquant’anni prima della Compagnia dei Celestini.

Alcune immagini mi hanno particolarmente colpito. Nei nuovi borghi della riforma incompiuta gli uomini, la sera, in assenza di spazi comuni, prendono il cavallo o la motoretta e vanno al vecchio paese, dove trovano gli amici, l’osteria – e magari la casa del popolo. E nel borgo le donne rimangono sole: gli spazi comuni sono lontano dalle abitazioni, e le donne rimangono nella loro solitudine casalinga.

Le donne, la condizione delle donne: accorgersi di questa servitù e di questa esigenza di riscatto in quegli anni significava davvero saper guardare bene addentro alla società del tempo e ai suoi disagi, e ben avanti nel tempo.

Sono dovuti passare quasi tre lustri prima che la consapevolezza evocata da Doglio diventasse norma e strumento. Mi riferisco al decreto per gli standard del 1968 che impose di riservare, in tutti i piani urbanistici, determinate quantità di spazi pubblici e d’uso pubblico in ragione del numero dei cittadini previsti.

E poiché parliamo di questo, di quella regola e di quello strumento che noi tecnici chiamiamo gli standard urbanistici – e poiché poi ho sottolineato il ruolo delle forze sociali, della spinta del popolo organizzato, per ottenere i cambiamenti nella società e nella città, voglio parlarvi di un libriccino che ho riscoperto qualche giorno fa. E’ una storia della quale i film di De Carlo e Doglio non potevano dar conto, perché è avvenuta dopo: sebbene – l’ho appena detto – nei loro lavori ce n’erano i germi e – per così dire – l’attesa.

Il libriccino che ho ritrovato raccoglie gli atti di un convegno sul tema “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico”, organizzato dall’UDI (Unione Donne Italiane), a Roma, il 21-22 marzo 1964. Di quel libriccino, stampato ma fuori commercio e fuori dalle biblioteche universitarie, mi hanno colpito due cose che hanno a che fare con questa manifestazione.

La prima: quattro anni prima che gli urbanisti riuscissero a far diventare legge dello Stato la loro richiesta che anche in Italia - come negli altri paesi europei – ci fossero aree in misura adeguata per le esigenze della collettività (asili nido e scuole, campi sportivi e palestre, biblioteche pubbliche e ambulatori, piazze e giardini), quattro anni primi una grande organizzazione di massa aveva organizzato e svolto una vasta campagna di mobilitazione dell’opinione pubblica, aveva raccolto migliaia di firme in calce a una proposta di legge d’iniziativa popolare, e aveva posto al centro della sua iniziativa un convegno di studi. Quel lavoro ebbe uno sbocco, se quattro anni dopo la rivendicazione di più spazi per le cittadine e i cittadini diventò legge.

(E’ vero, l’elemento scatenante perché si arrivasse alla “legge ponte urbanistica” e al decreto sugli standard fu la frana di Agrigento e lo scandalo che quell’evento rivelò. Furono provvedimenti dettati dall’emergenza. Ma una volta tanto il movimento popolare che si era determinato indusse il legislatore a rispondere all’emergenza con un intervento strutturale).

La seconda cosa che in quel libricino mi ha colpito. A quel convegno due delle quattro relazioni fondamentali furono svolte da due urbanisti già allora famosi – due uomini cui l’urbanistica italiana deve moltissimo, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti.

Due figure di rilievo, nelle cui vite l’attività professionale e l’attività politica si erano sempre strettamente intrecciate, ed entrambe avevano alimentato un loro ruolo importante nell’attività di direzione culturale – in particolare, nel’Istituto Nazionale di Urbanistica di cui Astengo era il portavoce e Detti divenne il Presidente in anni difficili.

Non era la concertazione con gli interessi forti che cercavano allora gli urbanisti.

Non era la pretesa di far sedere gli interessi immobiliari al tavolo delle decisioni che stimolava gli urbanisti a cercare nuove soluzioni legislative.

Non era lo sforzo di perequare gli interessi dei proprietari fondiari che li affaticava.

Ciò che invece li impegnava

- era lo sforzo di soddisfare le esigenze della vita sociale delle donne e degli uomini, di dare risposta alle domande che salivano dai settori avanzati del popolo,

- era la ricerca di soluzioni che, nell’organizzazione della città, riducessero la sperequazione – quella sì ingiusta, e da assumere come avversario! – tra chi ha un’area e diventa straricco se ottiene di edificarla, e chi – come tante donne, tanti bambini, tanti uomini, come la Compagnia dei Celestini nel libr di Benni – cerca uno spazio per giocare, per crescere, per diventare comunità.

Ho parlato fino adesso soprattutto di uno dei film che abbiamo visto: quello intitolato “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiato da Carlo Doglio e girato sotto la regia di Nicolò Ferrari. E ripensando al titolo mi colpisce – mi sembra tanto lontano dall’oggi – che urbanistica significava, per quegli uomini, cose un po’ diverse da quello che sembra oggi.

Significava occuparsi

- delle trasformazioni economiche e sociali del paese,

- dei diritti concreti delle masse diseredate,

- del benessere dei lavoratori e delle componenti più deboli della popolazione: le donne, i bambini, i contadini emigrati nella città, gli abitanti dei tuguri e delle baraccopoli – di quei campi di concentramento nelle lontane periferie delle città che ci ricordano quelli dove, da decine di anni, vivono sull’altra sponda del Mediterraneo centinaia di migliaia di palestinesi.

E’ una faccia del paese, e della storia italiana di quegli anni, che Doglio richiama alla nostra memoria: la faccia della sorgente (il Mezzogiorno, i campi, le zone interne collinari e montuose) di quella grande, e impetuosa, e largamente sregolata trasformazione dell’Italia, da paese prevalentemente agricolo e rurale, a paese prevalentemente industriale e cittadino.

Una trasformazione largamente sregolata, che provocò danni e disastri - umani sociali economici e territoriali - di cui molte generazioni pagheranno il prezzo.

Perché non fu raccolta, in quegli anni, l’esortazione che – nell’interesse comune – veniva da quei brevi messaggi cinematografici: si ricostruisca il paese mediante la pianificazione. Il film di Doglio si conclude proprio con queste parole: “La ricostruzione diventi pianificazione urbanistica, strumento di tutti e non arma di pochi”.

L’altro film che abbiamo visto or ora anche in questa sala, quello dal titolo “La città degli uomini”, sceneggiato da Giancarlo De Carlo e da Elio Vittorini, diretto da Michele Gandin, rivela un’altra faccia dell’Italia di quegli anni – e, per tante ragioni, anche dei nostri anni. Protagonista è la città, “la città degli uomini”.

Anche lì, la sensazione piena che la città non è solo le case e le strade, è anche gliuomini che la abitano e vi lavorano. E, soprattutto, è per gli uomini.

Un antico brocardo medievale proclamava: “L’aria della città rende liberi”. Si riferiva evidentemente a quel periodo lungo e fondativo della storia della città in Europa nel quale la città, amministrata da una borghesia che ospitava nelle sue fabbriche uomini liberi da balzelli e legami feudali, e perciò era disposta a vendere liberamente la propria forza di lavoro - torme di contadini cacciati dalla miseria, dalle angherie dei signore e dei suoi sgherri, dalle pestilenze- affluiva nei luoghi della libertà.

Nei luoghi nei quali diritti comuni e consumi comuni legavano gli uomini in un’unica cittadinanza, un’unicà società – solidale nelle sue elementari regole di convivenza.

Giancarlo De Carlo ed Elio Vittorini sottolineano come, fin dai tempi più remoti, “costruimmo la città per stare insieme”. E affermano – proprio all’inizio del film – che da “Babilonia a New York” (due città oggi unite da eventi orrendi), dall’uno Evo all’altro, due sono state le ragioni che hanno sollecitato gli uomini a stare insieme nelle città: il bisogno e la lotta per la sua soddisfazione, la libertà e la lotta per la libertà.

Da sempre, insomma, la città è il luogo dell’appagamento e della dialettica. Ma poi, nella lunga storia dell’uomo, qualcosa deve essere accaduto che ha minacciato di tramutare il bene in male, che ha tramutato l’appagamento in solitudine e la dialettica in caos.

Il film – lo avete visto e sentito - ha un lungo avvio costruito con i ritmi della città. Ritmi sonori e ritmi visuali: i clacson delle automobili e l’ossessiva ripetizione delle finestre. I telefoni, le macchine da scrivere, le sirene delle ambulanze e quelle delle fabbriche.

Oggi, la città è – dice De Carlo- ”un ritmo che attrae e disorienta”. Luogo della libertà possibile, e luogo dell’alienazione. Luogo della folla e luogo della solitudine.

Agghiaccianti, indimenticabili alcune delle sequenze del film.

La sequenza che segue la lunga attesa nelle macchine, l’uomo investito. L’ambulanza, la folla, la traccia di gesso sull’asfalto che ricorda l’uomo che non è più, le ruote dell’automobile che ne calpestano la memoria. Il commento: “Un uomo che muore non è che un incidente”.

La sequenza della lunga smisurata serie di uomini visti di schiena, nutrirsi faccia al muro sullo stretto banco del self service. Il commento: “Nutrirsi non è più una festa comune”.

E la sequenza della lunghissima, insopportabilmente lunga passeggiata della donna distrutta, interiormente devastata quanto esteriormente normale e quasi accattivante. Una donna sola e disperata, che cammina tra la folla assente, estranea, lontana. Il commento: “Non vediamo chi ci passa accanto disperato”.

A me, a dire il vero, di questo film è sembrata più forte la critica alla città d’oggi – alla città come cominciava a configurarsi in quegli anni – che la sottolineatura degli elementi positivi. E quando li vediamo, essi ci rinviano quasi tutti alla dimensione comunitaria.

E’ così quando il film richiama alla città come il luogo nel quale si svolge la “lotta per accrescere la libertà, e le immagini sono quelle della fabbrica e di uno sciopero operaio.

E’ così quando il film definisce, tra le positività della condizione urbana, la “possibilità inesauribile di comunicare”, le immagini sono quelle, bellissime, nutrite di echi di René Clair e di Cesare Zavattini, delle case a ballatoio dell’area milanese, dove nelle lunghe vie esterne che danno accesso agli alloggi si svolge una vita che è, a un tempo, individuale e sociale: sull’uscio di casa, e insieme sulla pubblica via. Come era fino a pochi anni fa nelle calli di Venezia o nei vicoli del Mercato a Napoli – o, se volete, negli spazi pubblici dei PEEP meglio riusciti, come quello di Giancarlo De Carlo.

Quei film furono girati, nel 1954, con la speranza che fossero proiettati nelle sale commerciali seguendo i film della programmazione normale. Il loro obiettivo non era quello di farne dei documenti d’archivio, o dei testi multimediali adatti a nutrire le aule universitarie e le carriere accademiche.

Il loro obiettivo era quello stesso della Compagnia dei Celestini: aiutare le cittadine e i cittadini a comprendere

- che il miglioramento delle loro condizioni di vita, materiali e morali, passa attraverso la conoscenza di meccanismi complessi che governano il loro destino,

- che essi hanno – in un regime democratico, quale quello che è stato conquistato all’Italia da una legione di martiri – il diritto e quindi anche il dovere di intervenire su quei meccanismi, per ottenere che le ruote girino a vantaggio del popolo e del suo futuro, e non a vantaggio dei padroni e della loro immediata ricchezza,

- che a questo fine essi, le cittadine e i cittadini, devono praticare l’urbanistica, la pianificazione, l’amministrazione della città, perché è attraverso questi strumenti che si cambia il futuro degli uomini: che si dà loro la possibilità di utilizzare le possibilità dello stare insieme, dell’esser diventati più ricchi, più consapevoli, più forti.

E in quei film c’è un insegnamento e un messaggio rivolto agli urbanisti, ai tecnici, a quelli come me e come molti di voi. Si fa effettivamente il proprio mestiere se ci si pone al servizio non di chi dà più soldi, ma di chi deve vivere la città.

Cercare e stimolare la partecipazione delle cittadine e dei cittadini non è qualcosa che si deve fare per ottenere gratificazione e popolarità, e neppure solo perché è un loro diritto. È qualcosa che si deve fare perché il nostro lavoro venga su bene, perché serva a ciò cui deve servire.

Oggi la situazione è certo più complicata di venti o cinquant’anni fa. Allora c’erano istituzioni, rappresentative dei cittadini (un po’ meno delle cittadine), che costituivano un riferimento sicuro.

Lo costituivano perché erano espressione di partiti e correnti politiche che rappresentavano grandi progetti di società, grandi e definiti sistemi di interessi e forze sociali, che si ponevano come generali: come capaci – magari in alternativa e in conflitto gl’uno con gli altri – di esprimere un futuro migliore per l’intiera società.

Le cose sono cambiate.

Se conoscere il passato e riflettere su di esso è utile per comprendere il presente e progettare il futuro, ogni rimpianto e ogni nostalgia servono solo a riscaldare qualche cuore senile.

Se abbiamo compreso che le cose sono cambiate, che non esiste più – o non esiste ancora - un circuito virtuoso tra popolo > partiti politici > istituzioni > urbanistica, allora credo che dobbiamo comprendere anche che occorre ricostruire quel circuito cominciando dal basso, dal popolo, dalle cittadine e i cittadini. Che la partecipazione (alla progettazione della città e alla progettazione della politica) è un compito di tutti, nel quale dobbiamo tutti sentirci impegnati.

Credo che è anche questo che hanno voluto fare, le amiche e gli amici della Compagnia dei Celestini (e se di Compagnia si tratta, possiamo chiamarli compagne e compagni) con questa bella manifestazione. Alla quale, spero, molte altre ne seguiranno.

Prima una email, poi un’altra. Telefonate e appuntamenti mancati. Tutto in un paio di giorni. Poi ho rilasciato una intervista a una voce femminile anonima che non conoscevo, che me la chiedeva per pubblicarla in un sito sconosciuto. Al sito avevo dato un’occhiata: un po’ confuso, testi belli, immagini interessanti, ottimo italiano, grafica un po’ dozzinale. Si chiama Dentro il cerchio (www.luccone.com).

L’anonima intervistatrice ha un nom de plume (oggi si dice "nome di mouse"?) che ricorda uno di quei servizi domestici che c’erano una volta (La Rapida, La Perfetta): si chiama La pregiatina. Tiene un rigoroso anonimato, ed è eccezionalmente professionale. Quando, due giorni dopo, ho letto il testo dell’intervista sul blog mi sono meravigliato della fedeltà e della correttezza della restituzione. Se volete verificare, andate al sito, in fondo c’è l’elenco delle rubriche, le pregiate interviste de La pregiatina sono in quella denominata Converso controverso. Precisamente qui.

Ho accettato la proposta di presentarmi in una lista che appoggiasse Gianfranco Bettin come Sindaco di Venezia. Per alcune ragioni che ritengo doveroso esprimere.

Non perché abbia intenzione di rientrare nella politica e nell’amministrazione: ho già dato abbastanza, e abbastanza ho ricevuto. Sono stato consigliere comunale a Roma per dieci anni, consigliere comunale e assessore a Venezia per altrettanto tempo, e consigliere regionale nel Veneto per quattro anni. Ho lavorato all’opposizione e al governo in anni nei quali – checché se ne dica – fare politica nell’amministrazione pubblica era molto più pulito e gratificante di quanto oggi spesso sia diventato. Non mi spinge la voglia di ricominciare oggi, che le ragioni per cui si combatte per il potere diventano sempre più indecifrabili.

Neppure perché io sia un “Verde”. Ho molto rispetto e amicizia per gli amici delle liste Verdi, ho lavorato spesso con loro e ho cercato di aiutarli a comprendere che un albero non è una foresta, e che se si ama una foresta non si può vederla solo come un puntolino su un pianeta. La mia, però, è un’altra storia: io la politica - le sue ragioni, emozioni, tensioni, le sue regole severe, le sue vittorie e i suoi fallimenti - le ho apprese da comunista. E poiché “natura di cose altro non è che nascimento di esse”, tale sono rimasto, inguaribilmente temo.

Ho accettato la proposta che mi è stata fatta perché ho paura: paura per Venezia. Vedo il rischio di una convergenza, d’interessi e di miti, su una “idea di Venezia” molto lontana da quella che alimentò la discesa in campo di Massimo Cacciari all’inizio degli anni Novanta. Un’idea di Venezia che vede senza tremori la galoppante omologazione di Venezia ai moduli di una “modernità” che è in crisi in tutto il mondo, e che qui viene osannata come la soluzione di tutti i problemi.

Una “modernità”, se andiamo bene a vedere, basata sulle Grandi Opere (e concimata dagli affari, grandi e piccoli). Fuori di Venezia si potrà anche sorridere della querelle sul Mose. e sulla metropolitana sublagunare. Chi conosce Venezia (e l’ha compresa: le due cose non coincidono necessariamente) non sorride, e anzi ha paura. Ma bisogna che mi spieghi un po’ meglio.

Venezia, la vita che in essa si svolge, la sua organizzazione urbana, il suo rapporto con l’acqua e con gli altri elementi naturali, il tempo della vita quotidiana, sono diversi da quelli di qualsiasi città contemporanea. Sono la testimonianza del fatto che si può vivere in un altro modo: che si può passeggiare senza automobili, mandare i bambini per strada senza paura, incontrarsi in tutte le ore del giorno in quegli esemplari spazi di vita sociale che sono i campi, andare al lavoro e tornare a casa godendo del percorso che si compie, a piedi o sui canali con i vaporetti. E la forma stessa della città, la solida leggerezza delle sue architetture, il tracciato dei suoi canali e delle sue fondamenta, la sua dipendenza dal ritmo delle maree, il suo ritrovato rapporto con la laguna (oltre che la sua storia) testimoniano ed esprimono la capacità di governare un rapporto con la natura che produce bellezza e qualità della vita: una capacità che altrove si è persa, e affannosamente si ricerca.

A me sembra che chi sostiene la “modernizzazione” di Venezia, e proponga per ottenerla di affidarsi alle Grandi Opere, promuova di fatto la cancellazione del carattere speciale di Venezia, e la sua riduzione a ciò che le altre città del mondo sono diventate. Venezia invece può essere considerata e governata come una scuola di modernità: come un luogo che può consentire di sperimentare, a vantaggio di tutto il mondo, un modo rinnovato di produrre. Rinnovato rispetto a quello che vogliamo lasciarci dietro le spalle, perché non distruttivo delle risorse e realmente “sostenibile”. E rinnovato rispetto a quello che due secoli fa la Repubblica Serenissima ci lasciò perché capace di utilizzare, in una prospettiva non più “industrialista”, le innovazioni che la scienza di questi ultimi secoli ha messo a disposizione del genere umano.

È in questa prospettiva che vedo due questioni di merito, sulle quali il centro-sinistra da tempo è diviso: il Mose e la Sublagunare.

Entrambi i progetti si pongono sulla stessa linea. Entrambi pretendono di applicare alla laguna e alla città quelle regole ingegneristiche, rigide, astrattamente funzionali che contrastano e contraddicono gli equilibri che un millennio di sapiente governo dell’ambiente hanno costruito. Ed entrambi sono caratterizzati dal fatto di non essere utili e di costare moltissimo.

Non è utile il Mose (o almeno, è fortemente in dubbio la sua utilità). Se le maree proseguono con i ritmi e i livelli attuali, bastano gli interventi diffusi per ridurne l’impatto a livelli accettabili. E se invece il futuro vedrà un aumento straordinario dei livelli di marea, allora è dimostrato che la chiusura delle bocche di porto sarebbe così frequente da ridurre la laguna ad un lago: meglio sarebbe allora chiuderla stabilmente, con una spesa mille e mille volte inferiore.

E non è utile (anzi, è dannosa) la Sublagunare. Una metropolitana si giustifica solo con flussi di massa, la Sublagunare non potrebbe non produrre l’effetto di drenare ulteriori flussi di visitatori a Piazza San Marco e negli altri siti, già resi invivibili dal turismo attuale. Negli anni in cui si cercava di ragionare e non ci si faceva sedurre dall’ideologia del progresso, si era convinti che il turismo dovesse essere “governato”, e che a questo fine fosse utile e opportuno arrestare i flussi ai terminali di terraferma (Fusina e Tronchetto), e da lì farli proseguire in battello per Venezia. Se si vuole facilitare l’accessibilità alle funzioni direzionali di Venezia, allora la soluzione è stata indicata da molti anni, proprio a partire dai sindacati veneziani. Basterebbe riorganizzare l’attuale rete del ferro in Terraferma e utilizzare l’imponente asta ferroviaria del Ponte della Libertà per portare i pendolari a Santa Lucia e alla Marittima: luoghi dai quali, come a tutti è noto, si giunge facilmente e piacevolmente in ogni parte della città a piedi o con i civilissimi vaporetti.

Del resto, della qualità di Venezia, del suo insegnamento terribilmente moderno, fanno parte integrante il tempo e il modo dei percorsi. Venezia è bella anche perché permette di vivere il tempo dei percorsi, a piedi o in vaporetto, come spazi nei quali ti distendi e ti arricchisci godendo la visione della città, delle sua case, i suoi campi, i suoi abitanti. Il tempo del percorso non è a Venezia, come è nelle altre città contemporanee, una sofferenza la cui durata va minimizzata, ma un piacere che s’inserisce nella giornata come una pausa naturale e gioiosa.

I due candidati “maggioritari”, Brunetta e Costa, hanno entrambi più volte dichiarato il loro favore per il Mose e per la Sublagunare. E i DS, nonostante molti mugugni e qualche resistenza, non sembrano volersi impegnare a fondo perché questi due temi siano affrontati come meritano. Del resto, è proprio una giunta nella quale i DS sono determinanti che ha approvato, senza nessun dibattito consiliare, un incredibile e incoerente ammasso di carte denominato PRUSST (programma di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio), che prevede la realizzazione di un primo tronco della Sublagunare, da Tessera all’Arsenale. Ed è quella stessa giunta che ha rinunciato subito, al suo primo insediamento, a operare con qualche efficacia contro la trasformazione della città in un emporio di squallidi e squalificate merci prodotte, uguali in tutto il mondo, per i turisti “mordi e fuggi”.

Nella sua lettera agli elettori Arnaldo (Bibo) Cecchini ha scritto che “i poteri delle amministrazioni locali sono talmente irrisori rispetto ai processi reali (per Venezia: il trionfo della mono-cultura del turismo in centro storico e del modello insediativo e produttivo della città diffusa in terraferma) che quel che si può fare è davvero poco”. Su questo punto Bibo (la cui bella lettera condivido in grandissima parte) sbaglia. Il comune ha i mezzi per contrastare sia la “città diffusa” che il trionfo della monocultura turistica. Solo che il Comune di Venezia, ha teorizzato (e soprattutto praticato) il liberismo urbanistico: l’assessore all’urbanistica ha più volte affermato che non si dovevano vincolare le destinazioni d’uso, per non ingessare il mercato e la città!

Il cronista attento, poi, registra, tra i primi atti della Giunta Cacciari, la revoca di una deliberazione, approvata dalla Giunta Casellati (proponente l’assessore Maurizio Cecconi) con la quale si decideva di applicare le facoltà concesse ai comuni dalla cosiddetta Legge Mammì: la facoltà impedire la sostituzione di determinati tipi di esercizi commerciali con altri. Applicare questa deliberazione avrebbe permesso, per esempio, di evitare la proliferazione dei fast food (per anni le giunte di sinistra avevano vittoriosamente contrastato il primo tentativo a Campo San Luca), e di difendere gli esercizi commerciali tradizionali contro l’invasione dei rivenditori di paccottiglia.

Queste sono le mie preoccupazioni. So per quale destino di Venezia lavorerebbe Renato Brunetta. Temo che Paolo Costa lavorerebbe nella stessa direzione, visto che il DS si è mostrato così arrendevole, incapace di imporre un programma serio e di garantirne il rispetto. Non vedo, francamente, alternative diverse da quella di tentar di condizionare una maggioranza di centro sinistra con la presenza determinante di un raggruppamento ispirato da un’altra idea di Venezia, diversa da quella che accomuna Costa e Brunetta. Un raggruppamento che si riferisca ad una personalità – come quella di Gianfranco Bettin – che ha dato prova non solo di coraggio civile e capacità di ascolto, ma anche di capire Venezia, e di volerne una diversa da quella delle Grandi Opere e della monocultura turistica.

Premessa

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati.

Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali. Sembrano avere un particolare interesse nella ricerca di una messa a punto del ruolo della Provincia. Questo istituto è stato infatti caricato, a partire dal 1990, di competenze e compiti del tutto nuovi e, in larga misura, estranei alla sua tradizione e alle ragioni stesse della sua fondazione: ricordiamo che la provincia nasce dalla prefettura napoleonica, organo di esercizio locale dei poteri centrali dello Stato, i cui confini erano tracciati in ragione del percorso che poteva compiere in un giorno la carrozza del contribuente del fisco per raggiungere l’ufficio delle finanze, o di quello che potevano compiere i gendarmi per sedare la sommossa nel luogo più lontano dalla caserma.

La Provincia, in definitiva, non riesce oggi a individuare con facilità un proprio spazio tra i “due vasi di ferro” costituiti dalla Regione (e dello Stato, con cui la Regione tende a identificarsi) e dal Comune, luogo antico e di consolidata residenza dei poteri elettivi e dell’identificazione della cittadina e del cittadino. Forse – si spera - la funzione di coordinamento dei numerosissimi attori che intervengono nelle trasformazioni del territorio (da quelli istituzionali a quelli parapubblici, a quelli portatori d’interessi diffusi e a quelli espressione d’interessi privati) può conferire nuovo smalto e rinnovata ragion d’essere all’anello intermedio della catena dei poteri locali: può essere la nuova ragione della Provincia

È ragionevole questa ipotesi? E la stessa attenzione alla governance, non nasconde forse rischi dai quali occorre guardarsi, e non è forse portatrice di illusioni? La pratica della pianificazione del territorio e il dibattito culturale che ha dato luogo alla riforma del 1990 possono fornire qualche argomento sul quale è utile riflettere e discutere.

Un dibattito lungo tre decenni

La decisione di attribuire alla Provincia compiti di pianificazione del territorio è la conclusione di un dibattito molto ampio. La discussione sulla pianificazione d’area vasta si è sviluppata infatti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta: di essa ha fatto parte integrante la ricerca della “dimensione conforme” e degli “ambiti ottimali”.

Sono state proposte e sperimentate diverse strade. Finalmente, nel 1990 si è approdati a una soluzione unanimemente accettata. Con la legge 142 del 1990 (poi integrata e ridefinita nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) si sono individuati i tre livelli di pianificazione validi in Italia (comunale, provinciale e regionale), attribuendo al livello provinciale la denominazione di “piano territoriale di coordinamento”. Una denominazione ricavata dalla legge 1150/1942, che aveva essa stessa alle spalle più di un decennio di irrisolti dibattiti sulla intercomunalità e sulla sovracomunalità.

Ricordiamo il dettato del DL 267 del 2000:

La provincia, inoltre, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali [1].

Una definizione, come si vede, dal linguaggio arcaico, e dal contenuto molto sommario. Ma si tratta – non dimentichiamolo – di una indicazione che dovrebbe essere di mero principio, poiché la competenza legislativa in materia urbanistica fu trasferita alle Regioni, nel 1948, dall’articolo 117 della Costituzione della Repubblica, ed è entrata in esercizio a partire dal 1970.

Le tre funzioni della pianificazione territoriale

La realtà si è mossa, al di là della legge. E le legislazioni regionali hanno arricchito il quadro normativo e messo a punto metodi e pratiche nuovi. È possibile definire con maggior precisione (e magari con una varietà di declinazioni) la pianificazione provinciale in Italia.

A ben vedere, l’esegesi legislativa, l’esame comparato delle legislazioni regionali, l’analisi delle pratiche professionali e amministrative e l’esplorazione della letteratura consentono di indicare tre funzioni essenziali cui la pianificazione territoriale provinciale (e in generale la pianificazione territoriale, a tutti i livelli) deve adempiere.

Una prima funzione può essere definita strategica. Si tratta di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società. È una funzione che richiama i concetti di “futuro”, di “comunicazione”, di “consenso”.

Una seconda funzione può essere definita diautocoordinamento. Si tratta di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno (trasparenza) possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia. In che modo, però, definire le scelte proprie della Provincia? Può soccorrere un’applicazione corretta del principio di sussidiarietà: ma su questo tornerò più avanti.

Una terza funzione può essere definita diindirizzo. Il livello di pianificazione più direttamente operativo (che è anche quello più tradizionale e sperimentato) è quello comunale, i cui piani sono soggetti all’approvazione degli enti sovraordinati[2]. L’esigenza di razionalità nei rapporti istituzionali, così come è stata intesa nell’urbanistica classica e come è definita nella maggioranza delle più recenti leggi bregionali, pretenderebbe invece che la coerenza tra le scelte dei diversi enti, e la loro riconduzione a finalità d’interesse generale, non avvenisse più con i tradizionali sistemi di controllo a posteriori sulle decisioni degli enti sottordinati, ma indirizzandoa priori, mediante opportune norme, la loro attività sul territorio.

Le competenze territoriali della Provincia

Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Ma questo principio viene tirato da una parte e dall’altra, a seconda degli interessi di chi lo invoca. Conviene perciò rifarsi a una definizione ufficiale: a quel vero e proprio statuto dell’unione europea che è il Trattato istitutivo della comunità europea, stipulato a Roma nel 1957. Secondo l’articolo 3b, aggiunto al Trattato con l’accordo di Maastricht (1992)[3].

nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.

Il principio di sussidiarietà è stato coniato, su sollecitazione di Jacques Delors, per difendere le prerogative dei governi nazionali nei confronti della comunità europea: parte, per così dire, “dal basso”, e attribuisce agli organismi sovranazionali solo ciò che al livello nazionale non può essere efficacemente governato.

Ma esso è suscettibile anche della lettura inversa: il principio di sussidiarietà afferma anche che, là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E che la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti. É su questa base che è possibile distinguere in modo sufficientemente rigoroso e certo le competenze territoriali della Provincia da quelle della Regione e del Comune.

I contenuti della pianificazione provinciale

Applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree:

A) La tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla capacità di sopportazione del territorio (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva. É evidente che questo compito spetta in modo prevalente alla Provincia, a causa della scala, generalmente infraregionale e sovracomunale, alla quale le risorse suddette si collocano.

B) La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale. Il limite superiore, rispetto all’insieme di elementi collocabili in questa categoria, dovrebbe essere costituito da ciò che viene definito dalla pianificazione di livello regionale.

Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale (a differenza delle precedenti), richiedono ugualmente una visione di livello sovracomunale per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale (per esempio, il dimensionamento della residenza e delle attività), oppure che le normative comunali contraddicano le scelte relative alle grandi opzioni d’uso del territorio (per esempio, in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e delle risorse ambientali).

Mi sembra che tutti i contenuti della pianificazione provinciale pongano con forza la questione del rapporto della provincia con tutti gli altri soggetti che hanno competenze o esercitano poteri o producono azioni nelle trasformazione del territorio.

La pratica della concertazione

Distinguere le competenze tra i diversi livelli istituzionali è essenziale perché conduce a comprendere a quale degli enti appartenga la responsabilità delle scelte, e della decisione finale. Ma deve sollecitare anche a praticare efficacemente e correttamente lla pratica della concertazione (una delle pratiche adoperate e adoperabili per regolare i rapporti tra portatori d’interessi pubblici) là dove non viene praticata, o viene applicata in modo insufficiente o distorto.

La concertazione ha una delle sue ragioni essenziali nella necessità di abbreviare i tempi delle decisioni in tutte le (numerosissime) questioni nelle quali diversi enti rappresentativi di interessi pubblici e collettivi sono coinvolti. Si tratta di abbandonare la prassi di trasferire le “pratiche” da un ufficio all’altro, con relativa lettera di trasmissione debitamente firmata e protocollata in uscita e in entrata, di collocarle in ordine nella relativa pila di pratiche sulla scrivania del dirigente del competente ufficio, da questo trasmetterla al funzionario istruttore, da questo poi restituirla per la firma al dirigente, trasmessa all’ufficio mittente, per poi collocare questo segmento del procedimento in serie con tutti gli altri necessari segmenti. Si tratta si abbandonare di questo procedimento iperburocratico.

Si tratta di stabilire invece che, quando ne ricorre la necessità, oppure periodicamente, funzionari delegati dei diversi uffici competenti per una questione si riuniscono, discutono, decidono, verbalizzano la decisione assunta, stabilendo la data di un successivo incontro in quei soli casi in cui uno o più degli uffici coinvolti ha bisogno di approfondire la conoscenza della questione[4].

Naturalmente, nell’ambito di questo procedimento (che sembra nuovo solo perché l’antica prassi ministeriale delle “conferenze di amministrazioni” e delle “conferenze di servizi” è stata abbandonata o corrotta negli ultimi decenni) occorre distinguere con cura i portatori dei diversi interessi, e il sistema delle garanzie cui i procedimenti oggi (sia pure in forme spesso distorte dal barocchismo normativo e dallo smarrimento della ragione originaria dei diversi passaggi procedimentali) sono espressione. Ma a questo, nella materia della pianificazione, dovrebbe provvedere un’avveduta e aggiornata legislazione regionale.

L’esigenza del consenso

Analogamente a un piano comunale o a un quadro di riferimento regionale, il piano provinciale è, in ultima analisi, un progetto di trasformazione del territorio. E quando dico “trasformazione” non penso solo a opere nuove e nuovi insediamenti: penso anche a interventi, e regole, e politiche che invertano il processo di degrado in atto in molte parti del territorio, e che perciò costituiscano il contenuto di un progetto di “conservazione”. Come dice Pierluigi Cervellati, anche la conservazione è una trasformazione, anche la conservazione richiede un progetto.

Ora è evidente che, per rendere efficace un progetto di trasformazione del territorio occorre ottenere il consenso, oltre che dei soggetti pubblici direttamente coinvolti, anche dei soggetti privati che devono concorrere all’attuazione delle scelte. Molti sono i modi per ottenerlo, molte sono le pratiche messe in atto per conseguire il risultato.

Le pratiche però, a mio parere, si valutano (e si costruiscono) in relazione al loro contesto. Altro è operare in paesi dove l’autorità dell’amministrazione pubblica è forte, e dove gli interessi privati che si vogliono coinvolgere sono quelli degli imprenditori e degli usagers (come nelle esperienze francesi), altro è adoperare quelle medesime pratiche dove l’autorità pubblica è debole, e gli interessi che si vogliono coinvolgere (o che si riesce a coinvolgere) sono in primo luogo quelli della proprietà immobiliare, e degli altri “attori” volti alla percezione di rendite vecchie e nuove.

Ma forse vale la pena – a questo punto – di spendere qualche parola sulla governance: un termine che sempre più spesso, come dicevo, tende a sostituire quello di government.

La governance: come nasce, come è

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni[5].

[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale [6]

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Devo dire che questa interpretazione mi è tornata in mente quando qualche giorno fa, in uno dei convegni che abbiamo organizzato a Venezia nella Settimana della facoltà di Pianificazione del territorio, ho ascoltato con grande interesse l’eroico sforzo posto in essere dall’Ufficio del piano della Provincia di Milano, per costruire un decente piano di coordinamento provinciale, in una situazione legislativa del tutto particolare: in una situazione nella quale la Provincia è privata di poteri nel campo della pianificazione, poiché il Piano territoriale provinciale è sottoposto al preventivo parere dell’Assemblea dei comuni prima ancora dell’adozione e poi, una volta adottato, prima dell’approvazione[7].

Ciò significa, nella sostanza, che non esiste alcuna autonomia della provincia nel definire le proprie scelte territoriali. Il progetto elaborato in sede tecnica non esprime infatti alcuna autorità politica prima dell’adozione[8]. È chiaro che in una situazione siffatta, dove tutto il potere è dei comuni (e della Regione) non resta altro da fare ai tecnici che cercar di costruire il consenso dei comuni: anzi, di cercare di costruire il piano provinciale con una procedura bottom-up.

Ma alle volte la reazione a un sistema perverso induce a trovare soluzioni che, con gli opportuni adattamenti, possono essere applicati a situazioni non perverse facendole anzi diventare virtuose. È su questo che vorrei adesso riflettere.

La governance: che cosa può essere

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti meno difensivi di quello britannico, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti [9]

altri come

le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica [10].

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali [11].

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Distinguere gli interessi

Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione è, a mio parere, quella tra enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto.

Allo stresso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali . La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Qualche esempio della raggiungibilità di risultati positivi, nella riduzione dei tempi e quindi nel miglioramento del rapporto tra amministratori e amministrati. Nella Regione Lazio, fino a pochi anni fa, il tempo medio di approvazione di un PRG comunale era di 7 anni, e non credo che sia molto migliorato. In Emilia-Romagna invece, grazie a un diverso rapporto tra Regione, Province e Comune, il tempo massimo di approvazione di un piano comunale era un anno fa di sei mesi, ed è stato ulteriormente ridotto. In Toscana i tempi di approvazione sono stati rivoluzionati dalla procedura delle conferenze di pianificazione dalla prassi delle conferenze dei servizi nelle quali di decide.

Il tavolo pubblico-privato

Un tavolo diverso, a mio parere, è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali:

per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore

e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricerso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere.

Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: l’attore che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni.

Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Perché altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del “retino”) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Le esperienze di governance che conosco sono poche. È con una certa imprudenza che mi permetto perciò di avanzare un’ipotesi, sulla quale mi interesserebbe avere conferme – o smentite.

L’ipotesi è che la governance, nel campo del governo del territorio, funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario - nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto da noi, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole.

E sono certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio sia quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

[1] Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 20, comma 2.

[2] Poiché siamo in Campania colgo l’occasione per sottolineare che, in Campania, i piani comunali non sono approvati da un unico ente (generalmente le Regioni hanno delegato le province), ma: i piani dei comuni capoluoghi di provincia sono approvati dalla Regione, quelli compresi nelle Comunità montane (104 comuni su 158) da queste, e solo il residuo (53 su 158) dalla Provincia.

[3] L’articolo è stato ratificato e ridenominato come articolo 5 con l’accordo di Amsterdam (1997).

[4] Come, seppure in termini assai diversificati, fanno la legge 5/1995 della Regione Toscana, la legge 28/1995 e la legge 31/1997 della Regione Umbria, la legge 23/1999 della Regione Basilicata, la legge 38/1999 della Regione Lazio, la legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna.

[5] Holec Nathalie, Brunet-Jolivald Genevieve, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.

[6] Idem, p.

[7] Legge Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, “Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia”.

[8] L’adozione è infatti quella fase procedimentale nella quale l’organo politico collegiale assume la paternità del piano: questo prima di allora è un mero atto tecnico, in quanto tale privo di qualunque autorità se non quella morale.

[9] Bagnasco Arnaldo e Le Gales Patrick, cit in Holec, Brunet, op. cit., p.

[10] Marcou Gérard, Rangeon Francois e Thiebault Jean-Louis, cit. ibidem, p.

[11] Ibidem

E’ in corso in Sardegna la discussione su una proposta di legge urbanistica regionale, che la Giunta vorrebbe approvare entro luglio. Il giudizio sulla legge non è positivo, ed esprimerò la mia opinione su alcuni aspetti che mi sembrano più preoccupanti: anche alla luce del dibattito che, avviato con il contrasto alla Legge Lupi, è proseguito con la proposta degli amici di Eddyburg e con la lunga elaborazione della proposta depositata da numerosi deputati dell’attuale PD, prima firmataria l’on. Raffaella Mariani.

Della proposta della Giunta Soru mi preoccupano soprattutto due aspetti, sui quali soffermerò l’attenzione: il ruolo assolutamente sproporzionato che si assegna alla proprietà immobiliare, in particolare a quella fondiaria; la riduzione della pianificazione urbana e territoriale alla sola dimensione comunale. Ritengo che entrambi questi aspetti siano particolarmente gravi anche perché indeboliscono fortemente la virtù, e la capacità di resistenza del piano paesaggistico regionale: il provvedimento che ha coronato (sebbene non ancora compiutamente) lo sforzo generoso e intelligente del presidente Soru di tutelare i paesaggi dell’Isola.

1.

Numerosi articoli della proposta fanno riferimento a un presunto “diritto” della proprietà fondiaria alla “edificazione”. Si parla di “diritti edificatori”, di ”vocazioni edificatorie”; si propone di compensare, perequare, trasferire questi “diritti” e di riconoscere quelle “vocazioni”. Si vedano in particolare gli articoli 7, 16 e 17.

Ora la giurisprudenza è costante nell’affermare che un “diritto” ad ottenere la compensazione per un vincolo ablativo deriva unicamente dal rilascio di un atto abilitativo. Non solo una previsione edificatoria di un PRG (PUC) può essere modificata senza dover corrispondere alcun indennizzo, ma anche una previsione consolidata in un piano di lottizzazione anche se convenzionato; alle uniche condizioni che la decisione modificativa sia motivata, e che le spese legittimamente e documentatamente sostenute dal proprietario siano rimborsate[1].

Del resto, la stessa legge urbanistica del 1942 riconosce che, in caso di espropriazione, non deve essere corrisposto alcun indennizzo per il maggior valore derivante dal PRG. È questo un vecchio assunto della dottrina liberale, praticata già dall’inizio del secolo scorso.

Per quanto poi riguarda la “vocazione edificatoria”, che un suolo abbia una implicita e connaturata inclinazione a essere edificato è cosa del tutto nuova, e non solo nella cultura urbanistica. L’edificabilità è il risultato di un’azione pubblica, storica e attuale, e di una decisione anch’essa pubblica.

Nel concreto della proposta, appare del tutto stupefacente che all’articolo 17 si stabilisca che la “vocazione edificatoria”, e i conseguenti “diritti”, vengano riconosciuti, oltre che alle aree già edificate, anche a “quelle alle quali lo strumento urbanistico vigente all’entrata in vigore della presente legge, attribuisce destinazione o trasformazione edificatoria” (per le ragioni sopra esposte) e addirittura a “quelle che sia per contiguità con l’abitato, sia per essere già servite dalle principiali infrastrutture urbane, sia per l’assenza di vincoli paesaggistico-ambientali abbiano determinato, in capo al proprietario, la concreta aspettativa di conseguire tale classificazione”. Ho letto, commentato e criticato, e contribuito a scrivere e correggere numerosissime leggi nazionali e regionali in materia, ma mai mi è capitato di leggere una simile estensione dei presunti “diritti edificatori”.

Del resto, basta fare riferimento alla proposta di legge presentata sul finire della XV legislatura dai deputati del DS (primo firmatario Raffaella Mariani) per rendersi conto che per “perequazione urbanistica” si intende cosa del tutto diversa: non un riconoscimento generalizzato di “diritti edificatori” alle aree “vocate” all’edificazione in sede di pianificazione generale, ma qualcosa di perfettamente analogo alla distribuzione equilibrata di oneri e benefici a tutti i proprietari compresi in un ambito di trasformazione (una pratica che risale addirittura alla “legge ponte urbanistica” del 1967 e ai piani di lottizzazione convenzionata).

2.

L’altro punto rilevante di critica riguarda l’insieme del sistema di pianificazione configurato dalla proposta. L’unico piano vero e proprio è quello di livello comunale. A livello regionale e provinciale i documenti di pianificazione previsti sono evanescenti: direttive, indirizzi, criteri, linee guida, necessariamente generici, suscettibili di interpretazione nell’attuazione e nella verifica, aperti alla discrezionalità.

A mio parere cardine della cultura della pianificazione è quello che si definisce “principio di pianificazione”, implicito nelle formulazioni della proposta di legge nazionale Mariani. Il principio, cioè, secondo il quale l’istituzione (Stato, Regione, Provincia, Comune) che ha competenza su scelte suscettibili di modificare l’assetto del territorio esprime tali scelte mediante un documento, precisamente riferito al territorio, nel quale sia rappresentata e valutata la coerenza tra le scelte relative ai diversi settori (infrastrutture, centri di servizi di vari ordini e livelli, tutele ecc.). Nulla è più lontano da un efficace governo delle trasformazioni del territorio che l’assunzione di scelte caso per caso, o settore per settore, indipendentemente dalle altre.

Ora non tutte le scelte che incidono sull’assetto del territorio possono essere affidate all’autonoma decisione del Comune. Questioni come quelle della produzione e della trasmissione dell’energia, delle infrastrutture per la mobilità, della gestione dei rifiuti e dei relativi impianti e servizi, della localizzazione delle grandi attrezzature per il commercio, per i servizi e le attrezzature di portata sovra locale e sovracomunale, di gestione del ciclo delle acque, richiedono un inquadramento e devono essere assunte tenendo contro delle reciproche interrelazioni.

Una impalcatura della pianificazione priva della orditura a livello regionale e provinciale è inefficace e aperta a conflitti d’ogni tipo, oppure soggetta alla discrezionalità del potere del livello sovraordinato.

3.

Quelle che ho ora sinteticamente riportato sono le principali osservazioni che la lettura del testo hanno sollecitato in me. Molte altre ve ne sarebbero su punti anch’essi rilevanti: come i “premi di cubatura”, suscettibili di modificare, nella loro sommatoria, i carichi urbanistici previsti dai piani; come gli “accordi di programma” suscettibili di stravolgere gli strumenti urbanistici; come la possibilità di attribuire competenze delicatissime di attuazione e di controllo a uno “sportello unico” di cui non è definita la natura pubblicistica; come lo scarso approfondimento della pianificazione paesaggistica (a quel punto meglio sarebbe riferirsi esclusivamente al contenuto e alle procedure del Codice del paesaggio).

La speranza è che sulla legge si apra una discussione che induca gli amministratori a ritornare sui loro passi

[1] Ciò è stato ampiamente argomentato dal sottoscritto e confermato autorevolmente dal prof. Vincenzo Cerulli Irelli in una nota per Italia nostra.

La Provincia di Bologna ha aperto la costruzione del Piano territoriale di coordinamento provinciale (secondo la legge regionale 20/2000) con un ampio dibattito di verifica del precedente strumento di pianificazione (il Piano territoriale infraregionale). Il dibattito è stato preceduto da una analisi sulla situazione del territorio e da una verifica, su questa base, degli effetti del Pti. Esso si è articolato in più giornate, ad una delle quali (10 ottobre 2001) ho partecipato con l’intervento che riporto di seguito.

Anch’io vorrei sottolineare in primo luogo – come hanno fatto quanti mi hanno preceduto – la grande qualità e completezza delle basi analitiche del lavoro. Sul piano della conoscenza, il territorio e la sua dinamica sono sotto il pieno controllo della Provincia. È stata costruite, e funziona, una macchina capace di analizzare, monitorare, verificare le trasformazioni fisiche e sociali del territorio con una perfezione che credo sia assolutamente unica in Italia.

Ciò che vorrei aggiungere a questa considerazione è che la Provincia di Bologna non si è dotata solo – per così esprimermi – di un robusto “capitale fisso sociale”: nel costruire e gestire questo si è saputa anche dotare di un qualificato “capitale mobile umano”. La provincia è ricca di una dotazione organizzativa motivata e autorevole, di una struttura tecnica e amministrativa che è una risorsa di altissimo livello.

Mi ha colpito il modo in cui questa struttura è stata capace di misurare – grazie anche al patrimonio conoscitivo formato e sapientemente gestito – l’efficacia del’azione di governo del territorio: la distanza tra i propositi, le volontà dichiarate, le strategie costruite, e le concrete modificazioni indotte nella realtà. Ha saputo costruire un bilancio critico e autocritico che è l’indispensabile piattaforma su cui andare avanti.

Ho letto con molto interesse, e ho molto apprezzato, i documenti di “ Elementi per un bilancio critico del PIT ” e “ I nodi critici che emergono dal quadro conoscitivo ”, così come i rapporti di analisi di cui sono la sintesi e la conseguenza. In termini molto sintetici, mi sembra di poter riassumere i documenti in due proposizioni. Sul versante non dirattamente controllato dalle azioni del PIT le strategie positive proposte (e accettate) sono state in larga misura disattese. Ma anche sul versante più direttamente controllato si devono registrare punti di criticità non marginali.

Vorrei ricordare alcuni di questi punti di criticità.

Il sistema delle acque , questa rilevantissima risorsa per ogni possibile sviluppo. “lo squilibrio fra emungimenti e apporti rappresenta una delle più evidenti criticità ambientali del territorio bolognese. […] Le riduzioni previste non consentono ancora di prevedere il raggiungimento di una condizione di equilibrio e men che meno un recupero di livelli dell a falda più prossimi a quelli storici; restano inoltre fuori controllo i pozzi privati, per i quali le pregiate acque sotterranee continuano ad essere una risorsa gratuita e ‘illimitata’. [… ] In sostanza l’ espansione urbana ha continuato ad interessare in modo esteso le aree maggiormente permeabili e l’attuazione delle previsioni consolidate nei PRG comporterà nel prossimo futuro, a meno di ripensamenti da parte dei Comuni, la sottrazione al funzionamento naturale di altre centinaia di ettari di terrazzi e di conoidi..[…] Rispetto all’intera estensione delle aree ad alta o elevata vulnerabilità, ormai risulta urbanizzato o destinato dai PRG vigenti ad essere urbanizzato il 43% del conoide del Reno-Lavino e il 52% del conoide del Savena-Idice” (Nodi critici ecc., p.2)

Il sistema idraulico , essenziale per l’integrità fisica del territorio e degli abitanti, grave soprattutto nella situazione della pianura: “Qui ai fattori meteorologici (anch’essi peraltro influenzati dall’azione dell’uomo) si sommano cause esclusivamente antropiche quali: la progressiva urbanizzazione ed impermeabilizzazione del territorio che, diminuendo i tempi di corrivazione, concentra i deflussi in un minor lasso di tempo aumentando i colmi di piena; la subsidenza, causata da un eccessivo emungimento d’acque di falda, ben superiore alle capacità di ricarica della falda stessa, manifestandosi con maggiore intensità nell’alta pianura rispetto alla bassa, produce di fatto una diminuzione della pendenza motrice delle aste fluviali e dei canali di bonifica. Si sono così prodotte col passare degli anni condizioni di rischio idraulico sempre maggiori (Nodi critici ecc., p.3).

Il paesaggio rurale e la biodiversità : le “dinamiche evolutive hanno effetti particolarmente dirompenti sul territorio rurale della pianura alta e media e della collina, ove erano e sono ancora in parte leggibili le strutture paesaggistiche più profondamente sedimentate nella storia: impianti di appoderamento settecentesco, ricchezza di corti rurali tradizionali, ricchezza di segni storici minori e minuti e di elementi di arredo vegetale (alberi non produttivi isolati, filari, siepi, ecc.). La perdita di questi elementi di complessità paesaggistica si traduce anche nella distruzione di habitat specifici e ancora di più nella frammentazione ed isolamento degli habitat che residuano, ossia in perdita di diversità a livello di ecosistemi” (Nodi critici ecc., p. 9)..

Il sistema insediativo . I documenti ricordano le ragioni per le quali la strategia delineata proponeva una politica di “diffusione concentrata” o di “ decentramento sui centri”, ma sottolineano poi (e misurano) come questa strategia sia lungi dall’essersi realizzata: “La strategia di decentramento delineata dal PTI è stata comunque indebolita e disattesa al punto da dover essere necessariamente riconsiderata. […] Di fatto lo ‘sprawl’ è continuato, anche nelle sue forme più ‘ costose’ per il territorio e più generatrici di mobilità sostenuto da una domanda insediativa diffusa ovunque ma anche da un’ offerta insediativa diffus a in oltre 200 centri abitati anche di piccolissima dimensione e privi di servizi di base” (Elementi per un bilancio critico del PTI, p. 19).

E, sempre a proposito del sistema insediativo, nelle conclusioni, dopo aver ricordato il modello reticolare/policentrico che si assunse, con ampio consenso, nelle strategie territoriali, si afferma: “Nel dibattito politico-culturale di allora il modello assunto fu ampiamente condiviso, in particolare dai Comuni; né allora né in seguito sono state espresse critiche di fondo, forse anche perché, con qualche ambiguità, ciascuno si sentì legittimato ad interpretarlo a proprio vantaggio: in un modello a rete ciascuno può considerarsi un nodo. Le tendenze nell’evoluzione degli insediamenti persistono invece su due direzioni diverse, opposte e complementari: dispersione di residenti da un lato e densificazione del cuore dall’altro, entrambe sostenute da spinte e condizioni molto forti” (Elementi ecc., p. 20).

L’impressione complessiva suscitata dalla rigorosa e argomentata analisi è che si siano raggiunti gli obiettivi che comportavano, per i soggetti più ; direttamente interessati, elementi di crescita, mentre sono stati largamente disattesi gli obiettivi per i quali era richiesto contenimento . Sono aumentati gli interventi e le dimensioni nei luoghi scelti come polarità del nuovo assetto, ma sono cresciute in ugual misura le aree dove si voleva frenare la diffusione. Tutto ciò suscita una riflessione su un punto che a me sembra nodale.

Il Piano territoriale infraregionale aveva assunto pienamente – soprattutto negli ultimni anni – il metodo della concertazione e l’ obiettivo del consenso . È lecito domandarsi allora se affidarsi alle pratiche concertative conduca davvero a risultati efficaci, e se non sia invece necessario conferire alla pianificazione territoriale una valenza più regolativa . Dagli stessi documenti di analisi e bilancio emergono del resto indicazioni abbastanza precise in tal senso.

In questa direzione muovono, ad esempio, le constatazioni circa il fatto che gli emungimenti privati non sono stati contenuti (Nodi critici ecc., p. 2), o che nelle aree ad elevata vulnerabilità occorrerebbe escludere “ ogni ulteriore previsione urbanistica e ogni utilizzazione che vada a danneggiare o limitare le funzioni idrauliche”, ed in più rivedere “le previsioni urbanistiche vigenti di cui non sia ancora avviata l’ attuazione” (ibidem). Alla necessità di una pianificazione più cogente si allude anche quando si pone il problema di “di come riaffermare e consolidare il contenuto degli Accordi sul piano politico, e di come renderli più pregnanti ed efficaci sul piano tecnico-operativo” ; (Nodi critici ecc., p. 11), o quando si afferma che “Il tema da affrontare è la ricerca di un vincolo di coerenza fra le politiche insediative e le politiche relative alla distribuzione dei servizi di base (con particolare riferimento a quelli pubblici e quindi soggetti a specifica programmazione), nel senso che laddove non è possibile offrire un ‘ bouquet’ di servizi di base, per ragioni di efficienza o d i mercato, dovrebbe essere considerata implausibile e inopportuna l’ urbanizzazione di nuove aree, ferme restando naturalmente le politiche a favore dei recupero” (p.12).

Queste considerazioni sull’inefficacia, in questo contesto, di politiche territoriali troppo largaìmente affidate alla concertazione, spingono a una riflessione di portata più ampia: al nodo dei rapporti tra politiche territoriali e politica tout court . Vorrei ricordare, e ricordarvi, tre casi, tre contesti di politiche territoriali concertate che ho conosciuto.

L’esperienza della riconversione del bacino della Ruhr dalla produzione minerario.ndustriale alla qualità ambientale e culturale. Mi meravigliò molto, quando esaminai il piano dell’Emscher park, scoprire come quel piano (che delineava l’assetto urbanistico e ambientale di nomerosi comuni), e mi raccontavano che quel piano veniva rigorosamente attuato pur non avendo alcuna base giuridikca e alcun valore regolativo e cogente. Il fatto è che lì era stata assunta, dalla foza egemonica (nella fattispecie lo SPD, il partito socialdemocratico di Willy Brand) la

scelta strategica, lungimirante e proiettata nel lungo periodo, di modificare alla radice un tipo di sviluppo che si considerava (e che era) obsoleto. Da questa visione strategica si erano fatte discendere le coerenti politiche – in primo luogo quelle territoriali, urbanistiche e d’ investimento – e a queste era stato indirizzato tutto l’apparato amministrativo. Il motore era una volontà politica lungimirante e determinata, capace di coerenza nel tempo.

L’esperienza della governance in Francia, per esempio nei projets urbains di Lione. Lì il coinvolgimento concertato dei privati è funzionale a una strategia d’ineresse pubblico a causa di due condizioni. La prima: esiste un potere pubblico forte, autorevole, che non teme di venire a patti con i terzi perché è comunque egemone. La seconda: il privato non è la proprietà immobiliare, ma il singolo abitante, o proprietario/abitante, e l’impresa. È il potere pubblico, insomma, che guida la danza, nell’assenza di antagonisti privati i cui interessi territoriali siano conflittuali con l’interesse generale.

L’esperienza (mi avvicino a noi nello spazio, ma mi allontano nel tempo e nel clima politico e culturale) della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna, agli inizi degli anno Sessanta. Un organismo del tutto volontario, al quale aderivano praticamente tutti gli enti locali della regione quando la Regione non era ancora stata istituita. Un organismo che “faceva” la politica urbanistica dei comuni emiliani e romagnoli:erano le circolari di quell’organismo – e non decreti ministeriali – che inducevano i comuni a praticare il calibrato dimensionamento dei piani e l’applicazione degli standard urbanistici con anni di anticipo rispetto alla legge ponte del 1967. Anche lì, anche allora, era una lungimirante volontà politica, ed un’egemonia culturale e politica, che “concertavano” ; le cento politiche urbanistiche dei comuni.

Ecco allora la disperante domanda centrale. Esiste, oggi, una dimensione politica che sappia esprimere interessi generali, indicare una strategia lungimirante e ottenere il consenso su una credibile capacità di durare e di rispettare gli impegni? Senza questo elemento, le politiche concertative sono (ove le si guardi dal punto di vista degli obiettivi generali, condivisi a parole) una mera illusione. Né – occorre aggiungere - le politiche regolative sono molto più forti, sebbene siano almeno più oneste e trasparenti.

Ho posto un problema al quale non è facile dare una risposta. Io, almeno, non ne sono capace. Questo però apre un ulteriore e inquietante interrogativo: che fare, come fare il mestiere di urbanista, di planner , di ufficio pubblico adibito alla pianificazione? Dobbiamo ridurci a sacerdoti d’una religione i cui dei sono morti? O avere la presunzione di indossare la divisa delle sentinelle del futuro, o si assumere il ruolo dei portatori professionali di interessi generali che gli altri non tutelano?

Forse la risposta (non l’unica, ma un possibile punto di partenza) sta proprio in quel patrimonio di conoscenze accumulato, nella capacità di aggiornarlo e implementarlo, di tradurlo in puntuali verifiche di ciò che viene proposto e di ciò che è possibile. Si può utilizzare quel patrimonio di conoscenze e di saperi ispirandosi a ciò che di Machiavelli diceva Ugo Foscolo, quando parlava del Segretario fiorentino come di colui che “temprando lo scettro ai regnatori / gli allor ne sfronda ed alle genti mostra / di che lagrime grondi e di che sangue”. Si può socializzare quel patrimonio, farlo diventare uno strumento di critica delle proposte sbagliate e di dimostrazione delle prospettive positive possibili, per far crescere su questa base la coscienza di una sistema di interessi, e di speranze, comuni.

LE BASI DELLA PIANIFICAZIONE

Pianificazione urbanistica e pianificazione economica

Le parole sono le etichette delle idee. Sono essenziali per pensare e per comunicare. Ma le parole sono anche delle trappole, soprattutto in una società nella quale il numero delle parole che si adoperano diminuisce sempre di più e ciascuna di quelle che rimangono è costretta ad assumere significati molteplici. Così la parola pianificazione.

Parlerò di “pianificazione della città e del territorio”. E vorrei subito distinguere questa pianificazione dalla pianificazione tout court. Anzi, dalla “pianificazione economica”.

La grande differenza tra pianificazione territoriale e urbanistica e pianificazione economica sta nel diverso rapporto con il mercato. In questo diverso rapporto sta anche la ragione per cui la pianificazione della città e del territorio è nata almeno un secolo prima della pianificazione economica.

Quest’ultima è nata (in una riflessione che è partita da Walras e da Pareto e nella pratica delle economie socialiste) con l’intenzione di sostituire il mercato con dei meccanismi di determinazione teorica dei prezzi: è stata pensata e tentata come una sostituzione del mercato nell’obbiettivo di riuscire a determinare la ragione di scambio tra merci diverse indipendentemente dall’esistenza di una pluralità di operatori autonomi.

La pianificazione urbanistica è nata invece come pratica di governo adoperata per risolvere contraddizioni, malfunzionamenti, difficoltà in relazione ad aspetti che il mercato, cioè la spontaneità concorrenziale delle azioni dei singoli operatori, non riusciva ad affrontare in modo efficace, e che anzi contribuiva ad aggravare.

Pianificazione urbanistica e pianificazione territoriale

L’esigenza di pianificare la città è sempre esistita, da quando l’insediamento dell’uomo ha acquistato caratteristiche di complessità. Ma ha acquistato un ruolo del tutto particolare quando, abbattuto l’ancien régime e l’ordinamento gerarchizzato della società, hanno prevalso la concorrenza, il mercato, l’individualismo. Non parleremo perciò della pianificazione di Ippodamo da Mileto o degli agrimensori romani, ma di quella che nasce quando si afferma il sistema economico sociale capitalistico-borghese e come suo prodotto.

Anche questa pianificazione nasce per mettere ordine nelle città e per regolare, secondo un disegno unitario, la loro espansione e trasformazione. Essa nasce per affrontare problemi che la somma delle decisioni individuali non poteva risolvere. Nasce – per così dire – per costituire un contrappeso all’invadenza dell’individualismo e correggerne taluni effetti. Fin dall’inizio del suo percorso, essa è finalizzata al raggiungimento di obiettivi d’interesse generale: naturalmente, d’interesse generale dei gruppi sociali, delle “classi”, che governavano la città o ne influenzavano il governo.

Questa finalizzazione, del resto, è coerente con la natura più profonda della città. Questa infatti non è un mero aggregato di case. La città è sorta, nella storia della civiltà, come luogo strutturato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze cui i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano rispondere da soli: per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali. La città è la casa della società.

Dalla città al territorio

La pianificazione nasce quindi, all’inizio del XIX secolo, come pianificazione urbanistica. Ma ci si accorge abbastanza presto che i fenomeni che caratterizzano la vita urbana, e quindi il disordine che consegue dal sovrapporsi di decisioni diverse e contraddittorie, richiedono un intervento regolatore e programmatore che si estenda all’insieme del territorio. Così come ci si accorge, a partire dai primi decenni del XX secolo, che anche il territorio fuori dai confini della città è impiegato per le stesse esigenze, è ordinato alle stesse funzioni, che una volta si svolgevano nella stretta cerchia delle mura urbane. È dalla fine del XIX secolo che la città comincia ad espellere sul territorio le funzioni divenute incompatibili con la vita quotidiana. Il processo si sviluppa e si estende con l’aumentare sia della specializzazione delle diverse parti del territorio sia delle esigenze sociali, e con il miglioramento della capacità del sistema delle comunicazioni.

Nasce insomma la pianificazione territoriale. Essa è sostanzialmente ispirata agli stessi principi e volta a correggere gli stessi errori della pianificazione urbanistica. La mia convinzione è perciò che tra l’una e l’altra, tra la pianificazione urbanistica e quella territoriale, non ci sia nessuna differenza sostanziale; che il sistema di obiettivi sia perfettamente analogo; che quindi gran parte dei ragionamenti che si possono fare riguardano ugualmente l’una e l’altra. Perciò, d’ora in poi, parlerò esclusivamente di pianificazione urbanistica e territoriale . anzi, salva diversa precisazione, parlerò di pianificazione intendendo l’una e l’altra.

Che cos’è la pianificazione

Vediamo una prima definizione di pianificazione: la definizione di un economista, Giorgio Ruffolo, che si è misurato con i problemi del territorio:

“La pianificazione territoriale è lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico” [1].

In questa definizione vedete accentuare il contrasto tra la logica della pianificazione e la logica del mercato. La pianificazione si fa carico di aspetti che il mercato trascura: la logica qualitativa dell’armoniosa disposizione delle cose sul territorio, contro la logica quantitativa della mera accumulazione di cose.

E vedete comparire qualcosa che ha a che fare con l’estetica e con la creatività: la pianificazione è anche progettazione, inventa “nuovi modelli spazio-temporali”, che producono spazio e tempo, e “valore aggiunto estetico”.

Se dalla poesia di un economista vogliamo scendere alla prosa di un urbanista, vi darei quest’altra definizione, la mia.

Per me la pianificazione territoriale ed urbanistica è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni [2].

Ma per approfondire l’argomento e chiarire il significato della pianificazione occorre ragionare su quelli che sono i suoi oggetti: da un lato il territorio, urbano o extraurbano che sia, dall’altro lato la società e i modi nei quali essa si rappresenta e si esprime.

IL TERRITORIO

Una realtà complessa

Il territorio urbano e quello extraurbano sono certamente diversi, dal punto di vista meramente fenomenologico. Nell’una la presenza dell’uomo è più intensa e nell’altro è più rada. Nell’una c’è una dose più alta di artificio (benché la città sia sempre condizionata dalla natura che la ospita), nell’altro prevale la natura (ma quasi sempre plasmata dal lavoro dell’uomo).

Nonostante le differenze tutto il territorio è una realtà complessa.

Lo è dal punto di vista della sua genesi: è il prodotto del succedersi di una serie di stratificazioni storiche, nel corso delle quali l’uomo ha interagito con la natura modificandola, addomesticandola, trasformandola più o meno profondamente, a volte rispettandola, a volte violentandola.

È una realtà complessa dal punto di vista degli usi in atto e di quelli possibili, e dei conflitti che possono nascere tra usi alternativi e tra usi antagonisti. Un campo può essere usato, alternativamente, per coltivare, o per realizzare un parco, o per costruire cento alloggi o dieci fabbriche.Una zona industriale accanto a un ospedale o un aeroporto accanto a un quartiere residenziale è certamente una utilizzazione antagonista, che reca danno alle altre.

Ed è una realtà complessa dal punto di vista delle letture che ne sono possibili, dei punti di vista sotto i quali può essere utilizzato, e quindi degli obiettivi cui la stessa analisi e individuazione dei problemi è finalizzata. Considerano il territorio e operano su di esso, secondo diversi punti di vista, il sociologo e il geografo, l’economista e il geologo, il naturalista e l’archeologo, lo storico e l’ingegnere dei trasporti e così via.

Una realtà sistemica

Di tutte questi elementi che abbiamo enumerato (vicende, usi, letture, oggetti) il territorio non è un semplice magazzino:non è un luogo in cui questi elementi sono e casualmente ammonticchiati. Questi elementi hanno ordine tra loro, sono connessi tra loro in modo che una modifica in un punto, un’azione su una di essi, modifica tutti gli altri.

Aprire un supermercato in una parte periferica della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc. Al tempo stesso,per il fatto che quella parte del territorio viene visitato da molti clienti stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti.

Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico. L’apertura di un parcheggio interrato in una parte della città: in genere a questo evento corrisponde l’afflusso di automobili maggiore della capacità del parcheggio, e allora si crea in quella zona un aumento del traffico anziché una sua diminuzione.

Realizzare una serie di capannoni industriali e di abitazioni in un’area che per le sue caratteristiche geologiche è permeabile rispetto alla falda idrica provoca un progressivo inquinamento della sottostante riserva d’acqua e quindi un aumento del rischio di malattie oppure la necessità di cancellare una risorsa essenziale per la vita delle popolazioni insediata a valle.

Il territorio, insomma, è un sistema, nel quale le opere di trasformazione dell’uomo e il loro impatto sulle preesistenti caratteristiche, sia naturali che artificiali, genera nuovi equilibri e provoca nuovi eventi, anche in parti distanti e apparentemente non connesse con il luogo della trasformazione.

Il territorio è un bene comune

Ho detto che la città è finalizzata e organizzata costitutivamente agli interessi comuni: che essa è la casa della società. Si può dire lo stesso del territorio. Il suo assetto attuale è determinato da una serie di eventi che sono maturati in un arco lunghissimo di tempo. La collocazione delle attuali città è originato spesso dall’incrocio di due itinerari percorsi da mercanti moltissimi secoli fa. La trasformazione di primitivi villaggi in città e il consolidamento e l’accrescimento di queste è avvenuto per effetto di una somma di iniziative, moltissime delle quali operate dalla collettività,le altre dalle singole famiglie e imprese nell’ambito di decisioni e investimenti pubblici, pagati dalla collettività. L’organizzazione del territorio, il suo assetto fisico e funzionale, sono largamente determinati dagli elementi di urbanizzazione (le città e i paesi, le vie di comunicazione, gli impianti extraurbani, la stessa organizzazione degli elementi naturali utilizzati per la ricreazione, lo sport, la visita, lo studio).

Nessuno realizzerebbe una fabbrica se non ci fosse un sistema di strade e di ferrovie che consente alle merci di entrare e di uscire dalla fabbrica, agli operai di arrivarci, se non esistessero reti di comunicazioni per collegare quella fabbrica a tutti i mercati, se non esistessero scuole nelle quali il personale si forma e così via. Nessuno costruirebbe una casa se non ci fossero strade, scuole, parchi, ferrovie, tram e autobus e così via.

Questa e altre considerazioni spingono a dire che non solo la città, ma anche il territorio sono un bene comune, di cui si può fruire individualmente ma che nel suo insieme è un bene creato dall’apporto di tutti (quindi della società), in un lungo percorso storico. Sono beni comuni e pubblici molte sue parti (le strade e le piazze, le scuole e gli ospedali, gli aeroporti e le ferrovie, i parchi e le riserve idriche e così via), ed è un bene comune nel suo insieme.

Gli interessi che agiscono sul territorio

Città e territorio costituiscono il luogo nel quale interagiscono, e spesso sono in conflitto tra loro, interessi diversi. Vorrei accennarne a uno fondamentale, che è certamente noto, ma di cui si tiene scarsamente conto quando si ragiona su città e territorio, sui loro problemi e sul che fare per risolverli.

Se un’area da agricola diventa urbana il suo valore aumenta moltissimo. Ancora di più aumenta se è vicina a una stazione della metropolitana, o a un parco pubblico, oppure se è in una zona ben servita da buoni servizi pubblici. Ancora di più aumenta se su quell’area si possono realizzare sedi di attività pregiate, oppure un numero maggiore di volumi o di superfici utili.

Insomma,per effetto di decisioni e investimenti pubblici il valore economico di un’area può aumentare di moltissimo. Il prezzo di quell’area, ivi compreso il sovrapprezzo derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, viene incassato dal proprietario, senza che esso abbia compiuto nessun lavoro e nessun investimento. Ma esso ricade su chi ha bisogno di quell’area per costruire una fabbrica o un edificio di abitazioni, il quale a sua volta si rivale su chi compra le merci prodotte da quella fabbrica o prende in affitto un alloggio in quell’edificio.

È la questione della rendita immobiliare, sulla quale tornerò più avanti.

LA SOCIETA'

Città e società: un legame inestricabile

Parlare di territorio come luogo del conflitto d’interessi diversi e contrapposti, ci conduce subito a parlare della società. Infatti il conflitti nascono dal fatto che il territorio è la sede della vita, delle attività, della storia e delle storie, delle passioni e delle emozioni della società.

Dico della società e non dell’ uomo per la stessa ragione per la quale ho detto prima che il territorio è, nel suo insieme, un bene comune. Non viviamo più in una realtà della quale Robinson Crusoe e la sua isola possano costituire un modello. Viviamo invece in una realtà in cui l’intero territorio à diventato città, è diventato l’ambiente della vita dell’uomo associato in comunità più o meno vaste: comunità scalari, dal villaggio e dal quartiere fino all’intero pianeta.

È la società, quindi, l’altro grande soggetto della pianificazione. Anzi, potremmo dire che la pianificazione è la cerniera tra territorio e società. Dimenticare, nella riflessione o nell’azione sulla città e sul territorio, questa duplice natura dell’oggetto della pianificazione è errore grave, che conduce a gravi distorsioni.

La pianificazione non può essere indifferente alla società, nè possono esserlo quelli che ne sono gli “esperti” e – dal punto di vista tecnico – gli artefici, cioè gli urbanisti, i planners.

Del resto, le difficoltà nelle quali si svolge oggi, in Italia, l’attività di pianificazione della città e del territorio deriva, in misura larghissima, proprio dalle caratteristiche che ha assunto negli ultimi decenni la società italiana: la sua cultura, la sua politica e le sue istituzioni, la sua economia. È a questi aspetti che voglio adesso riferirmi.

La cultura

Richard Sennet sostiene che si è dissolto l’indispensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo moderno, e che questo si sia completamente appiattito sull’intimismo. Il disagio contemporaneo ha la sua causa nell’impoverirsi della vita pubblica [3]. In effetti l’individualismo caratterizza sempre di più i pensieri, le emozioni, i comportamenti dell’uomo di oggi, la sua cultura.

La condivisione di obiettivi comuni, la ricerca comune della soluzione dei problemi di tutti non sono più di moda. La solidarietà si riduce a pratiche vicine all’elemosina. I nuovi “valori” sono tutti riconducibili all’affermazione individuale. Lo stesso concetto di sussidiarietà, inventato per distinguere le competenze dei diversi livelli di governo pubblico, è stato tradotto nella pratica “tutto il possibile potere al privato”.

Parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio. Il ”mercato”, istituzione inventata dalla storia dello sviluppo economico per determinare il prezzo delle merci, è diventato perno di una ideologia che appiattisce ogni qualità, ogni differenza, ogni dimensione.

La politica

Su questa cultura si è adagiata la politica. Celebrando la fine delle ideologie, non ci si è accorti d’aver accettato quella determinata ideologia per la quale privato è sempre meglio che pubblico, individuale meglio che comune, spontaneità meglio che governo.

Ma appiattirsi sull’individuale, sul privato, sullo spontaneo significa anche privilegiare l’immediato sul remoto, il vicino sul lontano, la breve scadenza sul lungo termine, il presente sul futuro, il dato sul possibile. Significa perciò rinunciare alla capacitò di formulare un progetto: un progetto di società e un progetto di città.

Non sempre la politica è stata così. Pochi decenni sono trascorsi da quando lo scontro politico era la competizione tra progetti di società alternativi, ciascuno riferito agli interessi di determinate classi sociali, ciascuna delle quali però aspirava a soddisfare l’interesse generale. A seconda del potere conquistato dai portatori dell’uno o dell’altro progetto di società, il compromesso che via via si raggiungeva nella concreta attività di governo era più vicino all’uno o all’altro.

L’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un obiettivo di ampio respiro. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani.

E poiché per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica di arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima formare le coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.

Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare il consenso, con una doppia operazione:da una parte, calibrando la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impiegando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza di strati vasti di popolazione [4].

La democrazia rappresentativa

La politica si esercita attraverso i partiti: organizzazioni che esprimono parti della società. Per tradurre la volontà di queste parti in un’attività di governo la civiltà occidentale ha elaborato principi e strumenti che si chiamano “democrazia rappresentativa”. Questa è costituita da un insieme di istituzioni, che nascono dalla volontà popolare stimolata e organizzata dai partiti. Le istituzioni rappresentano la società ed esercitano le attività necessarie a concretare gli interessi comuni – così come questi sono espressi dalla maggioranza degli elettori.

Le istituzioni della democrazia sono particolarmente rilevanti per la pianificazione. È ad esse che è attribuito,nei sistemi politico-istituzionali europei, la potestà di assumere le scelte della pianificazione. Se è il tecnico, l’esperto, l’urbanista che prepara i materiali e delinea le opzioni possibili e i costi e i benefici per ciascuna di esse, è all’eletto che spetta la decisione.

Il nesso tra la pianificazione e le istituzioni democratiche (e la politica) è davvero strettissimo. E allora dobbiamo ricordare che la democrazia che conosciamo non è l’unica esistita, né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi difendiamola, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione: della sua crisi.

Ricordiamo soprattutto che la sua è stata determinata da alcune cause precise, che Luciano Canfora sintetizza così:

“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo” [5].

Solo se siamo consapevoli dei limiti ed errori della democrazia – e delle cause della sua crisi – potremo raggiungere contemporaneamente due obiettivi: tentar di migliorarla nell’applicazione, non interrompere la ricerca di un sistema migliore.

L’economia

La città, nel suo sorgere e nel suo affermarsi, è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.

Nella fase attuale della nostra vita sociale si sono manifestate due novità che hanno provocato effetti molto pesanti sul territorio: sulle sue trasformazioni e sulla capacità di governarle mediante la pianificazione.

In primo luogo, l’economia e divenuta la dimensione dominante nell’intero sistema di principi e valori (e di pratiche sociali) del nostro tempo. Il valore d’uso (quello cioè derivante dall’utilità del bene per la vita dell’uomo) è stato interamente soppiantato dal valore di scambio (quello derivante dalla possibilità di scambiare la merce contro denaro).

Lo sviluppo cui l’intera società è chiamata a tendere non ha più alcuna connessione con il miglioramento delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più per non morire.

In secondo luogo, ha assunto un peso dominante quella componente parassitaria del reddito – la rendita immobiliare – la cui appropriazione privata ha causato, e continua a causare, la maggioranza dei conflitti che insorgono nelle decisioni delle trasformazioni urbane. Dove la città chiederebbe parchi e scuole, campi aperti e zone sportive, spazi pubblici e paesaggi, la possibilità dei proprietari di lucrare ingentissime somme ottenendo l’edificabilità costituisce una pressione fortissima sui decisori, i quali nella maggior parte dei casi soccombono alle aspettative della proprietà immobiliare.

Il peso massiccio che ha assunto la rendita immobiliare affonda certamente le sue radici nel modo nel quale è avvenuta l’unificazione dell’Italia e nell’incompiutezza della rivoluzione capitalistico-borghese a Sud delle Alpi. Ma è stato fortemente accentuato negli ultimi decenni per le stesse ragioni per le quali la politica si è rassegnata a seguire gli eventi anziché indirizzarli, ad accodarsi alla spontaneità degli animal spirits dell’economia italiana anziché concorrere a trasformarla.

LA PIANIFICAZIONE OGGI

Riepilogo

Nel nostro rapido excursus abbiamo visto come la pianificazione della città e del territorio si è formata quando l’affermazione del sistema capitalistico-borghese ha comportato il nascere di problemi che il mercato, sommo regolatore dell’economia, non riusciva a risolvere ma anzi aggravava. Abbiamo visto come sia possibile ricondurre a un unico ragionamento la pianificazione della città e quella del territorio, e come questa (la pianificazione urbanistica e territoriale) sia diversa, e diversamente finalizzata, rispetto alla pianificazione economica. Abbiamo visto come la pianificazione di cui ci siamo occupati costituisca la cerniera tra il territorio (la sua struttura, i suoi usi, le sue condizioni e trasformazioni) e la società (la politica che ne esprime i diversi interessi, le istituzioni mediante le quali essa diventa governo, l’economia che ne determina i meccanismi). Abbiamo accennato al rapporto, nella pianificazione, tra due attori-chiave: l’urbanista e il politico, il tecnico della pianificazione e il responsabile delle sue scelte.

È da questo punto che vorrei riprendere il filo, per proporre alcune riflessioni sulla pianificazione oggi.

L'URBANISTA E IL POLITICO

Due mestieri, due ruoli, diversamente carichi di responsabilità.

Il politico (o forse più precisamente la politica, nella dialettica tra le sue diverse componenti) deve essere capace di interpretare la società nei diversi interessi delle fomazioni sociali (delle classi) nelle quali si articola. Deve saper comprendere in quali direzioni conducano le tendenze in atto, quale sia il loro esito, se vadano incoraggiate o contrastate o comunque indirizzate. Deve saper formulare, in relazione a ciò che nella realtà esiste e alle sue potenzialità, un futuro desiderabile: un progetto di società. E in relazione a questo progetto di società deve saper dettare alla pianificazione gli obiettivi da assumere, e in relazione dei quali definire un “progetto di territorio”.

L’urbanistaè capace (deve essere capace) di esprimere la città e il territorio.

Per fare i conti con il carattere complesso del territorio e delle forze che agiscono su di esso, deve saper utilizzare le numerose altre discipline che concorrono alla conoscenza, guidarne e comprenderne gli apporti, finalizzarle agli scopi della sua azione. Nel proporre i diversi “progetti di territorio” compatibili con gli obiettivi sociali proposti, l’urbanista deve saper individuare le condizioni non negoziabili delle trasformazioni territoriali: deve saper riconoscere i patrimoni meritevoli di essere tramandati alle generazioni future; deve saper individuare le risorse utilizzabili, e le regole per una loro lungimirante utilizzazione.

Naturalmente, per il suo stesso ruolo di interprete del territorio, deve esser capace di valutare e far valutare la durata delle trasformazioni, i tempi con i quali il territorio reagisce, le connessioni spaziali e temporali tra i diversi interventi progettati.

I mutamenti degli obiettivi sociali della pianificazione

Gli obiettivi sociali della pianificazione sono mutevoli nel tempo. Nella storia che sta alle nostre spalle possiamo riconoscere alcuni momenti significativi.

All’inizio della sua vicenda la società ha chiesto ai suoi tecnici – oltre che di rendere più efficiente il funzionamento cinematica della macchina urbana – di risolvere due problemi: migliorare le condizioni igieniche, e regolare i valori immobiliari in modo da dare certezza di lucro agli investimenti patrimoniali. Entrambi questi obiettivi erano perseguiti in modi differenziati nelle diverse parti della città, con una vera “zonizzazione sociale”: qui i ricchi e i potenti, là i benestanti, altrove gli operai e l’”esercito di riserva”.

I risultati delle lotte sociali e i margini di ricchezza consentiti dallo sfruttamento (in patria e nelle colonie) condussero al manifestarsi di altri obiettivi. A partire dalle proposte degli utopisti sul finire del XIX secolo fino alle realizzazioni dei governi e dei municipi della socialdemocrazia, diventarono obiettivi della pianificazione i diversi elementi del welfare state: l’edilizia civile a basso costo, le attrezzature sociali e sportive, quelle assistenziali e scolastiche, i collegamenti efficienti casa-lavoro.

In questo quadro in Italia, riprendendo nel secondo dopoguerra alcuni dei germi gettati nel primi decenni del secolo XX e sviluppandone altri, si giunse a porre al centro della pianificazione urbana le grandi questioni del diritto alla casa come servizio sociale e delle adeguate dotazioni di aree da destinare a spazi e attrezzature pubbliche, gli standard urbanistici.

Negli anni a noi più vicini si è manifestato, come nuovo obiettivo sociale, quello della tutela del territorio nelle sue caratteristiche fisiche e culturali e nei suoi equilibri ecologici. Ciò ha dato luogo a un accentuato interesse sia al funzionamento della città sia, e soprattutto, alle condizioni dei territori extraurbani. Non è facile però verificare la risposta che a questi nuovi aspetti ha dato la pianificazione, sia per il carattere spesso settoriale della “domanda di ambiente” sia per il contemporaneo appannarsi dell’idea stessa di pianificazione. Ma è su questo punto che devo soffermarmi ora, e concludere questo intervento.

Un punto di svolta

Se c’interroghiamo su come si ponga oggi, nel concreto, la questione della pianificazione nel nostro paese, se ci domandiamo quale sia lo stato di salute della pianificazione quale l’abbiamo conosciuta, ci rendiamo conto che siamo giunti a un punto di svolta.

Secondo alcuni la pianificazione, intesa come governo pubblico, trasparente e democratico, delle trasformazioni territoriali in grado di assicurare a priori una coerenza all’assetto derivante dal succedersi di tali trasformazioni, questa pianificazione è morta. Essa è diventata inutile, deve essere abbandonata e sostituita da meccanismi che consentano a chi vuole operare trasformazioni di intervenire qui ed ora, sulla base dei suoi interessi e delle sue disponibilità immediate [6].

Secondo altri la pianificazione deve essere modificata più o meno sostanzialmente nei suoi procedimenti tecnici, nelle sue modalità e attrezzature operative, e nel modo in cui il decisore investe in essa. Si tratta di modificare, aggiornare, rendere più efficaci ed efficienti i suoi meccanismi, le procedure, le modalità tecniche, e bisogna che i decisori facciano più affidamento su di essa e sui suoi “esperti”

Io sono convinto che nel ragionare sulla pianificazione si debba preliminarmente convenire su due affermazioni, che in qualche modo costituiscono la conclusione del mio discorso.

1.La pianificazione è oggi più che mai necessaria. Più il mondo diventa complesso, più vasti sono gli orizzonti che si aprono all’attività degli uomini, più ricche diventano le interrelazioni tra esigenze, strutture, possibilità, luoghi, più è necessario svolgere uno sforzo ordinatore. La pianificazione è nata per vincere il caos in città di poche decine di migliaia di abitanti: oggi è diventata urbana una realtà composta da miliardi di persone.

2.La posta in gioco oggi è a chi spetti il potere di pianificare. Ciò tra cui bisogna scegliere è se la pianificazione è lo strumento di una democrazia rinnovata e partecipata, con le sue rinnovate istituzioni, capaci di esprimere e rappresentare davvero gli interessi comuni della società, oppure se la pianificazione è lo strumento do quei poteri forti – nazionali, transnazionali e globali – che in modo sempre più evidente e penetrante esercitano l’egemonia sulle dinamiche globali. Sto parlando evidentemente del neoliberismo, delle corporations, di un mondo sempre più appiattito su un’economia dominata dalla rendita finanziaria (e immobiliare)

Io credo che prendere atto della prima affermazione (necessità attuale della pianificazione) e scegliere decisamente il carattere pubblicistico della pianificazione, sia preliminare a qualsivoglia successivo ragionamento sui caratteri, metodi, strumenti della pianificazione, sul modo in cui i diversi saperi e mestieri debbano concorrere a foggiarla e utilizzarla.

Si potrà allora anche discutere se sia possibile assumere, quale orizzonte per la società e quadro di riferimento per gli obiettivi sociali della pianificazione, quello di una cultura, un’economia, una politica quali quelle che ho descritto: quelle di un “neoliberismo”nel quale l’uomo privato abbia soppiantato l’uomo pubblico. Oppure se – come io sono convinto – sia necessario condurre in primo luogo una azione per superare il sistema di valori e di pratiche sociali che attualmente sembra prevalere: a partire dalla difesa e dalla promozione di tutto quello di pubblico, di sociale, di comune è stato conquistato nella storia.

Se insomma sia inevitabile accettare l’attuale società così come si è configurata nei suoi “valori” (crescita, individualismo, cieca fiducia nel mercato e nelle tecnologie), nelle sue pulsioni e nella sua dinamica - così come ieri hanno sostenuto alcuni autorevoli oratori [7] – magari addolcendone alcune asprezze e volgarità e tagliandone qualche punta di durezza, oppure se – come molti di noi ritengono – non sia possibile, oltre che necessario, attrezzarsi per contribuire alla costruzioni di una società radicalmente diversa.

[1]G. Ruffolo, Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.

[2] L’argomento è approfondito in E. Salzano, Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Editori Laterza, Roma-Bari 1998-2007

[3] R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Paravia Bruno Mondatori editore, Milano 2006

[4] “La politica non è più lo strumento attraverso il quale si dirige un paese in base ad un'idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole ed accentuandole”. F. Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004

[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un´ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2004

[6] Si vedano in particolare la discussione con Luigi Mazza sul documento programmatico per Milano, quella con Stefano Moroni a proposito del suo libro La città del liberalismo attivo e la vicenda della legge Lupi.

[7] Mi riferisco alle conferenze svolte da Bernardo Secchi e da Massimo Cacciari.

Livelli di pianificazione e livelli di governo: Le tendenze che devono affermarsi per la costruzione di un processo unitario di pianificazione. Intervento svolto al convegno nazionale "Luoghi e logos - Il territorio fra sistemi di decisione e tecnologie della conoscenza", OIKOS - Provincia di Bologna,Bologna, 27-28 nov. 1984; intervento ciclostilato nel 3° volume dei materiali preparatori

Sommario: 1. L'obiettivo, un sistema unitario di pianificazione; 2. I requisiti della pianificazione; 3. Due corollari; 4. Le tendenze che devono affermarsi; 5. Unitarietà delle analisi; 6.Chiarimento delle competenze; 7. Politica di piano e politica di bilancio; 8. Il problema dell'efficacia; 9. Investire risorse culturali, politiche, economiche; 10. Per finire, la riforma del regime immobiliare

Premessa

Poche questioni - nel campo almeno del governo del territorio - appaiono oggi così confuse, e del resto così poco discusse, come quella del rapporto tra i diversi livelli di pianificazione. Ciò dipende, a mio parere, da numerose circostanze che in qualche modo de terminano, o condizionano, il clima in cui la nostra riflessione si svolge. Ed è anche per questo che è opportuno soffermarvisi brevemente.

La prima circostanza sta indubbiamente nel fatto che è il principio stesso, la categoria, della pianificazione che è oggi in fase di parziale eclisse. Gli anni '50 furono in qualche modo contrassegnati dal paziente sforzo di un piccolo gruppo di urbanisti, compresi e appoggiati da qualche amministrazione, di gettare le basi della pianificazione nel nostro Paese. Gli anni '60 furono l'epoca della proposizione di piattaforme complessive di riforma urbanistica, della centralità di questo tema nel dibattito politico e culturale nazionale e della conquista di importanti - seppure parziali - traguardi legislativi e amministrativi. Gli anni '70 saranno probabilmente ricordati come quelli nei quali nuovi nodi vennero al pettine, nuove forze scesero in campo, e nuove e più avanzate conquiste - ricche di potenzialità e di limiti - vennero dialetticamente raggiunte. Ed facile affermare che gli anni '80 - quasi una interruzione in un ciclo evolutivo pressoché ininterrotto - saranno invece ricordati così come noi oggi li viviamo: come anni, cioè, nei quale quelli che dovrebbero essere i protagonisti della pianificazione, a tutti i livelli, appaiono sfiduciati, frustati, impotenti, sotto posti all'attacco pressoché quotidiano di chi alla pianificazione non crede, o la pianificazione ri fiuta.

La seconda circostanza, che è in qualche modo il corollario e la conseguenza della prima, sta nel fatto che proprio in questi anni, proprio cioè quando le potenzialità manifestatesi nel periodo trascorso avrebbero dovuto essere sviluppate e i limiti legislativi e amministrativi superati, proprio cioè quando il processo di riforma avrebbe dovuto dispiegarsi e finalmente affrontare i nodi di fondo, l'involuzione e la regressione hanno costretto quanti, e non sono pochi, credono alla pianificazione e all'urbanistica, a concentrarsi nella difesa di alcuni capi saldi essenziali del fare urbanistica quando invece sarebbe stato necessario andare avanti e innovare. Abbiamo avuto così il riesplodere delle questioni degli indennizzi e dei vincoli, quando si doveva affermare un nuovo regime degli immobili; la tragedia dell'abusivismo edi lizio e urbanistico, quando si doveva puntare alla generalizzazione della capacità di governo del territorio; la liquidazione del mercato degli affitti e dell'intervento pubblico nell'edilizia abitativa, quando il problema del controllo e della gestione del patrimonio edilizio esistente assumeva il carattere di problema e obiettivo centrale; infine, la costante e sistematica azio ne di svuotamento della pianificazione locale attraverso la generalizzazione dell'istituto della deroga, quando si doveva rilanciare la pianificazione e il governo del territorio uscendo finalmente dai limiti dei confini municipali.

Ma al di là di queste circostanze, in qualche modo provocate da tendenze e azioni e accadimenti esterni alla cultura urbanistica, mi sembra che ve ne sia una terza sulla quale è opportuno richiamare l'attenzione. Mi sembra, insomma, che uno dei fatti caratterizzanti la situazione attuale sia che non esiste più un metodo, un indirizzo, un criterio unitario per la pianificazione: non esiste nei piani di livello comunale (in quelli dunque in cui c'è la più larga messe di esperienze e conoscenze e attività), e non c'è dunque da stupirsi se non esiste, come rilevava Giorgio Trebbi nella sua relazione al Seminario di Trento del maggio scorso, per quelli degli altri livelli e, di conseguenza, per gli intrecci e le connessioni dei livelli di pianificazione

L'obiettivo: un sistema unitario di pianificazione

La tesi che vorrei proporre è in sostanza la seguente. Nella pianificazione tradizionale il punto di partenza è stato costituito dai piani di livello comunale: i piani regolatori generali comunali, formati e redatti nei modi che ben conosciamo, e quindi caratterizzati dalla definizione rigida delle destinazioni d'uso per zone, dalla centralità del ruolo del Comune ma dalla complessità di un iter procedurale fortemente garantistico per tutti i poteri coinvolti, dall'attuazione affidata alle decisioni degli operatori-proprietari e dal meccanismo del rinvio sistematico ai piani attuativi.

I piani di livello superiore vengono generalmente pensati e costruiti nell'ipotesi che essi siano anelli di una catena di atti pianificatori che ha al suo termine il P.R.G.; oppure sono un unico P.R.G. a maglie più larghe (o a colori più tenui); oppure sono nella forma di prescrizioni di tipo normativo, più o meno territorializzate, che diventano operative nella loro traduzione comunale nei P.R.G; oppure sono un unico P.R.G. esteso a un territorio ampio; oppure ancora si limitano alla forma di documenti, poco operativi, di strategia e d'indirizzo generale o settoriale.

La pianificazione a tutti i livelli ha insomma, ancor oggi, nel P.R.G. comunale il suo essenziale riferimento e criterio. Ma oggi, è proprio il P.R.G. comunale che è sottoposto a una sostanziale e profonda discussione e verifica. Oggi è il P.R.G. che è sottoposto a una critica: per la sua rigidità, per il suo meccanismo d'attuazione; per la complessità del suo meccanismo di formazione; per la separatezza (anche dopo la legge Bucalossi) del momento del piano da quelli del programma e della gestione. Oggi, è in corso una vasta ricerca e sperimentazione in quel grande "laboratorio diffuso" costituito dalle amministrazioni comunali, nella quale si cerca per diverse vie, con diversi approcci, seguendo diversi per corsi, di costruire un modo nuovo e più adeguato di pianificare: anzi, di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali.

In questa situazione, a mio parere, sarebbe sbagliato riflettere e lavorare sui livelli di pianificazione pensando solamente di aggiungere piani di livello superiore (comprensoriali, provinciali, regionali, interregionali, di bacino o d'area montana ecc.) a un quadro di pianificazione a livello comunale gi definito e immutabile. E ancor più sbagliato sarebbe costruire i piani di livello superiore semplicemente come estensione dei criteri e indirizzi e tecniche dei piani comunali: significherebbe unicamente estendere i limiti gi riconosciuti dei piani regolatori comunali. Anzi, accentuarli, trasmettendoli all' intera catena degli atti pianificatori.

Il vero problema, e il vero obiettivo, è allora secondo me quello di ritrovare una unitarietà di metodi, criteri, indirizzi, per tutto il processo di pianificazione. E' quello - per esprimermi in modo molto sintetico - di trovare un unico piano, una unica "forma piano", da formare utilizzando i diversi livelli di governo.

I requisiti del piano

Lo sforzo che vi propongo, che propongo a noi tutti, è quello di uscire per un momento dai confini amministrativi e dalle competenze dei livelli di governo. E di uscire anche dalle forme canonizzate degli strumenti di pianificazione. Di riflettere invece, in primo luogo, a quali devono essere i requisiti che un piano deve possedere, quale che sia l'estensione di territorio che deve governare o l'ente che ha la responsabilità di governo.

Il piano deve essere basato su una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti (dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante). E per ciascuna delle componenti della risorsa territorio la lettura deve consentire di individuare quali sono i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quale e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione. E quali costi le diverse trasformazioni comportano.

Il piano deve essere basato su una lettura altrettanto attenta della domanda sociale, cioè delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per ospitare funzioni nuove, o per ospitare altrove funzioni oggi non insediate correttamente, o per rendere i siti in cui gi sono insediate funzioni più idonei e adeguati alle funzioni ospitate. E quali sono le risorse disponibili, in relazione alle varie funzioni, impiegabili per operare le trasformazioni necessarie.

Il piano deve definire quali sono - all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione della risorsa territorio - le operazioni che concretamente è possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.

Il piano, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica certamente costante, le risorse sono certamente disponibili.

Il piano, quindi, deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè quale in modo più certo esplica la propria efficacia.

Il piano, di conseguenza, deve essere contemporaneamente aggiornabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva.

Il piano deve contenere al proprio interno gli strumenti della propria attuazione: i vincoli sulle risorse (e quindi sui bilanci) degli enti pubblici in vario modo coinvolti nella sua attuazione; gli incentivi e i disincentivi (finanziari, creditizi, fiscali, normativi, tecnici) ca paci di indirizzare verso determinate trasformazioni anziché verso altre l'impiego delle risorse e l'attività degli operatori privati, gli strumenti tecnici necessari per la sua gestione.

Il piano deve rendere il più breve possibile il tempo che separa il momento in cui si sceglie e si decide e quello nel quale la scelta diventa efficace. Il processo decisionale, il per corso burocratico devono essere perciò resi completamente diversi da quelli attuali, concludersi in pochi mesi.

Il piano però, e contemporaneamente, deve essere formato e gestito in modo del tutto trasparente (offrendo in tal modo le garanzie oggi fornite solo formalmente dal complesso iter procedimentale), e deve esserlo da un ente che possieda i requisiti della autorevolezza, della rappresentatività e dall'efficacia

Due corollari

Se fossimo d'accordo con la necessità di questi requisiti, credo che dovremmo poi con venire su due corollari che ne discendono.

Il primo: un piano siffatto è certamente molto diverso dai piani che conosciamo. Ma affermare che questi requisiti sono necessari, significa allora anche affermare che ciò di cui disponiamo oggi (nella cultura, nella legislazione, nella prassi ed esperienza) è solo un in sieme di barlumi, di germi, di parziali anticipazioni del piano come deve essere. Significa perciò affermare che necessario fare uno sforzo consistente per innovare il modo di pianificare: anzi, il modo stesso di concepire il piano.

Il secondo corollario: quei requisiti devono caratterizzare ogni piano, non un piano di un determinato livello. Anzi, devono caratterizzare il processo di pianificazione ad ogni li vello, se conveniamo che più d'uno è il livello di governo coinvolto nel processo di pianificazione, nell'azione di governo del territorio.

Ma se questo è vero, allora forse è possibile riconoscere una validità e un senso alla tesi che ho dianzi accennato. Che, cioè, il problema di fondo non è oggi quello di consolidare le esperienze compiute negli ultimi 30 anni per ragionare con quali contenuti o procedute debba essere formato il piano provinciale o comprensoriale, il piano regionale, il quadro delle coerenze nazionali, e con quali definizioni o aggiustamenti di competenze questi differenti livelli di pianificazione debbano correlarsi tra loro e con il piano regolatore comunale. Ma che il problema da porre al centro della riflessione è quello di comprendere come deve svolgersi un'attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che in vesta con una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.

Le tendenze che devono affermarsi

Con una formulazione che può apparire paradossale, ma che non lo è, voglio affermare che il problema non è di fare un piano, ma di fare il piano, investendo l'insieme del territorio nazionale, nel corso di un unico processo di pianificazione/gestione, il quale veda il coinvolgimento e la collaborazione procedimentale degli enti di governo competenti ai diversi livelli.

E se questo è il problema di fondo di fronte al quale ci troviamo, è allora con molta umiltà che dobbiamo porci nei confronti della pianificazione e dei suoi problemi, in questi anni. Con la consapevolezza che non abbiamo certezze se non su pochi punti cardinali; che dobbiamo avere perciò la tenacia e la spregiudicatezza che sono necessarie in una fase che è, che deve essere, pienamente di sperimentazione e di ricerca.

Ma è anche con molta fermezza che dobbiamo porci per tentar di fare maturare i pro cessi di pianificazione verso l'unitarietà che riteniamo necessarie. Con uno sforzo che non deve esercitarsi solo sul terreno della riflessione e della ricerca, ma anche sul terreno dell'azione politica, amministrativa, professionale. E allora, in questa direzione, possiamo forse individuare gi alcune tendenze che devono affermarsi - nella definizione dei contenuti, delle competenze, delle procedure dei piani ai differenti livelli - perché quel processo di costruzione della unità del piano possa svilupparsi fin d'ora. Nella consapevolezza che tendere verso l'unitarietà del processo di pianificazione è cosa che certo esige un impegno e uno sforzo nella direzione della "ingegneria istituzionale", della "pianistica", della costruzione di un nuovo modello di pianificazione e di connessione tra i livelli di piano e tra quelli di governo, ma esige anche - una volta individuata la direzione lungo la quale muoversi - l'impiego di determinazione, volontà e lucidità nell'individuare le forme di coordinamento, di unitarietà parziale, perseguibili fin dall'immediato.

Unitarietà delle analisi

Mi sembra che una prima tendenza che deve manifestarsi, un primo passo che bisogna compiere, è quello di ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono, o promuovono, come base per la redazione dei piani. Le analisi che vengono effettuate dalle regioni, dalle province, dai comuni - sia sulla struttura fisica che su quella economico- sociale del territorio - non possono essere condotte più secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili, non integrabili. Quelle che vengono impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere sistematicamente integrate (oltre che verificate) da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori: le une e le altre devono essere maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenza.

E' una rete di conoscenza che ha la sua base - il suo primo elemento - nel sistema cartografico, che è l'elemento primordiale e fondamentale di ogni processo di pianificazione. E se pensiamo al costo che un sistema cartografico comporta, non possiamo non considerare un gravissimo e ingiustificato danno il fatto che ciascun ente (ciascuna Regione, ciascuna Provincia, ciascun Comune) costruisce la propria cartografia separatamente l'uno dall'altro. E' certamente benemerita l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali (forse l'unica struttura di coordinamento delle Regioni che funziona), ma è un'attività monca se e finché le Regioni si disinteressano della cartografia alle scale maggiori, se e finché anche le province e i comuni non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.

E la rete di conoscenze, in tutte le sue componenti di livello, nella sua componente a maglie larghe e in quelle a maglie via via più fitte, deve ovviamente essere aggiornata, con periodicità e sistematicità. Ebbene, è forse utopistico proporre che le date, le cadenze dell'aggiornamento siano le stesse per Regione, Provincia, Comune? Che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette e globali a quelle campionarie) sia unitario non solo nella sua concezione, nei suoi indirizzi e criteri, ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione?

Certo, perché il sistema informativo territoriale raggiunga una sua unitarietà necessario che un simile obiettivo venga perseguito da tutte le amministrazioni che hanno competenza primaria nel governo del territorio. Non possono essere le Regioni a imporlo a Province e Comuni, come oggi avviene là dove qualcosa si tenta di fare - e necessariamente in modo inefficace.

Il ruolo delle Regioni è certamente decisivo, ma deve essere chiaro che le analisi sono la base del piano: una buona analisi contiene già in sé quasi l'orditura del piano. Non è quindi ininfluente il modo in cui l'analisi viene compiuta. E non può quindi il Comune delegare ad altri - sia pure espressivi di un "livello superiore" - il modo in cui fare l'ele mento decisivo del piano.

Chiarimento delle competenze

Una seconda tendenza che deve affermarsi secondo me molto più ampiamente di quanto oggi avvenga è quella di chiarire in modo più univoco e più rigoroso quali sono gli elementi territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende, da un lato, la possibilità di definire in modo convincente il contenuto dei piani ai differenti livelli, e dall'altro il potere che ciascuno dei livelli di governo esercitare quindi le procedure. E' un chiarimento essenziale, quindi, se vediamo il problema dei diversi livelli di piano e di governo non come un problema di regolazione diplomatica di sovranità diverse (non separate da confini, come quelli tradizionali, ma racchiuse l'una dentro l'altra) ma in vece come concorso di diversi livelli di governo del territorio nella formazione e gestioni d'un unico piano.

Io continuo a restar convinto che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o comprensoriale, comunale) la determinazione prima (prioritaria) e ultima (decisionale) circa quegli elementi della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello.

Così mi sembra indubbio, tanto per fare un esempio, che esiste una competenza di livello nazionale (anche se oggi nessuno sembra in grado di esercitarla) per quanto riguarda la grande rete delle infrastrutture che compongono il sistema nazionale, così come per quanto riguarda le norme, e i conseguenti indirizzi di uso del territorio, che concernono i diritti del cittadino italiano: e tra queste norme e indirizzi io porrei, con incisività, quelle che concernono la salvaguardia e la fruizione dei beni ambientali e culturali, che dovrebbero costituire materia non irrilevante della riforma costituzionale.

Ma la competenza di ciascun livello dovrebbe esprimersi con scelte che invadano il minimo possibile l'autonomia di scelta del livelli territorialmente inferiori. Ed è possibile costruire una casistica dei diversi "margini di definizione" possibili. Esistono elementi per i quali è indispensabile individuare, nel piano di livello superiore, un'area definita (ad es., la posizione di un traforo o di un valico, o la delimitazione di un porto); altri per i quali è sufficiente un ambito di localizzazione o una direttrice (ad es., per la localizzazione di un aeroporto nel piano nazionale di una università in un piano regionale, di un istituto scolastico superiore in un piano provinciale, della giacitura di una strada in qualsiasi piano); altri, infine, che implicano solo la definizione di una quantità o di una soglia quantitativa, perché riguardano elementi della struttura territoriale influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommaria delle decisioni che ne risultano (ad es., le quantità di strutture produttive, o di popolazione, o di posti barca da attribuire come soglia inferiore e/o superiore a ogni ambito comunale e intercomunale nel piano regionale).

Mi sembra indubbio che per quanto si tenti di contenere al massimo le competenze territoriali dei livelli superiori, esse comunque incideranno sempre sensibilmente sulle scelte dei livelli territorialmente più limitati. E' inutile richiamare alla mente gli effetti devastanti che la politica delle ferrovie o quella della autostrade ha provocato sull'assetto di intere regioni, province e comuni. Si apre allora il grande problema delle procedure. Mi sembra che la tendenza che deve affermarsi che vi sia un pieno concorso degli enti di livello inferiore nelle scelte dei livelli superiori e, invece, un mero controllo da parte degli enti di livello superiore sulle scelte di competenza dei livelli inferiori.

Questa posizione ne comporta un'altra, che è bene rendere esplicita. A mio parere anche nella fase attuale - anche prima, cioè, che il sistema di pianificazione si sia evoluto fino a raggiungere quel carattere pienamente unitario che ho affermato necessario nella prima parte di questa relazione - è necessario che ciascuno dei livelli di governo che ha competenza sull' assetto del territorio definisca le proprie scelte mediante un piano. Cioè, mediante una serie di elaborati, riferiti a una base cartografica (cioè a una simulazione analogica del territorio), che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. Credo che i cosiddetti piani o programmi di settore abbiano un senso, non siano distorcenti, non siano alla fine devastanti nei loro effetti, solo se costituiscono attuazione. o specificazione, di un piano - di un quadro di coerenze - unitario e complesso.

E nell'adozione e presentazione del piano che l'ente competente per livello esplica la sua podestà propositiva. E' nella discussione del piano e nella formulazione di proposte alternative o correttive (ma sempre ponendosi all'interno dell'obiettivo della coerenza) che gli enti di livello territoriale inferiore esplicano la loro potestà di concorso. E' nella sintesi delle proposte alternative e correttive presentate, e nell'approvazione del piano, che l'ente competente per livello esplica infine la sua potestà decisionale.

Ed è solo la conformità e coerenza del piano di livello inferiore agli indirizzi, alle scelte e alle prescrizioni del piano di livello superiore la condizione sulla quale deve essere verificato in sede di controllo. Vorrei affermare - e non per provocazione - che una Regione che non ha formato il proprio piano urbanistico o territoriale non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale, e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare e corregge un piano comunale.

Politica di piano e politica di bilancio

La potestà decisionale degli enti di governo del territorio non dovrebbe però esplicarsi solo nella formazione del piano (del quadro delle coerenze territoriali). Dovrebbe manifestarsi anche, ed essenzialmente, su un altro e decisivo terreno: quello dell'attuazione del piano. Su questo terreno mi sembra debba affermarsi una tendenza che mi sembra ben lungi dal manifestarsi: la subordinazione, o se volete il raccordo obbligatorio, dalla politica di piano.

Quest'affermazione merita di essere precisata. Io sono convinto che in ogni amministrazione che abbia competenza sul territorio la capacità di governo si esplica attraverso due ordini di coerenze: quella sulle scelte economiche (appunto il bilancio), e quella sulle scelte territoriali (appunto il piano). Finché queste due dimensioni, questi due momenti, si muoveranno indipendentemente l'uno dall'altro, nelle trasformazioni territoriali la legge prevalente sarà sempre quella determinata dallo spontaneismo, individuale o aziendale, dal di sordine, dall'abuso; e nella situazione economica delle amministrazioni pubbliche (ma più generalmente della collettività) gli sprechi e le diseconomie dissiperanno risorse consistenti. Qualunque tentativo o tensione verso una austerità, verso un impiego accorto delle risorse, pretende una grande attenzione agli effetti territoriali provocati o indotti dalle decisioni d'investimento.

E, viceversa, le scelte territoriali devono tener conto delle decisioni di bilancio. Non mi riferisco, ovviamente, solo alle spese d'investimento, ma anche alle spese correnti: che senso ha decidere di pianificare e programmare il vincolo e poi l'acquisizione di aree per verde e scuole, se contemporaneamente non si impegna il bilancio per la formazione del personale che dovrà gestirle?

La salda connessione della politica di bilancio alla politica di piano deve evidentemente manifestarsi all'interno di ciascuno dei livelli di piano e di governo, per così dire "in orizzontale". Ma essa è essenziale anche, e forse soprattutto, per le connessioni tra i diversi li velli. Se in un piano di livello comunale di decide, in accordo con le decisioni di pianificazione regionale, di localizzare e attuare una determinata infrastruttura, e in relazione a questa scelta si prevedono determinate trasformazione nell'area coinvolta o connessa, oppure se in quel piano si prevede un intervento di adeguamento della capacità residenziale sulla base di un determinato programma di attribuzioni di finanziamenti operato dalla Regione, oc corre che poi il bilancio regionale sia vincolato ad eseguire effettivamente quegli investimenti previsti o programmati. E' insomma necessario che operi una connessione tra bilancio e piano anche in "verticale", anche tra i diversi livelli.

Il problema dell'efficacia

Una ulteriore tendenza e tensione che deve manifestarsi è quella che riguarda l'efficacia degli enti di governo che hanno competenza nella pianificazione territoriale e urbana.

Raggiungere questa efficacia è obiettivo irrinunciabile. E raggiungerla in modo omogeneo (in tutti i livelli di governo, in tutte le porzioni di territorio) è condizione essenziale perché la pianificazione non sia un eterogeneo insieme di atti pianificatori (dove più o dove meno credibili, dove maturi e dove del tutto assenti), ma un sistematico processo che investe l'insieme del territorio nazionale.

Affrontare questo tema, proporre questa tendenza, tentar di soddisfare questa condizione apre cero problemi complessi. Basta pensare a quello del modo di formazione, reclutamento, qualificazione, retribuzione del personale impiegato nelle attività di governo del territorio, e al gigantesco salto qualitativo che necessario compiere - in primo luogo nella consapevolezza culturale del quadro sindacale e politico. Basta pensare al problema del modo ancora arcaico e "politico" nel quale sono ripartite e frammentate le competenze nella amministrazioni pubbliche - dal Comune su su fino agli organi centrali dello Stato.

Ritengo che questo problema, il problema (e l'obiettivo) dell' efficacia del processo di pianificazione sia così rilevante che esso debba essere assunto quasi come una variabile indi pendente rispetto ad altri problemi riguardanti la forma dei piani e i livelli di pianificazione; ciò soprattutto in un situazione, come quella italiana, nella quale le realtà territoriali sono così diversificate (penso alla distanza che separa le regioni dove esiste una consolidata cultura del piano e quelle nelle quali questa è assente, penso al grandissimo numero di comuni con una popolazione di poche migliaia, o addirittura centinaia di abitanti).

In questo senso, mi sembra del tutto ragionevole che in determinate aree non vi sia un piano comunale, ma questo sia sostituito da un piano di livello intercomunale o comprensoriale o provinciale, il quale abbia la stessa efficacia del P.R.G. pur promanando (certo con le opportune interrelazioni tra i "classi ci" livelli di governo) da un livello di governo diverso: come del resto già avviene in alcun regioni.

In sostanza, se si concepisce la pianificazione come un insieme continuo che organizza il territorio nazionale come una unica e coerente rete, dove a maglie più larghe dove a maglie più fitte, il prezzo che si pagherebbe per l'inefficacia che si avrebbe in quelle aree dove la consistenza delle realtà comunali non consente di avere una sufficiente dotazione di "servizi del piano", di raggiungere e superare la soglia al di sotto delle quale la pianificazione è impossibile.

Investire risorse culturali, politiche, economiche

Perché i piani di differente livello non costituiscano una congerie di atti di scarsa o nulla efficacia complessiva, ma comincino a configurarsi come elementi di un unico, e coerente, e continuo, processo di pianificazione del territorio nazionale, è quindi necessario che, accanto e a sostegno della riflessione scientifica, si introducano - e via via si generalizzino - alcune decisive e sostanziali innovazioni rispetto al modo attuale di pianificare: innovazioni che concernono (questi sono i temi che mi sembrano più rilevanti) il coordinamento delle analisi, la definizione delle competenze per elementi della struttura territoriale, la conseguente trasformazione nel modo di formulare le procedure, la rigida connessione - a tutti i livelli - della politica di bilancio a quella di piano, l'efficacia degli enti di governo territoriali.

Credo però che si debba sottolineare come l'introduzione generalizzata di tali innovazioni comporti un consistente investimento di risorse.

In primo luogo, di risorse culturali. E' giunto il tempo di investire capacità intellettuali. Non nella coltivazione di chiusi e separati orticelli specialistici, magari contrassegnati ciascuno dal titolo di una delle diecimila materie accademiche nelle quali si frammenta il potere universitario. Non nella contrapposizione di scuole l'una all'altra impermeabile e ciascuna esaltata nella contemplazione della porzioncella di verità che possiede. Ma nella ricerca dialettica dei modi i cui deve, e può, unitaria mente configurarsi una nuova cultura del territorio.

Una volta, venti o trent'anni fa, la cultura del territorio era l'appannaggio e l'insegui mento e la predicazione di pochi maestri; oggi, può essere solo il paziente risultato di un lavoro di discussione e ;di confronto e di circolazione di idee e di verità parziali che nascono da mille laboratori, da mille esperienze, da mille realtà - disciplinari, ideali, territoriali - disseminate in tutto il paese. E' giunto il momento, io credo, di tessere le fila di questo lavoro - certo faticoso, certo impervio - di ricomposizione dei frammenti di una possibile nuova cultura del territorio.

In secondo luogo, un investimento di risorse politiche. Il futuro, in una società complessa, in un'epoca caratterizzata dai limiti delle risorse naturali, può essere diverso dalla catastrofe unicamente se la primordiale risorsa - il territorio - è amministrata con lungimiranza e con l'attenzione, vorrei dire con l'avarizia, che è necessaria quando si amministra un bene di grande scarsità. Amministrare il territorio vuol dire pianificare. Preparare il futuro per la società di oggi vuol dire gestire il potere democratico, fare politica. La risorsa politica che sembra oggi più necessario investire è la capacità di lungimiranza, di prospettiva.

Lo spegnersi delle tensioni ideologiche ha condotto, negli ultimi anni, al trionfo degli opportunismi, dei corporativismi, degli accomodamenti di breve e mediocre respiro: in una parola, al trionfo della miopia politica. Uno scatto è necessario per far sì che la politica, pur laicizzandosi, ritrovi il respiro dei grandi momenti della nostra storia, il ruolo di costruzione - attraverso il presente - del futuro.

In terzo luogo, infine, è necessario un investimento di risorse economiche. Un assetto territoriale preordinato è fonte di risparmio di risorse. Ma raggiungerlo significa investire, spendere. Innanzitutto, dotare di personale e di attrezza ture gli uffici e gli enti cui spetta di governare il territorio, metterli nelle condizioni di adoperare i sistemi, le macchine, il personale che sono indispensabili per pianificare, program mare, gestire le trasformazioni territoriali. Inoltre, spendere per investire nel territorio. Questo è stato infatti la sede di interventi così devastanti che ha bisogno di consistenti risorse semplicemente per essere risarcito; perché si possa tamponare e far lentamente cicatrizzare le ferite che gli sono state inferte per la carenza di pianificazione e programmazione, per la conseguente proliferazione dell'abusivismo e delle illegittimità sostanziali, per l'abbandono delittuoso nel quale è stata lasciata la difesa del suolo.

Per finire, la questione del regime immobiliare

L'impiego delle necessarie risorse culturali, politiche, economiche non è un'esigenza e una predicazione astratta. Ha una prima occasione sulla quale cimentarsi. E' un'occasione basilare e fondamentale, perché da essa dipende - in ultima istanza - l'efficacia di ogni possibile modo di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Mi riferisco, com'è ovvio, alla questione del regime immobiliare. L'aver lasciato per decenni irrisolta questa questione è colpa grave per quanti potevano agire e non hanno agito, come per quanti dovevano sollecitare e protestare e non l'hanno fatto, o l'hanno fatto troppo debolmente e sporadicamente. Finché quella questione non sarà risolta, finche permarrà l'incertezza sul modo in cui potestà pubblica e diritti patrimoniali privati trovano le regole dei loro reciproci comportamenti, finché insomma espropriazioni, indennità, vincoli, convenzioni saranno lasciate alla discrezionalità degli amministratori e all'oscillazione della giurisprudenza, l'attività di pianificazione e programmazione resterà qualcosa più vicino alla sfera dell'accademia che a quella del concreto intervento sul territorio.

Venezia, novembre 1984

1.Paesaggio, territorio, società

Il paesaggio rappresenta ed esprime il rapporto, diverso nelle diverse fasi della storia, che lega la società al territorio. Un rapporto che non va in una direzione soltanto. La società, collaborando con la natura (o violentandola) costruisce il paesaggio, come ha magistralmente dimostrato Emilio Sereni1. Ma il paesaggio, condizionando la vita dell’uomo, contribuisce a sua volta a modificare la società, come ha raccontato brillantemente Piero Bevilacqua2.

Ragionare sul paesaggio in Italia, domandarci in che modo in questi anni appena trascorsi e nei prossimi si trasforma e si trasformerà il paesaggio della Bella Italia ci porterà quindi ad affrontare i due aspetti della questione: il paesaggio e il territorio. Cominciamo da quest’ultimo.

2. Il territorio

Il territorio non è uno spazio neutrale e indifferente, come lo possiamo immaginare vedendo una piatta carta geografica. Il territorio è una realtà complessa, è un sistema nel quale tutte le parti sono in reciproca relazione, e un’azione su una esercita modificazioni su tutte le altre. Del territorio il paesaggio è la forma, il volto: come un viso esprime l’anima di un uomo, così il paesaggio riflette il carattere, la struttura, la storia – e infine la bellezza o la bruttezza – del territorio.

Il carattere del territorio italiano è espresso da due elementi essenziali, che lo rendono del tutto particolare. È un territorio accidentato e fragilissimo. È un territorio ricchissimo di testimonianze storiche. Ed è proprio l’intreccio tra questi due caratteri che ne fa la singolarità, la bellezza, la ricchezza.

L’uno e l’altro carattere, ciascuno per se stesso, meriterebbe (dobbiamo dire:”avrebbe meritato”) un massimo di cura e attenzione. Per evitarne il degrado fisico, reso facile dalla sua fragilità. Per evitarne il degrado estetico e culturale, la cancellazione della storia di cui è intriso e della bellezza che ne sintetizza le qualità.

Eppure, sappiamo tutti che questo territorio, questo paesaggio, questo insieme di bellezze e ricchezze e qualità, è soggetto a un deperimento che sembra irreversibile. Ne hanno distrutto (ne abbiamo distrutto) una grandissima parte. Si sono accaniti sulle sue parti più belle: le coste, le valli, i boschi. Si sono accaniti nelle pianure più fertili, nei terreni resi fecondi da milioni di anni di depositi vulcanici o alluvionali.

E si sono accaniti su margini delle città, creando una nuova caratteristica del paesaggio italiano d’oggi: mi riferisco alla perdita del confine tra la città e la campagna, tra il costruito e il libero, tra l’urbano e il rurale. In qualunque altro paese dell’Europa civile questo confine permane netto: basta sorvolare il territorio in aereo o col computer per rendersene conto.

3. La società

Veniamo all’altro protagonista della storia del paesaggio, e all’altro responsabile del suo presente e del suo futuro: la società. È facile affermare che la nostra società è radicalmente mutata dai secoli che hanno conformato i nostri paesaggi più belli. Meno facile è comprendere il senso del cambiamento, la sua radice, le sue conseguenze sul territorio. Meno ancora è l’afferrare i cambiamenti che sono in corso nei decenni più vicini a noi: vi siamo ancora dentro.

La radice del cambiamento sta in quel grandissimo evento che fu la rivoluzione borghese – che si svolse tra il XVIII e il XIX secolo – e la conseguente affermazione del sistema economico capitalistico. Quell’evento provocò grandissimi benefici al genere umano (soprattutto nelle regioni del mondo dove mise più profonde radici) ma anche grandissimi disastri.

La nostra cultura impiego molto tempo per rendersi conto che uno dei disastri più grandi fu quello che è derivato dal cambiamento del rapporto tra uomo e natura. Questo cambiamento toccò due punti fondamentali: l’uso del territorio e la sua appartenenza.

Per secoli l’uomo ha utilizzato la natura rispettandola, adeguandosi ai suoi ritmi, alle sue regole, alle sue forme. L’ha trasformata e foggiata, ha costruito – come ha scritto Emilio Sereni – una “seconda natura”, conformata dal lavoro dell’uomo. Ma non l’ha violentata, non l’ha negata, non l’ha cancellata. I nostri più bei paesaggi, quando non sono quelli direttamente prodotti dalla natura, sono quelli prodotti dalla collaborazione (verrebbe da dire “paritetica”) tra l’uomo e la natura. Il senso della misura, dell’equilibrio, della riproducibilità delle risorse naturali sono stati per secoli i connotati del lavoro dell’uomo. La Repubblica Serenissima di Venezia, nel XV secolo, ordinò che tutte le trasformazioni della natura lagunare dovesse essere ispirate ai tre criteri della gradualità, sperimentalità, reversibilità: era la codificazione di una norma non scritta che già vigeva da secoli.

E per secoli il territorio è stato considerato un bene comune. Gli “usi civici”, le “università agrarie”, le “regole” che definiscono gli usi comunitari di vaste zone dell’Italia sono una permanenza ancora viva di questa realtà.

Tutto questo è cambiato. Proprio quando l’aumento della popolazione avrebbe richiesto una maggiore parsimonia nell’uso della natura questa da coprotagonista è diventata schiava. Anzi, la natura è diventata materia prima d’ogni trasformazione richiesta dall’esigenza del continui e inarrestabile allargamento del processo di produzione: del processo di trasformazione dei beni in merci, delle qualità in quantità. La società è diventata, da partecipe alla costruzione del territorio e del paesaggio, divoratrice dell’uno e dell’altro. Uno dei passaggi decisivi di questo processo è stato l’appropriazione privata del territorio, la frantumazione dei beni comuni in una miriade di proprietà private.

4. La fase aristocratica della tutela

La necessità di proteggere il paesaggio cominciò ad acquistare rilevanza istituzionale, in Italia, nei primissimi decenni del secolo corso. Mi sembra di poter dire che in una prima fase, che ha caratterizzato l’intera prima metà del XX secolo, ha prevalsu una visione aristocratica del paesaggio in tre sensi. (1) La consapevolezza del “valore” del paesaggio era percepita esclusivamente dalle aristocrazie culturali e politiche, dai “ceti alti” della cultura e del reddito. (2) Il “valore” del paesaggio era individuato solo nella sua qualità estetica, e i luoghi da tutelare erano i “bei paesaggi”. (3) Anche in conseguenza di ciò, la tutela era affidata allo Stato.

Una intuizione che andava al di là di questa concezione può dirsi quella espressa da un ministro della Pubblica Istruzione che si chiamava Benedetto Croce. Questi introdusse per la prima volta il nesso tra paesaggio e identità di un territorio.

Il filosofo napoletano, quale ministro per la Pubblica istruzione nell’ultimo ministero Giolitti, scrive nel 1920:

“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo”3.

È interessante rilevare che è dall’ambito di una visione estetica (la quale oggi ci appare limitata) del paesaggio che nasce, in Italia, l’esigenza della tutela e la sua interpretazione in funzione dell’identità nazionale. E la responsabilità di questa tutela non può che appartenere allo Stato, espressione della collettività nazionale. È su questa stessa linea che si collocano le leggi Bottai del 1939, sia pure cogliendo alcuni elementi di novità per quanto riguarda soprattutto la strumentazione.

5. La fase democratica della tutela

Il quadro cambia radicalmente con la costituzione della Repubblica. Nella Carta costituzionale della Repubblica italiana (1948) la tutela del paesaggio entra tra i massimi principi del nostro ordinamento. Il testo attualmente vigente (speriamo che resista ancora alle spallate demolitorie!) dell’articolo 9 della Costituzione è il seguente: «la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

La Repubblica, non lo Stato: la Repubblica è costituita da stato,regioni,province e comuni. È a questo insieme di istituzioni che è affidata la tutela:non a una soltanto di esse, sebbene la Costituzione lasci aperta la possibilità di attribuire ruoli e preminenze diverse alle diverse istituzioni – e sappiamo che successivamente si sono configurate responsabilità in capo soprattutto, ma non esclusivamente, a Stato e regioni.

Ho voluto sottolineare questo aspetto perché questa attribuzione molteplice della tutela del paesaggio significa anche che, quando una delle istituzioni non adempie correttamente alla sua responsabilità, altre possono esercitarla in sua vece. Si può sostenere insomma una sorta di diritto (o dovere) di supplenza: se lo Stato non tutela adeguatamente, la regione o la provincia o il comune hanno il diritto/dovere di intervenire. E viceversa, se la Regione opera male e non tutela, il dovere dello Stato è di intervenire anche laddove la competenza formale sia stata attribuita alla regione.

L’equilibrio delle istituzioni è un elemento fondamentale di una democrazia ben operante. Credo che parteggiare per l’una di esse contro l’altra, per il centralismo statale oppure per il localismo comunale, sia un errore, e un limite al raggiungimento di risultati positivi. Utilizzando il detto di Deng Tsiao Ping, direi che bisogna scegliere volta per volta il gatto che afferra meglio il topo.

Nella concretezza delle situazioni territoriali, per molti anni, il compito della tutela è stato svolto più dai livelli locali della Repubblica che da quelli centrali. Negli anni 60 e 70 del secolo scorso spesso sono stati comuni virtuosi, con una pianificazione urbanistica avveduta e lungimirante, ad esercitare una tutela efficace sui loro territori. Soprattutto là dove la loro azione era accompagnata, e spesso preceduta, da una politica dei partiti (soprattutto ma non esclusivamente dai partiti della sinistra) che vedeva nella tutela delle qualità del territorio un elemento della sua proposta politica. Mi riferisco ad aree come la Toscana, l’Emilia-Romagna, l’Umbria, il Trentino e il Sud Tirolo, ma anche il Piemonte, parti della Lombardia e del Veneto. Se in molte parti di questa regioni noi vediamo ancora paesaggi sopravvissuti all’onda cementizia lo dobbiamo anche a valorosi sindaci e ad avveduti dirigenti politici di quegli anni.

Ma in quegli stessi anni abbiamo anche registrato episodi in cui sono stati gli organi centrali a correggere scelte comunali perverse e distruttive. Ricordo ancora la riscrittura di un PRG di Napoli devastante, nel 1972, compiuta dal Consiglio superiore dei LLPP (artefici principali Antonio Iannello e Michele Martuscelli). E ricordo l’intervento del ministro allo stesso dicastero, Giacomo Mancini, che salvò l’integrità dell’area dell’Appia Antica con una correzione autoritativa del PRG di Roma.

Bisogna dire che in quegli anni non c’era solo una Costituzione che costituiva un punto di riferimento certo, ma anche una cultura politica e un senso dello Stato che consentivano di guardare lontano: anche agli interessi del futuro.

Mi sembra di poter dire in sostanza che con la Costituzione si era entrati, dalla fase aristocratica della tutela, alla fase democratica, di cui forse il Codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce l’ultimo momento. Purtroppo devo aggiungere che, a mio parere, siamo entrati in una fase ulteriore, che definirei la fase post-democratica. Una fase dalla quale solo il consolidarsi, propagarsi ed estendersi di iniziative come la Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio potrà consentirci di contribuire all’uscita. Ma vediamo in che cosa la presente fase si caratterizza.

6. La fase post-democratica

Della fase attuale vorrei mettere in evidenza tre caratteristiche, che riguardano i cambiamenti intervenuti nella politica, nella società, nella cultura dominante, e che sono le cause vicine o lontane di tutti i disastri che dobbiamo registrare e patire, sia nella vita del territorio che in quella della città – e quindi, nella vita delle generazioni presenti e di quelle future: il rapporto tra il tempo del territorio e il tempo della politica; il rapporto tra la dimensione pubblica e quella privata nell’uomo; il rapporto tra l’economia, la politica e il territorio.

Sul primo punto. Si è determinata una frattura crescente tra i tempi lunghi del territorio, della sua formazione e delle sue trasformazioni, e i tempi brevi della politica. Il territorio vivi tempi lunghi, a volte lunghissimi. Milioni di anni sono stati necessari per foggiare la forma dei nostri territori: per far emergere le montagne, corrugarsi le valli, formarsi con i sedimenti vulcanici e con quelli alluvionali e fertili pianure. Millenni di lavoro e la cultura di generazioni sono stati necessari per formare i paesaggi che oggi ammiriamo, e che fanno della nostra terra un mosaico di bellezze. Lustri e a volte decenni sono necessari perché gli effetti indotti dalle trasformazioni programmate, per esempio, da un piano regolatore, si traducano in concrete modificazioni del modo in cui città e territorio sono organizzati e vissuti dai cittadini.

Una saggia politica del territorio avrebbe bisogno di una politica lungimirante, capace di costruire una strategia, un progetto di società e un conseguente progetto di città, e di realizzarlo con pazienza e con costanza. Oggi, invece, la politica si è interamente appiattita sul breve periodo: è diventata miope. Non ha la pazienza di seminare e di attendere il raccolto: vuole raccogliere subito, portare via quello che già c’è. Il fatto è che, anche nella politica, ciascuno (ciascuna persona, ciascun gruppo, ciascun partito) guarda al suo interesse immediato. Vale solo ciò che è spendibile prima delle prossime elezioni. È evidente che una visione simile è distruttiva per il territorio.

Sul secondo punto. Nel corso della sua lunghissima vicenda l’uomo ha imparato che non tutte le esigenze della sua vita possono essere soddisfatte individualisticamente. Così, nel corso della lunghissima elaborazione dei bisogno e del suo progressivo soddisfacimento, l’uomo ha arricchito la sua stessa natura. L’uomo ha così acquisito una duplice componente della sua natura: in ciascuno di nui c’è la componente individuale, personale, privata, e la componente comunitaria, sociale, pubblica. Questa due componenti, l’uomo privato e l’uomo pubblico,hanno storicamente raggiunto un equilibrio. Nell’ultima fase, la fase che attraversiamo, l’uomo privato ha cacciato l’uomo pubblico: la persona umana si è individualizzata: siamo entrati nella fase, per adoperare le parole del sociologo Richard Sennett, del “declino dell’uomo pubblico”4.

L’individualismo è diventato trionfante: è la pulsione dominante. Si è persa la consapevolezza che più la società diventa complessa più cresce la necessità di risposte comuni a problemi comuni. La città e il territorio, i problemi che pongono, la necessità di governare in modo ragionevole e lungimirante le loro trasformazioni esigono invece una forte presenza dell’uomo pubblico che c’è in ciascuno di noi: un forte senso della responsabilità collettiva, una forte disponibilità ad azioni collettive.

Il terzo punto. In una società bene ordinata l’economia è certamente una dimensione importante. Ma ogni fase dell’economia ha avuto un suo motore, un suo obiettivo dominante. L’economia nel cui ambito viviamo da alcuni secoli, l’economia capitalista, ha come suo motore la ricerca del massimo profitto da parte di ciascuno dei possessori dei mezzi di produzione. Questo obiettivo è raggiungibile mediante la massima produzione di merci. Ora non è detto che questo obiettivo corrisponda al massimo del benessere sociale. Perciò la politica si è sempre posta il problema di guidare l’economia, o almeno si è posta, nei confronti dell’economia, come un altro potere. La storia della democrazia può essere letta proprio in questo modo: come quella diell’affermazione di un potere che, esprimendo gli interessi della maggioranza dei cittadini, potesse contrastare, o almeno condizionare e condividere, gli interessi dei padroni dell’economia.

È ormai chiaro a tutti che la politica si è completamente appiattita sul potere economico. Si è costituita una ideologia, un modo corrente di pensare, per il quale l’economia data, questa economia, è considerata inevitabile: al punto che la politica non riesce più a pensare alla sperimentazione di alternative percorribili. E poiché per questa economia non esistono beni (cioè cose cha abbiano valore per sé) ma solo merci (cioè oggetti scambiabili con denaro) ecco che si tende a trasformare in merci anche beni preziosi come il paesaggio, la storia, la bellezza del nostro territorio, le sue risorse irriproducibili: in una parola, il suo patrimonio.

7. Occorre ripartire: da dove?

Queste sono le tendenze in atto. E credo che, se ci sforziamo un poco, riusciamo a leggerle in ciascuno degli episodi di dissipazione del paesaggio a cui assistiamo, e in ciascuna delle cause immediate a cui li facciamo risalire. Sul fatto che, lasciando il mondo in balia di queste tendenza, si tenda verso una catastrofe esiste ormai una vstissima letteratura. Il bellissimo ultimo libro di Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo5, ne costituisce un quadro di grandissima efficacia.

È impossibile, almeno per me, comprendere se il sistema economico sociale capitalistico sarà in grado di auto correggersi (Franco Rodano sosteneva che il capitalismo è come Proteo, il mostro che cambiava continuamente forma e natura per sfuggire alla stretta di Ercole), oppure se sarà necessario e possibile immaginare e costruire un sistema del tutto diverso. Quello che so è che, in qualunque modo il cambiamento si manifesti, sulla direzione di marcia influiranno le sollecitazioni che verranno dalle controtendenze che si manifesteranno nella società.

E devo dire (lo scrivo da tempo sul sito web eddyburg e sul settimanale Carta) che vedo ben poche cose si muovono in controtendenza nelle istituzioni e nell’accademia, non ne vedo nessuna nella politica ne vedo invece molte nella società.

In tutt’Italia si manifestano ormai tensioni e interessi che si esprimono in quasi tutte le regioni d’Italia e spesso si concretano nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.

In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze).

Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale pubblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati. Del resto, gli studiosi che analizzano gli effetti del neoliberalismo negli ambiti urbani prevedono già lo svilupparsi di nuovi conflitti, generati dall’aggravarsi del problema della casa, dalle carenze o dai maggiori costi dell’acceso a servizi ormai indispensabili alle famiglie, dal crescere del disagio derivante dall’organizzazione dei trasporti.

I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.

È un lavoro nel quale spetta anche agli esperti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. E insieme alla corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliorano o peggiorano, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.

1 Emilio Sereni. Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1961.

2 Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1969

3 B. Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920.

4 Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006

5 Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma Bari 2008

Un indicatore ormai classico della salute dei fiumi è la quantità dei pesci che risalgono la corrente. Franco La Cecla, un bravo antropologo che ha insegnato da noi a Venezia, mi indusse a comprendere che la salute di una città è rivelata dalla quantità dei bambini che stanno per strada.

Naturalmente (e prevengo subito un’obiezione possibile) quando pensiamo a una città in buona salute non pensiamo a una città le cui strade sono popolate dai bambini e dai ragazzi che Roberto Saviane descrive nel bellissimo e scandaloso Gomorra: a una città schiava dei clan camorristici che utilizzano i bambini per strada come servi delle aziende malavitose. Pensiamo a una città normale, dove vige la “legge comune”, dove le cittadine e i cittadini sono rispettosi degli altri e dei diritti di ciascuno, dove magari ciascuno ilo sabato lava l’automobile davanti casa per andare il pomeriggio all’outletfactory o allo shopping center, dove la domenica invita gli amici a mangiare arrosto al barbecue nel giardinetto, e gli altri giorni fa la fila per raggiungere l’ufficio o accompagnare il bambino a scuola.

In questa città, nella città dove abitiamo, bambini per strada ce ne sono pochi. Prevalentemente sono accompagnati. Spesso i marciapiedi sono occupati dalle automobili, non dai pedoni né dalle carrozzine. Spesso le piazze sono dei grandi parcheggi, a volte organizzati a volte casuali: raramente sono rimasti luoghi d’incontro, di svago, di apprendimento reciproco, di confronto, di esibizione, di festa.

Penso a Venezia, penso ai suoi campi i quali – quando non sono resi deserti dall’abbandono demografico e dalla monocultura turistica – sono luoghi vivi, ricchi di animazione e di persone di tutte le età e le condizioni. Penso che una volta tutte le città erano ugualmente vissute nei loro spazi pubblici; che una volta ogni paese, anche il più piccolo e periferico, aveva la sua piazza, il suo fuoco della vita sociale.

Perché non è più così? Occorre domandarselo. Occorre chiedersi qual è la radice del problema. Se non si parte dall’individuazione del problema non si trovano soluzioni: si possono solo applicare cerotti, si può solo nascondere il problema, o allontanarlo un poco.

Vogliamo dare ai bambini e ai ragazzi la chiave della progettazione della città. Ma per dargliela non come un giocattolo, ma come uno strumento per agire, allora dobbiamo innanzitutto aiutarli a comprendere che cosa la città è e che cosa potrebbe essere, che cosa è stata, perché è diventata quello che è, e come si può rinnovarla nel suo modo di essere: quindi, in che direzione, verso quale visione di città la sua progettazione deve essere indirizzata.

C‘è chi sostiene (e io sono tra questi) che la città è stata inventata quando l’uomo ha sentito il bisogno di stare insieme perché solo così, solo in comunità, riusciva a soddisfare esigenze nuove che erano nate nel corso dello sviluppo economico e sociale della civiltà umana. Se riflettiamo a fondo sulle vicende della nascita e dello sviluppo della città, ci rendiamo conto che essa è nata come luogo finalizzato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze che i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano risolvere da soli. E’ nata per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali.

Riconosciamo chiaramente questa natura della città se osserviamo ciò che rimane delle città foggiate prima dei tempi moderni: i nostri “centri storici”. Ho citato Venezia, ma in tutte le parti antiche delle città possiamo vedere come i luoghi, gli spazi, gli edifici dedicati alle esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali hanno caratterizzato le città, hanno dato a ciascuna di esse una particolare identità e riconoscibilità, sono state la ragione della sua particolare bellezza.

Osserviamo con uno sguardo attento ai siti, e cercando di immaginare la storia che sta dietro ad essi, i centri storici delle città italiane o francesi, tedesche od olandesi, spagnole o austriache. Lo sguardo sarà colpito da alcuni grandi edifici, adorni e ricchi, più maestosi degli altri, collocati al margine o al centro di piazze, o sistemi di piazze, a loro volta abbellite da fontane e statue e da studiate pavimentazioni. E magari ricorderemo le antiche storie che ci raccontano come in questi luoghi (nella piazza della cattedrale o in quella del palazzo del governo o in quella del mercato) donne e uomini, vecchi e bambini si incontravano nelle ore del lavoro e in quelle dello svago, e come in quegli stessi luoghi i cittadini accorrevano a frotte, in ogni occasione gioiosa e festosa, o ad ogni allarme o pericolo.

Ma non sono soltanto questi “monumenti” a costruire l’immagine della città, a costituire la sua identità Se non ci lasciamo distrarre più del dovuto dalla Grande Opera della Cattedrale o del Palazzo, osserviamo ancor oggi che la loro bellezza non sta solo nei loro volumi, ma dal contesto nel quale sorgono, che ne sottolinea - e quasi ne determina – lo splendore. Osserviamo ancora oggi, attorno a questi edifici e spazi, il regolare allinearsi delle casette “normali”, dove abitano e lavorano i cittadini e le loro famiglie: case uguali nelle strutture (le altezze, le larghezze, la forma del tetto, il modello delle finestre, nelle regioni piovose il portico sulla strada principale). Come nel contrasto armonico tra il coro e la voce solista, l’uniformità regolare della “edilizia minore” sottolinea l’importanza, la centralità, il ruolo dominante dei grandi volumi e dei grandi spazi (la cattedrale, il mercato, il palazzo del governo, il tribunale): i grandi volumi e i grandi spazi nei quali si identifica e si celebra la città.

La città si manifesta insomma come un insieme organico di opere, concepite e prodotte per soddisfare le esigenze non solo delle singole famiglie (la casa) ma della società nel suo insieme. Perciò affermo stesso (e torneremo su questa affermazione) che la città non è un insieme di case, ma è la casa della società.

Questa era la città, nei secoli nei quali l’uomo la inventò e la rese la più bella e la più ricca – la più complessa - delle sue costruzioni. In essa non mancavano le contraddizioni e i contrasti, ma si trattava di momenti di una dialettica nella quale lo “spirito cittadino” finiva per prevalere sulle divisioni. Le condizioni di igiene e di sicurezza non erano certo confrontabili a quelle che la civiltà moderna consente, nei suoi luoghi più alti, di raggiungere: ma, appunto,erano condizioni condivise, di cui tutti ugualmente pativano e che dipendevano dal generale livello di progresso tecnico raggiunto.

Oggi moltissimi vivono il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell’uomo e della donna dei nostri tempi (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Oggi la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, per persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri: a causa del traffico e del rumore, del pericolo, del prezzo delle case, dello stesso disegno degli spazi pubblici. Oggi la nostra salute è minacciata dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, i rumori ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Oggi l'abnorme produzione di rifiuti minaccia di seppellirci.

Voglio sottolineare soprattutto quell'aspetto della crisi della città che è il traffico: è forse il nemico peggiore dei bambini nella città, il maggiore concorrente per l’uso dei loro spazi, il maggior rischio per la loro incolumità.

Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità è l'aspetto più emblematico e paradossale della crisi della città. Questa è stata infatti storicamente (l’ho appena ricordato) il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della “civiltà dell'automobile”, nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.

E i luoghi dedicati all’incontro, allo scambio, alla reciproca partecipazione delle informazioni e dei sentimenti di persone appartenenti a età, ceti, condizioni, mestieri diversi – le piazze, i luoghi simbolo della città – sono divenuti le aree destinate al deposito degli ingombranti attrezzi di metallo, le automobili, divenuti più importanti delle persone cui dovrebbero servire.

Perché questo è avvenuto? Esiste una letteratura ampia e contraddittoria sulla crisi della città: una crisi di cui certamente molte sono le ragioni. Ma c’è una ragione che è centrale e nodale per comprendere.

All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati dal processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto in Europa, fin dalla fine del Settecento un poderoso aumento della popolazione e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Nell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.

Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. Fino alla nascita delle megalopoli e del “pianeta degli slum” – che comincia a caratterizzare gran parte dell’odierna umanità urbana - le città sono state luoghi nei quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini erano tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendevano di essere soddisfatte. E’ nata quindi una fortissima domanda di fruizione urbana: di lavoro “libero” (affrancato dalla servitù), di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.

Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.

Un aspetto particolarmente importante della crisi della città è costituito dal cambiamento profondo che v’è stato nella proprietà del suolo urbano. Prima del trionfo del sistema capitalistico borghese il suolo della città era generalmente indiviso: sia che appartenesse a un potente del sistema signorile (re o vescovo o feudatario che fosse), sia che le istituzioni cittadini lo avessero riscattato, esso apparteneva a un unico proprietario. Quando anche la proprietà era attribuita a soggetti diversi, in ogni caso la sua gestione era attribuita a un organo che esprimeva la collettività. In particolare apparteneva al governo della città la decisione sul dove costruire, che cosa, con quali regole.

Su questa base, la città poteva sorgere con la funzionalità e la bellezza che i suoi costruttori desideravano. E le trasformazioni rese necessarie dal mutamento delle esigenze e delle condizioni potevano avvenire senza dover sottostare ai vincoli di una proprietà parcellizzata e dominatrice.

Ad un certo momento della storia tutto ciò scomparve. Si era manifestato un cambiamento radicale delle regole che governavano la società. Una nuova classe si era impadronita del potere togliendolo alla classe dei grandi proprietari fondiari, ai re e alle loro corti: era avvenuta la “rivoluzione borghese”, che sbalzò dai troni e dai castelli i monarchi e il loro seguito di feudatari e insediò al loro posto i rappresentanti della borghesia.

La rivoluzione borghese, là dove si manifestò, portò grandi vantaggi all’umanità: aumentò enormemente la produzione di beni materiali, migliorarono l’alimentazione, la salute, il benessere delle persone e dei popoli direttamente interessati (non altrettanto può dirsi dei popoli invasi dal colonialismo). Me nelle stesse aree del mondo dove aveva trionfato essa distrusse qualcosa che meritava di sopravvivere. Scomparve la proprietà indivisa della terra,scomparve la base strutturale che aveva permesso alla città di essere bella e funzionale. Come ha scritto un acuto studioso e un appassionato propagandista della questione, Hans Bernoulli, “il suolo era divenuto libero. Non era più proprietà né titolo di diritto della nobiltà o del clero: era dei borghesi o dei contadini ai quali era stato ripartito o venduto. Allora non si pensava affatto a riportare il terreno alla proprietà comune”[1].

“Allora non si pensava affatto”: non si riflette mai abbastanza al fatto che la storia che conosciamo, la registrazione degli eventi accaduti, non esaurisce tutte le possibilità; allora andò così, ma avrebbe potuto anche andare in un altro modo. Allora, tuttavia, la borghesia, che aveva inventato e promosso la dimensione sociale nella fabbrica (un luogo dove gli individualismi non possono sopravvivere alla catena di montaggio), non riuscì a proiettare quella medesima dimensione nella città. L’abbandonò all’individualismo più sfrenato, alla speculazione più devastante.

Enormi sono state le conseguenze di questa trasformazione nel destino delle città. Il suolo urbano non fu più la base della “casa della società”, il fondamento dell’ordine e della bellezza della città: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo. La liquidazione della proprietà indivisa del suolo generò necessariamente la speculazione. Da quel momento in poi, per la città, tutto fu più difficile.

La lotta per conquistare, nei tempi moderni, migliori condizioni di vita (e soprattutto di vita comune) nelle nostre città ha sempre dovuto scontrarsi con la volontà dei proprietari delle aree di lucrare il massimo possibile dall’utilizzazione edilizia della loro proprietà. Questo scontro è sotteso a tutte le vicende urbanistiche delle nostre città, e anche a una parte consistente di quelle più generalmente politiche.

Un momento particolarmente espressivo fu costituito da quella stagione (parlo degli anni Sessanta del secolo scorso) quando vide la luce una legge che stabiliva gli standard urbanistici: che prescriveva che in tutti i piani regolatori delle città dovesse essere riservata una determinata quota di spazi da destinare alle esigenze collettive dei cittadini: scuola, verde, ricreazione, salute e così via.

Fu una lotta aspra, che acquistò in determinati momenti il carattere di una vertenza di massa. Furono decisivi tre aspetti: il movimento dell’emancipazione femminile, che pretendeva che al nuovo ruolo produttivo delle donne si accompagnassero provvedimenti che riducessero il peso lavoro domestico; gli esempi che provenivano dalla saggia amministrazione di numerose città italiane, soprattutto in Emilia Romagna e in Toscana; i tentativi dei settori più avanzati dell’industria di ridurre il peso della rendita immobiliare e di ottenere, anche per questa via, un miglioramento delle condizioni di vita nelle città, che inevitabilmente si ripercuotevano sulle tensioni rivendicative dei salariati.

Credo che la stagione delle riforme (riforme della struttura del paese) avviata negli anni del primo centro-sinistra sia ancora tutta da studiare. C’è da riflettere sui risultati che allora furono raggiunti, delle ragioni per cui a un certo punto il vento cambiò direzione e le conquiste raggiunte, lungi dal prolungarsi, vennero abbandonate e – spesso – rovesciate nel loro contrario. Certo è che oggi il peso della rendita immobiliare, sempre forte nel nostro paese per ragioni che affondano nella storia della sua unità statuale, è aumentato a dismisura rispetto a quegli anni.

C’è da riflettere, ma soprattutto c’è da domandarsi che cosa si può fare, nel concreto, per trasformare le cose: per rendere oggi la città più vicina alle ragioni della sua creazione: più bella, più amica delle cittadine e dei cittadini e soprattutto dei più deboli. Credo che sia importante partire proprio dai bambini, sia perchè – come dicevo all’inizio – la loro presenza nelle strade, le piazze e i luoghi pubblici è un indicatore della salute della città, sia perché è a loro che è affidato il futuro, e quindi è importante la direzione di marcia che ad essi viene impressa dall’ambiente nel quale vivono.

Sono convinto che per dare ai bambini la chiave della progettazione della città, come promette il titolo di questo intervento, occorre fare in primo luogo uno sforzo di fantasia: ribaltare il modo di vedere, pensare la città e, a partire da questo ribaltamento, riprogettare e ricostruire la città. Non vi preoccupate: non saranno necessarie demolizioni massicce, solo un modo nuovo di fare cose che comunque si fanno, o si devono fare. Proverò a spiegarmi.

Ho detto all’inizio che la città non è un insieme di case. Eppure, nella testa delle persone (e anche nell’immaginazione e nei disegni di molti bambini, e nei progetti di molti urbanisti) la città non è altro che un insieme di case collegate tra loro da una rete di strade. Questo è il “pieno” della città, a cui fa riscontro il “vuoto” costituito dagli spazi liberi, dai residui di campagna in attesa di edificazione, dai corsi d’acqua sopravvissuti come discariche, e dagli spazi più o meno avaramente concessi agli usi collettivi.

Questa è la concezione e la struttura della città che occorre rovesciare, manifestando una diversa intenzione di vivere la città, obiettivi diversi da quelli di avere più case e più automobili, e un progetto di città diverso. Un’operazione non utopistica, come non è utopistico rovesciare un guanto. Un’operazione che è stata tentata in più occasioni. Io stesso, ho partecipato a tentativi interessanti ( a Carpi, a Imola, a Sesto Fiorentino) che brevemente riassumerò precisandone l’intenzione, gli obiettivi e il progetto che ne risulta.

L'intenzione è quella di rovesciare modo tradizionale di considerare la città: di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi della ricreazione e della ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al “consumo comune” (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).

L'obiettivo, di conseguenza, è quello di costruire un "sistema" formato dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali, culturali collegandole fra loro sia attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale protetto più filari di alberi) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.

Nelle città grandi e medie la formazione di un piano regolatore o di un piano particolareggiato sono l’occasione giusta per cominciare la costruzione di un sistema di spazi ispirati a questa intenzione e a questo obiettivo. Ma la rivendicazione di un uso diverso degli spazi comuni può essere un tema ricorrente per dare ai bambini le chiavi della città. Non c’è borgo, non c’è paese nel quale non vi siano germi o possibilità di luoghi per la comunità. Non c’è borgo e non c’è paese nel quale non si possano strappare alle automobili spazi per incontrarsi, per stare insieme, per giocare insieme e imparare insieme gli uni dagli altri, per organizzare meglio la propria vita sociale.

Centrare l’attenzione sull’uso degli spazi pubblici, sulla loro qualità, sicurezza, accessibilità, vitalità e vivibilità non è cosa che sia utile solo ai bambini. E’ un contributo generale a costruire una città migliore e, attraverso essa, una società migliore.

Sono convinto che la città può essere ricondotta a essere l’ambiente favorevole alla vita dell’uomo se gli uomini saranno capaci di restituirle, anche nelle cose, la sua natura originaria di “casa della società”: di luogo (o insieme di luoghi) la cui forma e la cui funzione siano complessivamente al servizio di quelle esigenze che l’uomo, maschio o femmina che sia, non è capace di soddisfare da solo, ma riesce a soddisfare efficacemente, economicamente, durevolmente, solo se insieme agli altri e per tutti.

La città nel suo insieme e le sue parti vitali devono quindi essere visti, sentiti e organizzati come “beni comuni”. Beni quindi, e non merci: prodotti e servizi che valgono di per sé, non in quanto possono essere scambiati con altri o con la moneta. Comuni quindi, e non individuali: elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.

Il primo passaggio operativo che, secondo logica, discende da questa asserzione è che la disponibilità del suolo sul quale la città è costruita appartenga alla collettività, attraverso le istituzioni che la esprimono. Non necessariamente nel senso che divenga pubblica la proprietà del suolo, ma nel senso che la collettività sia padrona delle decisioni su ciascuna delle trasformazioni che concorrono a fare della città uno strumento utile alla società, e dei valori, anche economici, che dalle scelte e dalle opere della collettività derivano.

Il secondo passaggio operativo è che le trasformazioni della città (la sua espansione, il completamento, il restauro, il rinnovo, la ristrutturazione delle sue parti, l’integrazione e il rifacimento dei suoi elementi, l’introduzione delle innovazioni tecnologiche e così via) avvengano nel rispetto del carattere sistemico della città, della sua natura di organismo, di insieme di parti tra loro legate in modo che le modifiche di ciascuna di esse influisce sul funzionamento di ciascuna delle altre.

“Il tutto è più importante delle sue parti”: questa frase rappresenta con efficacia la città, la visione olistica che è necessaria per comprenderla e per governare le sue trasformazioni. Ma essa ci rinvia anche a un altro e più vasto “tutto”.

La città è parte del territorio, delle nostre regioni e continenti e del nostro pianeta. La città è una parte della crosta terrestre. E’ quella parte nella quale più intense sono, a un tempo, l’accumulazione di cultura e la dissipazione di energia. La città è il luogo dove sono massimi la creatività dell’uomo e la sua capacità distruttiva. La città, quindi, è anche il luogo dove al massimo possibile la creatività dell’uomo, e la sua capacità di inventare l’ambiente della propria vita, devono essere impiegate per recuperare un equilibrio con la natura.

La natura è qualcosa che la cultura e il lavoro dell’uomo sono deputati a utilizzare e a trasformare. Ma si tratta di utilizzare e trasformare risorse che sono finite, e che spesso non sono riproducibili. Anche di questo la progettazione della città e del territorio devono farsi carico. Accennare al come farlo richiederebbe un tempo altrettanto lungo di quello di cui ho finora approfittato. Mi limiterà a dire – poiché parliamo di bambini e di ragazzi – che aiutar loro a comprendere che città e ambiente, natura e storia, urbanistica ed ecologia, sono capitoli della stessa vicenda e strumenti della stessa azione è essenziale perché la loro partecipazione alla società e alle sue decisioni sia illuminata, la loro salute materiale e morale migliore, la rivendicazione dei loro diritti consapevole e determinata.

[1] Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Corte del Fontego Editore, Venezia 2006, p. 35-36

Eddyburg

Un’iniziativa cominciata per caso ha raccolto un’adesione inaspettata.

Perchè? Non tanto la qualità del prodotto, il sito eddyburg.it. E neppure tanto per la mancanza di altri prodotti analoghi.

Ciò che ha reso eddyburg.it un sito popolare è la diffusa sensazione di crisi del nostro mestiere.

Il quadro

L’urbanistica è sempre stata un mestiere legato al tentativo di far assumere un ruolo adeguato ai beni, i valori, gli interessi comuni. Oggi l’individualismo ha vinto, prevale e domina in tutti i campi

L’urbanistica è un mestiere che ha sempre avuto un legame essenziale e costitutivo con la politica, intesa come governo della società in nome di interessi generali. Oggi la politica, la politica in questo senso, non c’è più.

L’urbanistica è un mestiere che lavora per il futuro, perchè le trasformazioni del territorio, che l’urbanistica vuole progettare e governare, sono durevoli e richiedono impegni di lungo periodo. Oggi la miopia è diventata la forma unica della visione di chi comanda.

L’urbanistica è un mestiere che ha sempre visto la rendita (in particolare quella urbana) come l’ostacolo più grande alla costruzione di una città e un territorio caratterizzai da equità, funzionalità, bellezza. Oggi la rendita immobiliare è diventata la categoria economica dominante.

Perchè questa scuola

Per sopravvivere in questo quadro l’urbanistica deve porsi nettamente controcorrente: deve essere alternativa rispetto alla tendenza dominante.

Ricordiamo Italo Calvino:

“L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Con la scuola di eddyburg ci proponiamo di raccogliere quelli che vogliono resistere e dare spazio al “non inferno”.

Ci proponiamo di dar loro gli strumenti per lavorare:

- strumenti di conoscenza e d’azione,

- strumenti del nostro mestiere, ma non strumenti neutrali,

- strumenti tecnici, ma finalizzati ad un ideale.

Il tema del corso: il consumo di suolo

Abbiamo scelto quest’anno un tema concreto, un tema d’azione possibile, attorno al quale molti altri si annodano e che esamineremo da molteplici punti di vista: il consumo di suolo

E’ un prodotto vistoso delle ombre del quadro cui ho accennato.

E’ una questione centrale non solo in Italia e non solo in Europa.

E’ un modo di governare il territorio che comporta

- perdita di qualità naturali, storiche, culturali,

- perdita di valori identitari essenziali per le civiltà del mondo,

- perdita di risorse per il futuro dell’umanità

Eppure, il consumo di suolo si può combatterlo, altri lo fanno, vedremo come.

La legge Lupi

Insieme al consumo di suolo, parleremo anche della minaccia più immediata: della legge Lupi.

Una legge che non ci preoccupa tanto di per sè; che questa destra italiana faccia orribili leggi non ci meraviglia più,

e neppure pensiamo che un testo così scollacciato e informe possa venire approvato,

ma ci preoccupa perchè

il sostanziale consenso politico con cui la legge è maturata,

e il silenzio dell’opinione pubblica,

ci fanno temere che quella ignobile legge esprime una tendenza che è maggioritaria.

Alla fine del corso

ragioneremo insieme sul che fare dopo questa prima occasione d’incontro:

- che fare in generale, per l’urbanistica inn Italia,

- che fare per proseguire questa esperienza (se ci avrà soddisfatti),

- che fare per migliorare eddyburg.it

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