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Una bella confezione

che racchiude un uovo vuoto

Nel mondo dominato dal consumismo siamo abituati a vedere (e siamo spesso obbligati a comprare) confezioni che avvolgono oggetti che magari sono di scarsissima utilità, o di utilità discutibile, o addirittura del tutto inutili. Si tratta di confezioni che ingannano il consumatore ingenuo e lo spingono a comprare gli oggetti solo perchè sono avvolti nelle affascinanti, ricche, lussuose confezioni, che non servono a nulla se non ad alimentare il business dei rifiuti.

Così sembra, a un primo esame, il PTCR approvato dalla Giunta Galan. Una serie nutrita, ricca, spesso intelligente di analisi, descrizioni, quadri conoscitivi, ragionamenti, perorazioni, delineazione di obiettivi e strategia, espressioni di volontà, che avvolgono un prodotto (le norme tecniche d’attuazione) del tutto inconsistente.

Ma se proviamo a leggere le norme, accanto alla loro inconsistenza formale scopriamo che esse rivelano l’ideologia e la strategia della regione, e quindi preannunciano le scelte di merito che, in modo del tutto discrezionale, la regione compirà nel concreto.

Il prologo: rivela e ribadisce

le intenzioni

Il prologo delle norme tecniche d’attuazione, parole prive di efficacia precettiva, già rivela comunque una cosa interessante. Si parla dei “vincoli giuridici gravanti sul territorio veneto”. La questione dei “vincoli” meriterebbe un ragionamento serio: rinvio al breve articolo che ho scritto in proposito per numero 15 di Carta: in due parole, chi demonizza i “vincoli” ritiene che l’unica utilizzazione ragionevole del territorio sia quella edilizia.

La Giunta dichiara che provvederà successivamente (non si sa quando) ad applicare l’unico strumento legislativo che richieda di porre vincoli di tutela del paesaggio, l’ambiente, i beni culturali: il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Rinuncia cioè all’unico strumento che potrebbe dare efficacia al piano e a tradurre le intenzioni proclamate in fatti. Non solo, ma promette che, disattendendo al suo dovere (come proclama l’articolo 9 della Costituzione e reiterate sentenze della Corte costituzionale) non aggiungerà vincoli di livello regionale a quelli già prescritti a livello statale.

La giunta afferma esplicitamente che il piano non è efficace. Sempre nel Prologo alle norme, quando definisce “Il PTRC di seconda generazione”, dichiara che è un piano “di idee e scelte, piuttosto che di regole, un piano di strategie e progetti, piuttosto che di prescrizioni”. Le norme stabiliscono più avanti che “le strategie e i progetti” li fa la Regione, scavalcando le autonomie degli enti locali.

Il prologo ritorna ancora sull’argomento, e precisa che “il PTRC persegue gli obiettivi non mediante prescrizioni imposte ai cittadini e limitative dei loro diritti”. Di quali diritti si preoccupa il piano è chiaro, i diritti dei proprietari immobiliari, quelli che sono interessati allo “sviluppo del territorio”, senza fastidiosi “vincoli”.

Progetti strategici

La questione del potere emerge fin dai primissimo articoli. L’articolo 5 contiene la ricca polpa del Ptrc: i “progetti strategici”. Questi sono strumenti che sottraggono la potestà delle scelte agli istituti rappresentativi della democrazia: decide la regione, e al tavolo dei decisori l’unico che partecipa in rappresentanza del comune è il sindaco. Il Consiglio, comunale o provinciale, non conta più nulla. Guardiamo alcuni dei “progetti strategici” (ma la Regione si autorizza a inserirne altri): l’attività diportistica (se vuole, ne progetta quanti ne vuole e li pianifica in barba al comune); l’ambito portuale veneziano; la neonate “cittadelle aeroportuali” (accanto agli aeroporti può autorizzare i comuni a “introdurre forme di valorizzazione delle aree sottoposte a vincolo […] attraverso misure di perequazione e compensazione che interessano aree contigue”, cioè regali di cubature); le aree circostanti le stazioni ferroviarie della rete metropolitana regionale e i caselli autostradali; quelli che il piano definisce “hub principali della logistica” (Verona Quadrante Europa, un analogo sistema policentrico tra Padova, Venezia e Treviso), e una serie di altri “terminal intermodali”. Ciascuno, ovviamente, col suo contorno di cemento, mattoni, asfalto, e soprattutto affari.

Campagna edilizia

La valorizzazione del territorio agricolo e dei paesaggi rurali sono proclamati a ogni pie’ sospinto nelle chiacchiere. Nel merito, tutto il territorio rurale è suddiviso in quattro tipi di aree: agricoltura periurbana, agropolitane in pianura, ad elevata utilizzazione agricola, ad agricoltura mista a naturalità diffusa. Pensate che, per contrastare il consumo di suolo e difendere naturalità e agricoltura, da tali aree sia esclusa l’urbanizzazione? Tutt’altro. Nelle prime e nelle seconde bisogna “localizzare prioritariamente lo sviluppo insediativo”, in quelle ad agricoltura periurbana bisogna “garantire l’esercizio non conflittuale delle attività agricole rispetto alla residenzialità”, in quelle “agropolitane” bisogna addirittura “garantire lo sviluppo urbanistico attraverso l’esercizio non conflittuale della attività agricole”. E nelle stesse aree ad elevata utilizzazione agricola bisogna “limitare”, non vietare, “la penetrazione in tali aree di attività in contrasto con l’obiettivo della conservazione delle attività agricole e del paesaggio rurale”

Le norme, insomma, non solo non forniscono cartografie definite, criteri certi, limiti, indici, parametri oggettivi, metodi per salvaguardare le risorse naturali, ma addirittura sollecitano a non creare conflitti alla tranquilla crescita dell’edilizia nelle residue zone rurali del Veneto.

La continua preoccupazione di tutelare la possibilità dei proprietari di edificare sul loro terreno traspare in ogni norma. Perfino nel definire la rete ecologica, per la quale il piano non dà nessuna prescrizione tassativa, l’unica preoccupazione è nella direzione dell’edificabilità: bisogna ispirarsi “al principio dell’equilibrio tra la finalità ambientale e lo sviluppo economico” e bisogna evitare “per quanto possibile la compressione del diritto di iniziativa privata”!

Capannoni e grattacieli industriali dappertutto

Per il sistema produttivo il piano definisce una gran quantità di tipologie territoriali, con una fantasia eccezionale. Vi sono i “territori urbani complessi”, i “territori geograficamente strutturati”, quelli che sono invece “strutturalmente conformati”, e poi le “piattaforme produttive complesse regionali”, le “aree produttive con tipologia prevalentemente commerciali”, nonché le “strade mercato”. Ma accanto a queste, che sembrano occupare,nell’indeterminatezza della cartografia, quasi tutto il territorio di pianura e di collina, il piano individua le “eccellenze produttive”, che attraversano orizzontalmente tutte le aree predette e che “la Regione valorizza mediante appositi interventi e progetti che ne assicurino lo sviluppo”.

In tutte queste aree (che non sono né perimetrate nelle cartografie né caratterizzate da regole definite) bisogna “contrastare il fenomeno della dispersione insediativa” individuando “linee di espansione delle aree produttive”, definendo “modalità di densificazione edificatoria sia in altezza che in accorpamento”.

Molto simili sono le indicazioni del piano per le aree urbane. Dietro il titolo accattivante “Città, motore del futuro” si rivela la medesima strategia. Nessun vincolo allo sprawl, al consumo di suolo, alla continua espansione disordinata e frammentata della città sul territorio rurale: guai a porre “vincoli”! In aggiunta alla prosecuzione e all’intensificazione dello “svillettamento” (del resto ulteriormente stimolato dalla recentissima legge perr lo sviluppo dell’edilizia), si sospingono comuni, province, costruttori, proprietari a densificare le aree urbane esistenti, compattare, riempire, annaffiare il terreno di mattoni, cemento e asfalto per far crescere grattacieli.

Nelle relazioni si fornisce la giustificazione: c’è un drammatico problema della casa, un grande fabbisogno insoddisfatto di abitazioni. Ma si trascura il fatto che chi ha bisogno di un alloggio è il giovane o l’immigrato, il quale non ha le risorse per accede a un mercato caratterizzato da prezzi sempre più alti: un mercato nel quale, come spiegano gli economisti seri, l’accrescimento delle costruzioni non porta a una riduzione e dei costi, ma anzi ad un loro aumento.

La strategia

La strategia della Giunta del Veneto è ben descritta in un documento preliminare al piano: quello scritto da Paolo Feltrin, esperto di politiche amministrative, dedicato a “La seconda modernità veneta e il territorio”. Sembra la relazione di un urbanista, e trova preciso riscontro nelle scelte contenute nella normativa.

L’analisi della situazione territoriale del Veneto è precisa, nella sua efficace sinteticità. Tutti i fenomeni più rilevanti sono descritti: dalla prevalenza dei modelli abitativi unifamiliari e sparpagliati (lo “svillettamento”, lo sprawl), l’inefficienza del sistema della mobilità (addebitato all’insufficienza della rete stradale), il ruolo assunto dai caselli autostradali (sempre più caratterizzati dalla presenza di strutture del terziario) la desertificazione della rete dei centri storici (giustamente addebitata all’alto livello dei canoni di locazione e alla concorrenza delle nuove strutture commerciali). Il fatto è che questi elementi, che vanno letti tutti come elementi di crisi da correggere o rimuovere, vengono visti come dati ineliminabili, segni di vitalità di un sistema che deve essere assecondato (e razionalizzato) nel suo trend.

Su questa linea, peraltro condivisa da una parte della cultura urbanistica italiana, si arriva ad affermazioni francamente aberranti. Come quando si afferma che c’è ancora tanta campagna nel Veneto sicche il consumo di suolo non è un problema reale, poiché la percentuale di terreno rurale è di molto superiore a quella delle terre coltivate (come se l’attività economica del settore primario fosse l’unica ragione della salvaguardia del suolo dall’urbanizzazione). O quando si afferma che si devono assumere decisamente i caselli autostradali come le nuove polarità da incentivare. ribadisce così, per un verso (la prosecuzione dello svillettamento) e per l’altro (l’enfatizzazione delle autostrade), il cancro della tendenziale esclusività della motorizzazione individuale.

Che fare

Per concludere: il Ptrc non ha nessuna capacità regolativa, non esercita nessuna tutela di ciò che va tutelato, non fa nessuna scelta nelle infinite trasformazioni che si possono compiere sul territorio. Ciò significa che, da un lato, esso costituisce il quadro più favorevole per l’ulteriore scatenamento degli “spiriti animali” di quel capitalismo italiano intriso di rendita ben più che di profitto, volto all’appropriazione parassitaria delle risorse ben più che dal loro impiego nell’innovazione e in uno sviluppo socialmente, o anche solo economicamente, paragonabile a quello di altri paesi europei. Ed è, dall’alto lato, un quadro nel quale la massima discrezionalità e capacità autonoma d’intervento è lasciata ai poteri forti, in primo luogo a quelli della regione (della sua giunta), che comunque governa i rubinetti della spesa diretta e indiretta.

Ma è anche un insieme di elementi nel quale vi sono due aspetti da cogliere positivamente. In primo luogo, c’è una messe di documenti analitici che forniscono un quadro oggettivo della situazione reale del territorio, in tutte le sue componenti essenziali. A quel patrimonio informativo possono attingere quanti vogliano proporsi di promuovere una strategia diversa, e alternativa a quella della maggioranza regional. Ma in secondo luogo, c’è la delineazione d’una strategia di potere che stimola (che deve stimolare) a coglierne le contraddizioni per costruirne un’altra, alternativa e diversamente capace di guadagnare consensi per contrastare così la strategia, l’ideologia e il gioco di potere espressi nel Ptrc.

Il complesso dei documenti approvato salla Giunta è visibile nel sito della Regione Venbeto. Ciò che dicono in pubblico gli uomini della Giunta è leggibile qui.

Robert Reich è stato ministro per il lavoro nel governo Clinton. L'articolo è su "il manifesto" del 14 luglio 2009

Dal Dizionario di economia politica, a cura di C. Napoleoni, edizioni di Comunità, Milano 1956, pp. 565-578. I brani riportati sono alle pp. 574-577

[…] 10. Non si può negare che l’identificazione di economia ed econometrica sia una tendenza favorita dalla particolare natura della cultura contemporanea, che, nella misura in cui è dominata dall’empirismo, esclude la possibilità di una conoscenza scientifica nel senso tradizionale e classico della parola. E tuttavia, proprio nella lettera tura contemporanea, troviamo uno dei tentativi più rigorosi di fondare l’economia come scienza in senso proprio; di tale tentativo, che è quello del Robbins (1932), dobbiamo ora ricercare il valore e i limiti.

Scopo della ricerca di Robbins è la formulazione di una definizione di «fatto economico» che non sia, per usare i suoi termini, «classificatoria», ma «analitica»; ossia che non trascelga certi fatti, certi tipi di condotta, che sarebbero «economici» da altri che sarebbero non economici, ma indichi in che consista l’aspetto propriamente economico della generale condotta umana. Egli respinge perciò la definizione «classificatoria» allora corrente, specie in Inghilterra, secondo la quale sarebbero economici tutti gii atti che adducono al benessere, e la respinge con una critica definitiva, che, cioè, anche se si desse un concetto preciso di «benessere materiale» (il che peraltro non accade nella definizione in questione) rimarrebbe comunque il problema, indubbiamente economico, del modo in cui vadano ripartiti il tempo e i mezzi disponibili tra le attività dette «economiche» e quelle dette «non-economiche».

L’aspetto economico della condotta umana è allora cosi precisato da Robbins.

«Dal punto di vista dell’economista le condizioni dell’esistenza umana possiedono quattro caratteri fondamentali. Gli scopi sono molteplici, il tempo e i mezzi per conseguirli sono limitati e sono capaci di usi alternativi; nello stesso tempo gli scopi hanno diversa importanza. Eccoci qui creature senzienti con fasci di desideri e di aspirazioni, con masse di tendenze istintive, che tutti ci sospingono per differenti vie all’azione. Ma il tempo in cui queste tendenze possono essere espresse è limitato; il inondo esterno non offre piena opportunità al loro completo dispiegamento; la vita è breve; la natura è avara; i nostri compagni hanno altri obbiettivi. E tuttavia noi possiamo usare le nostre vite per compiere diverse cose, possiamo usare dei nostri materiali e dei servigi degli altri p er raggiungere diversi scopi.

«Ora la molteplicità degli scopi non ha in se un necessario interesse per l’economista. Se io ho bisogno di fare due cose e ho abbondanza di tempo e abbondanza di mezzi per farle entrambe, e il tempo o i mezzi non mi occorrono per nient’altro, allora la mia condotta non assume nessuna di quelle forme che costituiscono l’oggetto della scienza economica. Il nirvana non è necessariamente una semplice beatitudine: è nient’altro che la soddisfazione completa di tutti i bisogni.

«Né la sola limitazione dei mezzi è per sé sufficiente a dare origine a fenomeni economici. Se i mezzi di soddisfazione non hanno un uso alternativo, possono essere scarsi ma non possono essere economizzati. La manna che piove dal cielo poteva essere scarsa, ma, se era impossibile scambiarla con qualche altra cosa o differirne l’uso, non era oggetto di qualsivoglia attività avente un aspetto economico.

«Né, ancora, l’applicabilità alternativa di mezzi scarsi è da sola condizione sufficiente per l’esistenza del genere di fenomeni che stiamo esaminando. Se il soggetto economico ha due scopi e un solo mezzo per soddisfarli e i due scopi sono di eguale importanza, la sua posizione sarà uguale a quella dell’asino della favola, incapace a muoversi tra due fasci di fieno ugualmente attraenti.

«Ma quando il tempo e i mezzi per conseguire gli scopi sono limitati e sono suscettibili di applicazione alternativa, e gli scopi possono essere distinti in ordine d’importanza, allora la condotta assume necessariamente la forma di una scelta».

La scienza economica ne risulta definita come segue: «L’economica è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Ciò posto, e in questo sta appunto il carattere non «classificatorio» della definizione, «noi non diciamo che la produzione delle patate è un’attività economica, e che non è tale la produzione della filosofia. Diciamo che l’una e l’altra specie di attività ha il suo aspetto economico, in quanto implichi rinunzia ad altre alternative desiderate. Non vi sono limiti all’oggetto della scienza economica, salvo questo». […]

La definizione di Robbins, sebbene ampiamente accolta, ha .avuto questo di caratteristico, che da essa non è derivata alcuna rilevante conseguenza sul lavoro scientifico effettivo. E ciò malgrado il fatto che tale definizione è stata la migliore caratterizzazione che fino ad oggi si sia avuta dell’aspetto economico dell’agire umano. In particolare, essa non è valsa ad arrestare quella tendenza verso la progressiva scomparsa della riflessione sul problema economico, che abbiamo

rilevata poco sopra. È chiaro perciò che, malgrado il suo valore, essa deve contenere dei limiti gravi. […]

In effetti, non si può dire che la definizione i di Robbins abbia esaurito il problema della natura della scienza economica. A conferma di ciò sembrano pertinenti le seguenti considerazioni. Robbins non si avvede, e comunque non rende esplicito, che la scarsità dei mezzi ha radici non esterne ma interne all'uomo. Essa non dipende, come lui dice, dal fatto che la «natura è avara», ma dal fatto che l'uomo limitato, e la stessa apparente «avarizia» della natura altro non è il riflesso della limitatezza dell'uomo. D'altra parte, quella limitatezza che costituisce una componente essenziale dell'atto economico, in quanto è limitatezza dell'uomo, ha questo di caratteristico, che può superare ogni sua data determinazione in un processo per sua natura illimitato. Questo processo di superamento trova la sua espressione materiale nel lavoro. Ogni operazione umana è necessariamente h prodotto di lavoro. Appunto in quanto è prodotto di lavoro, ogni operazione umana è suscettibile di essere considerata economicamente. Questa è la verità più profonda della teoria classica del valore. I mezzi dunque dei quali si parla nella definizione di Robbins, ove siano rettamente intesi, non possono essere altro che specificazioni del lavoro: il lavoro, se si vuole, è il mezzo al quale ogni altro è riconducibile. Ma nel momento in cui si riconosce la caratteristica essenziale del lavoro umano di poter sempre espandersi superando i limiti propri ogni sua specifica determinazione, sorge la possibilità di riconoscere nei fini, che in Robbins rimanevano al di fuori della portata del discorso economico, almeno un aspetto che li rende suscettibili di considerazione economica, e cioè la misura in cui essi contribuiscono II'espansione e all'arricchimento del lavoro umano, ossia all'allargamento dei mezzi, e quindi alla diminuzione della scarsità, che condiziona il processo di creazione della ricchezza.

Comunque, la necessità di approfondire i termini di questa questione per giungere a ridefinire in modo positivo la natura della scienza economica sembra implicita nella necessità di superare la crisi che questa scienza oggi attraversa. Ma quest'opera di approfondimento deve avere un presupposto fondamentale. Essa richiede cioè che, raccogliendo i frutti della critica marxiana, si superino nell'analisi del concetto di lavoro, le determinazioni che il lavoro storicamente riceve dai singoli sistemi storici e che, fino a oggi, sempre hanno impedito, sia pure per ragioni e in forme diverse, l'esplicazione piena della sua natura.

Le citazioni di Robbins sono tratte da: L. Robbins, An Inquiry into the Nature and Significance of Economic Science, Londra, I ed 1932, II ed. 1935; trad. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Torino 1947

Citato in Logos, 3 luglio 2009

Citato da Giorgio Napolitano, 23 aprile.

Da I vandali in casa (1956)

L’obiettivo

Parlare di città come bene comune significa riferirsi a un obiettivo molto ambizioso – se lo confrontiamo non alla letteratura e alla tradizione della nostra civiltà, ma alla realtà italiana di oggi.

Significa, in parole povere, porsi l’obiettivo di una città che risolva in tutti gli aspetti spaziali il rapporto tra l’uomo (anzi, la società) e l’ambiente (anzi, il territorio).

E che li risolva tenendo conto del modo in cui oggi si vive sul territorio, dell modo in cui oggi attribuiamo valore (valor d’uso) alle sue risorse naturali e storiche, in cui oggi siamo in grado di affrontare e risolvere i problemi nuovi e antichi che si pongono.

I problemi

Vediamo allora alcuni di questi problemi. Anzi, enunciamoli soltanto: la loro consistenza e il loro spessore sono certamente presenti all’attenzione di tutti i prersenti in questa sala.

Il problema dell’accesso a un alloggio collocato là dove la storia e il presente di ciascuno la richiede, a un prezzo commisurato alla sua capacità di spesa.

Il problema dell’accesso a tutti i servizi che è necessario, possibile ed economico soddisfare fuori dall’abitazione: l’apprendimento nelle varie fasi della vita, la salute, l’approvvigionamento, la ricreazione, lo sport, la soddisfazione dei bisogni appartenenti alla cultura personale di ciascuno.

Il problema dell’accesso al lavoro, a questa dimensione ineliminabile dell’uomo, ragione fondamentale della coesione sociale e strumento decisivo per la partecipazione alla conoscenza e alla trasformazione del mondo.

Il problema della mobilità, della possibilità di raggiungere da ogni luogo tutti i luoghi nei quali è stato conveniente ed economico ddisporre le sedi delle attività che rendono città un territorio.

Il problema della conservazione e ricostituzione delle risorse naturali necessarie alla vita delle generazioni poresenti e di quelle future, e quello della tutela e della fruizione delle risorse storiche, che costituiscono la base dell’identità di un territorio e la testimonianza della sua storia.

Il problema del governo della produzione, della riutilizzazione e dello smaltimento dei rifiuti inevitabilmente prodotti dalla vita sociale.

Mi sembra evidente che, posti in tal modo l’obiettivo e i problemi sia facile comprendere quali debbano essere sia il metodo da adoperare sia il livello al quale esso deve porsi.

Il metodo

Il metodo è quello della pianificazione territoriale e urbanistica. Essa ha infatti due caratteristiche che la rendono particolarmente idonea a questo scopo.

É sistemica, abbraccia in un unico sistema di conoscenze, di scelte, di azioni e di politiche i diversi aspetti della vita del territorio, cogliendo le connessioni e relazioni tra i diversi aspetti, settori, elementi del territorio e della sua organizzazione. Garntisce quindi coerenza alle decisioni di trasformazione del territorio, pur potendo essere strutturata in modo da garantire una notevole flessibilità.

É democratica, poiché (e finchè) garantisce la partecipazione dei cittadini alla formazione delle scelte e l’attribuzione di queste alle decisioni degli organi che esprimono la volontà popolare e la rappresentano.

Mi limito ad accennare che nell’ultima, orribile fase della nostra storia abbiamo assistito, e stiamo ancora assistendo, a un fortissimo degrado sia dell’una che dell’altra caratteristica della pianificazione.

Lo spezzettamento delle decisioni sul territorio in una miriade di decisioni settoriali, locali, legati al soggetto che volta per volta si vuole premiare o all’emergenza più o meno inventata. E il trasferimento delle decisioni a sedi sempre più ristrette (il sindaco o il presidente invece del consiglio).

Lo sguardo miope del breve periodo ha prevalso sulla visione di prospettiva, la governabilità ha prevalso sulla democrazia

Il livello

I problemi che ho elencato poc’anzi indicano tutti qual è il livello decisivo – assolutamente non trascurabile – della pianificazione che è necessario.

Ho parlato di problema della casa, dei servizi, della mobilità, del lavoro, delle riusorse naturali, dei beni culturali, dei rifiuti. É evidente che questi problemi, che cent’anni fa potevano essere grosso modo racchiusi entro i confini della città, oggi sono comprensibili e gestibili solo a livelli più ampi.

Più precisamente, a più livelli. Dobbiamo abituarci a ragionare in un’ottica multiscalare, la cui esigenza mi sembra oggi particolarmente accentuata. Il territorio è governabile se si tiene conto dei diversi livelli ai quali i problemi e le possibili soluzioni. In questo quadro il ruolo del livello provinciale mi sembra particolarmente rilevante.

In che modo – questo è il punto che vorrei adesso affrontare – si è giunti in Italia ad attribuire alla provincia la competenza della pianificazione d’area vasta? Il percorso non è stato breve, ma un presagio della soluzione cui si è pervenuti possiamo scorgerlo già alle origini. Ma procediamo con ordine.

Lo strano decennio

Della pianificazione d’area vasta si cominciò a parlare e a discutere, e a lavorare, in quello strano decennio del XX secolo (grosso modo dalla fine degli anni Venti all’inizio dei Quaranta) che separa tra loro la grande crisi esplosa a Wall Street e la Seconda guerra mondiale. E si cominciò a farlo non solo negli USA e in Gran Bretagna, ma anche in Italia. (Fabrizio Bottini, Sovracomunalità - Elementi del dibattito sulla pianificazione territoriale in Italia: 1925-1970, Franco Angeli, Milano)

Tra le esperienze italiane vorrei ricordare la bonifica delle Paludi pontine e la conseguente realizzazione di città e paesi, di canali, strade e ferrovie, di zone industriali e di parchi.

Certamente gli autori della legge urbanistica del 1942 avevano in mente questa esperienza, quando inventarono il Piano territoriale di coordinamento: un’esperienza nella quale si applicarono le tecniche e gli strumenti della “bonifica integrale” e quelle della pianificazione dell’urbanizzazione (numerose città, borghi, strade e ferrovie, zone industriali) di un’area vasta, che oggi coincide precisamente con l’area di una provincia.

Per molti anni non se ne parlò più. Alcuni generosi tentativi compiuti negli anni Cinquanta (il piano del canavese promosso da Adriano Olivetti, quello piemontese del gruppo coordinato da Giovanni Astengo, il manuale per la pianificazione regionale commissionato dal Ministero dei Llpp ad Astengo) restano isolati episodi. È solo nel corso degli anni Settanta che si tenta di riprendere, in modo generalizzato, la sperimentazione di una dimensione d’area vasta nella pianificazione.

Si ricomincia negli anni Settanta

Molte sono le soluzioni che furono tentate quando l’esigenza di pianificare il territorio riemerse, dopo gli anni devastatori della ricostruzione postbellica, abbandonata nelle mani dell’edilizia selvaggia che oggi si vorrebbe ripristinare, con il cosiddetto “piano casa” di Berlusconi, e in quelle della motorizzazione individuale,.

Superate le resistenze della DC si istituirono finalmente le regioni. Ci si rese conto subito che il livello regionale della pianificazione non è sufficiente: troppo ampia è la forbice tra le decisioni che la Regione può governare con efficacia, e quelle proprie del livello comunale. Occorre un “livello intermedio” della pianificazione.

Si sperimentarono varie strade. Quella che fu tentata più a lungo, è quella dei “comprensori”: enti elettivi di secondo grado (i membri dei consigli comprensoriali vengono eletti dai consiglieri comunali), oppure emanazione delle regioni, oppure costituiti a mezzadria tra regione e comuni. Leggi regionali (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto), a volte coraggiose, precisano caratteristiche, poteri, competenze dei comprensori. Si tentò, dorò pochi anni. L’esperienza dei comprensori fallì.

Il fallimento dei comprensori

e la nascita della pianificazione provinciale

Perché il fallimento? Una ragione sostanziale fu individuata nel fatto che i comprensori non avevano poteri propri. I soggetti che componevano gli organi decisionali non erano investiti direttamente dall’elettorato, ma rappresentavano in primo luogo il comune, o la regione, che li aveva eletti come “suoi” rappresentanti nei governi comprensoriali.

Poiché gli interessi dei diversi livelli possono essere, e spesso sono, in contraddizione tra loro, i contrasti interni provocavano la paralisi di ogni decisione.

Fu negli anni Settanta che emerse la posizione più ragionevole, un vero e proprio principio della pianificazione: a ogni livello di pianificazione deve corrispondere un livello di governo autorevole, e perciò eletto direttamente dai cittadini.

Fu così che maturò, negli anni successivi, la proposta di attribuire potere di pianificazione del “livello intermedio” alle province. Ricordo un articolo di Vezio De Lucia su Urbanistica informazioni, nel quale emerse lo slogan che avevamo coniato: “il recupero delle istituzioni esistenti”. Perchè sforzarsi di inventare un nuovo organismo quando c’è già la Provincia, prevista dalla Costituzione come una delle istiituuzioni della Repubblica?

Nate sulla scia dell’ordinamento statuale napoleonico come emanazione dei poteri del governo nazionale, trasformate in organi elettivi e articolazioni dell’ordinamento repubblicano con la Costituzione del 1948, le province avevano poteri debolissimi: caccia e pesca, assistenza psichiatrica, scuole superiori, strade di livello intermedio, e pochissimo altro.

Dopo un lungo dibattito, è nel 1990 che, con la legge 142, più tardi riformulata nella 265 del 1999, si assegna alle province il ruolo e le competenze in merito alla pianificazione d’area vasta.

Due domande intrecciate

Oggi sembra esserci un largo consenso sulla proposta di abolire la provincia. Perché vogliono abolire questo istituto? La domanda si intreccia con un’altra: perché vogliono abolire la pianificazione?

La risposta è politica. Anzi, è ideologica. Ha prevalso, a destra ma anche sinistra, quella ideologia che ha come suoi slogan “meno stato e più mercato”, “privato è bello”, “basta lacci e lacciuoli”, “ridurre i controlli che fanno perdere tempo”, “individuale significa libertà e collettivo significa comunismo”. Ha prevalso un modo di fare politica che privilegia il presente e s’infischia del futuro, che ambisce al massimo di discrezionalità nelle scelte per poter premiare volta per volta questo o quest’altrol soggetto, che ha sostituito la miopia alla lungimiranza e ha sacrificato la democrazia alla governabilità.

Al fondo, questa ideologia ha separato la libertà dall’equità, quindi non ci si domanda più “libertà per chi” e si è relegato l’equità nell’armadio degli scarti.

Con la consapevolezza che queto è, in Italia, il quadro entro ilk quale agiamo, e che quindi nuotiamo controcorrente, dobbiamo continuare – come fate fruttuosamente a Lodi – a praticare la pianificazione territoriale. Poniamoci allora alcune questioni sulle pratiche che discendono da questo metodo applicato al territorio, e all’istituto, dellla provincia.

Il principio di sussidiarietà

La prima domanda è questa: come distinguere le competenze della pianificazione provinciale da quelle del comune e della regione? Il principio al quale ci si può riferire è quello “di sussidiarietà”. Poiché se ne parla spesso a sproposito, vediamolo nella sua interpretazione più autorevole. Esso è stato definito compiutamente nell’articolo 3b degli Accordi di Mastricht, che regolano i rapporti tra l’Unione europea e gli stati membri, e poi ripreso nei successivi testi regolamentari:

“Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.

Sulla base di questo principio, sono quindi di competenza della pianificazione provinciale quegli interventi, e quelle azioni, che “a causa della loro scala o dei loro effetti” possono essere compresi e governati meglio al livello territoriale della Provincia che a quello del singolo comune.

È chiaro quindi che “appartengono” alla pianificazione d’area vasta provinciale due grandi campi di decisione.

Da un lato, quelli che attengono ai sistemi ambientali: alla tutela e all’uso delle risorse naturali e culturali, al paesaggio, alla tutela del suolo e dell’acqua e agli interventi volti alla prevenzione dei rischi. Quindi il contrasto allo sprawl e al consumo di suolo, Quindi l’organizzazione a rete delle aree urbane.

E perciò, dall’altro lato, quelli che riguardano la grande attrezzatura del territorio visto come sistema insediativo: come insieme di infrastrutture, attrezzature, servizi, centri i quali sono funzionali non alla vita di questa o quella unità di vicinato, di questo o quel comune, ma del sistema insediativo provinciale nel suo complesso.

Provincia e comuni

Il rapporto tra provincia e comuni pone comunque problemi complessi e impegnativi, soprattutto in situazioni, come quella attuale della Lombardia (e di molte altre regioni) in cui, a differenza che in altri paesi europei, la pianificazione provinciale non ha efficacia diretta, ma agisce esclusivamente attraverso i comuni.

Bisogna che la provincia faccia il massimo sforzo per coniugare autorità e consenso: per esercitare cioè un’egemonia, in senso gramsciano: cioè un potere nel quale l’autorità nasca dal consenso alle idee e alle proposte che la provincia è in grado di fornire.

L’impresa è realmente molto difficile. Il Ptcp è necessariamente portatore di una “visione d’area vasta” dei problemi del territorio e del suo futuro. Questa visione può configgere con quella di questo o di quell’altro comune. Non c’è da stupirsi di questo: il territorio è il luogo dei conflitti, e non ci sono ricette da adoperare per risolverli.

Una buona carta che la provincia puà giocare è quella del servizio che può offrire ai comuni.

Una provincia ben attrezzata è una miniera di informazioni utili, può su questa base fornire scenari alternativi che illustrano vantaggi e svantaggi delle diverse soluzioni proponibili per ciascuno dei comuni e delle realtà sociali che nei comuni esistono.

Una provincia è più forte d’un singolo comune nel confronto con la regione e con lo stato, e in generale con i poteri sovracomunali. Anche questa è una potenzialità che consente di svolgere un ruolo importante per i comuni.

Sono comunque sempre più convinto che occorre concepire l’attività di pianificazione anche come un forte contributo al processo di apprendimento, da parte di tutti i soggetti (istituzioni e cittadini) che partecipano alla pianificazione. La pianificazione deve diventare strumento della crescita della consapevolezza critica da parte di tutti.

Eppure, il problema della precettività delle scelte della pianificazione deve restare un obiettivo cui tendere. La responsabilità di ciascun livello di governo deve conferire a ciascuno di essi il potere di decidere, in ultima istanza, se il consenso unanime non si riesce a costruire. Altrimenti,, la tendenza di sostituire lì espressione gerarchica del potere a quella democratica diventa invincibile.

Quattro impegni

Credo che siamo tutti consapevoli che lavorare nella direzione cui questo coinvegno si riferisce, e di cui ho provato a sviluppare alcuni aspetti, è del tutto controcorrente. É controcorrente anche solo affrontare in termini positivi temo come la pianificazione e la democrazia, e il loro necessario intreccio.

Se è così, diventa decisivo porsi quattro obiettivi per la nostra azione, assumere quattro impegni per l’attività di ciascuno di noi.

Bisogna resistere. La difesa degli spazi pubblici deve essere al centro della nostra attenzione. E parlo di spazi pubblici in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme.

Bisogna faar crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali.

Bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.

E bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più sapremo allargare il campo di quanti ragionano insieme a noi, occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.

La Repubblica, 24 giugno 2009

Da il Mondo, 24 ottobre 1961


"Festa padana a Pontida", il manifesto, 5 giugno 2009,

il manifesto, 2 dicembre 2008

Non hanno forse raggiunto il loro obiettivo quanti si riconoscevano nella legge presentata (e ripresentata) dall’on. Maurizio Lupi? Non sono forse definitivamente sconfitti quanti, anche partendo da posizioni diverse, avevano trovato un punto di convergenza ragionevole nella proposta dell’on. Raffaella Mariani? Si direbbe di si, a guardare ciò che sta accadendo sul territorio. Proviamo a tracciare una panoramica.

Le Grandi opere

Si prosegue indefessamente a tessere sul telaio delle Grandi opere, e a cercar disperatamente quattrini per avviarne o completarne l’attuazione. Non sembra frenare l’impegno la circostanza che (per riferirci solo alle più emblematiche) il Pontone è in uno dei luoghi sismicamente più a rischio della Penisola; neppure quella che del MoSE non è stata ancora affatto dimostrata né verificata la possibilità tecnica di controllare davvero i flussi di marea in ingresso della Laguna. Il fatto è che attorno alle Grandi opere si saldano le due grandi divinità dell’Italia agli albori del Terzo millennio: l’Immagine e gli Affari. A queste due divinità sembra lecito sacrificare buon senso, ragionevolezza, prudenza, cura del bene comune, impiego parsimonioso delle risorse. Tutte virtù divenute ridicole di fronte al dominio di quelle due divinità, alle quali gli italiani sono stati indotti a inchinarsi devotamente. Che l’Immagine sia falsa e gli Affari sporcati dalla criminalità organizzata non conta. Che un volume di lavoro e d’impegno finanziario altrettanto se non più massiccio sarebbe indispensabile per una “manutenzione straordinaria” della penisola (a partire dalla messa in sicurezza di ciò che è a rischio, dalla bonifica di ciò che è avvelenato, dal restauro di ciò che è degradato, dall’adeguamento a livelli di civiltà minima dell’attrezzatura sociale) non sfiora le menti inebetite dalla contemplazione di quelle due divinità.

Le Grandi opere in Italia, secondo quelle menti ubriache, non hanno bisogno di pianificazione. Non hanno bisogno di contraddittorio, di verifiche, di coordinamento con altre esigenze e impieghi del territorio, di ascolto verso il basso. Anzi, temono tutto ciò come una jattura. Il modello di gestione del potere che richiedono è l’impero, non la democrazia. Se la sovranità promana dal popolo, ebbene, allora l’Imperatore è il popolo; le due figure coincidono, e l’Uno non rappresenta, ma coincide col multiplo: ne è l’unica espressione. Ecco allora che le Grandi opere (cioè la grande infrastrutturazione del paese, la sua ossatura, magari arricchita dalle New Towns alla Milano 2 e dall’addensarsi ai caselli di volumi direzionali, commerciali, ricettivi, ricreativi) sono terreno esclusivo di decisione del vertice, del governo e del suo Capo. Non c’è più bisogno di derogare alla pianificazione; basta dire che tutte queste opere sono decise dal Centro, con un semplice elenco, che poi esecutori fedeli (e imprese amiche) si preoccuperanno di tracciare sulle mappe e sui territori.

Il “decreto-casa”

Ma che cosa avviene sul resto del territorio? Lasceremo intatta la trama della pianificazione delle province e dei comuni? Per fortuna c’è la crisi: possiamo utilizzarla. Ma non come dicono gli utopisti, non per cominciare a comprendere che viviamo in un sistema inceppato che bisogna cambiare, ed è forse il momento opportuno per farlo. No, al contrario, utilizziamo l’alibi della crisi per infrangere le regole che ancora sussistono, là dove la pianificazione funziona, o potrebbe funzionare. Ecco allora la proposta del “decreto casa” berlusconiano. Riflettiamo un momento su come è andata la vicenda, che affanna le cronache da qualche mese.

Il 7 marzo scorso, nella sua reggia sarda, Berlusconi ha proclamato, d’intesa con i suoi viceré in Sardegna e nel Veneto, che per risolvere il problema della casa bisognava consentire a chiunque lo volesse (e fosse proprietario di un edificio) di ampliarlo col bricolage fai-da-te, oppure demolirlo e ricostruirlo, anche altrove, con cospicui aumenti di cubatura. Tutto ciò in deroga ai piani urbanistici e a ogni regola di tutela (se si esclude quella limitatissima delle leggi del 1939). Con Galan e Cappellacci ha discusso un articolato. Si sono levate proteste alte, soprattutto perché il provvedimento scavalcava le competenze delle Regioni, e non proprio tutte erano disposte a rinunciare alla pianificazione. Mentre Cappellacci rosicchiava i “lacci e lacciuoli” del piano paesaggistico che Soru gli aveva lasciato in eredità e Galan, primo della classe, elaborava un testo di legge regionale fedele al dettato del Sire, le regioni riuscivano a fermare il corso del decreto – la cui legittimità sarebbe stata subito contestata e avrebbe condotto al naufragio. Nella sostanza siamo d’accordo, dissero: occorre snellire, semplificare, rilanciare l’edilizia in funzione anticrisi; e nessuno potrà dirsi in disaccordo se si collegheranno in qualche modo le deroghe e gli incrementi edilizi a qualche miglioramento ecologico.

Cominciò così la faticosa ricerca di un accordo tra governo e regioni. All’accordo non si giunse, all’ultimo momento. Intanto era avvenuto il terremoto all’Aquila e in gran parte dell’Abruzzo, e aveva rivelato la miseria dell’edilizia più recente, l’inapplicazione delle norme antisismiche: i frutti tossici di uno sviluppo affidato al cemento facile e al mattone fragile. Lì si apriva un altro fronte di affermazione del nuovo modello di sviluppo territoriale: ripetiamo all’Aquila la tipologia Milano Due, facciamo tante New Town, e utilizziamo il proconsole unico, che smetta di gingillarsi con l’archeologia. Le New Town furono ridicolizzate, restarono Bertolaso e l’abbandono del modello virtuoso del Friuli e dell’Umbria (ricostruzione affidate alle istituzioni locali). Non si sa come andrà a finire, ma occhi attenti sorvegliano.

Intanto qualcosa succedeva nelle more della trattativa regioni-governo. Una regione di antica tradizione di buon governo, la Toscana, approvava una legge che eliminava l’aspetto più pericoloso del “decreto casa”: la deroga alla pianificazione. Dimostrava così che le regioni possono, se lo vogliono, comportarsi virtuosamente. Ma andava avanti anche il primo della classe. Nel Veneto approdava in Consiglio regionale una legge anche peggiore dell’iniziale decreto berlusconiano, e il contemporaneo Piano territoriale regionale rivelava in pieno la strategia: tutta la grande orditura del territorio nelle mani dei poteri forti, controllati dai governi; il resto del territorio, liberato dal maggior numero possibile di vincoli, lasciato in pasto alla speculazione normale: da quella grande e media, alla piccola e alla miserabile.

Cancelliamo il paesaggio

Ma il territorio non è condizionato solo dalle opere pubbliche e dalla pianificazione urbanistica. C’è anche la pianificazione paesaggistica, nella quale entrano - insieme alle regioni – anche quelle insopportabili rappresentanze degli interessi nazionali difesi dall’articolo 9 della Costituzione, espressi nell’autorità (debole, spesso accomodante, ma tuttavia troppo spesso estranea agli “interessi locali”) delle soprintendenze. E ci sono quei fastidiosi comitati, gruppi, associazioni, reti che protestano, che muovono i cittadini, che svelano e contropropongono. E allora che anche gli altri compari e comparielli si mettano al lavoro. Bondi prepari l’ammorbidimento del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e intanto riduca il peso, la competenza, il ruolo del personale tecnico del Mibac: non vorremo mica ripiegare sulla “tutela” e abbandonare alle regioni la “valorizzazione”. Le regioni non ce ne vorranno; anzi saranno liete se ridurremo il peso della tutela: questo potrà aiutarci a concordare un accordo sull’edilizia a maglie molto larghe, talché le regioni virtuose possano continuare (se proprio lo vogliono) a esserlo e a rispettare la pianificazione e il paesaggio, ma alle altre nessuno metta i bastoni tra le ruote: tra il modello toscano e quello veneto, la maggioranza dei vicerè saprà bene quale scegliere.

E gli altri ministri e parlamentari cerchino di ostacolare la possibilità di riunirsi all’aperto; preparino un provvedimento che consenta di rendere impossibile, perché troppo oneroso, il ricorso ai tribunali amministrativi a chi vuol protestare contro una scelta sbagliata; mettano la mordacchia alle voci troppo libere che inquinano l’opinione pubblica diffondendo informazioni vere ma controcorrente, nelle edicole o – peggio ancora - nella rete.

Una scintilla di speranza

Se così vanno le cose bisogna proprio essere inguaribili ottimisti per credere che abbia ancora senso approvare una legge che, comunque, stimoli la ripresa della pianificazione delle città e dei territori, che assuma ancora il metodo basato sul carattere sistemico delle scelte, sulla trasparenza del processo delle decisioni, sull’ascolto dei cittadini e la loro possibilità di influire sulle scelte come cardini e garanzia di trasformazioni del territorio sensate, e magari volte all’interesse generale.

Il fatto è che, al fondo del necessario pessimismo della ragione, brilla una scintilla di speranza sul fatto che, alla fine, un barlume di consapevolezza della posta in gioco si risvegli anche nell’intimo di chi – sull’uno e sull’altro versante dello schieramento parlamentare – condivide la responsabilità di governare. La posta è il futuro di noi tutti, poiché le nostre vite, e le vite dei nostri posteri, sono fortemente determinate dalle scelte sul territorio che si assumono oggi. Sono soltanto una piccola minoranza quelli che potranno rifugiarsi in una gated community, e non è detto affatto che lì vivano felici.

Scopo di questo intervento è quello di offrire a quanti si occupano di città da diversi punti di vista – quello dell’architettura e dell’urbanistica, delle scienze geografiche e del territorio, delle scienze umane e sociali – un’ulteriore prospettiva da integrare nello studio della città: quella della sua dimensione politica.[1]

1.La dimensione politica della città: da recuperare.

Quando parliamo di “politica delle città” vogliamo mettere l’accento su un contenuto diverso da quello incorporato in espressioni apparentemente sinonime, quali “politica della città” (quella che i francesi chiamano la politique de la ville), o “politiche urbane”. Nella prima espressione la città si configura come oggetto di politiche pubbliche; nella seconda espressione tali politiche si intendono prevalentemente limitate alle questioni di “assetto del territorio”. “Politica delle città” è invece da intendersi come l’agire di un soggetto, anzi di una pluralità di soggetti politici quali sono oggi (nuovamente) le città.

Al soggetto politico per eccellenza della modernità – lo stato – vengono attribuite tre dimensioni costitutive: quella del territorio, quella della popolazione e quella della sovranità. Ebbene, possiamo oggi riconoscere alla città tre dimensioni analoghe: esse incorporano un territorio, da una popolazione di cittadini (la civitas), e – se non la sovranità – la capacità di configurarsi come attore politico unitario nelle relazioni orizzontali e verticali con altre istituzioni e altri soggetti politici.

La teoria politica individua poi, accanto alla dimensione strutturale del politico, una dimensione dell’agire politico identificato, nell’ottica prevalente come esercizio del potere ma più anticamente, cioè da Aristotile, inteso come capacità di agire collettivo per il bene comune (Arendt 1958). Ebbene, anche questi due aspetti appartengono oggi all’agire delle città.

Pensare e studiare la città, oggi, significa quindi recuperare la consapevolezza, ed insieme il lessico, i concetti e i contenuti che possano dar conto di questa intrinseca politicità delle città. E’ quanto si cerca di fare qui, attraverso una serie di parole-chiave.

2.Il rapporto tra “urbs” e “civitas”: da integrare.

Dai Romani abbiamo ereditato la distinzione tra urbs (termine di origine presumibilmente etrusca) e civitas. Il primo termine designa la forma fisica, materiale e anche culturale della città: quegli aspetti a cui rinvia non solo la nozione di “urbanistica” ma anche quella di “urbano” nell’accezione già presente nel latino urbanus, “della città”, da cui “fine, raffinato” (Benveniste 1969). Il secondo il secondo designa l’insieme dei cittadini (civis) come associazione costitutiva della civitas communis, la cittadinanza in quanto comunità costituita su base associativa. In un certo senso sono i cittadini che costituiscono la città.

Se riduciamo urbs e civitas a “territorio” e “abitanti” riduciamo la città a unità amministrativa. In un certo senso, è naturalmente proprio questo che è avvenuto con i processi di formazione dei moderni stati-nazione in Europa. Ma in modi diversi, con tempi diversi da stato a stato, e soprattutto fino a un certo punto..In Europa (continentale) le città hanno sempre mantenuto in qualche misura, nella forma fisica, nei riconoscimenti giuridici e in quell’insime di tradizioni culturali e pratiche condivise che vanno sotto il nome di “capitale sociale” la memoria e le tracce di quella “tradizione civica” propria dei liberi comuni medievali (Putnam 1993). Hanno mantenuto una dimensione politica il cui fulcro è costituito dal “comune” che ritroviamo in tutta Europa come istituzione politica che si governa con organi eletti a suffragio universale e “cellula base della democrazia”. Nello scenario disegnato dai processi di globalizzazione e di unificazione europea il tenore di politicità delle città si trova rafforzato e insieme sottoposto ad una serie di tensioni tra la dimensione politica e quella amministrativa.

Il primo elemento di tensione sta nel rapporto tra l’idea di “città” – un concetto privo di riconoscimenti giuridici formali e istituzionali – e la realtà odierna del “comune” come entità amministrativa. Tale tensione si manifesta intorno al concetto squisitamente politico di “confine”. I confini dello stato sono certi (e “sacri”), difendibili con l’uso della “violenza legittima”. I confini della città sono mobili, incerti, transeunti. Le architetture istituzionali e amministrative nella migliore delle ipotesi si affannano a rincorrere lo sviluppo delle città e a riflettere, nella città “legale”, l’esperienza urbana della città “reale”; nella peggiore delle ipotesi seguono logiche razionalizzatrici o logiche di interessi del tutto avulsi da tale esperienza. Ciò avviene in quanto la città non è solo urbs, ovvero sviluppo di edifici e infrastrutture, ma anche civitas, tessuto formato dalle pratiche e dalle rappresentazioni dei suoi abitanti.

Il secondo elemento di tensione si dà nella relazione tra l’appartenenza territoriale come fonte di diritti (entitlements) politici e sociali mediati dal concetto amministrativo di “residenza” e la concreta esperienza dell’urbano di gruppi e popolazioni fatti di nativi e migranti, stabili e provvisori, che praticano lo spazio urbano secondo diverse modalità di intenti e sono portatori di diverse rappresentazioni di esso (luogo di abitazione, di lavoro, di divertimento, di conoscenza, di espereinze culturali, sociali ed estetiche), ed i cui entitlements si combianano variamente con altri derivanti da altre appartenenze (nazionali, europee, extracomunitarie) e da una varietà di stati giuridici che nella nostra civiltà sono certificati da documenti amministrativi lungo un continuum che va da un massimo di diritti (“cittadinanza” – nazionale, europea) a diritti più deboli e precari (“permessi” – di soggiorno, lavoro, ecc.) fino alla loro assenza totale nel caso in cui un individuo non abbia nemmeno uno straccio di documento (il “sans papiers”, appunto). Le città si confrontano oggi con il compito squisitamente politico di definire e concedere una vastissima gamma di concreti diritti (alla casa, l’incolumità personale e dei beni, le cure mediche, l’istruzione di base, l’accesso allo spazio pubblico, la libertà religiosa) ad una molteplicità di popolazioni portatrici di entitlements diversificati. Si misurano cioè con il compito quotidiano di definire legalmente la civitas nella cornice dell’urbs che status legale non possiede.

Il terzo elemento di tensione sta nella rappresentazione della città come “territorio” e la sua rappresentazione come “spazio”. Il concetto politico di “territorio” mutuato dalla definizione dello stato è concetto bidimensionale: la superficie e i confini che la delimitano sono condizioni necessarie e sufficenti a configurare uno degli elementi definitori dello stato. Il territorio che definisce la città (l’urbs) incorpora invece anche un terza dimensione, quella dei volumi, dei pieni e dei vuoti, degli usi pubblici e privati e della loro definizione istituzionale: esso è, propriamente, “spazio”. Il diritto delle città non è solo diritto del territorio ma diritto dello spazio, nella sua dimensione, estetica, relazionale, di patrimonio collettivo e simbolico. O meglio, dovrebbe essere “diritto dello spazio” – diritto dell’ordine visuale, diritto dell’ordine simbolico, diritto dell’ordine delle relazioni sociali – ma di fatto il territorio urbano viene trattato perlopiù come una sequenza di diritti di superficie, ignorando largamente il carattere costitutivo che assume per la città lo spazio in quanto concetto tridimensionale.

3. La teoria politica della città: da ricostruire.

L’integrazione di queste dimensioni richiede il misurarsi con la ricostruzione di una teoria politica della città. Mentre infatti “città” è parola chiave del pensiero politico occidentale nell’antichità e nel Medio Evo, il concetto è successivamentre pressoché scomparso dalla teoria politica. Nel pensiero del Novecento una vera e propria teoria politica della città si trova soltanto nel saggio di Max Weber sulla città occidentale (1920), incentrato sul comune medievale come “Tipologia del potere non legittimo” e in quello di Hannah Arendt centrato sull’esperienza della polis greca e del suo modo di intendere l’agire politico come paradigma della vita activa e della costituzione di senso della condizione umana. Se per Weber il carattere politico della città occidentale è radicato nell’origine del libero comune in un atto di “usurpazione” del potere signorile che inzia con il “giuramento di affratellamento dei cittadini in armi” (la coniuratio) – e quindi in una nascita del potere “dal basso” diremmo oggi – per la Arendt l’atto politico per eccellenza come lo intendevano i Greci era il raduno dei cittadini la cui cerchia costituisce quello spazio pubblico a cui la polis si limita a dare stabilità nel tempo con la sua forma fisica: le mura che la circondano e l’agorà al centro.

Al di fuori di questi due autori, l’oggetto città si è venuto frantumando in una serie di discipline accademiche che ne hanno esplorato aspetti parziali: la sociologia ha esplorato la stratificazione, il potere e il conflitto sociale, le scienze del territorio si sono occupate della forma urbis, più tardi le scienze politiche, staccatesi dalla matrice sociologica e affrancatesi dalla tradizione giuridica ne hanno messo a fuoco le architetture istituzionali e le modalità di governo e di produzione delle politiche pubbliche, mentre la tradizione giuridico-amministrativa continua ad esercitare la sua influenza sullo studio del governo locale nonché su quello dell’urbanistica che non dispone in Italia di una vera e propria tradizione di town planning. Vanno inoltre ricordati gli studi storici i quali, avendo per oggetto la città dei tempi della sua autonomia politica, presentano un carattere di sorprendente attualità per comprendere la città di oggi, ed hanno ispirato studi come quello di Pichierri (1997) sulle Lega anseatica, mentre il filone di studi sulle città nella globalizzazione si concentra essenzialmente sulla dimensione economica e sociale (Sassen). .

Solo recentemente, e in connessione con i processi di globalizzazione, di integrazione europea e di decentramento che tutti hanno contribuito all’indebolimento dello stato-nazione come soggetto politico per eccellenza, una serie di studi si sono orientati ad integrare le dimensioni dell’urbs e della civitas con elementi più specificamente politici. Il richiamo più esplicito alla dimensione politica della città è collegato allo studio delle relazioni esterne, “intergovernative” e interistituzionali: si è incominciato a teorizzare l’esistenza di una “politica estera delle città” e di una “paradiplomazia” o “diplomazia dal basso”. Per quanto riguarda le relazioni interne alla città, invece, la dimensione politica emerge dagli studi dedicati alla questione della “democrazia urbana”, ovvero dei nuovi termini in cui si configura la partecipazione dei cittadini al governo della città attraverso forme di “pubblica deliberazione” e di “democrazia diretta”

In questo contesto.si sono avuti – a livello empirico piuttosto che a livello di riflessione teorica – degli sviluppi in direzione di una integrazione dei contenuti dei due grandi settori che tradizionalmente caratterizzano l’autogoverno urbano, ovvero quello dell’assetto del territorio e quello delle politiche sociali. Mentre infatti le scienze urbanistiche e quelle politiche faticano ancora alquanto a dialogare tra di loro, ciascuna arroccata nei propri linguaggi e rinunciando a confrontarsi con quello che viene percepito rispettivamente come un incomunicabile prevalere di contenuti tecnici o di astrazioni formali, parallellamente si sono andate sviluppando forme di partecipazione dei cittadini diverse da quelle tradizionali che si reggevano sui due pilastri dell’esercizio del voto e della vita partitica. Ambedue questi sviluppi, peraltro, per quanto nuovi nel contesto dell’Europa continentale, riflettono istituzioni e pratiche da tempo e storicamente radicate nei paesi a tradizione anglo-sassone e la loro importazione nel contesto continentale è stata largamente il prodotto dei processi di integrazione europea. Questo processo di importazione ha portato ad una rapida diffusione non solo di pratiche ma di concetti e lessici radicati in quella tradizione ma la mancata costituzione di una teoria politica della città – e quindi di un’analisi della “politica delle città” – ha finito per ingenerare insieme una confusione concettuale e un’adesione acritica a determinati modelli la cui efficacia si dispiega al meglio in un ben diverso contesto istituzionale e culturale.

Due punti in particolare evidenziano queste carenze: da un lato il dialogo ancora difficile tra scienze politiche e discipline urbanistiche, dall’altro una teoria del potere e dell’agire politico riferite alla città come soggetto politico. Da qui scaturiscono alcuni nodi il cui chiarimento può dar conto dei modi concreti di funzionamento della città come polis e di alcuni suoi aspetti problematici.

4. La città come polis: i modi di esercizio del potere.

Agire politico, secondo le definizioni correnti, significa esercizio del potere (o lotta per la conquista del potere). Tre modalità caratterizzano l’esercizio del potere politico da parte delle città, differenziandolo da quello dello stato.

In primo luogo, le città esercitano al contempo funzioni politiche proprie e funzioni amministrative delegate. Per quanto nelle modalità di esercizio concreto della funzione di governo attività politica e amministrativa siano così strettamente intrecciate da renbdere illusoria la distinzione delle funzioni (come purtroppo pretende di fare il nostro ordinamento riformato del governo locale con esiti che vanno più in direzione dell’ambiguità che della trasparenza e dell’efficienza) è tuttavia fondamentale ricordare che alla base dell’agire politico si dà la legittimità che in democrazia deriva dalla rappresentanza elettiva. Un ampio decentramento di compiti amministrativi – come è avvenuto negli ultimi anni, in particolare in materia di welfare – non va confuso con il decentramento politico, per esempio con la capacità di scegliere i contenuti minimi e irrinunciabili dei diritti di cittadinanza locale. A fronte del crescente processo di “iperlocalizzazione del sociale” – vale a dire del compito di cui si sono trovate investite le città di fronteggiare la vasta gamma di disuguaglianze, disagi e conflitti sociali a cui lo stato non riesce più a far fronte – le città hanno risposto con molteplici forme di bricolage istituzionale, ovvero dando risposte differenziate e frammentarie per via amministrativa e pattizia (inn particoloare con il terzo settore). Caratteristica è la grande gamma di modalità con cui viene data risposta al nuovo quadro sociale che si configura con i processi migratori, mentre i tentativi di dare un risposta politica attraverso la concessione del voto agli immigrati si sono infranti contro i pareri negativi del Consiglio di stato.

In secondo luogo, mentre lo stato si avvale, per l’esercizio del potere, dello strumento principe della legge, questo non vale per le città. Dalla legge esse ricevono da un lato riconoscimenti giuridici formali, a cominciare da quelli iscritti, in alcuni paesi come l’Italia ma non in tutti, nella Costituzione. La legge rappresenta in questo caso il fondamento e la tutela delle prerogative politiche delle città. ma la legge rappresenta anche la cornice entro la quale le città debbono esercitare la loro azione di governo: in questo senso essa costituisce altresì un sistema di vincoli formali. E’ tuttavia un errore ridurre l’agire politico delle città al quadro delineato dalle tutele e dai vincoli legali. Innanzitutto la capacità di influenza politica delle città dipende anche da altri fattori: le relazioni che intrattiene con altri livelli di governo, i caratteri delle elites urbane, la capacità di creare reti a livello nazionale e transnazionale, le opportunità di reperire risorse extra-fiscali. In altri termini, status legale e status politico delle città non vanno necessariamente di pari passo (Bobbio 2002). Inoltre l’agire politico non si limita al rispetto delle prescrizioni e dei vincoli di legge: le città sono venute scoprendo che, in molti casi, esse possono fare altresì tutto ciò che la legge non vieta.

Le città sono venute così esplicitando, portando alla luce, e proponendo come modalità di esercizio del potere, cioè di governo, tutti quei processi di consultazione, mobilitazione, facilitazione, incentivazione e negoziazione tra attori sociali e istituzionali che da sempre sono insiti nel processo di produzione di politiche pubbliche. Tali processi sono stati potenziati e talvolta istituzionalizzati (si pensi alla cosiddetta “pianificazione strategica”). Insomma il processo di “governance”, da concetto descrittivo delle modalità concrete di esercizio del potere, è venuto acquisendo man mano un significato più normativo, ovvero quello di modalità “buona” di governo, contrapposta a modalità rigidamente limitate alle prescrizioni e ai vincoli formali e istituzionali. L’entusiasmo per la “governance” ha tuttavia finito per lasciare in ombra gli aspetti più problematici di questa forma di governo: l’inevitabile privilegiamento delgli attori più forti, l’indebolimento della funzione inclusiva della rappresentanza democratica, le distorisioni equamente attribuibili alla carenza dei processi comunicativi e all’influenza di quelli mediatici.

Particolarmente problematica si configura, in questo contesto, la questione della “partecipazione” dei cittadini alla produzione di politiche pubbliche. Teoricamente, le nuove forme di partecipazione alla produzione di politiche pubbliche e ai processi decsionali, non iscritte nelle procedure formali (quali il voto o il referendum) andrebbero iscritte nel concetto di governance sopra definito, cioè in un sistema di mobilitazione, ascolto, accordi basati su libere pattuizioni secondo procedure che si richiamano a quelle antiche della democrazia “diretta” e “deliberativa”. Di fatto, vediamo come, a livello empirico, il concetto di “partecipazione” si sia venuto divaricando da quello di “governance”. Possiamo dire che la metafora del primo è quella del “percorso” messo a punto dalle istituzioni per sollecitare un contributo “dal basso” al processo decisionale, entro limiti, vincoli e procedure stabiliti “dall’alto”, mentre la metafora del secondo è quella del “tavolo” a cui si partecipa per inviti, tanto più pressanti quanto più gli attori dispongano di risorse in cui primeggiano quelle economiche. Nel primo caso si partecipa prevalentemente come individui mentre nel secondo siedono soprattutto attori collettivi – e se non vi è dubbio che in base al moderno concetto di democrazia la prima forma di partecipazione dovrebbe essere quella più importanter, nei fatti avviene spesso l’inverso. Ma soprattutto è significativo – come sa chiunque abbia seguito “tavoli” e “percorsi” – che i partecipanti ai primi raramente si vedano ai secondi, e viceversa.

Elemento non secondario di queste ambiguità è la nuova designazione invalsa, per i soggetti singoli o associati coinvolti nei processi decisionali e nella produzione di politiche pubbliche, di “società civile”. Se in passato era considerato “agire politico” non solo quello dei militanti di partito ma altresì quello dei “simpatizzanti”, dei gruppi e movimenti spontanei quali i “comitati”, e financo dei lettori e fruitori attivi di informazione politica fino ai semplici elettori, oggi questi attori sono stati espropriati dell’attributo di “politici” e classificati come “società civile” in contrapposizione a quella politica.

Infine, più autori hanno evidenziato come queste nuove modalità dell’esercizio del potere presuppongano una nozione tutt’altro che pacifica delle città come attore collettivo (Le Galès 1993). Parlare di “politica delle città” significa pensare alle città, in analogia agli stati, come soggetti che esprimono una rappresentanza unitaria a base democratica, caratterizzati da una autorappresentazione collettiva di interessi comuni e da un sistema di decisione collettiva e capacio di interagire in questa veste con altri soggetti politici. Questa concezione della città non può essere assunta come dato, senzza espungere i conflitti di interesse e le relazioni di potere che attraversano la città stessa. Per giungere a configurare una “politica delle città” che non si configuri semplicemente come sistema di potere, occorre riferirsi ad un’altra nozione di politica, quella di agire per la definizione collettiva del bene comune.

5. La città come polis: la definizione del bene comune.

Questa nozione di politica si richiama a quella che, secondo la Arendt, era quella nella quale si identificava la polis greca. Alla base di una politica delle città, e dentro a questa nozione, vanno dunque incluse quelle modalità di agire collettivo, radicate nella sfera pubblica - la Oeffentlichkeit di Habermas (1962), attraverso i quali una collettività definisce i propri interessi comuni, le proprie relazioni interne, e una visione condivisa del proprio patrimonio e delle proprie direzioni di sviluppo.

La definizione del “bene comune”- come presupposto indispensabile per una coerente produzione di politiche pubbliche – è chiamata oggi a misurarsi con almeno tra grandi temi. Il primo è quello di una visione condivisa del territorio in termini di confini e dimensioni, rapporto città-campagna, relazioni tra centro e periferia, mono- o policentrismo, nozione di quartiere e di habitat, nozione di pubblico e privato, quadri e capacità del muoversi, ordine visuale e fruizione estetica e culturale - vale a dire il territorio come luogo concreto del vivere e luogo di autorealizzazione e di “vita buona”. Una definizione siffatta del territorio è ancora troppo lontana dai linguaggi dominanti della pianificazione come da quelli dell’analisi politica. Essa presuppone unn riferimento alla città come “cornice di senso” dell’esistenza.

Il secondo tema è quello della definizione della cittadinanza. Oltre ai contenuti più propriamente politici di cui si è già detto, esso richiede una nuova sensibilità al concetto di “tessuto urbano”, concetto su cui convergono le azioni della pianficazione urbana, dell’analisi e dell’intervento sociale e dell’idea politica di città. Attenzione al tessuto urbano come bene comune richiederebbe, tra l’altro, un ripensamento dell’organizzazione politico-amministrativa del governo delle città ancora largamente strutturata sulla separazione (derivante dall’organizzazione dello stato) tra “gente” e “luoghi”, sistematicamente oggetto di sfere di “competenza” diverse e non integrate.

Il terzo tema è quello della definizione di una “visione” della città in cui iscrivere progetti di sviluppo. Una “visione” non va confusa con la retorica e nemmeno con il buon senso (le due modalità con le quali si costruiscono di solito i programmi elettorali). Una visione della città è una costruzione collettiva di cui va esplicitata tanto la dimensione dell’agire collettivo quanto l’ineludibile dimensione del conflitto. Essa non può che essere il prodotto della sfera pubblica e la sfera pubblica non può nascere dall’alto: compito delle istituzioni è caso mai quello di produrre quelle infrastrutture che ne sono l’indipensabile supporto, vale a dire lo spazio pubblico.

Riferimenti bibliografici

Arendt, H. [1958], The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press; trad. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964.

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[1] Riprendo qui una serie di temi che ho sviluppato nel volume La politica delle città (Il Mulino, 2007).

Ciò di cui stanno discutendo governo e regioni ha pochissimo a che fare col tema. La questione della casa è del tutto marginale. É un pretesto che Berlusconi ha scelto per rilanciare l’attività economica responsabile della distruzione del territorio fin dagli anni del dopoguerra: l’edilizia senza freni né vincoli. Non è certo consentendo ai proprietari di case e capannoni di ampliare i volumi di cui già dispongono che si ottengono alloggi a prezzi accessibili alle persone che costituiscono oggi la domanda inevasa di case. Questa domanda è costituita dagli immigrati, richiamati dalla richiesta di forza lavoro, dalle nuove famiglie, dai lavoratori precari, da quanti hanno trovato un lavoro distante dal luogo dove lavorano. Si tratta di una domanda, prevalentemente di alloggi in affitto, che l’attuale mercato della casa non può soddisfare: altrimenti, non sarebbe così consistente il numero delle case vuote, in attesa di compratore. Non è certo l’incremento dei volumi esistenti la risposta.

Si parla anche di edilizia sociale realizzata dai costruttori e data in affitto per un certo numero di anni a prezzi contenuti. Ma a quali condizioni? Spesso si tratta di aree destinate alla formazione di spazi pubblici, nelle quali si lascia che i proprietari costruiscano residenze impegnandosi a darle in affitto per qualche anno, oppure di aree agricole nelle quali il comune concede ai proprietari un’opportuna variante urbanistica. Così, dopo qualche anno il proprietario avrà avuto in regalo un’area divenuta edificabile. Intanto, la città cresce a dismisura, e quella esistente si intensifica e appesantisce.

Quello scelto da Berlusconi è certamente un modo per aumentare la quantità di volumi edificati, e quindi il carico urbanistico: la necessità di strade, fogne, altre infrastrutture, servizi scolastici e sanitari, spazi pubblici. Tutti beni che diventano più scarsi via via che gli standard urbanistici sono dimenticati o cancellati, e che le risorse che dovevano servire per realizzarli (gli oneri di urbanizzazione e di concessione) vengono dirottati ad altri fini. Ed è un modo per ottenere un risultato che sta profondamente a cuore agli attuali reggitori della cosa pubblica: liberarsi di quelle insopportabili pastoie costituite dalle regole della pianificazione urbanistica, territoriale e paesaggistica. Liberarsi dalle regole tese a risparmiare la terra dove non è necessario invaderla con la repellente crosta di cemento e asfalto che sempre più cancella i nostri patrimoni.

L'Unità, 23 maggio 2009

da "il manifesto", 12 marzo 2009

Marco Boschini e Michele Dotti, L’anticasta. L’Italia che funziona, EMI 2009. Con interventi di : Jacopo Fo, Maurizio Pallante, Alex Zanotelli, Franca Rame, Francesco Comotto, Chiara Sasso, Gianluca Finiguerra, Alessio Ciacci, Andrea Segrè, Luca Falasconi, Ezio Orzes, Rossano Ercolini, Ignazio Garau. Il libro può essere ordinato a Commercio equo

Che si fa per evitare che il territorio venga devastato, cementificato, impermeabilizzato, distrutto nelle sue qualità, invaso da rifiuti d’ogni genere, trasformato da risorsa a rischio per la vita degli uomini, negato nella sua natura di patrimonio comune e ridotto a merce, materia bruta di arricchimenti individuali? In Italia, oggi, poco o nulla.

Pochi decenni fa era diverso, almeno in vaste parti della penisola, in regioni che erano modelli cui tentar di adeguarsi. Ma non serve guardare all’indietro, salvo per imparare che un altro modo di trattare il territorio è possibile: e se lo è stato, può tornare a esserlo. Non serve la nostalgia, serve guardare avanti, e in primo luogo comprendere.

Come sempre nei periodi cupi bisogna cominciare dalle idee: sono le idee che guidano i fatti, e sono le parole che esprimono le idee. Quindi sforziamoci di ragionare su alcune parole del territorio. Poi cercheremo di comprendere che cosa si più fare.

Le ideologie

Intanto sgombriamo il campo da un equivoco. Non è vero che le ideologie siano scomparse. Chi lo sostiene e non è ignorante lo fa strumentalmente: per nascondere il fatto che c’è un’ideologia dominante, che condiziona i nostri pensieri e i nostri atti. Se ce ne accorgessimo, ci comporteremmo diversamente, perché i nostri pensierideterminano le nostre azioni.

Se non pensassimo che l’affermazione individuale è il valore primario e la premessa necessaria della felicità riscopriremmo la felicità dello stare insieme, del lavorare insieme per un comune destino. Se non pensassimo che la civiltà “occidentale” è la migliore dell’universo ci interesserebbe comprendere gli altri, visitare le altre culture con rispetto – e così riusciremmo a comunicare anche la nostra senza sopraffazione. Se non pensassimo che sviluppo significa aumentare la quantità di merci (e quindi di ricchezze materiali) prodotte, scopriremmo che sviluppo può significare invece crescita della capacità di comprenderci, di conoscerci, di amarci, di esplorare nuovi mondi della geografia e della storia, del pianeta e dello spirito, di contribuire allo sviluppo di tutti.

E magari comprenderemmo che, anziché disporre di una casa in proprietà (una per noi, e una per ciascuno dei nostri figli) sarebbe meglio se ci fosse un’ampia disponibilità di case in affitto, di buona qualità edilizia e urbanistica, alla portata dei redditi di ciascuno, nei luoghi dove sono necessarie. Scopriremmo che anziché avere in casa una lavatrice e un asciugatoio, e il piccolo scoperto privato con le panche e il barbecue, e lo stenditoio sul terrazzino di casa, sarebbe più conveniente poter disporre di queste utilità, efficienti e funzionanti, negli spazi comuni del complesso in cui abitiamo, come succede nei paesi più civili del nostro da mezzo secolo a questa parte. Comprenderemmo anche che in Italia ottenere queste cose significa combattere battaglie difficili, sconfiggere nemici potenti, e che quindi abbiamo bisogno di costruire subito le solidarietà necessarie per diventare più forti e più convincenti degli altri.

Il primo passo da compiere per vivere meglio sul territorio (e nella società) è allora comprendere qual’è l’ideologia dominante, saperla criticare in ogni aspetto della nostra vita, saper individuare le sue radici, e collaborare con chi – come noi – si sforza di costruire una “contro-ideologia”. Una ideologia, un insieme di principi, di priorità, di regole, di speranze, alternative rispetto a quelle che ci condizionano (e ci opprimono).

La terra

Chiamiamo terra il territorio vergine, dominato dalla natura. Dobbiamo avere consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa compiono le forme elementari della fauna e della flora. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale. A partire dall’oscuro lavorìo che compiono i vermi e gli altri organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono la terra porosa, permeabile, suscettibile di ospitare e nutrire i germi della vita vegetale.

Le esigenze della società possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non può essere soddisfatta altrimenti. E bisogna sentire comunque questa scelta come una perdita, che è stato necessario subire ma che ci si deve proporre di risarcire, restituendo alla natura qualche altro frammento del pianeta che non è più necessario all’urbanizzazione.

Il territorio

Il territorio è qualcosa di più che la terra. Il territorio è il prodotto della storia (del lavoro e della cultura degli uomini) e della terra (della natura e del suo oscuro lavorìo). Le civiltà umane hanno aggiunto qualità alla natura: non sempre, e non tutte. A volte, per accrescere la qualità nuova, hanno distrutto qualità preesistenti. Non possiamo ricostruire quello che c’era e oggi non c’è più, ma possiamo imparare a comportarci in modo diverso da quei nostri avi che hanno distrutto invece di proseguire il lavoro dei loro predecessori.

Anche le qualità prodotte dalla storia dobbiamo conoscerle, amarle, rispettarle. Non solo ci rivelano spesso bellezza e saggezza, ma ci raccontano la storia, la nostra storia, la storia della civiltà che è parte di noi. Senza conoscenza della storia può esistere il presente, ma non può esistere un futuro migliore

Dobbiamo conoscere, amare e rispettare tutte le qualità presenti nel territorio. Nelle loro parti, e nel sistema che costituiscono nel loro insieme.

Sistema

Il territorio non è un semplice magazzino. Gli elementi che lo costituiscono hanno ordine tra loro, sono connessi in modo che una modifica in un punto, un’azione su uno di essi, modifica tutte gli altri.

Estrarre ghiaia e sabbia dall’alveo di un fiume riduce la quantità di materia inerte che arriva al mare, quindi comporta l’erosione dei litorali. Irrorare con prodotti velenosi un’area permeabile rende pericolosa l’acqua in tutta la regione alimentata dalla sottostante falda acquifera. Rendere artificiali le sponde di un tratto di fiume ne aumenta la velocità e la portata, e può provocare inondazioni e distruzioni a valle.

Non parliamo poi delle trasformazioni provocate dalla cattiva urbanistica. Aprire un supermercato alla periferia della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc; al tempo stesso, stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti. Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico.

La pianificazione

Se il territorio è un sistema, anche le azioni che lo trasformano devono essere viste in modo sistemico. L’uso del territorio e le sue trasformazioni devono essere governate nel loro insieme. Il metodo che è stato inventato quando si è compreso che il territorio doveva essere governato è la pianificazione (territoriale e urbana). Essa è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

I conflitti

Il territorio è un patrimonio; è un insieme di risorse; è un sistema. Esso è anche l’ambiente nel quale si svolge la vita dell’uomo. Man mano che l’umanità si è sviluppata (in tutti i sensi in cui questo termine può essere adoperato) è diventata sempre più ricca e complessa la rete delle relazioni che legano gli uomini tra loro, che costituiscono la società. Il territorio quindi non è più l’habitat del singolo uomo, ma è divenuto l’habitat della società.

Le trasformazioni indotte da ogni singolo uomo si sommano tra loro e modificano l’intero sistema. Le esigenze di ciascuno non possono essere soddisfatte se non affrontando (e soddisfacendo) le esigenze di tutti. Il territorio è un patrimonio che deve essere utilizzato nell’interesse di tutti.

Ma il territorio, e le risorse che in esso sono depositate, possono essere utilizzati in modi diversi, possono servire interessi diversi. Il territorio è perciò anche il luogo dei conflitti tra diversi gruppi sociali.

La pianificazione è anche il metodo (e il complesso di strumenti) attraverso i quali i conflitti vengono regolati. Di conseguenza la pianificazione non può essere governata da individui o gruppi che esprimano interessi di una parte sola della società: deve essere governate dalle istituzioni e dalle procedure mediante le quali si manifesta la sovranità della comunità nel suo insieme.

La pianificazione è insomma appannaggio esclusivo del potere pubblico.

Le regole

Poiché il territorio è soggetto alle azioni di una pluralità di attori, la pianificazione deve esprimersi mediante un insieme di regole, che costituiscono al tempo stesso i limiti e le opportunità per le azioni che ciascuno ha la capacità e il potere di esercitare.

Le regole devono valere per tutti: in tal senso devono essere eque. Ma esse non sono né oggettive né neutrali. Nella situazione presente (ma in qualche misura in tutte le situazioni) esse premiano alcuni interessi, ne penalizzano altri. È essenziale che sia chiaro a tutti (che sia trasparente) chi dalle regole della pianificazione urbanistica è premiato e chi è colpito.

Nella concreta situazione italiana il conflitto dominante è tra due gruppi di soggetti: (1) quelli interessati alla valorizzazione economica della propria proprietà, cioè quelli che utilizzano il territorio come una macchina per accrescere la loro ricchezza personale; (2) quelli interessati a veder soddisfatte le loro esigenze di cittadini: accesso a un’abitazione a prezzo ragionevole, disponibilità di spazi e servizi pubblici efficaci e comodi, assenza di rischi e di bruttezze, possibilità di godere delle diverse qualità del patrimonio comune.

In questa fase della vita pubblica italiana il primo gruppo di interessi è indubbiamente il più forte. È esso in particolare che domina il processo delle decisioni, che conosce gli strumenti mediante i quali si formano e trasformano le regole.

La prima funzione delle regole è quindi quella politica e didattica: prima di definire le regole tecniche occorre definire un gruppo di regole che costituiscono i principi che la collettività sceglie per governare il proprio territorio.

I principi

Per chiarire ciò che intendo potrà servire un esempio: l’enunciazione dei “principi” che apre le norme del Piano strutturale (”Statuto dei luoghi”) del comune di Sesto Fiorentino (FI). Si tratta di alcune affermazioni abbastanza semplici, che dovrebbero costituire la base delle specifiche regole del piano e dei conseguenti comportamenti.

Città, società, territorio

La città, il territorio dal quale è nata e di cui essa fa parte, gli uomini e la società che la costruiscono, la abitano e la utilizzano, fanno parte di un unico sistema.

La pianificazione è finalizzata a garantire un rapporto equilibrato tra comunità e territorio, nel rispetto dei principi enunciati nel presente Statuto dei luoghi e nei limiti dettati dalle leggi vigenti.

La tutela dell’ambiente

Si attribuisce priorità logica e culturale alla tutela dell’integrità fisica del territorio, intesa come preservazione da fenomeni di degrado e di alterazione irreversibile dei connotati materiali del sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera, considerati singolarmente e nel complesso, con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalle forme di insediamento dell’uomo.

In funzione di tale priorità il piano strutturale subordina le trasformazioni fisiche e funzionali del territorio a specifiche condizioni ed esplicita gli elementi da considerare per la valutazione degli effetti ambientali delle trasformazioni previste o prevedibili.

I luoghi e la loro identità

Si riconosce che i diversi luoghi che compongono il territorio comunale possiedono ciascuno una specifica identità, derivata dalla loro “biografia” ovverosia dal modo in cui, nel tempo, gli abitanti e il territorio hanno interagito.

Il piano strutturale individua come “Unità territoriali organiche” gli ambiti all’interno dei quali possa essere formata o promossa o tutelata la formazione di comunità stabilmente legate al territorio e dotate di sufficienti dotazioni elementari e, sulla base di questo principio, determina l’organizzazione del territorio.

Il piano strutturale inoltre promuove la preservazione delle testimonianze materiali della storia, e la conservazione delle caratteristiche, strutturali e formali, che ne siano espressioni significative.

Il territorio come patrimonio per domani

Si riconosce la necessità e la responsabilità, nei confronti delle generazioni future, di non disperdere la straordinaria ricchezza e bellezza del territorio comunale così come ci sono state tramandate attraverso il secolare lavoro della natura e dell’uomo.

Il piano strutturale è volto prioritariamente, pertanto, al recupero e alla valorizzazione dell’esistente e, in armonia con i principi sanciti dalla legge urbanistica regionale, considera prioritariamente il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti rispetto ad ogni ulteriore consumo di suolo.

La città e il territorio più vasto

Si riconosce l’appartenenza di Sesto Fiorentino ad un territorio più ampio di quello comunale e coincidente, a seconda degli aspetti considerati, con l’area della Piana, l’area metropolitana, la provincia, il bacino idrografico e la regione.

Sulla base di questo principio e del principio di sussidiarietà, il piano strutturale stabilisce, in accordo con le previsioni degli altri enti territoriali, la localizzazione e le forme d’uso degli elementi di rilevanza sovracomunale.

La città come casa della società

Si riconosce la città come luogo di massima espressione della vita civile e della vita politica nel quale la convivenza sociale facilita l’esercizio attivo dei diritti individuali.

Il presente piano è volto pertanto a favorire la convivenza sociale attraverso:

- un sistema di regole di uso del territorio che garantiscano la massima diffusione dei diritti primari di cittadinanza quali la salute, la mobilità, la libertà di cultura e di istruzione pubblica, la casa, la sicurezza sociale;

- una specifica attenzione agli spazi pubblici affinché siano resi attrattivi, sicuri e utilizzabili da tutti, con particolare attenzione per i cittadini più deboli come i bambini, gli anziani, i portatori d’handicap;

- la definizione di un assetto della mobilità che temperi l’esigenza di spostarsi con quella di garantire la salute e la sicurezza dei cittadini.

In particolare, il piano strutturale si pone l’obbiettivo specifico di formare un “sistema delle qualità”, organizzando la città e il territorio a partire dal pubblico e dal pedonale, in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, i luoghi dedicati alla ricreazione e quelli finalizzati al consumo comune (dell’istruzione, della cultura, dell’incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell’amministrazione e della giustizia e così via).

La città come costruzione collettiva

Si riconosce la necessità che i vantaggi derivanti ai singoli cittadini dalle trasformazioni urbanistiche siano temperati a favore della qualificazione complessiva della città (prevedendo la cessione di aree per le attrezzature o realizzandone alcune, compensando gli effetti sull’ambiente, e così via).

Il presente piano pertanto stabilisce quali prestazioni debbano essere richieste, nel complesso, alle trasformazioni urbanistiche, demandando agli strumenti attuativi il compito di definire nel dettaglio le modalità attraverso le quali garantirne il raggiungimento e i rapporti fra pubblico e privato.

Lo strumento della pianificazione

Si riconosce l’istituto della pianificazione come lo strumento necessario per garantire la coerenza, nello spazio e nel tempo, dell’insieme delle trasformazioni del territorio, assicurando la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte e la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Naturalmente non basta che i principi siano scritti nelle norme: occorre che essi siano posti preliminarmente in discussione, che arrivino a tutti gli abitanti, che costituiscano l’oggetto di molte riunioni nel corso dei quali si illustri, si articoli, si modifichino le formulazioni. Bisogna che questa discussione sia accompagnata dall’illustrazione e il dibattito sul territorio: sulle sue caratteristiche, rischi, problemi, regole che esso stesso pone alle trasformazioni. E bisogna che la fedeltà a questi principi sia il parametro sulla cui base i cittadini verificheranno e valuteranno le scelte degli amministratori.

Uno scoglio: la rendita

Perché, se si vuole che il territorio sia amministrato con saggezza e lungimiranza, sono così importanti le regole? E perché l’urbanistica non può non essere “regolativa” e “autoritativa”? La risposta è semplice: regole forti sono l’unico strumento disponibile per cercar di contenere gli effetti della proprietà privata dei suoli e, nell’ambito del sistema economico sociale italiano, dell’appropriazione privata delle rendite urbane.

Per poter governare efficacemente il territorio la collettività deve avere la piena disponibilità del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà: quindi, avere regole forti adoperate da un potere pubblico autorevole e determinato.

Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deve essere consapevole che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, di per sé non appartiene al proprietario ma alla collettività.

Questa premessa era molto viva, qualche decennio fa, nella consapevolezza della cultura e della politica dei veri liberali e della sinistra. Ora sembra scomparsa: la rendita, anziché una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.

Chiarissima è la strategia di cui il “piano casa” di Berlusconi è un tassello. Il territorio viene trasformato da due tipi di interventi: le grandi opere (autostrade e aeroporti, ferrovie, “nuove città”, complessi commerciali, stadi ecc.) e gli interventi di riorganizzazione e completamento delle aree urbane. In ogni paese moderno la coerenza dell’insieme di queste trasformazioni è affidato alla pianificazione urbana e territoriale. Anche in Italia è stato così, a partire dalla legge del 1942. La pianificazione si è via via evoluta, dando spazio (in Italia a partire dal 1985, legge Galasso) alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, e ampliando (sebbene ancora in misura del tutto insufficiente) la possibilità dei cittadini e delle associazioni di intervenire sulle decisioni.

A un certo punto tutto questo è cambiato. Si è iniziato con le grandi opere: quelle sottratte alla pianificazione sono diventate sempre di più. Si è proseguito con i grandi complessi: a Venezia, in questi giorni, due nuove “città” volute dai poteri forti per valorizzare terreni sulla Riviera del Brenta e sul bordo della Laguna ricevono dai piani una mera ratifica. Ora il quadro si completa sottraendo alla pianificazione, quindi al controllo pubblico preventivo, anche le operazioni mediante le quali le città si trasformano: lasciate all’interesse individuale esse diventeranno più mattoni e cemento, e meno verde, piazze, servizi per tutti.

La forte componente demagogica di B. accresce il rischio di questa strategia, che proseguirà finché non si leverà dalla società un BASTA forte, argomentato, radicato in mille lotte e in una matura consapevolezza dei rischi e, soprattutto, delle possibilità alternative.

Scatenare gli “spiriti animali” della speculazione edilizia più forsennata e rozza per dare uno choc all’economia, un colpo alla burocrazia e un volano enorme all’edilizia: questo, secondo le sue parole, il progetto di politica urbanistica dell’uomo che gli italiani, aiutati da una legge elettorale balorda, hanno scelto per governare. Si potranno aumentare del 20% le cubature di tutti gli edifici residenziali esistenti e della stessa quantità le aree coperte dagli edifici ad altra destinazione. Si potranno demolire e ricostruire, con il 30% in più, gli edifici costruiti prima del 1989. Tutto questo in deroga ai piani regolatori e ai pareri degli uffici: basta la certificazione di un tecnico.

Siamo alla follia. Si cancellano non pochi decenni, ma alcuni secoli di tentativi di regolare un mercato (quello dell’utilizzazione del suolo a fini urbani) che, lasciato alla spontaneità, stava distruggendo le città e rendendone invivibili le condizioni per gli abitanti e le attività. La regolamentazione del territorio nell’interesse collettivo non nasce nei paesi del socialismo reale, e neppure in quelli del welfare state, ma agli albori del XIX secolo nei paesi del capitalismo maturo. Arrivò più tardi nei paesi in cui le debolezza dell’imprenditoria moderna lasciava ampio spazio alla rendita, come l’Italia. Qui la regolamentazione urbanistica venne introdotta, nell’epoca fascista, dopo un conflitto che vide, all’interno di quel mondo, la vittoria delle forze del profitto su quelle della rendita: fu nel 1942, quando la legge del fascista Gorla fu approvata contro le resistenze dei difensori del privilegio indiscriminato della proprietà privata.

Aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) significa compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. Significa privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra. Non dimentichiamo che scatenare l’attività edilizia indiscriminata provocherà la distruzione di paesaggi, di beni artistici e culturali, di testimonianze storiche e di bellezza: insomma, di tutte le componenti del patrimonio comune, già così debolmente tutelati nel nostro paese. Non è un caso che uno dei presidenti regionali che darà il via al provvedimento è quel Cappellacci, viceré della Sardegna in nome di Berlusconi, cui lo champagne di festeggiamento del trionfo elettorale fu offerto da quel tale che aspetta di costruire 300mila mc sulla necropoli punica di Tuvixeddu-Tuvumannu.

E riflettiamo sul fatto che affidare le decisioni delle demolizioni e ricostruzioni e degli ampliamenti edilizi al parere tecnico di professionisti pagati dagli stessi operatori immobiliari interessati significa sottrarre ogni decisione non a una parassitaria burocrazia, ma ai pareri di qualificati funzionari pubblici e alla possibilità dei cittadini di concorrere, mediante le procedure della pianificazione urbanistica e l’intervento diretto di partecipazione, alle scelte di trasformazione dei territori sui quali vivono. Da quale palazzo o palazzetto della politica nascerà il segnale di una protesta che fermi la marcia verso la devastazione?

Da il manifesto, 2 dicembre 2008.

Cit. in G. Zagrebelsky, "Le parole della democrazia", la Repubblica, 23 aprile 2009

il manifesto, 25 aprile 2009


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