Walter Tocci, L'insostenibile ascesa della rendita urbana
Dalla lettera a John Taylor, 28 maggio 1816
L'Unità, intervista di Toni Jop, 11 agosto 2010
Il riferimento è al famoso scritto di Lenin: "un passo avanti, due indietro" (1904)
Da: "L’insostenibile ascesa della rendita urbana", Democrazia e Diritto 1/2009, anche in qui in eddyburg
L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.
Per raggiungere quest’obiettivo le componenti della strategia sono chiare. Il primo passaggio ha a che fare con il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e dei saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati, sono ridotti, da Scienza, a Tecnica: anzi, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.
Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico, e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.
I beni che si vogliono ridurre a merci, i “comuni” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Le armi
Tra le armi che si adoperano nella strategia dei saccheggiatori due sono quelle decisive, una distruttiva l’altra distorsiva. Si devono distruggere le regole, con l’unica eccezione di quella del mondo dei pesci, e si deve trasformare la testa della “gente”.
Via tutte le regole elaborate nel corso dei secoli per sottoporre i beni (il territorio, le sue risorse e qualità, l’ambiente della vita degli uomini) a una finalità d’interesse comune, o generale, o collettiva. Via gli strumenti mediante i quali quelle regole si concretano e diventano efficaci: non solo le leggi, ma anche la pianificazione delle città e del territorio. Via le strutture che dovrebbero garantire la corretta formazione e applicazione delle regole (a partire dalla pubblica amministrazione) e quelle che dovrebbero consentire l’ancoraggio del potere normativo alla volontà della maggioranza dei cittadini (i parlamenti, i consigli elettivi). Ed ecco allora l’incentivo all’abusivismo, la generalizzazione della deroga ai piani, il passaggio dalla “urbanistica autoritativa” alla “urbanistica contrattata” (anzi, addirittura alla registrazione delle scelte immobiliari decise dai proprietari), la sostituzione dei controlli ex-post a quelli ex-ante (addirittura con una modifica della Costituzione), il discredito della pubblica amministrazione e la sua tendenziale distruzione (Brunetta sta lì per questo). E via addirittura le regole del mercato, se questo è manipolabile dai pesci più grossi.
Ma distruggere le regole non si può senza ottenere il consenso necessario, finché si opera in un contesto nel quale non si possono abbandonare le forme della democrazia. Un Berlusconi alla fine del secolo non può fare ciò che fece un Mussolini nei primi decenni. Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul presente (non è vero che “There Is No Alternatives”).
Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent’anni. E allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio (“meno stato più mercato”, “privato è bello”, “padrone a casa mia”, “meno tasse per tutti”) e far credere alla “gente” che benessere significa modernizzazione, sviluppo significa crescita, democrazia significa a votare una volta tanto, privato è meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.
Un saccheggio globale
Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre alla “nicchia ecologica” dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi).
É davvero un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Esso genera reazioni, poiché provoca disagi e sofferenze. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).
E tuttavia l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio: si illude di poter vincere la piovra che l’avvolge colpendo uno solo dei suoi mille tentacoli. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. (E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra iìtaliana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante). Questo è il limite che occorre superare.
Quali errori?
Il processo che abbiamo descritto non nasce oggi. Le sue radici sono antiche, ma esso ha avuto un’accelerazione consistente e indubbi successi nei decenni più vicini: i decenni del neoliberismo, rappresentati da David Harvey nel poker d’assi Reagan, Tatcher, Deng Xiaoping, Pinochet. In Italia, esso ha cominciato ad affermarsi a partire dagli anni Ottanta, negli anni del doroteismo democristiano e del craxismo. É utile domandarsi quali errori, compiuti nel campo della cultura democratica e di sinistra, ne abbiano agevolato il successo; soprattutto, su queste pagine, quali siano state le responsabilità della cultura urbanistica.
Alcune sono evidenti, e se ne abbiamo trattato spesso in questo sito. É stato certamente un errore (ha agevolato il propagarsi dell’ideologia neoliberista) l’enfasi data all’estensione della perequazione, proposta come strumento generalizzato per risolvere il conflitto tra appropriazione privata della rendita e salvaguardia degli interessi collettivi nelle trasformazioni della città e del territorio. Un errore ancora più grave è stato l’affermare l’esistenza di un diritto edificatorio, giuridicamente ed economicamente fondato, che apparterrebbe al proprietario di un suolo cui un piano urbanistico avesse attribuito una previsione di edificabilità. Si sono date così armi possenti a chi voleva anteporre il privato al pubblico, l’interesse economico del singolo all’interesse collettivo nelle decisioni sul territorio. Su questo sito ci siamo così spesso intrattenuti su questi errori che non è necessario dilungarvisi ora.
Ma è stato un errore altrettanto grave il rinchiudersi dell’urbanistica su se stessa, sulla sua tecnicità, ridursi all’accademismo o al professionismo. É stato un errore promuovere o subire un “fare” disancorato dai princìpi, preoccuparsi di essere operativi abbandonando lo spirito critico, il senso di ciò che si contribuiva a fare. Ed è stato un errore impoverire i collegamenti con la società nel suo complesso, con le aspirazioni, le esigenze, i disagi, le sofferenze che in essa si esprimevano.
É vero, una volta la società era rappresentata dalla politica dei partiti, e questa si esprimeva nelle istituzioni della democrazia; riferirsi ai partiti e alle istituzioni era dunque sufficiente a un’urbanistica che volesse esprimere la società e servirla. Oggi non è più così. La politica dei partiti è in crisi vistosa proprio sul punto che la rendeva una dimensione cardine dell’urbanistica operativa: nel suo essere espressione della società. Le istituzioni della democrazia (in quanto organismi rappresentativi della società) sono ancora il riferimento obbligato per un’azione che voglia avere il bene comune come suo fondamento, ma esse sono largamente conquistate dal’ideologia dominante e signoreggiate dai partiti .
É in altri ambiti che l’urbanistica deve allora ritrovare oggi i suoi collegamenti con la società. Due mi sembrano particolarmente rilevanti: quelli nei quali si formano conoscenza e coscienza delle persone, e soprattutto dei più giovani; quelli nei quali si esprimono il disagio e la protesta per il saccheggio dei beni comuni – e in particolare quelli territoriali.
Si tratta di due ambiti che in gran parte coincidono. Nei processi formativi classici (la scuola, l’università) mi sembra particolarmente necessario far riemergere lo spirito critico, oggi seppellito dal nozionismo e dalla sterilità dell’accademismo. Ma si può svolgere una funzione formativa anche nel collaborare a una di quelle numerose forme della cittadinanza attiva (associazioni, comitati, reti locali e settoriali) nelle quali trova espressione collettiva il disagio e la protesta. In quelle sedi, generalmente, lo spirito critico è già presente. Ma non è sempre immediato né facile il passaggio dalla percezione di quel determinato problema in relazione al quale il disagio e la protesta sono nati, alla consapevolezza delle connessioni col resto del saccheggio: quindi alle sue cause e alle possibili soluzioni. Così come non è facile (ed ha bisogno dell’aiuto degli esperti) l’individuazione delle soluzioni positive, delle alternative possibili, delle proposte da formulare per ottenere un consenso più ampio.
Qualcosa da fare
Se si guarda a ciò che succede sul territorio, e a ciò che si muove nella società, alcuni concreti temi d’azione emergono subito.
Il più immediato è la difesa dei beni comuni territoriali. É un tema che richiede la formulazione di analisi chiare e facilmente comprensibili, la presentazione efficace delle ragioni per cui quel bene deve essere tutelato e fruito nell’interesse non solo dei suoi immediati fruitori, l’individuazione degli strumenti utilizzabili per tutelarlo e delle alternative possibili alle azioni minacciate. Sono già disponibili esperienze di situazioni in cui la collaborazione tra specialisti e risorse locali ha consentito successi.
Un altro tema sul quale gli urbanisti dovrebbero impegnarsi è l’illustrazione del modo nel quale determinate esigenze della vita individuale sociale – oggi divenute problemi – possono essere affrontate e risolte, e delle ragioni per le quali, al contrario, certe ipotesi ricorrenti di trasformazione urbana sono negative. Ad esempio, a quanti di quelli che propongono la “densificazione urbana” finalizzata a meri interessi immobiliari si oppone – da parte di chi vuole contrastarla – la buona ragione che a ogni metro cubo di nuovi volume destinato alla residenza o al lavoro devono corrispondere tot metri quadrati di spazio pubblico, utilizzato per il verde e i servizi collettivi, e che comportarsi in modo diverso è non solo irresponsabile ma anche illegittimo?
Connesso a questo tema è poi quello della difesa della memoria: non solo come collaborazione alla generale imprese di rivendicare la storia come momento fondativo della comprensione del presente e quindi della progettazione del futuro, ma anche come dimostrazione che, ove esistano determinate condizioni spesso ripetibili, sia possibile affrontare in termini positivi problemi che oggi appaio no risolubili solo perché non se ne vogliono mutare le condizioni. Penso ad esempio al problema della casa, per il quale in Italia, negli anni 60 e 50 del secolo scorso, si raggiunsero obiettivi e si costruirono strumenti di eccezionale rilevanza.
Più in generale, spetta certamente agli urbanisti (non da soli, ma certamente in modo del tutto particolare) la progettazione di alternative al modo in cui città e territorio oggi vengono organizzati e trasformati nell’ambito della strategia del saccheggio. Come si può ridurre, o fortemente limitare, lo scandalo dell’appropriazione privatistica del plusvalore determinato dalle decisioni e dalle opere della collettività (la rendita urbana)? Quale città nella quale vita personale e vita sociale vivano in armonioso equilibrio può essere definita, sulla base di un pieno controllo collettivo delle trasformazioni del territorio? In che modo l’obiettivo del “diritto alla città”, nelle sue componenti della partecipazione alle scelte e dell’eguale accesso alle qualità urbane, può essere oggi proposto?
La vignetta di Vukic è tratta dall sito www.arkoiris.tv, 2 agosto 2010
Per Edoardo Salzano bisogna ripartire dalla politica per rilanciare la disciplina. Sfruttando il disagio diffuso
La crisi dell’urbanistica/1
box introduttivo
Cominciamo con questo numero una serie di interviste ad alcuni grandi protagonisti dell’urbanistica italiana per sondare le cause della sua crisi, che oggi sembra irreversibile. Nelle città le trasformazioni sono dettate quasi esclusivamente dall’iniziativa privata, con le amministrazioni chiamate soprattutto a certificare scelte guidate dalla rendita fondiaria. Anche gli strumenti della pianificazione, pur modificati nel corso degli ultimi vent’anni, non riescono ad arginare il fenomeno: fra le loro maglie larghissime riescono a passare le iniziative più spregiudicate, quando addirittura non sono costruiti ad hoc per spianare la strada ai proprietari, come il pgt di Milano (vedi Costruire n. 321). In questa situazione ha ancora senso, oggi, parlare di urbanistica? Esistono margini di recupero per la disciplina? Le nostre città hanno un futuro sostenibile?
Fulvio Bertamini. Edoardo Salzano, classe 1930, continua a lavorare, scrivere, insegnare con l’energia di un ragazzo. Di formazione ingegneristica, considerato da tempo l’esponente di spicco dell’ala più radicale dell’urbanistica italiana, è stato amministratore pubblico, ha presieduto l’Inu, Istituto nazionale di urbanistica, firmato molti prg, diretto riviste – fondando Urbanistica informazioni – ed esercitato una intensissima attività pubblicistica. Polemista acuto, autore di molti libri (il più recente è “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”, vedi box), ha creduto molto presto nelle potenzialità della rete. Oggi il suo sito (eddyburg.it) è uno dei più ricchi di spunti e informazioni in materia.
Salzano, è corretto dire che il metodo della pianificazione, e con lei l’urbanistica tutta, sta agonizzando, oggi, in Italia?
Come disse un po’ di anni fa Leonardo Benevolo, l’urbanistica è parte della politica, non è un mestiere tout-court. È l’arte di governare le trasformazioni della città.
Non è solo un fatto tecnico, dunque.
La tecnica è solo un aspetto della disciplina. L’urbanistica è il progetto di formazione e trasformazione della città che esprime la società nel suo complesso, non ha a che fare con i singoli individui, anche se poi sono loro a fruirne. Partendo da questa asserzione, diventa facile rispondere alla sua domanda: l’urbanistica è in crisi perché è in crisi la politica, che non è più espressione della società, ma di vari individualismi, lobby, separatezze. Questa urbanistica non serve più perché non serve più questa politica. Se poi mi chiede perché in Italia la politica sia diventata tutto questo e sia stato abbandonato il metodo della pianificazione, il ragionamento si fa più complesso.
Facciamolo pure.
Secondo me le ragioni principali sono due. Anzitutto, in Italia la borghesia non ha mai compiutamente vinto e quindi non si è mai data alcuni strumenti essenziali, che le borghesie di tutto il mondo hanno inventato: a cominciare da una solida amministrazione pubblica. Perché la borghesia intelligente sa che il capitalismo funziona bene se c’è un governo pubblico a risolvere i problemi che il mercato non sa risolvere. E fra questi c’è il governo del territorio. La pianificazione, per me, nasce a New York nel 1811, con il piano regolatore che ha dato forma a Manhattan, con un disegno ancora attuale. In Italia, viceversa, non c’è mai stata una borghesia capitalistica seria, vincente. Come conseguenza, questa classe, sviluppatasi essenzialmente nel Nord – e questo è il secondo aspetto da tenere in considerazione – per arrivare al potere ha dovuto fare un patto con l’ancien régime, cioè con i latifondisti del Sud. L’accordo ha consentito alla rendita fondiaria di conservare un peso straordinario, dominante. Il territorio, nel nostro paese, non è il luogo dove costruire la migliore città possibile, ma è uno strumento per fare quattrini. Secondo me è molto significativo che durante l’età delle riforme in Italia, ovvero negli anni Sessanta e Settanta, la borghesia capitalistica, con Agnelli leader di Confindustria, sparasse contro la rendita, favorendo quel processo di innovazione che stava per tagliare le unghie alla rendita, contenendone il peso nella costruzione della città. Purtroppo è stato un momento, durato circa vent’anni; poi hanno prevalso altre logiche. Che non sono un’esclusiva italiana, sia chiaro: è il fenomeno che Richard Sennett ha definito come il declino dell’uomo pubblico, ovvero la riduzione nelle stesse psicologie personali della componente sociale, aperta all’esterno, e il predominio di quella individualistica. In Italia, però, questo aspetto ha raggiunto il parossismo e il tracciato politico che dal Doroteismo porta a Craxi e a Berlusconi è l’espressione limpida di questo percorso.
Non c’è speranza, dunque, per la pianificazione?
Bisogna intendersi. Quando parliamo di pianificazione intendiamo una prassi sviluppata dall’autorità pubblica, che ha come obiettivo un interesse generale. E pensiamo a una pianificazione nella democrazia, trasparente. Persino il fascismo dovette introdurre le osservazioni al piano regolatore, quando inventò questo strumento. Questa pianificazione oggi è scomparsa. Ma una strategia sull’uso del territorio esiste ed è chiarissima: le grandi opere pubbliche da un lato, il piano casa di Berlusconi dall’altro, e ognuno faccia quello che vuole, perché ognuno è padrone a casa sua. Sotto questo aspetto, esiste una pianificazione, un disegno preordinato.
Ma non olistico. Non si valuta il territorio nel suo complesso.
Certo. Però il territorio è una realtà sistemica e non può essere gestito a spizzichi e bocconi, perseguendo via via gli interessi degli appaltatori, dei proprietari dei terreni, della finanza – legale e illegale, espressione della malavita organizzata – che non sa dove investire. Perché in questo modo, prima o poi, si ribella e si sfascia. Certo, nel frattempo chi doveva fare quattrini, li ha fatti. Se ne frega.
Diciamo, con un eufemismo, che l’esito non preoccupa.
Infatti, non è un tema all’attenzione. Da vecchio comunista italiano, però, mi fa paura concludere un’analisi negativa senza individuare un punto da cui ripartire. La nostra situazione, oggi, è inumana – pensiamo alle condizioni in cui versano le nostre città – dunque provoca disagio, genera dissenso, ribellione. Questo è il punto da cui si può ripartire. Se mi guardo intorno non vedo forze politiche in grado di comprendere questa situazione. Però esistono, dispersi sul territorio, molti gruppi e associazioni che, mossi dai moventi più diversi, dall’inceneritore che inquina al parco assaltato dalla speculazione, dalla scuola privatizzata all’acqua svenduta, si orientano nuovamente verso interessi comuni. Per ora si ragiona ancora seguendo interessi particolari, che difficilmente riescono a comunicare fra loro. Ma è una prospettiva sulla quale conviene spendersi. Una speranza, insomma, c’è.
Anche l’architetto sloveno Marjetica Potrč svolge un’analisi di questo tipo (“Marjetica Potrč. Fragment worlds”, Actar/Fondazione Antonio Ratti). Le comunità si aggregano sempre più secondo piccoli gruppi molto sensibili alle tematiche territoriali, in grado però, grazie alla tecnologia informatica, di restare in contatto con il resto del mondo. Questo vale per alcune tribù del Mato Grosso come per il puzzle etnico balcanico. Anche partendo dal locale è possibile un’azione comune.
Sono d’accordo. Supporto la sua riflessione con la mia esperienza personale. In Veneto stiamo costituendo una rete di associazioni e comitati che si battono per la difesa del territorio. Siamo partiti da un’analisi critica del piano territoriale di coordinamento provinciale di Venezia, quindi abbiamo valutato l’analogo piano della Regione Veneto, creando un gruppo multidisciplinare formato da esperti – urbanisti ma anche trasportisti, agronomi, naturalisti eccetera – e rappresentanti dei diversi comitati, che ha elaborato un documento, diventato materia di discussione in alcune centinaia di incontri svoltisi un po’ ovunque. Su questo testo abbiamo raccolto l’adesione di 150 comitati e associazioni e siamo riusciti a far presentare 15 mila osservazioni al piano regionale. Esperienze come questa non sono episodiche: si veda la raccolta di firme contro la privatizzazione dell’acqua in tutta Italia, un episodio grandioso. O il movimento “Stop al consumo di suolo”, che ha lanciato questo tema e raggiunto alcune migliaia di associazioni e gruppi.
Però manca una forza in grado di coagulare e dare un respiro più ampio a queste iniziative.
Sono tutti punti di vista parziali, certo. Del resto, è difficilissimo: tutto è sempre basato sul volontarismo e sulle risorse personali, che purtroppo sono scarse.
Lei ha spostato l’analisi su un piano politico. I suoi colleghi, invece, la confinano spesso all’aspetto tecnico. Scendendo a questo livello, condivide la critica al vecchio prg? E cosa pensa dello sdoppiamento di questo strumento, proposto dall’Inu a Bologna nel 1995 e adottato da molte leggi urbanistiche regionali?
Io sono fra i responsabili dell’idea di articolare in due parti, una strutturale e l’altra operativa, il prg. Cominciammo a operare in questa direzione a Venezia con il piano del centro storico, nei primi anni Ottanta, poi abbiamo applicato questa sperimentazione prima a Carpi, quindi in un paio di proposte di leggi urbanistiche per l’Emilia Romagna e il Lazio. L’idea di fondo è che esistono scelte sul territorio che hanno carattere di invarianza, cioè che è sensato non siano modificate a tempo indeterminato – le opzioni strategiche e di tutela ambientale o storico-monumentale – e ce ne sono altre legate alla contingenza: alla maggioranza che ha vinto le elezioni, agli equilibri sociali eccetera. Allora, è corretto separare questi due livelli e al primo dare un carattere più rigido, all’altro più elastico. Naturalmente, anche le scelte di lungo periodo devono essere precise, vincolanti, non possono limitarsi a dichiarazioni di buona volontà, a costituire disegni indeterminati nel tempo e nello spazio. Invece ha preso piede un’altra distinzione, cioè un altro piano, articolato in un documento sì abbastanza rigido, ma che in genere presenta maglie larghissime e non decide nulla, e uno operativo, appannaggio però solo del sindaco. Comunque, tutto questo è superato, ormai. Perché le decisioni maturano fuori del piano regolatore.
Cosa è accaduto?
In Italia a un certo punto le forze politiche – compreso il centrosinistra – hanno scelto la governabilità a scapito della democrazia. Una volta i piani regolatori erano discussi dai consigli eletti – comunale, provinciale o regionale – e approvati in quelle sedi. Tutti erano ugualmente responsabili e informati. L’opposizione poteva esercitarsi. Oggi le decisioni sono sempre più esclusiva del sindaco o del presidente della Regione, che non a caso si fa chiamare governatore. Addirittura si ricorre ai commissari, che concentrano poteri extra legem, se non addirittura contra legem, perché in genere non sono tenuti al rispetto delle norme.
Come dimostra il caso della Protezione civile. Ma quanto ha pesato nella crisi dell’urbanistica l’assenza storica di alcune leggi fondamentali, da una normativa sul regime dei suoli alla riforma della legge quadro, la 1150/42?
Non molto. Manca davvero una sola legge: quella che avrebbe dovuto comprimere la rendita. In interi continenti la proprietà della terra non è privata, come nella tradizione africana precolonialista. Perfino nel Regno Unito, durante le operazioni di development urbano, il consenso del proprietario è richiesto, ma non è certo il primo a decidere. In Italia, invece, la rendita ha ancora un peso determinante. Si era andati vicino alla soluzione del problema negli anni Settanta. Già lo Stato liberale aveva decretato che l’indennità espropriativa non compensava il maggior valore derivante dall’investimento dell’opera pubblica realizzata. Anche la legge urbanistica fascista del 1942 sosteneva la mancata compensazione dei benefici ottenuti dal prg. In materia espropriativa, insomma, erano stati raggiunti risultati apprezzabili. Non altrettanto per quanto riguarda la discriminazione fra chi poteva costruire, quindi godere della rendita piena sul proprio terreno, e chi invece aveva subito l’esproprio. La legge Bucalossi (10/77) tentò di risolvere il problema, trasformando la licenza edilizia – che libera un diritto già presente nella proprietà – in concessione, che va pagata a un prezzo equivalente al beneficio derivante. Questa operazione, purtroppo, non è mai andata in porto, perché il costo della concessione è sempre stato simbolico. Il nodo è complesso da risolvere. Ma può essere affrontato.
Anche oggi?
Non ci siamo riusciti negli anni Settanta, figuriamoci oggi. Si consideri che le prime bombe fasciste sono scoppiate dopo l’avvio della discussione sulle leggi sulla casa e lo sciopero generale del 1969. La nostra disciplina non si confronta con problemi lievi, evidentemente. Allora, che gli urbanisti la smettano di piangere: ben più dell’urbanistica, è fallita la politica. E da lì bisogna ricominciare.
Che ne pensa della città della paura, in rapida espansione anche in Italia (vedi Costruire nn. 293, 306 e 313), dalle gated community, i quartieri cintati esclusivi per ricchi, al fiorire delle telecamere, dalla soppressione progressiva degli spazi pubblici alla limitazione di alcuni elementi di arredo urbano molto democratici, come le panchine? È preoccupato da questo trend?
Certo. La città pubblica continua a cedere spazi alla città privata. Sono tendenze molto evidenti negli Usa, dove in alcuni mall puoi acquistare magliette politicamente orientate ma non puoi esibirle, o non puoi stare seduto per più di 15 minuti su una panchina perché tu sei lì per acquistare, non per riposare. Un altro aspetto di questo fenomeno sono i ghetti, per i poveri e per i ricchi, la città da cui ti proteggi e la città protetta: due facce della stessa medaglia. La città si sta muovendo lungo queste linee, il tema sarà assolutamente centrale nel futuro prossimo, non ci sono dubbi.
Lei si batte contro il consumo di suolo, dunque lo sprawl. Favorevole allora alla densificazione urbana?
Sono sì contro lo sprawl, ma anche contro i grattacieli. I due aspetti sono posti spesso in contraddizione: costruiamo torri per contenere il consumo di suolo. Ma è una tesi che rifiuto. Un tempo la cultura urbanistica aveva imparato – e insegnava – che per costruire una città non bastano case, uffici, fabbriche. Ogni metro quadrato di residenza, ufficio, produttivo si deve portare dietro un certo numero di metri quadrati di scuole, mense, ospedali. Cioè di standard urbanistici. Se costruisci un grattacielo, dovresti realizzare contestualmente una determinata quantità di spazi pubblici, che sono fissati per legge. Questo oggi non avviene.
Nella crisi dell’urbanistica c’è dunque anche un problema di formazione? Cattivi allievi da cattivi maestri?
Io seguo poco, ormai, quanto accade negli atenei. Da quel che capisco, soprattutto ascoltando gli studenti che approdano alla scuola di Eddyburg, mi pare che l’università si sia terribilmente tecnicizzata. Anziché addestrare in primo luogo a una lettura critica della realtà tende a formare facilitatori, cioè specialisti che hanno il compito di semplificare le operazioni immobiliari. Del resto, l’università è strozzata: per sopravvivere deve fare quattrini, dunque deve mantenere buoni rapporti con chi li ha. La tendenza alla privatizzazione dell’insegnamento accademico presenta anche questi risvolti. Si pensi alla sempre più netta prevalenza del linguaggio aziendalistico: l’università è stata costretta a trasformarsi in impresa, a fare utili e reinvestirli. Per questo l’attività di ricerca, che nessuno paga, viene progressivamente abbandonata.
box libro
L’Italia di Salzano
Una galoppata lunga 80 anni, dalle origini familiari napoletane – suo nonno era il generale Armando Diaz, duca della Vittoria nella Prima guerra mondiale, l’uomo di Vittorio Veneto – al suo trasferimento a Roma, dalla scoperta dell’urbanistica (“Mi piaceva il forte intreccio fra dimensione tecnica e professionale e quella sociale e politica”) alla scelta politica di campo con il Pci, alle multiformi esperienze professionali: il centro studi della Gescal, il lavoro al ministero dei Lavori pubblici, i piani urbanistici, cui si affiancavano l’attività politica strictu sensu (in consiglio comunale a Roma, in giunta comunale a Venezia), l’impegno all’interno dell’Inu, dalla presidenza alla clamorosa rottura e alla diaspora, l’insegnamento all’Università Iuav di Venezia. Nelle “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto” di Edoardo Salzano c’è tutto questo e molto altro della vicenda umana e professionale di uno degli esponenti di spicco della cultura urbanistica italiana del dopoguerra. Il libro ha valore di testimonianza storica sanamente partigiana: nelle sue pagine è possibile ripercorrere le tappe esaltanti e tragiche della nostra politica, ma soprattutto è possibile apprezzare lo spirito indomito e la passione civile di Salzano, che traspare evidente anche dalla prosa, secca, efficace, incalzante. Un testo per tutti i palati, particolarmente consigliato agli spiriti libertari.
Edoardo Salzano
Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto
Corte del Fontego, Venezia, 2010
240 pagine, 20 euro
La voce critica di Eddyburg, Piano Casa, Housing sociale e progetti delle Archistar. - L'urbanistica democratica, gli abitanti hanno diritto a vivere in città possibili
Edoardo Salzano, professione urbanista. Una vita da intellettuale comunista, un cattolico laico che vive la politica come attivazione morale e che ha difeso, come amministratore, l’urbanistica dall’assalto di una politica senza più etica. Dal 2003, dopo aver redatto piani regolatori in tutta Italia e dopo aver insegnato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia per oltre due decenni, Salzano dedica la sua vita alla divulgazione di un’urbanistica del piano, soprattutto attraverso eddyburg.it, dove vengono lanciate anche campagne contro lo sfruttamento del suolo e il consumo dello spazio pubblico. Oggi, dopo il significativo contributo del 2007 con la pubblicazione di Ma dove vivi? La città raccontata - Editore Corte del Fontego, 2007 - ottuagenario ci lascia le sue Memorie di un Urbanista - Editore Corte del Fontego, 2010 - per ricominciare con nuovo slancio l’impegno della vita, è stato appena eletto presidente della Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto.
Lo hanno spesso etichettato quale illuminista giacobino insomma un ispiratore, in urbanistica, del Regime del Terrore - ma per dirla con Michel Foucault - Il terrore non esiste solo quando alcune persone comandano altre e le fanno tremare, ma regna quando anche coloro che comandano tremano, perché sanno di essere presi a loro volta, come quelli su cui esercitano il potere, nel sistema generale dell’obbedienza. A questo proposito vi invitiamo a leggere un illuminante articolo del 1992 Affari & Urbanistica. Gli strumenti urbanistici di Tangentopoli che ci racconta una storia attualissima dell’urbanistica italiana, un attraversamento guidato nell’Italia da prima delle “mani sulla città” allo “svillettamento” padano; dalla proposta di legge Sullo ( il disegno di legge Sullo è pronto nel giugno 1962) all’urbanistica contrattata; dall’idea di piano agli immobiliaristi, al pari del suo ultimo saggio Memorie di un Urbanista.
Ma chi è Edoardo Salzano, è un uomo che pensa il mestiere dell’urbanista come quello del diplomatico, non ammette l’esistenza di interessi privati. Ha un’idea precisa: la città, le decisioni sulle trasformazioni territoriali vanno sottoposte a processi decisionali pubblici. La stessa idea della pianificazione urbanistica è evaporata. Se l’ambiente continua a essere propizio al maturare di una nuova Tangentopoli e al suo rapido diffondersi, artificialmente costruito mediante la delegittimazione dell’urbanistica, lo svuotamento della pianificazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria. Occorre in primo luogo - il vulnus del pensiero di Salzano - che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo generale che la pubblica amministrazione adotti, a tutti i livelli (comunale, provinciale e metropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli interventi sul territorio, secondo procedure trasparenti.
Professor Salzano che cos’è oggi la città? Che cosa sta diventando?
«Intanto bisognerebbe chiedersi che cos’è la città, perché ci sono diversi punti di vista possibili e varie definizioni. La città come nelle statistiche internazionali può essere un certo aggregato di popolazione, applicazioni, attività, quindi, è città tutto quello che supera una certa densità, intensità di relazioni interne, rispetto alle relazioni con l’esterno, che supera un aggregato di case, di abitanti e di negozi. Oppure città può essere qualcosa di diverso, cioè quello che la civiltà europea ha inventato e poi costruito. Una città come un organismo che funziona unitariamente, che di per sé è un oggetto dinamico ma concluso, che ha una struttura riconoscibile e distinguibile da un’altra nell’ambito della quale valgono determinate regole di convivenza, di accoglienza, di organizzazione dello spazio, di un primato del collettivo sull’individuale, organizzazione finalizzata agli interessi comuni di tutti gli abitanti. È città Babilonia ed è città Atene, Creta, Edimburgo. Ma sono la stessa cosa? Secondo me no. C’è una città della tradizione europea il cui significato più profondo è la piazza come luogo aperto al pubblico. Tutti si incontrano, tutti hanno parità di diritti. E c’è poi appunto la città che si espande sul territorio senza distinzioni. Questo è un modello che ormai raccoglie più della metà degli abitanti del pianeta ed è una città destinata a trionfare. Se intendiamo città quella che c’è nella tradizione europea, quella è una città a rischio per una serie di eventi complessi che non incominciano ieri, ma che in molti anni e in molti decenni hanno avuto una forte accelerazione».
Chi e cosa minacciano la città? Quale potrebbe essere un’esplosione di conflitti
«Privatizzazione, prevalenza degli interessi individuali sugli interessi comuni, prevalenza della sicurezza sull’accoglienza, prevalenza dell’artificiale sul naturale. Anche se la natura è conservata e protetta là dove serve a chi può permettersela e per il resto chi se ne frega.
Il rischio è la sostituzione del cliente al cittadino, dello spazio privato allo spazio pubblico, la sostituzione del luogo dove si entra solo per comprare alla piazza, al luogo aperto a tutti».
Un innovatore straordinariamente attuale come Gio Ponti, che ha sempre lavorato nel cuore dell’industria, diceva che da sempre un urbanista, un architetto, un artista, un medico, fa la politica del suo re, del suo committente, fa un’attività che è sempre monumentale, ma sta nel ruolo nell’essenza dell’intellettuale d’oggi e quindi sta nella perdita di senso dell’architetto, che si è dimenticato che cos’è, dell’urbanista, del sociologo… Perché lei parla spesso di pianificazione della città come se fosse un optional, della perdita di senso di opere, che senso non ne hanno e di grande monumentalità. Ma insomma gli architetti tendono a “fare”, come Giò Pomodoro, opere autoreferenziate… Qual’è il modello? Intellettuali come Branzi, Deganello ed altri ancora, dicono che non si può più ragionare su contestualizzare architettura e urbanistica, bisogna fare altro. Lei cosa ne pensa?
«Secondo me la città non la fa né l’architetto né l’urbanista. La città la fa il committente, il potere politico. Il potere politico è cambiato, non è più la democrazia ma è quello economico. Non è più la politica ma l’economia. Il potere non è più il tao master, non è più il sindaco, il consiglio municipale, non c’è più la polis. Esclusivamente, almeno nel nostro Paese, ma poi è un processo generale, c’è la sostituzione degli interessi immobiliari, se parliamo di città, sugli interessi dello stare insieme in cui l’eletto è il custode e garante. Chi è il committente? Io ho sempre ritenuto che il piano urbanistico non è il figlio del professionista che aiuta a realizzarlo. Mi sono sempre opposto quando si è parlato di piano Salzano o che so io. Ho sempre lavorato dentro le amministrazioni, ho sempre collaborato con le amministrazioni e ho sempre sostenuto che il piano è il prodotto dell’amministrazione. Oggi per occuparsi della pianificazione seriamente bisogna avere uno sguardo lungo. Quando io ho cominciato a lavorare il sindaco trionfava se alla fine del suo mandato aveva portato all’adozione un piano regolatore generale e quest’ultimo aveva coinvolto l’interesse dei cittadini. I cittadini erano soddisfatti se era raggiunto questo obiettivo. Oggi se il sindaco non ha costruito il giardinetto pubblico o non ha affidato all’archistar il grattacielo o il ponte di turno non è soddisfatto. Questo è quello che si rivende ai cittadini come risultato. Quindi è cambiata l’ottica, il punto di vista, lo sguardo del committente e lo stesso committente».
Mi conceda una puntualizzazione. Lei vive nella più bella città del mondo. Ha come sindaco il filosofo Massimo Cacciari - dopo le elezioni del 28/29 marzo, il nuovo sindaco della città è Giorgio Orsoni - Come ha disattuato i suoi principi questo sindaco?
«Nella cronaca spicciola bisogna per forza entrare, perché non è certo storia aver disattivato il piano regolatore precedente del centro storico che tutelava, rispetto ai cardini di destinazione d’uso, la residenza e impediva che diventasse solo luogo di alberghi o pizzerie e avere scelto di fare soluzioni che premiassero gli interessi immobiliari qua e là nel territorio».
Ma a quale scopo? Per salvaguardare quali interessi?
«In termini di dubbio socratico le dico che l’interesse è stato fatto. Si confonde nello sviluppo economico l’aumento dell’attività delle imprese, qualunque esse siano. Si confondono nello sviluppo economico e in quello del PIL. Per cui, se io incominciassi a costruire e poi demolisco, il PIL aumenta a sua volta, mentre le costruzioni aumentano le demolizioni. Il gioco sta qui, aver confuso lo sviluppo economico, per esempio, con la massa di turisti che arriva a Venezia. Venezia soffre di un eccesso di turisti, non di una carenza. Venezia è distrutta dalla massa di turisti, turismo usa e getta, turismo che distrugge senza lasciare niente alla città. La politica delle ultime giunte è stata quella di sfavorire l’aumento del turismo e della commercializzazione ulteriore della città al di là di ogni limite. Una politica promossa o tollerata dal sindaco. Il mio amico, ex sindaco di Grosseto tanti anni fa, quando gli chiedevo: Ma tu da che famiglia vieni, che cultura hai alle spalle, mi diceva: Il mì babbo faceva il ciabattino a Gavorrano, il paese dei minatori. Il suo babbo faceva il ciabattino, non era un filosofo lui, eppure era un buon amministratore della città, perché sapeva che le scommesse sul territorio si vincono sulla scadenza, non si vincono col Ponte di Calatrava Po, si vincono in un centro storico, restaurando, conservando i cittadini che ci sono nati, stimolando le attività economiche compatibili con quel sito, non inventando opere di architettura moderna quando c’è da mettere in valore l’architettura e l’urbanistica tradizionale, queste sono le scelte giuste».
Pianificare il futuro non dà alcun riscontro dal punto di vista elettorale?
«Beh guardi le trasformazioni sul territorio sono così, gli effetti si vedono solo dopo».
Allora come si costruisce il consenso?
«Una volta non era complicato. Perché una volta lo si otteneva il consenso? Perché Rubes Triva - sindaco di Modena dal 1962 al 1973 - vinceva le elezioni a Modena sempre su questa linea. Perché? Domandiamocelo. Perché una volta si era capaci di interessare i cittadini su scelte di lungo periodo. Si sapeva che le scelte modificavano la realtà nel lungo periodo. Se io ho una malattia e vado dal medico e il medico mi dice che può guarirmi in tre minuti, è un cialtrone. Io lo so, e quindi mi assoggetto a cure lunghe, in caso di certe malattie, non del raffreddore ovviamente. Se io voglio piantare un frutteto, so bene che il risultato non lo avrò la stagione prossima, ma quando gli alberi avranno le radici, si saranno acclimatati e saranno cresciuti. E così sono le trasformazione della città, agiscono nel territorio in generale, agiscono nel lungo periodo».
Grandi opere, “un’emergenza del Paese”, Expo 2015. Ora Milano avrà un sito dell’Expo, i nostri architetti italiani, uniti, lei direbbe, dagli interessi immobiliari, stanno per mettere in piedi un grande Barnum, che come direbbe Gae Aulenti, diventerà un luna park nel 2016. Altri vorrebbero invece che questa grande opportunità si sviluppasse con l’ampliamento di siti già esistenti e una diffusione sul territorio. Cosa ne pensa?
«Ma cos’è un’Expo secondo lei? Io ho seguito tanti anni fa la vicenda del tentativo di fare un’Expo a Venezia e ho continuato a riflettere. Che cos’era quando gli Expo sono nati alla fine del XIX secolo e gli inizi del XX? Si capisce nella logica dell’epoca nelle magnifiche sorti progressive».
Gli anni ‘30?
«Sì, ma anche prima. Interi quartieri a Roma sono stati costruiti con le esposizioni internazionali. Quando la città è in espansione, quando si credeva nel progresso continuo della scienza l’Expo era un’occasione per esibire i progressi della scienza e della tecnica e cogliere l’occasione per trasformare le città. Ora mi pare che la proposta iniziale di costruire l’Expo milanese sul rapporto con l’ambiente era sensata, ma mi sembra che le strade che si percorrono adesso sono radicalmente diverse».
«Senta io riesco ad essere patriota di nessuna città. Io le città le cerco forse per il mio mestiere o forse perché non sono particolarmente affezionato a nessuna, le vivo tutte insieme. Quindi che una città lotti per assorbire il maggior numero di interessi, di risorse e così via, mi fa subito venire in mente che la concorrenza non è amica delle città. Amica delle città è la collaborazione, vuoi questi episodi, vuoi l’Expo, vuoi le Olimpiadi, per cui ogni città cerca di strappare, alle altre, risorse, investimenti e ricchezza. Mi sembra un episodio che ricorda il cannibalismo».
Dopo il “Piano Fanfani” del ‘49 e la Legge 167 sull’edilizia economica e popolare del ‘62, oggi il Piano Casa.
«Beh! Più che un Piano Casa è un tentativo di stimolare la volontà di diventare un po’ più ricchi, allargando un po’ la casa che si ha, da parte di molti italiani, è un bricolage. Io ho conosciuto il Piano Casa, ho conosciuto la Legge 367, ho conosciuto la politica della casa messa appunto in Italia, secondo me la più avanzata nel mondo come quella che c’era negli anni ‘60 e ‘70 e, se devo confrontarlo con quello, mi sembra che tutto sia fuorché un piano casa. Un Piano Casa premia chi la casa non ce l’ha, chi non la trova o chi deve pagare gli affitti, a questo servirebbe un Piano Casa. Questo è tutt’altro, premia chi la casa ce l’ha già».
In Lombardia stanno partendo, con iniziative tra Fondazioni e Enti pubblici, molte iniziative di Housing sociale
«Non riesco a capire cosa sia l’Housing sociale. Secondo me era quello che si sosteneva quando si otteneva l’area a prezzo di appezzamento agricolo, si costruiva con investimenti pubblici o attivati dal contributo pubblico, quando le case rimanevano di proprietà di Enti che lo davano in affitto a condizioni più ragionevoli a chi ne aveva bisogno. L’Housing sociale che invece non chiamerei Housing sociale è un meccanismo che impiega risorse pubbliche per aiutare ad accedere ad un mercato largamente alimentato dall’industria immobiliare».
La rendita immobiliare non è in discussione, con la crisi la contro tendenza è quella dell’accorpamento della proprietà immobiliare. Il nostro Paese ha la vocazione all’investimento nel mattone, dal dopoguerra ad oggi la proprietà è un fenomeno diffuso e popolare. I giovani della generazione dei mille euro, domani potranno mai averla una casa di proprietà?
«Io abito in una casa in affitto e spero che la mia padrona mi lasci a un prezzo ragionevole il più a lungo possibile. Non vedo il bisogno di abitare in una casa di mia proprietà, ma questa può essere una discussione del tutto personale. Quello che dico è che oggi, io rimango legato ai vecchi principi dell’economia liberale, quella di Luigi Einaudi per intenderci, secondo la quale nelle tre componenti: reddito, salario, profitto e rendita, quest’ultima è la componente parassitaria. La rendita immobiliare, la rendita urbana, è una rendita che nasce per effetto degli investimenti e delle decisioni, è una scelta della collettività il cui frutto va al proprietario, una cosa distruggente per l’economia. In effetti l’economia italiana è pesantemente chiamata da questa condizione».
Professore se si mette nei panni di un cittadino di una classe che oggi non esiste più, diciamo un piccolo borghese, se riesce a metter via dei risparmi penserà di farlo nel mattone, non ha altri luoghi. Quindi il concetto di rendita diventa sempre più diffuso. Penserà di comprare una casa per i figli, una seconda casa per sè, non li metterà né in borsa né in Bot né in altro.
«Questa è la ragione per cui il degrado dell’Italia è cominciato molti anni fa. È cominciato precisamente, riesco anche a stabilirne la data, agli inizi degli anni ‘70: i due fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, entrambi a poca distanza di tempo, dichiararono che la rendita urbana era un elemento negativo che andava contrastato. Dico loro, perché erano la grande industria italiana, l’industria moderna, avanzata, l’industria a livello europeo e Gianni Agnelli pochi mesi dopo questa dichiarazione diventò Presidente di Confindustria. Quando da questa decisione passarono a investire negli immobili anziché investire nello sviluppo dell’industria, in quel momento cominciò il declino dell’Italia. Declino della capacità innovativa, della ricerca del profitto, dell’accumulazione, cioè del reinvestimento nel processo produttivo».
Lei sta dicendo sostanzialmente che non esiste più il capitalismo perché non ci sono più i capitalisti?
«Forse in Italia non sono mai esistiti. L’Italia, per esempio, ha avuto un capitalismo assistito, come si trova un po’ in tutti i Paesi. Dalla crisi del ‘29 come si è usciti? Con la Seconda Guerra Mondiale. Non si è mica usciti solo con le politiche. Si è usciti quando le commesse belliche hanno optato all’industria e quest’ultima si è rimessa in pied»i.
Lei ha sempre scritto che la polis è delle esigenze comuni e della cittadinanza, questa domanda era anche rivolta, pensi al cittadino che ha messo via faticosamente degli euro, non che li ha nascosti in un’economia sommersa, se non li mette nel mattone dove li mette? Li perde?
«E chi glieli toglie questi?»
Questo ragionamento glielo sto ponendo perché questo comportamento, visto che l’economia è comportamentale e legata a delle logiche assolutamente psicologiche e non a degli schemi econometrici, è diventato diffuso. Quindi lei lo ritiene complessivamente la risultante del degrado di oggi?
«Certo, è il motore del degrado prossimo venturo».
Ma il senso di conservazione del risparmio è connaturato
«Nei Paesi giovani, moderni, che stanno a guardare avanti, si investe con rischio. E si sa che il capitalismo è rischio».
Come può un cittadino medio che non ha una cultura economica fare un rischio calcolato? Dopo gli scandali borsistici e bancari degli anni ‘80 e ‘90, le famiglie tendono a far confluire nel mattone i loro risparmi e vedono nella rendita l’unica possibilità. Questo è il motore del parassitismo, ma non c’è altra scelta.
«Non c’è altra scelta perché non si vuole scegliere. Io penso che la politica non dovrebbe soltanto seguire, ma dovrebbe anche guidare. Almeno una volta, quando io l’ho conosciuta, era così la politica. Oggi la politica guida nella direzione del mantenimento del consenso ai costi più facili».
Quindi la politica è panem et circenses?
«Assolutamente sì. Stimolare gli interessi più deboli, più modesti, voglio usare termini diversi. Per gli italiani: la pancia, al massimo, l’interesse immediato e credere al futuro».
Se è vero che abbiamo perso la visione della città greca, dell’urbs, della civitas… Su quella base antica come facciamo il nuovo? Non facendolo?
«Quella fase là è andata avanti fino agli anni ‘70 nel nostro Paese e nel resto del mondo. Non è mica una fase così lontana dai grandi quartieri costruiti in Emilia Romagna, dai parchi urbani. Poi questo processo è stato troncato».
Si tratta solo di aspettare?
«No, si tratta di riguardare criticamente il passato. Di ricordare che gli anni ‘70 sono stati gli anni di conflitto grave, nel quale il riformismo vero è stato bloccato dalle bombe, e che là è cominciato il declino».
Quindi oggi siamo in un periodo di basso impero?
«Bisogna attendere o che arrivino i nuovi barbari, oppure che gli italiani ricomincino a pensare, cosa che io vedo sempre più difficile, ma che non si può mai escludere».
Dove ci porterà questa crisi economica?
«La crisi economica è già gravissima. Noi la misuriamo con gli indici di borsa, ma se la misuriamo con quelli che perdono il lavoro, l’unità di misura è molto più grave. Non è ancora arrivata a compimento perché ancora la si sta digerendo, perché ancora i disoccupati, in parte, possono contare su una rete di assistenza familiare e parafamiliare diffusa, ma cominciano i suicidi, insomma».
A questo proposito abbiamo intervistato lo psichiatra Josè Mannu che asserisce –“ il brutto è il punto fondamentale anche di questo nuovo modo di costruire, per cui queste case moderne, di stampo lecorbusiano, piccole, anguste, prive di habitat sociale, portano al suicidio”. Stiamo dunque vivendo un periodo di lunga depressione
«Io dubito molto di questi studi, in Italia non si studia mai seriamente, non si approfondiscono mai le questioni, perché per approfondire questo tipo di problemi bisognerebbe compiere degli studi omogenei per un arco molto lungo, di anni, e nessuno lo fa. La ricerca non è mai stata pagata in Italia, quindi dubito fortemente di questi studi».
Nel senso che è pagata la ricerca pagata, cioè la ricerca condiscendente dice?
«Non so neanche se quella sia pagata, in Italia si improvvisa. Siamo dei grandi commedianti».
Io ho scritto dell’assenza degli intellettuali, oggi sembrano scomparsi, tra poco intervisterò Pierluigi Battista, che parla di conformismo. I nostri grandi architetti, da Gregotti a Portoghesi, a Botta, che non sono neanche nostri, oppure Zucchi, non si definiscono delle archistar. Ma chi sono le archistar veramente, perché nessuno dice di esserlo.
«Io tra tutti quelli che lei ha citato, l’unico per il quale ho un grande rispetto culturale, perché considero un intellettuale, serio, molto più bravo quando scrive, devo dire, che quando commenta, è Vittorio Gregotti, gli altri secondo me… si guardano troppo l’ombelico, si sentono artisti prima che collaboratori alla costruzione della città. Una cosa terribile, perché la città fatta di singoli episodi in ognuno dei quali tende ad affermarsi la volontà di rappresentazione di se stesso, l’architetto, è una città orribile. Basta guardare i tre grattacieli milanesi. Lo zoppo, lo sciancato e lo storto - I progetti di Zaha Hadid, Daniel Liebeskind e Arata Isozaki per CityLife».
Se ne parla sempre più, che cos’è la cultura dell’abitare secondo lei?
«Dei libri di architettura, quello che forse mi è piaciuto di più è la raccolta di lezioni di un mio vecchio amico, Carlo Melograni, bravissimo architetto che è stato preside alla Facoltà di Architettura Roma 3. Ha scritto un libro in cui ha raccolto le sue lezioni molto belle. Il titolo che ha dato è: Progettare per chi va in tram - Editore Bruno Mondadori, 2004 . A me, l’architettura che piace e il progetto di architettura che piace è quello pronto a soddisfare le esigenze dei cittadini e, nel far questo, contribuisce alla costruzione della città».
Condividiamo l’appunto mosso a Salzano da parte di Paolo Cacciari (fratello “cattivo” - dal titolo degli articoli di Gian Anronio Stella - di Massimo e autore di Pensare la decrescita - Editore Intra Moenia, 2006) di continuare ad affidare l’idea del pubblico, dei beni comuni e dell’interesse generale alle istituzioni statali come se fossero il luogo della sovranità democratica. Non è solo l’urbanistica pubblica ad essere regredita - sempre secondo Paolo Cacciari - è la stessa democrazia ad essere stata declassata al ruolo ancellare del mercato. Allora per uscire dalla demoralizzazione, bisognerebbe ripartire da un “oltre”, da quella “benedetta irrequietezza” (penso all’ultimo libro di Paul Hawken, Incontenibile moltitudine - Edizioni Ambiente, 2009) che serpeggia appena sotto la crosta della rappresentazione che politica e mezzi di comunicazione di massa (oramai sono la stessa cosa) forniscono della società. Bisognerebbe pensare anche per l’urbanistica ad una “urbanistica scalza”, post-normale, disegnata direttamente dalle popolazioni, senza mediazioni. Salzano dice quale potrebbe essere il punto di partenza e di arrivo: “zero consumo di suolo”. Una specie di negazione dell’urbanistica main-stream al servizio della valorizzazione fondiaria dei suoli. Una urbanistica, all’opposto, al servizio delle politiche di riconversione generale degli apparati tecno-produttivi, della megamacchina termo-industriale, in chiave della sostenibilità ambientale e sociale. Una urbanistica che prende in cura le risorse naturali, studia i bilanci dei flussi di materia e di energia impiegati nel “metabolismo sociale”, rispetta e fa rispettare i cicli biologici della vita sulla terra.
Come scrive Salzano, quindi, una urbanistica non solo trans-disciplinare, ma democratica, nel senso che pone al centro della disciplina il diritto degli abitanti (di tutti i residenti, presenti e futuri) a vivere in città salubri, ordinate, di qualità.
Milano, 9 aprile 2010
Giovanni Pivetta
HOUSE, LIVING AND BUSINESS
Qui il testo originale nel sito House living and business
Complesso è il rapporto tra la cultura e la società. Non sempre la prima guida la seconda, interpretandone i segnali nascosti e dando loro espressione compiuta: individuando i problemi e indicando le soluzioni possibili. A volte è la società che conduce la danza e gli intellettuali sono servili: assecondano, accompagnano, adornano. Ciò vale per la cultura, e vale per le culture specialistiche. E non sempre (anche questo la storia ci insegna) il nuovo è migliore del vecchio, società e cultura camminano verso il progresso.
Se confrontiamo l'oggi con il passato più recente dobbiamo riconoscere che viviamo in una fase di regresso. A chi si occupa di territorio la cosa è del tutto evidente: l'abusivismo dilaga irrefrenabile, e ugualmente devastano i paesaggi l'edilizia legale e l'urbanistica ufficiale. Infrastrutture spesso inutili e sempre ridondanti, sprawl e dispersione urbana, capannoni d'ogni forma materia e foggia, tutto ciò invade i campi e i boschi. le coste e le colline, vicino e lontano dalle città. Le uniche leggi riconosciute come invincibili sono il diritto a costruire ovunque e quello a beneficiare dello “sviluppo del territorio”. La pianificazione urbanistica è considerata il residuo di un passato che solo i nostalgici ricordano. Si tenta perfino di far saltare, come opprimenti “lacci e lacciuoli”, le norme a tutela dei rischi causati dalla fragilità del suolo. Nulla e nessuno deve ostacolare la ricerca del massimo tornaconto individuale.
Se questo è il quadro che esprime i nuovi “valori” della società di oggi, è facile comprendere che la cultura , soprattutto quella urbanistica, non gioca più un ruolo di propulsione attiva e verso il progresso della società. Basta confrontare l'oggi con quando accadde mezzo secolo fa. Gli storici stanno riabilitando gli anni 70 del secolo scorso, dipinti dalla politica revisionista come gli “anni di piombo”, anni da dimenticare. Gli storici ricordano oggi le grandi conquiste che in quegli anni furono compiute (gli anni delle riforme, non del riformismo spicciolo dei nostri tempi): la scuola a tempo pieno, gli asili nido e le scuole materne, il diritto di voto ai diciottenni, lo statuto dei diritti dei lavoratori, il diritto all'interruzione di maternità e quello al divorzio, il servizio sanitario nazionale e l'abolizione dei manicomi. E a proposito di territorio l'obbligatorietà della pianificazione urbanistica comunale, la disciplina dell'espansione privata e la definizione di quella a urbanizzazione pubblica, la tutela urbanistica dei centri storici, l'istituzione delle regioni con poteri di pianificazione d'area vasta, l'introduzione degli standard urbanistici, e gli strumenti per una politica della casa all'avanguardia rispetto agli stessi paesi più evoluti d'Europa, con il controllo di tutti i segmenti del patrimonio abitativo (dall'edilizia a totale carico dello stato all'edilizia privata).
In quegli anni non si raggiunse l'obiettivo di un controllo completo della rendita immobiliare urbana, e della devoluzione di una quota consistente del plusvalore determinato dalla città alle opere d'interesse dei cittadini, ma certamente risultati così significativi non furono mai raggiunti né prima né dopo quella stagione. Nel decennio successivo iniziarono il declino del trend e lo smantellamento dei risultati raggiunti. Sono convinto che la cultura urbanistica, se ebbe un ruolo positivo di rilievo nelle riforme ottenute, ne ebbe uno negativo non del tutto secondario nella fase del riflusso e delle smantellamento.
Il riflusso è iniziato agli inizi degli anni 80. Il primo segnale fu una polemica che, sull'Unità, si aprì tra due assessori entrambi del PCI: il milanese Maurizio Mottini (sensibile interprete di ciò che cultura e politica stavano maturando) sosteneva la necessità di liberare la sostituire, nella pianificazione urbanistica, “alla politica del vincolo la politica dell'uso pubblico dell'interesse privato”, mentre il torinese Raffaele Radicioni individuava la crisi della pianificazione urbanistica nel permanere dell'appropriazione privata della rendita immobiliare . Negli ambienti accademici si teorizzava già la prevalenza del “progetto” sul “piano”: dell’intervento localizzato, delimitato, riferito agli interessi (alla proprietà) di un solo operatore o gruppo di operatori, rispetto al “piano”, necessariamente riferito a un sistema complesso e sistemico, quindi anch’esso necessariamente complesso e sistemico. Contemporaneamente iniziavano i condoni dell’abusivismo, strumenti perniciosi che provocavano l’estendersi del già dilagante abusivismo. Anche su questo aspetto, si registravano posizioni giustificazioniste di una parte almeno della cultura urbanistica.
L’indagine “mani pulite” svelò anche al grande pubblico il baratro nel quale la legalità era caduta con l’estendersi dell’“urbanistica contrattata”: la pratica di asservimento degli interessi pubblici (la corretta pianificazione urbanistica) a quelli privati (la valorizzazione immobiliare), contenute in nuce nelle proposte cui ho accennato. Ancor prima di “mani pulite” alcuni episodi avevano rivelato la tendenza in atto, e provocato critiche e denunce da parte della cultura urbanistica del tempo. Mi riferisco alla vicenda della speculazione sulle aree della Fiat e della Fondiaria a Firenze, alla proposta “la città del possibile” a Napoli, alle migliaia di varianti del PRG di Milano, alla proposta di affidare alle imprese la progettazione dello SDO (Sistema direzionale orientale) di Roma. Ero all’epoca presidente nazionale dell’INU (Istituto nazionale di urbanistica), proposi di criticare fortemente la linea che emergeva da questi casi macroscopici; ciò non accadde, al successivo congresso il gruppo di cui facevo parte fu sconfitto. Anche il glorioso istituto, avanguardia della corretta orbanistica in Italia, era passato dall’altra parte.
Gli anni successivi – placata la tormenta di “mani pulite” – sono quelli nei quali, senza forti discontinuità tra maggioranze di destra e di centrosinistra, le pratiche di uso del territorio hanno via via abbandonato ogni regola volta alla tutela dell’intesse comune (nel campo del governo delle trasformazioni urbane come in quello della tutela dei beni paesaggistici e culturali). La parte maggioritaria della cultura urbanistica ha accompagnato questa tendenza inventando con grande fertilità espressioni e tecniche cha hanno aiutato il crescente predominio degli interessi immobiliari. Tipica la “perequazione urbanistica”: una tecnica che persegue la compensazione di tutti gli interessi proprietari mediante la spalmatura dell’edificabilità su tutto il territorio; tipico il riconoscimento di “diritti edificatori” ineliminabili (secondo gli inventori di questa espressione, sconosciuta allo jure) attribuiti dai piani regolatori; tipico l’allargamento dell’istituto della deroga ai piani mediante l’invenzione di “programmi complessi”, dalle denominazioni fantasiose ma sempre promossi dagli interessi immobiliari.
Dei grandi problemi irrisolti (come il virulento consumo di suolo, il dramma della casa per i non proprietari, la privatizzazione degli spazi pubblici e l’abolizione degli standard) la cultura urbanistica istituzionale si accorge oggi – quando è obbligata a farlo – più per formulare proposte tendenti a facilitare la strategia dominante che per contrastarla.
Venezia, aprile 2010
Qui il sito dell'Associazione nazionale archivi architettura contemporanea (AAA-Italia). Il Bollettino n. 9 è scaricabile qui sotto
Quando cominciammo a lavorare a questo libro, verso la fine dell'estate scorsa, il quadro svelato dalle indagini era diverso da quello che oggi è sotto i nostri occhi. Le prime rivelazioni su quella città assai poco ideale che fu battezzata Tangentopoli ci avevano spinto a cercar di comprendere e descrivere i meccanismi che l'avevano prodotta, e gli strumenti che l'avevano radicata nelle pratiche del governo del territorio. Solo alcuni bagliori lasciavano intuire che l'incendio era esteso, ma non si sospettava quanto.
L'indagine Mani pulite era partita da Milano, dove procedeva con piglio del tutto insolito. Da lì aveva cominciato a estendersi verso altre sedi giudiziarie. Non era affatto certo, però, che l'onda avrebbe retto, prevalendo sui tentativi che (come tante altre volte era successo) sarebbero stati messi in atto per arginarla. Soprattutto, era difficile prevedere che avrebbe raggiunto le sedi centrali del potere, i suoi gangli vitali.
L'onda ha rivelato una forza e una resistenza ben più robuste di quanto si potesse sperare. Il torrente, impetuoso e irriguardoso, è diventato un fiume in piena. Così oggi, a un anno di distanza dall'ormai fatidico 17 febbraio 1992, il consuntivo è in un pugno di cifre consistenti: 828 arresti cautelari effettuati; 1.003 avvisi di garanzia complessivamente recapitati; 75 richieste di autorizzazioni a procedere per parlamentari indagati per questioni di tangenti; tre ministri in carica dimissionati e un quarto indagato; due segretari nazionali di partiti (uno dei quali leader massimo del partito cui appartiene il presidente del Consiglio) costretti alle dimissioni; le amministrazioni comunali di quattro capoluoghi regionali (Milano, Roma, Napoli, Torino) messi in crisi.
Di dimensioni inizialmente insospettate si è rivelata anche l'entità economica della corruzione. I primi episodi riguardavano "mazzette" di pochi milioni (qualcuno poteva perfino nasconderli nelle mutande). Si è passati a illeciti e fatti penali misurati ciascuno in miliardi o decine di miliardi: e le valutazioni più attendibili sull'entità complessiva di Tangentopoli oscillano tra i 10 e i 15 mila miliardi all'anno.
Ma più del dato quantitativo, è quello qualitativo che conta. Rispetto agli inizi esso è considerevolmente mutato. Il salto si è avuto quando le indagini, partite da Milano, sono approdate a Roma: quando sono stato raggiunte e messe sotto osservazione le sedi centrali del potere pubblico ed economico nazionale. Per la prima volta, in Italia, si è avuta la sensazione che certi armadi potessero essere liberati dagli scheletri che li abitavano.
L'Eni, l'Enimont, l'Enel, l'Anas, il dopo-terremoto in Irpinia, l' affaire del Banco ambrosiano: questi sono i nuovi emergenti capitoli di questa vicenda, che qualcuno comincia a definire come l'89 italiano. E così la Democrazia cristiana viene riacquistando il ruolo di primo piano che le spetta di diritto, a causa di quasi un cinquantennio di incontrastato potere e della conseguente occupazione dello Stato: ruolo che, per tutti i mesi iniziali della campagna di indagini, le sembrava esser sottratto dal Partito socialista. Accanto alla Dc, accanto ai socialisti della nouvelle vague, vengono ad acquistare un peso anche le altre formazioni che quel potere avevano condiviso: i socialdemocratici, i repubblicani, i liberali. Infine, il fiume limaccioso delle commistioni tra politica e affari appare lambire perfino le forze d'opposizione.
Nonostante le indubbie novità registrate, le tesi del nostro lavoro risultano pienamente confermate. A partire da quella di fondo, quella che ha convinto noi, e l'Editore, a produrre questo libro. La tesi, cioè, che lo smantellamento delle regole, degli strumenti e delle strutture del governo del territorio sono stati i passaggi obbligati che il sistema politico-affaristico ha dovuto superare per poter perseguire i suoi obiettivi di potenza e di ricchezza. L'ingresso nell'indagine Mani pulite dell'Anas, dell'Enel e dell'Irpinia ha fatto sì che si possa dire oggi che circa i tre quarti dei fatti svelati riguardano interventi compiuti (o minacciati) sul territorio e sull'ambiente. Ancor più questo diventerà evidente quando da Milano a Roma si passerà al Mezzogiorno, estendendo l'indagine dall'Irpinia all'insieme dell'attività "assistenzialistica" compiuta nell'ultimo quindicennio, e delle distruzioni dell'ambiente e delle regole dell'azione pubblica che ne è conseguita.
A mano a mano che ci si avvicina alle sedi centrali del potere, è ormai dai fatti documentati dai magistrati (e non solo dalle analisi indirette, quale quella che noi stessi abbiamo compiuto) che appare con ogni evidenza che è "a monte", è nelle istanze centrali, che si è avviato e promosso il processo di depotenziamento ed esautoramento delle istituzioni locali del potere: anche se ciò non può significare assolvere chi "a valle" ha aggiunto i propri errori a quelli romani..
Abbiamo voluto indagare il sistema politico-affaristico nella sua fisiologia, nel suo mutare, da trasgressione, a norma. Non ci è sfuggito il risvolto malavitoso, là dove esso direttamente si collegava agli eventi descritti. Abbiamo però lasciato da parte la mafia e Cosa nostra che pure, in una porzione consistente del territorio nazionale, incidono anch'esse pesantemente nelle trasformazioni del territorio e del potere economico e politico. Lo abbiamo fatto appunto perché c'interessava illustrare la fisiologia, non la patologia dell'affarismo applicato al territorio. Di questo abbiamo or ora ricordato il peso economico nella società italiana: a prescindere dalla mafia, si parla di 15 mila miliardi all'anno, 150 mila miliardi nel terribile decennio che è alle nostre spalle. È una cifra da capogiro, che ha il pregio di illustrare con l'evidenza dei numeri il volume del rapporto tra dare e avere che si è instaurato tra la società italiana e le bande del malaffare "ordinario". Ma non è che un dato parziale: rappresenta uno dei prezzi che la società ha pagato per Tangentopoli, non tutti.
Tangentopoli ha significato realizzare sul territorio interventi non necessari, e spesso dannosi. Ha significato pagare per opere mai eseguite, oppure eseguite e mai utilizzate (come le fabbriche nel Sud terremotato, o le stazioni ferroviarie a Roma per le Olimpiadi, o le strade di Ancona). Ha significato rinuncia ad effettuare i necessari controlli, a pretendere il rispetto degli accordi sottoscritti. Ha significato ridurre a zero la credibilità della pubblica amministrazione. Ha significato annullare la libera concorrenza, e insieme ogni forma di programmazione nell'interesse collettivo. Ha significato ridurre il peso dell'investimento produttivo, e accrescere quello della rendita parassitaria. Se il prezzo di ciascuno di questi elementi potesse essere tradotto in lire, la spesa complessiva che la società ha dovuto sostenere sarebbe valutabile in cifre di dimensione così grande da sfuggire alla consapevolezza comune.
Il regime di Tangentopoli, la collusione politico-affaristica eretta in sistema, ha caratterizzato un periodo relativamente breve della storia del nostro paese: grosso modo un decennio o poco più, anche se singole manifestazioni non erano mancate nel passato, come potranno proseguire nel futuro. E tuttavia, esso ha provocato (come i dati dei censimenti dimostrano) una caduta dello spirito d'impresa e una perdita della capacità delle imprese di rinnovarsi e attrezzarsi: in definitiva, con un processo di deindustrializzazione, misurabile in termini di riduzione delle unità locali e degli addetti dell'apparato produttivo, incommensurabile nei suoi effetti sul futuro della società italiana e sul suo ruolo nello scenario mondiale.
Un anno di indagini giudiziarie ha permesso quindi di comprendere l'entità del guasto prodotto. Ma l'effetto più vistoso e dirompente di questi dodici mesi è l'impatto delle vicende svelate sull'opinione pubblica, la conseguente perdita di credibilità dell'intero sistema politico, posto spietatamente in crisi. Si aprono qui due domande. La prima: come si è potuti giungere a tanto, senza che - come più volte era successo - la potenza degli interessi minacciati giungesse a bloccare il cammino della verità? La seconda, più inquietante: come se ne può uscire?
La risposta che più ricorrentemente viene data alla prima domanda rinvia al risultato elettorale del 5 aprile. È vero, ma non spiega tutto. Quel voto non ci sarebbe stato se alle sue spalle non ci fosse stata una società ormai stanca di sopportare metodi e meccanismi che in passato aveva tollerato o, a volte e in determinate situazioni, addirittura sollecitato. Il nodo sta dunque in quei mutamenti, prodottisi nella società, che il sistema dei partiti non è stato in grado di comprendere. E sta anche (la consapevolezza collettiva abita ormai un villaggio globale) negli avvenimenti dell'89 e nello sconvolgimento prodotto dal crollo dei sistemi dell'est, nel venir meno degli argini fittizi del fideismo e dell'ideologismo (risvolto positivo della caduta delle ideologie), nel prevalere di atteggiamenti più laici e razionali di quelli che avevano caratterizzato i comportamenti nella lunga stagione della guerra fredda.
Gli effetti sono stati comunque sconvolgenti. Scossa è stata in particolare la società civile, quasi unanimemente schierata a sostegno dell'iniziativa della magistrature. (Anche se, lo diciamo sommessamente, qualche elemento in più di autocritica da parte di chi, nei piccoli vantaggi della vita quotidiana, del sistema di Tangentopoli si era giovato, e da parte di chi, avendo il compito di vigilare e reprimere, per troppi anni non l'aveva fatto, avrebbe dato più forza all'azione di denuncia e alla richiesta di cambiamento).
Incerta, imbarazzata, tardiva, contraddittoria è stata invece la reazione della "società politica", che solo con grande fatica ha recepito il messaggio e compreso la necessità di voltar pagina. Lo dimostra il fatto che oggi, a più d'un anno di distanza, il Parlamento non si è dimostrato capace di licenziare anche una sola delle riforme individuate come necessarie e urgenti: né quella del nuovo regime degli appalti, né quella sul finanziamento dei partiti, né quella sulla tutela dei legislatori e sui modi del loro reclutamento, cioè la riforma elettorale. (Per non parlare dell'incredibile colpo di coda del vecchio e screditato regime espresso dai decreti del 5 marzo.)
Ancor più ottusa, se così può dirsi, è apparsa nel complesso la reazione dei ceti imprenditoriali, sui quali pure ricadono (come tentiamo di documentare) non poche responsabilità per quanto è accaduto: chiusi a far barriera per difendere indiscriminatamente i rappresentanti delle proprie categorie, senza quasi ombra di riflessione critica.
"Tutti a casa!", è lo slogan che risuona sempre più spesso nei commenti degli organi di stampa, interpreti delle reazioni dell'opinione pubblica. Un esplicito invito al ceto politico che ci ha finora governati, e addirittura agli esponenti di tutte le formazioni politiche su cui poggia il sistema democratico italiano. Che occorra un vasto ricambio del ceto politico che ha condotto a un così vistoso disastro, o che comunque lo ha ignorato o tollerato, ci sembra un'affermazione di tale evidenza che non occorre neppure dimostrarla. Ma il rinnovamento delle persone è una misura necessaria, tutt'altro che sufficiente.
Il nodo decisivo rimane per noi (e quest'anno di indagini giudiziarie lo ha confermato) quello del ripristino delle regole. Lo argomentiamo con ampiezza, ci sembra, nei capitoli che seguono. Vogliamo che nessuno dimentichi che è accaduto ciò che è accaduto perché erano state preventivamente rimosse, o indebolite, le regole che determinano i comportamenti e garantiscono (più o meno perfettamente che sia) gli equilibri e i diritti, le verifiche e i controlli. Troppe poche furono le voci che si levarono quando questo accadde, a partire dalle aule del Parlamento. È di lì, è dal ripristino e dalla ricostruzione delle regole, valide nei confronti di tutti, che occorre ripartire.
marzo 1993
Intervista di Lucio Caracciolo a Lucio Villari, in:1789-1799, "I dieci anni che sconvolsero il mondo", n. 4, supplemento a la Repubblica, s.d.
"La Repubblica", 12 luglio 2010
La legge della prateria, eddyburg, 5 luglio 2010
La notizia viene confermata. Il governo starebbe per inserire nella manovra finanziaria un provvedimento di condono per gli edifici abusivi emersi dalle verifiche del catasto. Insomma, per compensare gli autori delle speculazioni finanziarie e “risolvere” in tal modo la crisi dell’euro, oltre togliere soldi dalle nostre tasche tagliando salari e pensioni e aumentando tariffe, tolgono speranza al nostro futuro dissipando un po’ di più due beni comuni cui affidato il nostro destino: l’autorità dello stato e la salute del territorio.
Lo Stato - anzi, la Repubblica - non è di “lorsignori”. Lo abbiamo conquistato con la Resistenza, e con la Costituzione gli abbiamo affidato la cura degli interessi collettivi, fondandolo sul lavoro e sulla tensione verso l’equità. La certezza della legge è la garanzia soprattutto per quelli che hanno meno potere degli altri. Condonare gli abusi di chi ha infranto la legge dello stato significa minare l’autorità pubblica, confermando la convinzione che chi non viola la legge (a spese degli altri) è un fesso.
Il territorio non è suolo edificabile ad libitum di chi ne possiede un pezzo. É un bene scarso, intriso di bellezza e di storia e minacciato da fragilità estese e spesso nascoste; è un patrimonio collettivo che deve essere utilizzato oggi e domani, nelle sue potenzialità e nei suoi valori. In tutti i paesi civili la sua utilizzazione da parte dei possessori è assoggettato al rispetto di norme d’interesse collettivo, che si chiamano “piani territoriali e urbanistici”. Legittimare l’abusivismo significa premiare chi ha anteposto i propri interessi immediati a quelli di tutti, incoraggiare quelli che possono a seguire questa strada.
Come Berdini ricordava, il berlusconismo non è nuovo a queste imprese. Dopo il condono di Craxi nel 1985 i governi di destra ne hanno approvati un secondo (1996) e un terzo (2003). L’anno scorso, plagiando i presidenti regionali Berlusconi, col suo “piano casa” ha promosso quello che si è definito “condono preventivo”. E meno di un mese fa, con un decreto legge che è passato sotto silenzio (solo eddyburg.it ha proposto una denuncia e un appello), il Consiglio dei ministri ha approvato un provvedimento che condona gli abusi “per fronteggiare la grave situazione abitativa della Campania”.
Una grande campagna d’opinione per difendere i beni comuni dell’autorità collettiva e del territorio bene comune dovrebbe intrecciarsi con quelle in corso per la difesa del’acqua pubblica e per la libertà dell’informazione. Solo quando queste battaglie, insieme a quelle per la scuola e per il lavoro, troveranno un denominatore e una voce comune si potrà sperare in un coronamento politico dell’azione che si svolge nelle piazze: queste sono il primo luogo della democrazia, non possono essere l’unico.
Il denominatore comune emerge dalla violenza dei fatti: è la difesa dei beni comuni. La voce ancora non si è levata.
Federare vuol dire unire: unificare più stati in uno. In Italia significa dividere ciò che si era unito 150 anni fa. L’argomento principale è che quello Stato non funziona. Su questo quasi tutti sono d’accordo, infatti pochissimi si dicono contrari al federalismo all’italiana. Alcuni perché vogliono uno Stato che funzioni diversamente: anzi, differenziatamente, senza preoccuparsi di unificare condizioni, diritti, opportunità, ricchezze ma anzi rafforzandole. Altri perché hanno perso la fiducia che questo Stato (quello nato dal Risorgimento e modificato dalla Resistenza) possa essere reso migliore, e quindi subiscono il trend “federalista”. Magari questi altri cercano di ridurre la negatività del federalismo dei padani: meglio uno Stato separato in due come propone Giorgio Ruffolo, che lo “spezzatino federalista”, ha scritto ieri Valentino Parlato. Ma il primo provvedimento dal quale si comprende che cos’è che sta marciando spiega tutto: qual è il disegno che si sta attuando, la strategia che domina, l’egemonia che ha coinvolto quasi tutti. Parliamo del federalismo demaniale.
Il suo obiettivo è ridurre il peso dello Stato, trasferire poteri dall’Italia alle sue parti periferiche ritenute, giustamente, più deboli nella resistenza contro l’obiettivo finale: la privatizzazione di tutto ciò che è privatizzabile, la riduzione a merce di tutto ciò che merce ancora non è ma che tale può diventare. La Repubblica è stata disegnata dalla Costituzione come un sistema di poteri equilibrato tra Stato, Regione e poteri locali (province e comuni). Negli ultimi decenni queste ultime istituzioni sono state pesantemente indebolite: se ne sono accresciute le funzioni e ridotte le risorse. Oggi sono adoperabili, proprio per la loro procurata povertà, come grimaldelli per cedere patrimoni pubblici a soggetti privati.
Preoccupa l’accordo sostanziale che si è raggiunto ieri nella commissione parlamentare, dove Di Pietro ha accettato tutto e il PD si è astenuto di malavoglia. Preoccupa il larghissimo consenso espresso anche dalle opposizioni parlamentari all’obiettivo della priorità della “valorizzazione economica” su qualunque altro obiettivo. I “miglioramenti” introdotti dagli oppositori sembrano costituire argini troppo deboli per porre i beni comuni al riparo dell’impetuosa marea della speculazione; sono già in moto le pratiche per abbatterli con procedure amministrative “facilitate” o con il coinvolgimento dei comuni nella “valorizzazione immobiliare”.
E preoccupa l’accettazione comune della liceità, per raggiungere quest’obiettivo, di alienare beni pubblici, di spezzettare beni strutturalmente unitari, e addirittura di modificare le destinazioni dei beni trasferiti derogando alla pianificazione urbanistica: privando così la collettività anche del potere di intervenire nelle decisioni sul territorio. Anche questo, la pianificazione democratica del territorio e delle città, è un bene comune che stanno liquidando.
Dopo la soppressione della Conservatoria delle coste in Sardegna, lo strangolamento dei parchi e delle aree protette dappertutto ... e poi i "piani-casa", la promozione dell'abusivismo edilizio, le Grandi Opere e il potere ai padroni del cemento, lo smantellamento delle regole e così via
I due fenomeni su cui ragioniamo oggi sembrano agli antipodi. Da una parte, la città che si sparpaglia sul territorio, l'edilizia che dilaga come un blob. Dall'altro lato la città che s'intensifica sul suo stesso suolo, l'edilizia che si erge con i suoi grattacieli. In realtà due facce della stessa medaglia. Non esprimono ciò che la città a sempre tentato di essere: un equilibrio tra momento pubblico e momento privato della vita sociale. Sono entrambi testimonianze della sopraffazione del privato sul pubblico, del particolare sul generale, dell’individuale sul collettivo.
Consumo insensato di suolo e accrescimento irragionevole delle altezze degli edifici sono entrambi il prodotto della stessa regola perversa, e sono entrambi in contraddizione con il più corretto e consolidato (fino a ieri) pensiero urbanistico.
Nella prima parte del mio intervento dirò alcune cose sul primo aspetto (la regola perversa), nella seconda parte vi darò qualche spunto sul secondo (il corretto pensiero urbanistico).
La regola perversa
Ci sono vari modi di leggere la formazione e trasformazione della città nella storia. La lettura che a me sembra più convincente è quella che racconta la città come la progressiva invenzione, e il costante arricchimento, di luoghi e funzioni che integrassero la vita privata con elementi di vita collettiva.
Dallo stesso processo di formazione della polis e dell’urbs attorno ai luoghi dello scambio, del dibattito e della politica, via via fino alla città del capitalismo maturo e del welfare state, la città ha visto costantemente il suo successo – come habitat dell’uomo – nella stretta integrazione tra il privato e il pubblico. Via via che crescevano le esigenze dell’homosocialis, e che queste potevano essere soddisfatte più efficacemente e compiutamente con momenti di vita pubblica, l’equilibrio vedeva una più stretta integrazione tra le une e le altre. Le nostre piazze sono solo il germe degli spazi pubblici, che via via si sono arricchiti.
Ciò ha sempre richiesto una forte presenza degli interessi pubblici nel governo e nella costruzione della città. Presenza pubblica come regolamentazione dei modi di crescita e di trasformazione della città (la pianificazione urbanistica),
presenza pubblica come realizzazione delle crescenti categorie di spazi per la vita comune.
Ad un certo punto questa storia si è interrotta e rovesciata. La cultura e la politica hanno compiuto due errori giganteschi. Per meglio dire, hanno deciso di fare due scelte perverse.Da una parte, si è deciso di lasciare il mercato come il solo arbitro del soddisfacimento dei bisogni individuali che storicamente hanno cercato e trovato risposte collettive. Se guardiamo alla storia italiana degli ultimi trent’anni vediamo segni crescenti di questa perversione, che ha invaso via via tutti i campi della vita dei nostri tempi.Dall’altra parte, e in coerenza con questa prima scelta, si è assunta la formazione, la crescita e l'appropriazione privata della rendita immobiliare urbana (e di tutte le rendite monopolistiche) come un fattore di sviluppo. Si è contraddetto così l’insegnamento del liberalismo classico, che vedeva nella rendita fondiaria (e in generale nelle rendite di posizione) come la componente parassitaria del reddito, che doveva essere contrastata per evitare che attraverso la sua crescita incontrollata venissero depressi il salario e il profitto, e peggiorata la condizione della città.
Lo sprawl urbano e l’erezione dei grattacieli sono entrambi i prodotti di queste scelte.
Affidare al mercato la soluzione di problemi come quello della casa, incoraggiare il “libero gioco” della rendita immobiliare, e abbandonare la regolamentazione urbanistica, ha costretto chi cercava un alloggio ad un prezzo rapportato alla propria capacità di spesa a raggiungere le zone più marginali (e i margini della città si dilatano sempre più), ha costretto ad alimentare lo sprawl, lo “sguaiato sbragarsi della città sulla campagna”. E quando l’offerta di alloggi si rivela eccessiva rispetto alla domanda solvibile, aver ottenuto l’edificabilità di un terreno agricolo consente comunque di accrescere in modo consistente il valore del patrimonio. In questa stessa logica lavora la disseminazione delle attività produttive, di quelle legate alla crescente viabilità, all’espulsione di funzioni dalla città: la logica della “valorizzazione immobiliare”, che trasforma un terreno naturale in un terreno fabbricabile.
Identica è la logica che provoca la “grattacielizzazione” della città consolidata. Riempire le aree centrali (dove i valori della rendita sono già i più alti) significa moltiplicare il valore di mercato di quell’immobile. Non importa domandarsi se per quell’area esistono funzioni più necessarie agli abitanti, alla salute, alla vita sociale. Non importa calcolare se quelle eventuali funzioni, che dovrebbero insediarsi là, potrebbero più convenientemente per il funzionamento del territorio essere localizzate altrove. Quello che conta, è rendere massima – senza fatica, senza lavoro nè spirito imprenditivo, né tampoco rischio – l’investimento finanziario e l’investimento di autorità.
Il corretto pensiero urbanistico
Brevemente sul secondo punto del mio intervento: che cosa ci dice il corretto pensiero urbanistico.
Voglio precisare innanzitutto che quando parlo di “Pensiero” non parlo solo di solo di teoria, ma anche di pensiero tradotto in atto, di pratiche che sono state effettuate e hanno cambiato il territorio e la vita degli uomini. Magari più in Europa che in Italia, ma anche in Italia. E quando parlo di “Urbanistico” non parlo solo degli urbanisti patentati e della cultura urbanistica, ma della società e della politica.
Ho accennato alla lunga storia della formazione della città come “casa della società”, fondata sugli elementi della vita collettiva (gli spazi pubblici, i consumi pubblici), sempre più ricca di elementi della vita collettiva via via che la “modernità” (lo sviluppo capitalistico) rende più complessa la vita, più ampia la gamma delle esigenze, più larga la platea dei cittadini con diritti.
Nel Novecento si è consolidato un modo di pensare e organizzare la città che in Italia ha avuto la sua affermazione soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Un modo basato sullo stretto intreccio tra elementi della vita individuale ed elementi della vita collettiva.La città è stata considerata e progettata (e in parte costruita) in modo alternativo a quello praticato dalla speculazione. Questa vede la città, e ha costruito ampie e soffocanti periferie, come un insieme di edifici d'abitazione collegati da una serie di strade. La corretta cultura urbanistica ha concepito, progettato e a volte anche costruito la città come un insieme di abitazioni, servizi, verde, spazi privati e spazi pubblici, organizzati in unità di dimensioni discrete, associate tra loro in insiemi di dimensioni scalarmente crescenti.
E quando parlo di “corretta cultura urbanistica” mi riferisco a momenti, episodi e istituzioni come la Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna, come la rivista Urbanistica di Giovanni Astengo, come l’Istituto nazionale di urbanistica dei tempi di Adriano Olivetti e di Camillo Ripamonti, come i sindaci Rubes Triva a Modena e Renato Pollini a Grosseto e molti altri, mi riferisco ad eventi come quelli della campagna dell’Udi per la programmazione dei servizi sociali nei piani regolatori dei primi anni Sessanta, e quello memorabile dello sciopero generale nazionale del 19 novembre 1969.
E mi riferisco a leggi come la 167 del 1962, capofila di una serie di eventi legislativi oggi dimenticati e contraddetti, che avviò alla realizzazione di quartieri nei quali si soddisfacevano insieme i principi dalla “casa come servizio sociale” e come “diritto alla città”. Quartieri concepiti perciò come luoghi nei quali tutti gli abitanti hanno diritto a vivere in alloggi dal prezzo commisurato alla loro capacità di spesa, senza recinti tra proprietari e non proprietari, tra ricchi e poveri e così via; con una stretta integrazione tra le ragioni della vita private e quelle della vita collettiva: le scuole e il verde, la ricreazione e l’incontro, lo sport e la cultura, la possibilità di muoversi e quella di godere di una natura non contaminata.
Tra gli strumenti per ottenere una città siffatta essenziale sembrò allora, e lo rimane ancora oggi, quello degli “standard urbanistici”. Cioè la presenza, in stretta relazione fisica e funzionale con le unità abitative (le case, gli alloggi), di spazi liberi e costruiti in misura e localizzazione adeguata per tutte le funzioni comuni, collettive, pubbliche: quelle che ho appena elencato.
Gli standard urbanistici furono conquistati con una dura battaglia, che fu il coronamento, e il frutto, di tutti gli eventi, le persone, le istituzioni che ho sopra ricordato. Quello che allora si rivendicò e, almeno in parte, si raggiunse si chiamava “diritto alla città”. Che è il diritto a concorrere alle decisioni mediante le quali si formula il progetto della città di domani, ed è insieme il diritto, per tutti gli abitanti, di fruire di aree e attrezzature per il verde e la scuola, l’incontro e lo scambio, la cultura e lo sport, in prossimità del luogo dove abitano e in modo facilmente raggiungibile anche per i deboli. Non è quello di vivere all’ombra dei grattacieli o nelle lande di un insediamento sguaiatamente sbracato sul territorio, né quello di subire le scelte di poteri interessati unicamente all’incremento di patrimoni privati, o di istituzioni troppo sensibili a questi poteri.
Alcuni giovani del PD hanno protestato per luso della parola "compagni" all'apertura del congresso del loro partito (dai gionali del 21 giugno 2010)
"la Repubblica", 15 giugno 2010
Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: «se l'uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent'anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale. Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista «ormonale», mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso. La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel «non possumus» biblico. Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo - e a maggior ragione il comunismo - è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.
Da Comunista a chi? numero speciale a 50 euro del «manifesto», 17 dicembre 2009
e
Si è conclusa da poco la prima retrospettiva italiana, a cura di Carter E. Foster, di Edward Hopper, testimone chiave di un nuovo rapporto tra l’uomo moderno e i luoghi e del cambiamento sociale dell’abitare .
I suoi paesaggi rurali e urbani popolati da personaggi isolati comunicano solitudine distacco , nostalgia e si oppongono ai contemporanei modelli di progresso. L’America che occupa i suoi quadri, e che si intravede come attraverso una porta socchiusa, può quindi essere intesa come la rappresentazione dei miti infranti e della incomunicabilità degli abitanti di una grande società industriale e commerciale associata alla Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street nel ‘29.
Hopper elimina dalla visione qualsiasi elemento di distrazione o orpello, superando il reale, trasformando il processo pittorico in un processo psicoanalitico teso a svelare il decadimento e la confusione che la società moderna ha inflitto agli archetipi umani e abitativi. Infatti Hopper è consapevole di vivere in un’epoca in cui i valori tradizionali dell’immagine sono entrati in profonda crisi. Si interroga incessantemente sull’arte nel rapporto con la realtà portando sulla tela un confronto diretto con la condizione umana del proprio tempo, affrontando i conflitti, il vuoto, la solitudine che appartengono alla vita di ogni uomo nella società contemporanea. Utilizza perciò oggetti comuni e luoghi familiari; distributori di benzina, caffè, drugstore, negozi con le vetrine illuminate, uffici, stanze di albergo in cui appaiono una o due figure che diventano finestre aperte sulla nostra parte silente e oscura.
Lo stesso Hopper scrisse che se fosse stato capace di servirsi delle parole per esprimere quel che vedeva non avrebbe avuto bisogno di dipingere. Non era quello che era apparente e che avrebbe potuto ritrarre come illustratore ed interessargli, bensì ciò che si presentava ai suoi occhi interiori.
Nelle sue immagini la casa è il luogo dove si esiste, ma dove si avverte un 'incapacità di vivere e di abitare. La sua è una pittura di negazione, negazione dell’uomo e dei luoghi; le relazioni vengono eliminate o ci portano altrove; le case di Hopper ci trasportano nella nostra realtà, alle nostre problematiche di relazione sebbene l’ America della prima metà del ‘900 sia distante nel tempo e nello spazio da noi.
In tempi in cui l'apatia e l'alienazione nelle relazioni sociali hanno sostituito il momento della sosta concessa al pensiero dell'altro, lo straniamento delle nuovissime tecnologie di comunicazione a distanza e l'amplificazione che l'industria dell'immagine detta, si riflettono su una gettonatissima architettura «da suburbia», sfavillante nella progettazione extraurbana dei grandi centri commerciali, dei parchi a tema e degli edifici pubblici ultra-funzionali , nascono i non-luoghi, spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane, che assieme alla bruttezza e il cattivo gusto delle casette a schiera e dei condomini pieni di timpani e colonnati postmoderni, emblema di un recente benessere, stringono d'assedio le antiche città e i borghi, uccidendo ciò che resta della campagna, e costituiscono l'indice inquietante della nostra alienazione, la misura dell'incuria culturale di cui è impregnata l’era contemporanea.
Prende forma nei suoi quadri un’America non letteraria e senza mitologia, che porta i segni di un’età contemporanea anche se vagamente fuori moda: niente grattacieli, automobili, fabbriche, ma binari della ferrovia, case coloniche di legno bianco con i loro tetti a triangolo, mansarde vittoriane ormai decadute, periferie anonime incentrate sul possesso e sul consumo e non sulla comunità. L'eccessiva dispersione degli insediamenti, la città che si sparpaglia sul territorio causando il cosiddetto sprawl, e intensificazione in verticali dei grattacieli, sono la conseguenza del medesimo fenomeno economico- sociale che causa estraniamento e alienazione e non produce relazioni urbane e collettive.
L'indifferenza per i grattacieli salta all’occhio per un pittore che descrive l’architettura di new York. L’avversione di Hopper per le alte torri della sua città è evidente in molti dei suoi dipinti. Quando le include, le fa apparire come intruse sgradevoli, fuori posto. In questo l’artista è partecipe del clima a cui diedero voce anche critici come Mumford che pubblicò articoli intitolati” possiamo tollerare i grattacieli?” e “Città rafforzate”. Ai suoi occhi i grattacieli rappresentavano tutto ciò che disapprova dell’America urbana, della superficialità dei valori materiali alla crescente standardizzazione degli stili di vita.
Il percorso di Hopper non è certamente di carattere urbanistico, egli si collega alle immagini dell' inconscio collettivo e attraverso queste ci offre la possibilità di comprendere al di là delle parole come l'attuale trasformazione delle città e del territorio produca squilibri nel rapporto pubblico -privato e individuale – collettivo . Collegandosi con queste immagini archetipe primordiali possiamo ricapire chi siamo, riacquistare la nostra identità e la forza per sopravvivere “anche alle notti più lunghe”.
Se parlando di case si parla anche di individui, esemplare è un acquerello del 1925 intitolato Skyline near Washington Square. Quando venne esposto la prima volta l’acquerello era intitolato Self-portrait, con un riferimento scherzoso all’altezza dell’autore, ma che può indicare una consapevolezza di Hopper del naturale processo di identificazione uomo-casa. Nell’acquerello è raffigurato un tetto semplice e austero dietro il quale si erge un unico edificio stretto e lungo che domina il cielo. Il palazzo ritratto che sorgeva vicino alla sua casa newyorkese si eleva al di sopra delle altre case. Nell’osservazione capiamo subito che si tratta di un palazzo slanciato, ma la natura verticale di questo edificio è negata; in realtà Hopper ci mostra un cubo: la parte bassa dell’edificio, l’ingresso, e gli elementi che comunicano direttamente con la vita cittadina vengono tralasciati per mostrarci la solitudine dell’attico al di sopra di ogni cosa, come un picco sospeso sopra un mare di nuvole. Del palazzo possiamo vedere due lati, una facciata spoglia e liscia, completamente esposta al sole che si contrappone alla pesantezza della facciata di rappresentanza, dove finestroni appesantiti dalle lesene di primo novecento si negano protetti dall’ombra. Si potrebbe dire che un lato riflette, l’altro assorbe. Il paragone con la personalità dell’artista viene spontaneamente, in realtà Hopper non ci offre soltanto un’analisi introspettiva di sè stesso ma amplia il raggio di identificazione fermando sulla tela condizioni psicologiche in cui tutti possono immedesimarsi.
"Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l'inquilino" suggerisce con una certa brutalità Victor Hugo: analogamente si può aggiungere : dalla città la società.
"il manifesto", 11 giugno 2010
Altan, "la Repubblica", 10 giugno 2010