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Difficile oggi ricordare il clima nel quale l’attenzione dei lavoratori e delle loro organizzazioni economiche uscì dalla fabbrica e si estese alla città e al territorio. Accadde in anni dei quali, come numerosi storici cominciano a testimoniare, si è cancellata la memoria. Il revisionismo, guidato dalla cattiva politica, ha manipolato la memoria degli eventi che accaddero negli anni Sessanta e Settanta nel nostro paese e ne ha lasciato sopravvivere solo alcuni aspetti: quelli più truci e negativi. Tra l’altro, ribaltandone il senso. Così gli anni Settanta sono gli “anni di piombo”: gli anni del terrore e delle bombe, senza ricordare che i primi attentati, i primi morti (e le congiure avvenute nel Palazzo) furono di destra e che l’impronta antioperaia e fascista guidò a lungo il terrorismo e lo utilizzò pienamente. E così si è nascosto, e si continua a nascondere, che gli “anni di piombo” furono la risposta di destra agli anni della speranza, e si intrecciarono – opponendovisi – agli anni delle riforme.

Se vogliamo interrompere il declino dell’Italia di oggi è utile ricordare che cosa accadde allora: ciò che allora abbiamo conquistato, e oggi stiamo ci stanno togliendo. Non per piangere, ma per comprendere bene che cosa abbiamo perso e stiamo perdendo, e soprattutto per ricordare che, come fu allora, la storia non è già scritta: siamo noi che possiamo farla, se sappiamo quali sono gli obiettivi che dobbiamo assumere e quali le forze che possiamo coinvolgere nella nostra lotta.

Ricordiamo allora quali furono le grandi riforme di quegli anni (tutt’altro che il borbottìo “riformista” dei nostri anni). Si chiamavano statuto dei diritti dei lavoratori, servizio sanitario nazionale, scala mobile, libertà per le donne di interrompere la gravidanza e libertà per tutti di divorziare, istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato e il tempo pieno nella scuola elementare, il voto ai diciottenni e l’estensione della democrazia con i consigli di quartiere e nel sindacato dei lavoratori, dei consigli di zona. E si chiamavano diritto alla casa e diritto alla città, servizi e verde in tutti i quartieri della città, abitazioni a prezzi contenuti per tutti, trasporti collettivi per rebdere più agevole la mobilità tra casa, lavoro, servizi.

In questi anni in cui si blatera di “piani casa” finalizzati a rendere più ricco il patrimonio immobiliare di chi la casa ce l’ha già (o ha il capannone, o l’albergo, o il villaggio turistico), ricordiamo che cosa si era raggiunto in quegli anni proprio in relazione alla casa, soprattutto in quelli successivi al grande sciopero nazionale per la casa, i trasporti, i servizi e il Mezzogiorno del 19 novembre 1969.

Sono gli anni in cui s’incontrano due grandi correnti che aspirano a un rinnovamento profondo della società: il movimento dei lavoratori e il movimento degli studenti, Accanto ad esse, e in qualche modo precorrendole nel tempo, concorre con esse il movimento per l’emancipazione delle ddonne. Temi come “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale” diventano slogan popolari, che alimentano vertenze diffuse sul territorio. Con il primo termine si intende chiedere democrazia e partecipazione nelle decisioni urbanistiche, e si chiedono quartieri ricchi di tutto cià che serve a una vita nellaa quale il privato si prolunghi nel pubblico e il pubblico serva al privato: servizi, verde, luoghi d’incontro, facilità di vivere e d’incontrarsi. Con lo slogan riferito alla casa si chiede che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Dal punto di vista di un urbanista devo dire che in quegli anni si raggiunsero traguardi notevoli, non solo sul terreno delle conquiste legislative, in particolare a proposito della questione delle abitazioni. Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottenne in Italia la generalizzazione della pianificazione urbanistica, il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio, l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici. Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo, di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città, di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.

Già l’ho accennato. Le conquiste raggiunte generarono reazioni violentissime: al movimento riformatore si oppose la “strategia della tensione”, che trovò complicità inaspettate ai piani alti del Palazzo. A leggerli con attenzione gli anni Settanta appaiono come gli anni di uno scontro continuo, quotidiano, aspro sebbene non sempre visibili a sguardi disattenti, tra una corrente riformatrice, che mirava ad conquistare tutti i cittadini diritti e condizioni idonei al piego dispiegamento dei valori della Resistenza e della Costituzione (diritti e condizioni che già erano presenti in altri paesi europei), e una corrente pesantemente reazionaria.

L’utilizzazione del territorio urbano ed extraurbano era una delle poste in gioco: città come casa della società, oppure città come macchina per produrre ricchezza alla proprietà immobiliare? L’altra grande posta era costituita dal ruolo del lavoro: diritto e dovere dell’uomo che vuole concorrere a conoscere e trasformare il mondo, oppure strumento per l’aumento della ricchezza e del potere di chi è in grado di comprarlo e impiegarlo nel processo della produzione di merci? Si può dire che la contrattazione territoriale, l’uscita del sindacato dalla fabbrica, la rivendicazione di condizioni migliori (e di un penetrante controllo) non solo nel momento della erogazione della forza lavoro ma anche in quello della sua riproduzione e formazione, furono strumenti importanti per raggiungere i risultati positivi.

Lo saranno anche domani? Ancora una volta, dipenderà dal consenso che si riuscirà a mobilitare nella società. Oltre alle nuove figure sociali che si sono rafforzate o costituite ex novo nel mondo del lavoro (i pensionati, i precari, i migranti) credo che un’attenzione particolare vada dimostrata nei confronti dei movimenti nei quali si esprimono oggi il disagio, la protesta e la volontà di cambiamento nel campo del governo della città, del territorio, dell’ambiente. I riferisco ai comitati, alle associazioni, ai gruppi di cittadini che affiorano nella società e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Potrà costituirsi un nuovo blocco di forze che sappia intraprendere una strada di riforme che riprenda (certamente mutatis mutandis) la traccia delle speranze maturate pochi decenni fa? Dipende aanche, in larga misura, dalla risposta che sapranno dare – prima ancora che nuove forze della società – la cultura, nell’indicare gli obiettivi proponibili le strade percorribili, e la politica, nel rimettersi al servizio degli interessi, delle speranze, delle rivendicazioni della stragrande maggioranza della popolazione.

«L’urbanistica è in crisi perché è in crisi la politica. Un tempo i sindaci avevano una prospettiva di lavoro di lunga durata e le loro azioni erano dettate delle strategie progettuali. Il piano regolatore era l’’azione massima e principale che un sindaco poteva offrire ai propri concittadini e su questa era poi giudicato dagli elettori. Oggi non è più così. I politici ragionano con tempi molto stretti e lo fanno assecondando le richieste delle lobby e dei privati. Non c’’è visione né strategia nel loro operare e per questo gli urbanisti non servono più. Ma non è detto che questo sistema sia di lunga durata e forse il futuro può offrire ancora una chance all’’urbanistica. Non si può mai dire: la storia inventa».

Sono parole di Edoardo Salzano, urbanista, amministratore pubblico, docente universitario e giornalista che commenta così il ruolo dell’’urbanistica nella società moderna. Un ruolo fortemente in crisi ma che potrebbe riservare, in futuro, nuove occasioni di rivincita. Salzano ha pubblicato recentemente un interessante volume che raccoglie tutta la sua esperienza biografica di urbanista militante: “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”. Si tratta di un libro in bilico tra l’esperienza professionale e la storia d’’Italia vista dalla prospettiva privilegiata della politica urbanistica. In occasione di questa uscita abbiamo rivolto a Salzano alcune domande per i lettori di Sentieri Urbani.

Professor Salzano, come è cambiata la disciplina nel corso di questi cinquant’’anni? «È cambiata radicalmente. Durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta l’’urbanistica è una cultura dotata di una grande identità che si esprime con grande forza propositiva nei confronti della società civile. È un punto di riferimento chiaro per la politica che vede nell’’urbanista l’’interlocutore privilegiato per decidere le sorti del territorio e delle città. Non a caso in quegli anni nascono delle leggi fondamentali –– nate grazie anche alla imprescindibile forza propulsiva dell’’Inu –– di cui oggi anche gli storici iniziano a riconoscerne l’’importanza. Con l’’inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con la fortuna dell’’urbanistica accademica inaugurata dalla Scuola di Milano, l’’urbanistica abdica al suo ruolo di pianificazione per approdare a quello del progetto. Dietro questa parola, però, si cela una vittoria degli interessi economici ed immobiliari dei privati sull’’interesse pubblico».

Sono gli anni del “riflusso”, del “craxismo”, del consumismo selvaggio. La crisi dell’’urbanistica è coincisa con una crisi della cultura? «La cultura viene sempre prima di ogni altra cosa. È lei che guida i cambiamenti nella società. È lei che può contrastare le derive o gettare le premesse per i grandi progressi. Per l’’urbanista la cosa si fa complessa. La sua inevitabile dipendenza dal committente lo rende una figura fragile in balia della cultura imperante. Invece è necessario che l’’urbanista si faccia promotore di cultura per essere, nei confronti del committente, non solo un consulente tecnico ma un riferimento tout-court».

Questo a prescindere dall’orientamento politico della politica? «Credo sia un problema di sensibilità. Ricordo un’esperienza fatta a Foggia, nella redazione del Piano regolatore comunale. L’’interlocutore era una giunta di sinistra che non aveva mai il coraggio di arrivare in fondo. Poi ci fu un “ribaltone” e ci trovammo con una giunta di destra con un assessore fascista. Per me, comunista, questo sembrava significare la fine dell’’esperienza di Piano. Invece il nuovo assessore ci ascoltò attentamente e poi fece sue le argomentazioni del nuovo piano che fu approvato in tempi rapidissimi».

Lei ha avuto una carriera da amministratore e da urbanista davvero invidiabile. Qual è stata la soddisfazione più grande? «Ho avuto moltissime soddisfazioni. Ieri la più grande fu quella di vedere, a Giulianova dopo quindici anni dall’’approvazione del Piano regolatore, la realizzazione del disegno urbanistico pensato vent’’anni prima. Oggi di aver collaborato con una rete di comitati e associazioni a fermare le devastazioni territoriali previste dal Piano Territoriale Regionale del Veneto grazie a 15000 osservazioni prodotte con l’’aiuto di 150 gruppi di cittadini in tutto il territorio veneto».

L’urbanistica oggi è in crisi? «L’urbanistica è in crisi perché non sventola più le proprie bandiere. Anche sull’’ultimo Piano-casa varato dal Governo Berlusconi: è stato abbracciato da tutti gli urbanisti e da tutte le giunte italiane, a prescindere dal colore politico. Non c’è stata nessuna voce di dissenso, di indignazione per questa legge che penalizza l’’interesse comune per favorire quello di una parte dei privati».

Cosa si dovrebbe fare? «Alla base del nostro agire c’’è sempre una opzione morale che noi, consciamente o inconsciamente facciamo. Anche oggi l’’urbanista può scegliere di praticare un’urbanistica corretta. Andando a guardare quello che realmente si muove sul territorio. Paradossalmente chi oggi si batte per il territorio (sia esso un parco urbano, una scuola, l’accesso all’’acqua potabile) sono i comitati, i gruppi spontanei di cittadini che si riuniscono per condurre una battaglia in difesa del territorio. Si tratta di volontari che non hanno, spesso, delle capacità tecniche. Ecco, l’urbanista può servire il territorio offrendo le sue conoscenze a questi comitati».

Nel libro lei si scaglia contro la perequazione. Ci può spiegare perché? «Possiamo declinare il termine perequazione in due modi: il primo è quello della legge 765 del ’67 che disciplina l’’uso di meccanismi di scambio tra pubblico e privato nei piani attuativi. Si tratta di un modo sano di intendere la perequazione e che potrebbe essere esteso anche dove è già edificato. Altra cosa è l’’accezione contemporanea che viene data a questo termine per giustificare una incapacità espropriativa dell’’ente pubblico. Quando si tratta di dotare le città di servizi si ricorre alla perequazione dando ai privati terreni nuovi in cambio di aree edificate collocate in punti strategici. Il risultato è solo un inutile consumo di suolo».

Lei ha lavorato molto con il progetto ma soprattutto con la scrittura. «Ho sempre creduto nella forza della parola. Il nostro mestiere ha come unica arma quella del convincimento. E la parola è uno strumento indispensabile per far capire a cittadini, agli amministratori e ai politici le conseguenze delle scelte urbanistiche. Il territorio va governato come fosse un sistema complesso. E l’urbanista deve essere un supporto per far comprendere la complessità di questo sistema. In fondo questo dovrebbe essere il nostro orgoglio e la nostra missione».

Prosegue il saccheggio dei patrimoni collettivi. Il quarto condono edilizio è alle porte, si aggiunge alle altre numerose imprese avviate, e in gran parte già effettuate, dai governi Berlusconi. Paolo Berdini, nel manifesto di ieri, ha inquadrato la sciagurata iniziativa dei due deputati campani del Pdl nella “politica della città e del territorio” della destra italiana di oggi. Una politica che non solo distrugge storia, memoria e beellezza, ma degrada l’habitat della vita delle generazioni future, aumenta il disagio di chi vivrà domani nella Penisola.

Come mai tutto ciò non genera una forte reazione di protesta e di contrasto? Come mai è così debole, incerta, contraddittoria la risposta dell’opposizione parlamentare, degli organi dell’opinione pubblica, delle stesse formazioni della “sinistra radicale”? Il cosiddetto “piano casa” è stato accettato dalle stesse regioni governate dal centrosinistra. La prassi di condizionare le decisioni sull’assetto del territorio agli interessi immobiliari è condivisa da amministrazioni di destra e di sinistra. L’abbandono delle procedure democratiche della pianificazione urbanistica per sostituirle con gli accordi diretti tra poteri pubblici e interessi privati forti è avvenuto nei comuni di tutti i colori.

Lo si comprende se si riflette sulle radici dalle quali nasce la proposta di condono edilizio. Demagogia e disinteresse per il futuro sono certamente due componenti della cultura politica d’oggi. In certe zone del paese gli abusivisti sono certamente molti, e allora raccattiamone il consenso, che ci interessa oggi, mentre a sanare i guasti nel futuro provvederanno altri. Ma al di là di questo, al di là della perdita della responsabilità verso il futuro di noi tutti, quindi al di là dello smarrimento della consapevolezza del ruolo della città e del territorio nella vita di ciascuno di noi, vi sono a mio parere tre elementi che caratterizzano l’ideologia oggi dominante. Primo, l’assunzione dello sviluppo dell’economia data come obiettivo primario: la crescita del PIL è diventato la misura del successo. Secondo, la progressiva riduzione degli spazi della democrazia a vantaggio dell’aumento della “governabilità”: la chiusura delle piazze alla manifestazione del dissenso ne è l’aspetto più emblematico (è successo ieri a Reggio Calabria), ma quello strutturale è lo spostamento della responsabilità delle decisioni dagli organismi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica ai “commissari”. Terzo, il crescente disprezzo per la legalità: le regole sono diventate un impaccio di cui liberarsi, l’eredità di un passato confuso di cui non si comprendono, e comunque non si condividono, le ragioni, sono solo ostacoli alla traduzione del desiderio (o della voglia, o dell’interesse) di un potente in un evento concreto.

Non si tratta di vizi che albergano solo nel costume del personale politico, né solo nell’ideologia della destra. A proposito di “legalità” basta ricordare l’episodio dell’auditorium di Ravello e leggere l’articolo di De Lucia su eddyburg; a proposito di “governabilità” i decreti Bassanini; e a proposito di “sviluppo”, non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Il libro di Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo, era stato illustrato dall’autore nelle sue linee generali e nella sua tesi di fondo, in un’intervista a Libero (24 aprile 2007). L’avevo pubblicata su eddyburg con una presentazione un po’ polemica. Affermavo che “la destra berlusconiana sembra aver trovato il teorico di riferimento per la sua urbanistica neo-liberista: un tuffo verso il passato più lontano, quello antecedente alla rivoluzione liberale”.

Moroni mi scrisse sostenendo che con quella destra lui non aveva niente a che fare, e che invece si richiamava a “una tradizione liberale (classica, continentale) che non coincide con le posizioni di certa destra (e, nemmeno, con quelle di certa sinistra), tradizione che va ovviamente discussa e criticata severamente, ma senza ridurla a ciò che non è e non può essere”. Nel replicargli prendevo atto del suo desiderio di distinguersi dalla destra cialtrona italiana, ma sostenevo che la tesi e le proposte formulate nella sua intervista erano singolarmente omogenee a quella prassi (e alla conseguente ideologia) che l’analisi politica internazionale definisce “neoliberismo”, e che non ha più niente da fare con quella “tradizione liberale (classica, continentale)” cui Moroni ama riferirsi [qui la nota di S.M. e la mia replica]

Ciò cui mi riferivo era qualcosa di certamente più ampio e più serio (e ben più pericoloso) della destra italiana, la quale ne è comunque al servizio. Mi riferivo a un sistema di potere che, per dirla con Giorgio Ruffolo, “respinge nettamente l'interferenza dello Stato nel Mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella sua capacità di autoregolazione” (G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo, Torino 2006, p. 110).

Mi riferivo, per adoperare i termini di David Harvey, al neoliberismo come un ”progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite economiche” (D. Harvey, Breve storia del neoliberalismo, Milano 2007); un progetto che “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe” (p. 229).

Non è detto che ciascuno di noi – per adoperare ancora le parole di Harvey - debba “decidere se rassegnarci alla traiettoria storica e geografica definita da un potere schiacciante e sempre crescente delle classi alte oppure rispondere in termini di classe” (p. 229), ma ciò di cui dovremmo essere consapevoli che “liberalismo significa piena libertà per coloro che non hanno bisogno di vedere accrescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di fare uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà” (K. Polanyi, cit in D. Harvey, cit. p. 49 ).

La lettura del libro mi ha pienamente confermato in quel mio iniziale giudizio: la piena coincidenza delle tesi espresse da Moroni con quelle del neoliberalismo descritto da Ruffolo, da Harvey e dagli altri studiosi che non hanno accettato il proteiforme capitalismo come l’unico orizzonte possibile. Anzi, mi ha rivelato risvolti e conseguenze inquietanti. Non tanto nelle affermazioni positive del libro, quanto nella filigrana che da esso traluce, nel modo in cui descrive la realtà, disegna la scena e concepisce i soggetti che la animano.

L’elemento più significativo mi sembra nella individuazione del protagonista cui la sua costruzione, la sua “città”, si riferisce: l’individuo, la tutela della cui “libertà” deve essere il preminente, e quasi esclusivo, compito delle istituzioni. Questo “individuo” non è un qualsiasi cittadino del mondo. Non è neppure un qualsiasi cittadino della città occidentale, suo esclusivo ambito di riferimento: è il proprietario immobiliare.

Lo si comprende in ogni passaggio del testo. E non a caso, quando esemplifica la sua nozione di “libertà negativa” afferma che essa, “interpretata soprattutto in termini di non-impedimento e non-interferenza […] ricomprende le libertà di esprimersi, associarsi, detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare, ecc. “. Delle cinque azioni cui esemplificativamente riferisce la libertà individuale dominano quelle connesse alle attività immobiliari: “detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare”, mentre sono del tutto assenti altre forse più fondamentali quali lavorare, apprendere, comunicare ecc. (p. 15-16).

E quando si impegna nel chiarire la distinzione tra il suo liberalismo e il liberismo precisa che “il liberalismo non è certo ‘mero’ liberismo, ma è ‘anche’ liberismo” (p. 26). Del liberismo, delle “libertà cosiddette economiche”, quelle che soprattutto gli interessano sono quelle che hanno a che fare con gli interessi immobiliari: “la libertà di acquisire, detenere e vendere proprietà privata, la libertà di intrapresa e contratto, ecc.” Queste non sono altro, aggiunge, “che una delle specificazioni dell'idea più generale di libertà negativa come spazio protetto d'azione; e, tuttavia, ne sono una componente incancellabile, tanto che, eliminarle, comprometterebbe seriamente il significato stesso della libertà individuale” (p. 26).

Coerente con questa impostazione è ovviamente l’apologia sfrenata del mercato. Moroni non intende quest’ultimo come mero strumento adatto, più di altri, a misurare il costo delle merci e a determinare la configurazione più efficiente dell’allocazione delle risorse riducibili a merci, ma “come ordine spontaneo dinamico”, condizione indispensabile perché la libertà di ciascuno possa esplicarsi al massimo grado (p. 9).

Individualismo (proprietario) e mercato sono le due divinità cui tutto è subordinato. Al dominio di queste divinità sono ordinate le istituzioni: le regole e lo stato. Per la società e per la città bisogna stabilire “poche regole, le più astratte e generali possibile, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinchè non siano lesi i diritti di alcuno” mentre il resto deve essere “lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato” (intervista a Libero).

Compito dello stato, in piena coerenza con il credo neoliberista dei poteri forti della globalizzazione, è esclusivamente quello di impedire che alcunché turbi il pieno dispiegamento del mercato. Questo compito comprende anche la possibilità che lo stato si faccia carico, in qualche modo, di esigenze nei “limitati casi” in il mercato non riesca a soddisfarle.

Soffermiamoci su questo punto. Moroni ammette che “debba essere garantita a tutti i cittadini non solo la libertà negativa, ma, anche, la possibilità di condurre una vita almeno decente. In altri termini – sostiene - a tutti i cittadini va garantita una giusta condizione di base: questo può avvenire fornendo ad essi buoni e risorse spendibili sul mercato per accedere a beni eservizi primari (certi buoni potrebbero essere assicurati a tutti, mentre determinate risorse monetarie aggiuntive solo a chi è in una situazione di deprivazione grave) e, nei limitati casi in cui il mercato non è in grado di operare, garantendo direttamente la disponibilità per tutti di alcuni servizi e infrastrutture” (p. 17-18).

Certo, poiché nella sua immaginazione un mercato pienamente concorrenziale è un meccanismo perfetto, a Moroni non viene in mente che certi prezzi possono, nella concretezza delle realtà economiche date, essere viziati da posizioni di monopolio o di oligopolio collusivo. Se c’è qualcuno che non è in grado di pagare l’affitto di una casa perché la speculazione porta i prezzi al di sopra della capacità di spesa degli “individui” allora intervenga lo stato per assicurare l’utile allo speculatore.

Ma in che modo si interviene, e chi interviene, per stabilire quale sostegno debbano avere i cittadini non proprietari per accedere al mercato? Qui l’ideologia di Moroni rivela aspetti inquietanti. È ovviamente lo stato che deve definire la “soglia di decenza” di ogni vita. Ma, precisa l’autore, “l’idea di garantire a tutti una vita decente deve avere di mira unicamente la lotta alla povertà assoluta, e non la riduzione della disuguaglianza materiale relativa; in altre parole l’obiettivo è di impedire che ci siano individui che si trovano al di sotto di una determinata soglia di decenza e non diminuire le differenze contingenti tra individui” (p. 17-18). Insomma, se si accetta che della “soglia di decenza” faccia parte il disporre di un tetto sotto cui ripararsi, ciascuno deve poter godere di un tetto, ma non pretenda di averlo a 100 metri o a 100 chilometri da dove lavora e dove stanno gli amici!

Esclusivamente preoccupato di assicurare la “libertà” (quella libertà) all’individuo in quanto proprietario, Moroni dimentica che esiste anche la libertà del cittadino in quanto tale: in quanto fruitore (non necessariamente proprietario) di un bene pubblico, quale la città (il territorio urbanizzato) indubbiamente è. Dimentica che ci sono diritti comuni, e non solo diritti individuali. Dimentica che tra questi diritti ci sono anche quelli di poter godere di una città ordinata, funzionale, bella, resa tale indipendentemente dagli interessi materiali di un gruppo di cittadini (i proprietari immobiliari). Dimentica che questo diritto deve essere attribuito a tutti, quale che sia il patrimonio di cui dispone (o il genere, l’occupazione, il reddito, il colore della pelle, l’orientamento religioso o spirituale, la lingua, l’etnia, l’età, la condizione sociale).

Poiché Moroni non si rivolge a questo soggetto (ma, lo ripeto ancora una volta, al proprietario immobiliare) ecco che la pianificazione della città e del territorio non gli interessa. Poco importa che essa sia l’unico strumento capace, ove correttamente impiegato da chi governa, di raggiungere quegli obiettivi d’interesse comune di cui si è detto. Per il proprietario immobiliare è un intralcio, è uno dei “lacci e laccioli” di cui occorre liberarsi. La critica di Moroni alla pianificazione, che vorrebbe essere una critica alla pianificazione in quanto tale, si riduce alla denuncia delle imperfezioni, degli anacronismi, delle insufficienze degli strumenti attualmente impiegati e dei modi in cui essi sono impiegati.

La sua critica alla pianificazione non è rivolta al miglioramento dei modi nei quali la società, nelle sue espressioni politiche, governa le trasformazioni e le utilizzazioni del territorio perchè i diritti comuni siano rispettati. La radice della sua critica, e la ragione della sua faticosa ricerca di un improbabile succedaneo ad essa, è meramente ideologica.

Il teatrino immaginato da Moroni è spoglio, nitido, astratto; sul proscenio si agita una folla di figure che, nella sua narrazione, sono indifferenziate e inoffensive: definiti “cittadini”, si tratta in realtà di individui, per i quali la libertà consiste nell’usare e commerciare con la massima discrezionalità i propri patrimoni (immobiliari). Il resto non esiste.

Esistono le città e le regioni dove il neoliberismo ha vinto, non esiste il resto del mondo, non esistono le città e le regioni le cui risorse sono state espropriate (come continuano ad esserlo) per aumentare la ricchezza delle classi “alte” e “medie” del mondo affluente. Non esistono le crescenti sacche di povertà e di emarginazione all’interno stesso dei paesi e delle città privilegiate dallo sviluppo. Non esistono il lavoro, l’apprendimento, l’incontro. Esistono i cittadini cui bisogna garantire la libertà “di acquisire, detenere e vendere proprietà privata”.

Non esistono gli esclusi, i diversi, gli espulsi dallo “sviluppo” e dalla “concorrenza”. Non esistono gli sfruttati, i saccheggiati, i colonizzati, né come soggetti né come popoli. Non esistono rendite, e se esistono, non ha nessuna connotazione negativa la loro privatizzazione (che è anzi un obiettivo). Non esistono i monopoli: né quello immobiliare (il che per uno studioso che si occupi di città è davvero singolare), né quello dell’informazione, né quello del potere.

Potere, ecco un termine, e una dimensione, del tutto assenti. Come, et pour cause, è assente la politica. Ed è ben strano che Moroni, come del resto altri studiosi italiani critici della pianificazione urbanistica, limiti la sua analisi di questa allo strumentario tecnico, dimenticando del tutto che “l’urbanistica è una parte della politica”, e che nella crisi della politica va forse individuato qualcosa di più che la radice della crisi della pianificazione urbanistica.

Sono assenti il potere e la politica, così come sono assenti i diversi interessi che oppongono certi gruppi sociali ad altri, certe figure e certi concreti soggetti ad altri: quali più forti, quali più deboli, quali destinati a vincere, quali a perdere. Tutti sono uguali, nell’empireo luminoso disegnato da Moroni. Basta far finta che siano tutti proprietari. Oppure, basta convincerli che gli altri non contano: non hanno “diritti”, ma solo la legittima aspettativa a una “soglia di decenza” che un buon Leviatano gli accorderà, forse, se vorrà.

Edoardo Salzano, 10 gennaio 2008

La legge urbanistica del 1942

Una buona legge urbanistica, quella che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni approvò nel luglio del 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale[i]. A rileggerla oggi così come allora fu approvata, sfrondata cioè dalle integrazioni e superfetazioni che la imbarocchirono, essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile e implementabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti: come del resto è necessario che una buona legge sia.

E’ questa legge che costituisce il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente (sia quelle nazionali fino al 1970, sia quelle emanate dalle regioni dopo la loro istituzione) hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte (soprattutto nell’immediato dopoguerra e nel corso degli anni ‘80) hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Conviene perciò ricordare gli elementi essenziali lella “legge madre” dell’urbanistica italiana.

Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.

Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio. A ben vedere, il rapporto tra PRG e PPE prefigura la distinzione tra due componenti della pianificazione, quella “strutturale” valida a tempo indeterminato, e quella “programmatica” riferita al tempo del mandato amministrativo, che è da qualche anno al centro del dibattito sull’urbanistica[ii].

.La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Essa prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare,”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG, “le aree inedificate e quelle su cui insistano costruzioni che siano in contrasto con le destinazioni di zona ovvero abbiano carattere provvisorio”. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica fu adoperata, nell’immediato dopoguerra, dal Comune di Grosseto e da un piccolo comune in provincia di Roma, Vicovaro[iii].

Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi di “area vasta”. Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.

Una buona legge quindi, quella del 1942, una legge moderna. Afferma l’urbanista Vezio De Lucia,

“La nuova legge era stata preceduta da lunghi studi e non può essere liquidata tout court come una legge fascista. Nelle commissioni legislative del Senato e della Camera dei fasci e delle corporazioni si scontrarono i difensori ad oltranza della proprietà privata con quelli che alla proprietà intendevano porre dei limiti. Intervenne anche l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) che aveva elaborato una proposta basata sull'esproprio preventivo delle aree urbane. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva comunque dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”[iv].

E il giurista Gianni Lanzinger:

“La legge urbanistica approvata nell’agosto 1942 confermava e sistemava definitivamente non solo la destinazione delle aree ad opera dei pubblici poteri, ma conteneva anche una nuova conformazione della proprietà edilizia tale da superarne la concezione antistorica di inviolabilità. Ne veniva cioè cambiato regime e struttura senza cambiarne l’appartenenza. (...) La legge 1150/1942 è dunque un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio”[v]

La ricostruzione postbellica: nasce il primato

dell’emergenza e del settore edilizio

La legge urbanistica del 1942 aveva posto le premesse per un possibile razionale governo del territorio e dell’attività edilizia. Come mai i suoi esiti sono stati così deludenti? La risposta è negli avvenimenti della guerra e del dopoguerra. Negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione, fino al 1945, gli eventi bellici non permisero di applicarla, e - più sostanzialmente - provocarono distruzioni ingenti e diffuse. E’ poi nell’immediato dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà (a volte contraddetto e contrastato, a volte sviluppando una piena e dispiegata egemonia) nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.

I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. È colpito il patrimonio abitativo, le infrastrutture: sono distrutti più di tre milioni di vani, un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono accentuati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Drammatico il problema della casa; già prima della guerra la siduazione era pesante: nel censimento del 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze.

In molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione[vi]: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto: qualche macchia di colore su di una carta per indicare le zone d’espansione, qualche segno nella città edificata per indicare i nuovi allineamenti.

Finalità dei piani di ricostruzione doveva essere di “contemperare le esigenze inerenti ai più urgenti lavori edilizi con la necessità di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati, e ciò attraverso soprattutto una procedura più semplice di quella prevista per i piani regolatori”[vii]. In realtà la logica dei Prg fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.

La legislazione speciale per l’”emergenza” della ricostruzione fu impiegata per molti anni, ben al di là del cessare dell’esigenza che l’aveva giustificata: i piani particolareggiati del centro storico di Venezia adottati nel 1974, trent’anni dopo la fine della guerra, furono formati sulla base di quelle semplificate disposizioni. In realtà la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni (a differenza che in altri paesi europei) fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.

Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.

Da una parte, su terreno strettamente economico, a differenza dell’industria, “iI settore edilizio si prestava ottimamente al ruolo trainante, o quanto meno di collaborazione” alla ripresa economica, “sia perché non richiedeva in partenza né impianti costosi, né imprenditori particolarmente esperti, né mano d'opera qualificata, né materiali di importazione. sia perché rispondeva ad una esigenza sociale sentitissima che era quella della ricostruzione fisica delle città e della dotazione individuale di una dimora sicura come bisogno primordiale”[viii]. E del resto, in una fase in cui l’ingresso dell’economia italiana nel mercato internazionale cominciava a svelare la marginalità di parti consistenti del settore agricolo (artificiosamente gonfiato dalla politica fascista dell’autarchia), e si manifestavano i primi segni di quel drammatico esodo dalle campagne che caratterizzò gli anni ‘50 e ‘60, il settore delle costruzioni si dimostrava particolarmente idoneo a svolgere una funzione di volano nel passaggio della mano d’opera dall’agricoltura all’industria. Per un contadino, il passaggio a manovale e poi a muratore era l’inizio di un’apprendistato che lo avrebbe reso idoneo alla “moderna” catena di montaggio dell’industria.

Dall’altra parte, il ruolo socialmente stabilizzatore della proprietà della casa contribuiva a rinsaldare ed estendere il consenso attorno al blocco politico aggregato attorno alla Democrazia cristiana. Era un ruolo, insomma, in piena sintonia con le politiche di consolidamento ed espansione della piccola proprietà contadina, e di forte sostegno allo sviluppo della motorizzazione individuale di cui in quei medesimi anni si ponevano le basi.

Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.

Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, come osserva AlessandroTutino

“richiede che non si pianifichi: per molto tempo infatti, dal dopoguerra fino praticamente agli anni '60, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o apertamente boicottata dagli organi più politicizzati del governo, cioè soprattutto dal ministero dell'interno tramite le prefetture. Per questo preciso scopo dunque dal 1945 al 1964 circa i comuni sono stati assiduamente educati a non pianificare: quelli che, ribelli all'autorità educatrice, hanno voluto farlo a tutti i costi, si sono trovati in pratica a operare come isole di difficile penetrazione dell'iniziativa privata in un mare aperto dove viceversa tutto era possibile, e si sono trovati perciò rapidamente in oggettiva difficoltà di fronte ai loro stessi elettori”[ix].

E mentre su un versante si ostacola l’impiego degli strumenti della legge urbanistica del 1942, dall’altro lato si avvia un’azione di smantellamento del patrimonio abitativo pubblico. Come affermavano allora i governanti, bisognava sostenere la proprietà privata a spese del denaro pubblico: occorreva dare “a riscatto” agli assegnatari le case costruite dallo Stato:

l'assegnazione di case a riscatto non soltanto fa fare notevoli economie sulle spese di manutenzione e di amministrazione, ma influisce moltissimo sulla psicologia morale e politica dell'assegnatario (...). Sul piano sociale, su quello politico, su quello morale ritengo che accrescere le garanzie delle libertà degli italiani, costituendo per ciascuno di essi un patrimonio (mobiliare o immobiliare), sia una buona cosa”[x].

Con quest’obiettivo, poco prima delle elezioni politiche del 1958[xi], il Parlamento approva una legge-delega, che demanda al governo la formulazione di norme per la “cessione in proprietà a favore degli assegnatari degli alloggi di tipo popolare ed economico costruiti o da costruire a totale carico dello stato, ovvero con il suo concorso o contributo”; di tutte le abitazioni, cioè, di proprietà pubblica. Carlo Melograni, Aldo Natoli e Franco Berlanda furono tra i pochissimi che presero una posizione decisamente contraria.

“Così, a conclusione di un dibattito evidentemente troppo affrettato, si e deciso di liquidare un grande patrimonio pubblico, risultato di un’attività di più di cinquant'anni (...). La nuova legge segue un indirizzo, oggi in voga, da combattere: quello di rifiutare le soluzioni di fondo ricorrendo ad accomodamenti caso per caso; di far tacere una parte di coloro che reclamano un giusto diritto, come quello di avere un alloggio con una pigione non alta, dando loro un singolare vantaggio: quello di poter acquistare un alloggio a condizioni special”i[xii].

Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.

Le trasformazioni territoriali

negli anni del “grande esodo”

All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola. Nel 1951 l'agricoltura assorbe il 42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali. Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel decennio 1961-1971 il processo continua: malgrado il raddoppio degli investimenti industriali nel sud, gli addetti all'industria crescono solo di 80 mila unità mentre al nord salgono di 350 mila unità. Contemporaneamente il meridione perde altri 900 mila addetti al settore agricolo. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6%[xiii].

Accanto a questa trasformazione, un’altra se ne registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Come afferma lo storico Paul Ginsborg

“nel ventennio 1951-1971 la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963 (...).In tutto, fra il 1955 e il 1971, 9.140.000 italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali”[xiv]

La coesistenza di un accentuato processo di urbanizzazione e di un forte esodo, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese. determinano due fondamentali ordini di problemi. Nelle zone di esodo, la scarsità di popolazione in ampie zone del territorio nazionale da luogo a gravissimi danni economici e compromette l’equilibrio ecologico e ambientale (mancanza di presidio fisico del territorio, sottoutilizzazione del “patrimonio fisso sociale” rappresentato dai centri urbani. dalle infrastrutture ecc.). Nelle zone di concentrazione, all'opposto. l’eccessiva “presenza” di abitanti negli spazi urbani genera notevoli inconvenienti che si ripercuotono sulle condizioni di vita nelle grandi città (carenza di alloggi a basso costo, di servizi, di trasporti pubblici, alto costo della vita, inquinamento, ecc.). Questi inconvenienti non dipendono tanto dalle dimensioni assolute delle maggiori città italiane (dimensioni che potrebbero apparire relativamente modeste se confrontate con quelle delle maggiori metropoli mondiali), quanto piuttosto dal modo disordinato con cui tali dimensioni sono state raggiunte.

Quello che comincia a delinearsi nella prima metà degli anni ‘60 è una crisi del modello di sviluppo economico-sociale che aveva prevalso negli anni precedenti. In effetti, all'inizio degli anni '60 lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica.

È l’Inu[xv] a rompere il ghiaccio. All'VIII congresso, nel dicembre del 1960, viene presentata una proposta di riforma: è il cosiddetto Codice dell'urbanistica. L’Inu auspica l'istituzione delle Regioni e tenta di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica (di cui si comincia a parlare), attraverso l'istituzione di un Comitato nazionale di pianificazione (formato da ministri e presidenti delle regioni) e di un Consiglio tecnico centrale (a livello di alta burocrazia e di esperti urbanisti ) .

Il “codice” dell’Inu del 1960, a differenza delle proposte formulate nel corso della formazione della legge urbanistica del 1942, non prevede l'esproprio generalizzato dei suoli destinati all'edificazione, se non in casi eccezionali e territorialmente limitati. Per pubblicizzare, sia pure parzialmente, gli incrementi di valore delle aree urbane, e per stabilire, entro certi limiti, una perequazione di trattamento tra i diversi proprietari, viene proposto il meccanismo del comparto[xvi], oppure l’obbligo ai proprietari di cedere gratuitamente al comune, nelle zone di espansione, una quota del 30 per cento dell'area totale da destinare ad attrezzature pubbliche e di sostenere le spese di urbanizzazione primaria. Per incidere sulla rendita fondiaria è previsto anche un più deciso ricorso agli strumenti fiscali.

La proposta dell’Inu si inquadra nel cambiamento politico in corso, che vede spostarsi la DC, dall’alleanza con i partiti “minori” del centro (repubblicani, liberali e socialdemocratici), spesso aperta verso le formazioni della destra, all’alleanza con il Partito socialista italiano (PSI), in quegli anni ancora solidamente legato al PCI. La programmazione economica, la riforma urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica sono alcuni dei temi sui quali si polarizza il dibattito politico in vista della partecipazione dei socialisti al governo. Di riforma urbanistica si comincia a parlare concretamente anche in sede ministeriale. Ministro dei Lavori Pubblici del governo Fanfani è Benigno Zaccagnini, che insedia nel 1961 una commissione per la riforma urbanistica[xvii]. La proposta è resa pubblica nel settembre del 1961: resta sostanzialmente nel solco dei princìpi della legge del 1942, pur contenendo perfezionamenti di carattere tecnico e procedurale. Anche questa proposta non risolve il problema dell'acquisizione, a favore della collettività, della plusvalenza delle aree e della disparità di trattamento fra i proprietari immobiliari in relazione alle destinazioni d'uso stabilite dai piani.

La proposta del ministro Sullo

Autore della proposta più innovativa e coraggiosa è Fiorentino Sullo ministro dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962, esponente dell’ala riformista della DC. Preso atto che “la stragrande maggioranza degli urbanisti non si dichiarava d'accordo” con lo schema elaborato dalla commissione insediata da Zaccagnini, ricostituisce la stessa commissione, integrandola con giuristi, economisti, sociologi[xviii].

La riforma è impostata su basi completamente nuove. Il progetto stabilisce che l'indirizzo e il coordinamento della pianificazione urbanistica debbono attuarsi nel quadro della programmazione economica nazionale ed in riferimento agli obiettivi fissati da questa. La pianificazione urbanistica si articola, sia nella fase regionale che statale, agli stessi livelli previsti dal progetto Zaccagnini: piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato.

Il piano regolatore generale e quello comprensoriale sono obbligatoriamente attuati per mezzo di piani particolareggiati, nel cui ambito il comune promuove l'espropriazione di tutte le aree inedificate e delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato, nonché delle aree che successivamente all'approvazione del piano particolareggiato vengano a rendersi edificabili per qualsiasi causa. E’, in sostanza, una ripresa e, soprattutto, una generalizzazione della facoltà ammessa dall’articolo 18 della legge urbanistica del 1942.

Acquisite le aree, il comune provvede alle opere di urbanizzazione primaria e cede, con il mezzo dell'asta pubblica, il diritto di superficie sulle aree destinate ad edilizia residenziale, che restano di proprietà del comune. A base d'asta viene assunto un prezzo pari all'indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione e di una quota per spese generali. L'indennità di espropriazione è determinata, per i terreni non edificati e non aventi destinazione urbana prima dell'approvazione del piano, in base al prezzo agricolo; per i terreni non edificati, ma aventi già destinazione urbana, in base al prezzo dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione, aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo fissato da un comitato di ministri, e infine, per i terreni edificati, in base al valore di mercato della costruzione.

Lo schema Sullo modifica profondamente il regime proprietario delle aree: di proprietà privata resta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree - edificate o edificabili - passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani. In un primo momento sembra che la proposta sia destinata a passare. Ma nell’aprile 1963 (le elezioni sono fissate per il 28 aprile) si scatena “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa contro il Ministro dei lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. È lo stesso Sullo che racconta:

“A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa. (...) Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento, nell'ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si sarebbe potuto fare a meno. Non c'era che una strada: spiegare al video a milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito dalle mie. Fui sbalordito per l'oggettiva ingiustizia morale verso di me”[xix].

Con una “dolorosa nota” del 13 aprile Il Popolo comunica che la DC dissocia la propria responsabilità dall'operato del suo ministro. “Sullo era stato piantato in asso, e così ogni prospettiva di una reale pianificazione urbanistica in Italia”, commenta Paul Ginsborg[xx].

Sullo resta ministro dei Lavori pubblici nel “governo ponte” presieduto da Leone nell'estate del 1963, ma alla costituzione del primo governo organico di centro sinistra, nel dicembre 1963, viene sostituito dal socialista Pieraccini.. Negli accordi interpartitici per la formazione del governo Moro, viene concordato che la riforma urbanistica deve assicurare la preminenza dell'interesse pubblico, attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie e la posizione di “indifferenza” dei proprietari rispetto alle scelte di piano. Su queste basi viene elaborato il disegno di legge Pieraccini: si conserva il principio dell'esproprio generalizzato, l'indennizzo però non è pari al prezzo agricolo ma è rapportato al valore di mercato del 1958. Il diritto di superficie è abolito e sono esonerati dall'esproprio le aree interessate da progetti presentati prima del 12 dicembre 1963. Mentre la proposta di legge cade insieme al governo, in tutta Italia vengono rilasciate una valanga di licenze edilizie.

Nella vicenda della riforma urbanistica aveva vinto in definitiva quello che Valentino Parlato, qualche anno dopo, definirà “il blocco edilizio”: un blocco sociale ed economico nel quale, attorno agli stati maggiori della proprietà fondiaria urbana, della grande proprietà immobiliare e del capitale imprenditoriale e finanziario (volta a volta alleati alle forze della rendita o in timido conflitto con loro), si aggregano le “fanterie” dei piccoli proprietari di case o aspiranti tali, dei risparmiatori, degli artigiani e dei lavoratori legati alla produzione edilizia[xxi]. L’asprezza dello scontro, e quindi il peso politico del “blocco edilizio”, è rivelato pienamente da un retroscena che emerse alcuni anni dopo, quando si scoprì che parte determinante nel convincere i leader del centro-sinistra ad abbandonare ogni ipotesi di riforma urbanistica ebbero le voci, rivelatesi fondate, di una minaccia di colpo di Stato guidata dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo[xxii]

La legge 167 del 1962: un sottoprodotto

del dibattito sulla riforma urbanistica

A Sullo Ministro dei lavori pubblici si deve l'approvazione della legge n. 167 del 1962 “per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare”, i cui studi preparatori erano stati avviati fin dal 1951[xxiii].

La “167” è una legge di settore. Essa si propone in primo luogo di porre fine alla prassi seguita fino ad allora nella localizzazione degli insediamenti di edilizia economica e popolare da parte dei comuni, degli Istituti autonomi per le case popolari e dalla miriade di enti che erano stati via via beneficiari di provvedimenti per la costruzione di edilizia a basso costo. Le aree venivano scelte infatti là dove il loro costo era più basso, o magari dove apparenti benefattori le cedevano sottocosto per ottenere la valorizzazione dei terreni circostanti[xxiv]. Ciò provocava effetti distorcenti sull’assetto urbano, ed era una delle cause della vanificazione dei piani regolatori. La legge prescrive preciò che le aree per l’edilizia economica e popolare siano scelte all’interno di quelle destinate dai piani all’espansione.

I quartieri di edilizia economica e popolare avevano dato luogo, negli anni del dopoguerra, alla formazione di quartieri caratterizzati da una forte segregazione sociale. Ciò dipendeva dal fatto che ciascun ente operava in modo del tutto separato dagli altri, ogni intervento era un episodio a se stante. E poiché ogni intervento era finalizzato e riservato a una determinata categoria di cittadini (impiegati dello Stato, o sfrattati, o cittadini appartenenti a categorie particolarmente disagiate e così via), ecco che ogni quartiere era abitato da una sola categoria di inquilini, e generalmente del tutto privo di servizi sociali. La legge prescrive invece che nelle aree individuate dai piani per l’edilizia economica e popolare (PEEP) si inseriscano non solo tutti gli interventi programmati dai vari enti ma anche (per assicurare una composizione sociale più ricca e complessa) una quota significativa di interventi privati non finanziati, diretti cioè al “mercato libero”.

Ma la finalità primaria della legge è l’agevolazione dell’acquisizione, da parte dei comuni, delle aree da destinare all’edilizia economica e popolare, soprattutto al fine di renderne più agevole l’acquisizione e di ridurre l’incidenza della rendita fondiaria sul costo finale dell’alloggio. La legge stimola perciò i comuni a costituirsi patrimoni di aree da urbanizzare e rivendere ai privati per lo svolgimento di attività edilizia di tipo economico e popolare. Ai comuni viene data la possibilità di acquisire le aree mediante esproprio attraverso un meccanismo che avrebbe dovuto assicurare una consistente riduzione delle plusvalenze formatesi in dipendenza dell'espansione delle città ed un'azione calmieratrice sul mercato dei suoli: l’indennità veniva infatti commisurata non al valore delle aree nel momento dell’espropriazione, ma a quello che esse avevano due anni prima della formazione del piano.

Il meccanismo previsto per l'acquisizione delle aree veniva però dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 22 del 1965) in quanto la dissociazione del momento in cui viene determinata la indennità da quello dell'espropriazione, può condurre ad una liquidazione dell'indennità in misura solo simbolica; ad avviso della Corte l'indennità deve costituire invece un “serio ristoro” del danno patrimoniale subìto dall'espropriato. In sostituzione degli articoli dichiarati illegittimi fu promulgata la legge n. 904 del luglio 1965 con la quale, per la determinazione dell'indennità di espropriazione, si fa ricorso alla legge di Napoli del 1885, cioè, sostanzialmente, alla media tra il valore venale e la capitalizzazione del reddito catastale.

Nel 1964 la crisi edilizia, che ciclicamente riaffiora, è decisiva. La parola d'ordine prevalente è che prima di porre mano alla riforma bisogna tornare alla “normalità”. La riforma urbanistica esce di scena.

Le lottizzazioni, la frana di Agrigento

e la “legge ponte”

Il suolo italiano, intanto, viene riempito di lottizzazioni edilizie. Da una inchiesta del Ministero dei lavori pubblici si desume che solo in un quarto dei Comuni italiani (poco più di 2 mila) sono state autorizzate lottizzazioni per circa 115 mila ettari, per oltre 18 milioni di vani, quanti sarebbero sufficienti a colmare l'intero fabbisogno nazionale di alloggi fino al 1980[xxv]. Le zone investite dalle lottizzazioni sono il triangolo industriale, la pianura veneta, l'area romana e napoletana, nonché quelle di maggior pregio paesaggistico, come le coste. La localizzazione degli insediamenti e l'utilizzazione del suolo ubbidiscono esclusivamente alla convenienza dei proprietari, i quali accollano alle finanze comunali le spese per le opere di urbanizzazione. “Il lottizzatore italiano - scrive Michele Martuscelli, che ha diretto l'inchiesta - non è nemmeno un imprenditore, ma un semplice mercante dei terreni; il suo interesse per il completamento dell'iniziativa cade non appena la maggior parte dei lotti è stata venduta ed è stata intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario”[xxvi].

L’episodio che riapre il dibattito sulla legislazione urbanistica, riportando al centro dell’attenzione il modo in cui avviene l’urbanizzazione del territorio, è la frana di Agrigento, che il 19 luglio 1966 fa crollare centinaia di alloggi e getta sulla strada migliaia di persone, miiracolosamente senza provocare vittime. La frana è stata causata dall'enorme sovraccarico edilizio: ben 8.500 vani costruiti negli ultimi anni, in contrasto con tutte le norme esistenti. Mancini, Ministro dei lavori pubblici, nomina una commissione d'inchiesta, presieduta da Michele Martuscelli. Nel settembre la “relazione Martuscelli” è resa pubblica. Un passo della relazione (che fu stesa da Giovanni Astengo) merita di essere ricordata:

Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l'aspetto sociale, civile ed umano[xxvii].

L'impressione nel paese è enorme. Si apre un’aspro dibattito politico. Mentre una parte della stampa propaganda la tesi dell’imprevedibilità e della “naturalità” dell’evento, l’opinione prevalente è quella che viene efficacemente espressa nella lettera di trasmissione della Relazione Martuscelli, nella quale si sottolinea “la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite”, e si esprime l’augurio “che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Il problema, conclude la Commissione Martuscelli,

non può ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica - la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata - ; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l'adozione - eventualmente anche nella forma del decreto-legge - di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione[xxviii].

Pochi mesi dopo, viene presentata al Parlamento la “legge ponte”: un simbolico ponte tra la situazione attuale (i guasti provocati dall’assenza di un ragionevole governo del territorio erano stati svelati all’opinione pubblica, oltre che dalla frana di Agrigento, anche dalle quasi contemporanee alluvioni di Firenze e acqua alta eccezionale di Venezia) e la riforma urbanistica, di nuovo desiderata e attesa.

Il 1° settembre 1967 viene emanata la “legge ponte”[xxix]. Essa limita le possibilità di edificazione nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici (che sono la grande maggioranza) e cerca di incentivare la formazione dei piani, anche con la previsione dell'intervento sostitutivo degli organi dello Stato in caso di inerzia dei comuni. L'intervento sostitutivo dello Stato e più rigide sanzioni sono previste anche per punire le illegittimità e gli abusi edilizi.

Uno dei punti centrali della legge è la disciplina delle lottizzazioni edilizie. La legge stabilisce che sono proibite le lottizzazioni nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione ed accolla ai privati le spese per le opere di urbanizzazione primaria (strade, fognature, acqua, luce, verde di vicinato, ecc.), e per parte di quella secondaria (scuole, ambulatori, parchi, centri sociali, ecc.).

Ma l'innovazione fondamentale della legge riguarda i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano deve inderogabilmente riservare all'uso pubblico.

Gli standard urbanistici

Si intende per “standard urbanistici” la determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi.

Il concetto di standard urbanistici è, per la verità, più ampio. Luigi Falco, ad esempio, ricorda che

“la parola standard, parola inglese che aveva originariamente il significato di bandiera, di segno di riconoscimento dei cavalieri, si usa oggi nella lingua originaria per indicare qualcosa di noto, di non discutibile e che può essere usato come elemento di paragone in numerosi campi delle tecnologie e delle scienze. La caratteristica dello standard, di essere legato a una prestazione, ad un livello di funzionamento raggiunto e sperimentato, è evidente in numerosi ambiti disciplinari, nei quali il termine è appunto usato in questo significato”[xxx].

E un significato ancora diverso del termine - non contraddittorio con i precedenti - è quello sottolineato da Alessandro Tutino:

“lo standard deve essere una bandiera (stendardo, simbolo) ed una bandiera che ad ogni traguardo va rinnovata perchè mantenga il suo valore”[xxxi]

La storia dell’introduzione degli standard urbanistici in Italia dà ragione di entrambe queste interpretazioni: quella quantitativa e normativa, e quella dinamica. In Italia gli standard urbanistici erano noti (negli anni ‘50) alla cultura specializzata. Ad essi faceva riferimento Il Manuale dell'architetto, mitico strumento di lavoro razionalista di generazioni di architetti, urbanisti e ingegneri, prodotto per la prima volta da un ufficio di promozione culturale statunitense (l’Usis, nel 1945), poi aggiornato a cura del Consiglio nazionale delle ricerche nel 1953 e nel 1962.

Si cominciò ad applicare gli standard urbanistici (cioè a riservare, nei piani per le città e in quelle per i quartieri, determinate quantità di aree per spazi pubblici in proporzione agli abitanti previsti) all’inizio degli anni 60. I quartieri popolari dell'Ina-casa e della Gescal, i piani regolatori di Roma, di Torino, di Modena costituiscono in quegli anni le prime esperienze di definizione concreta delle quantità di aree da riservare agli spazi pubblici.

Ma è più tardi, è appunto con la “legge ponte”, che in Italia si vara una normativa nazionale sugli standard urbanistici. Questa normativa, prescritta dalla legge, viene definita tecnicamente in un decreto ministeriale emanato un anno dopo: il decreto n. 1444 del 4 aprile 1968. Il decreto prevedeva standard riferiti a diversi tipi di attrezzature: alcune “d’interesse locale”, cioé tali da dover essere direttamente accessibili dagli utenti con percorsi pedonali o comunque superabili in archi di tempo brevi (non superiori ai 20-25 minuti primi); altre “d’interesse generale”, o “territoriale”, le quali, per la loro natura o per la dimensione funzionale richiesta, dovevano essere localizzate in relazione a bacini d’utenza più vasti.

Il decreto sugli standard è stato successivamente accusato di una certa rozzezza. e in effetti, esso è molto più schematico di quelli adoperati negli stessi anni in altri paesi europei. Non tiene conto dei tempi e dei modi dell’accessibilità, del rapporto tra attrezzatura e sito, delle dimensioni conformi di ogni attrezzatura, delle opportunità di integrazione tra attrezzature diverse ma complementari, della opportunità di diversificare le stesse dotazioni ad abitante in relazione a diverse situazioni demografiche e sociali. Ciò nonostante, come vedremo al prossimo capitolo, esso ebbe un effetto sconvolgente: per la prima volta nella redazione dei piani, e quindi poi nelle politiche di governo del territorio, si doveva destinare agli usi collettivi una consistente e non eludibile quantità di aree.

Ma più che la rozzezza del testo normativo, si deve criticare la superficialità della sua applicazione nella maggior parte della pratica professionale, e nella stessa successiva legislazione regionale di recepimento di quel decreto. Un caso esemplare di questa superficialità è costituito dal modo in cui sono state utilizzate le “zone omogenee” previste dal decreto. Il decreto prevede diverse zone, e per ciascuna di queste prevede norme diverse in relazione al conteggio degli standard e ad altre prescrizioni della legge. Nella volontà del legislatore, insomma, le zone omogenee sono sostanzialmente uno strumento di verifica dell’applicazione degli standard. Nella prassi corrente, invece, sono diventate una tecnica di progettazione della città, consolidando una concezione del disegno urbano basato sulla rigida monofunzionalità delle diverse parti e sulla negazione del carattere complesso tipico e caratterizzante dell’organismo urbano.

C’é da aggiungere, comunque, che la legislazione regionale, che subentrerà negli anni 70, si limiterà a ritoccare (generalmente in aumento) le quantità degli standard fissati nel 1968, ma non modificherà nella sostanza l’impostazione del legislatore nazionale: non ne supererà quindi neppure i limiti culturali. Ciò avviene in molti altri campi. Benché la Costituzione attribuisca alle regioni piena potestà in materia di legislazione urbanistica, nell’ambito dei soli “principi” fissati dalla legislazione nazionale o da essa desumibili, nella realtà le regioni si sono limitate a precisare, commentare, ulteriormente articolare la legislazione nazionale, nell’alveo della “vecchia” legge urbanistica del 1942.

Reazione e svelamento:

le sentenze costituzionali

Il decreto sugli standard ha una immediata ripercussione al livello della suprema magistratura. Meno di un mese dopo il decreto, meno di un anno dopo la legge ponte, la Corte costituzionale dichiara illegittimi parte dell'articolo 7 e l'articolo 40 della legge urbanistica del 1942[xxxii].

La tesi della Corte è la seguente. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli che destinano determinate aree ad usi pubblici (strade, scuole, verde ecc.) sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Ma questo vero e proprio vincolo non viene indennizzato: l’indennità sarà corrisposta al proprietario solo se e quando l’esproprio avverrà. Questa situazione, sostiene la Corte, è in contrasto con la costituzione, perché

“un vincolo immediatamente operativo, ma il cui indennizzo è rinviato nel tempo, deve ritenersi di carattere espropriativo” [xxxiii].

Sviluppando il suo ragionamento la Corte (e le successive interpretazioni della sentenza, in particolare ad opera del suo Presidente Aldo Sandulli[xxxiv]) sostiene la seguente tesi. Il legislatore ha la facoltà di stabilire che determinati beni (per esempio l’edificabilità) non appartengono al proprietario fondiario. Ma nell’attuale sistema giuridico italiano ciò non è stabilito. Non è allora oggi costituzionalmente legittimo comprimere lo jus aedificandi al di là di un limite ragionevole senza indennizzarlo, o senza almeno stabilire una data certa e vicina nella quale certamente l’indennità verrà pagata.

Se la sentenza per un verso suonava come una campana a morto per quanti erano impegnati nel tentativo di razionalizzazione dell’uso del suolo, per un altro verso indicava una possibile soluzione del problema del regime immobiliare. Nel dibattito che allora si aprì, mentre da una parte venivano proposte soluzioni volte a riconoscere per legge a tutte le proprietà fondiarie un valore minimo (“plafond”) di edificabilità, si avanzava dall’altra parte la proposta di stabilire, sulla base dell’indicazione di Sandulli, che l’edificabilità non apparteneva alla proprietà, ma era il prodotto di una concessione dell’ente pubblico attribuita ai proprietari sulla base dei piani urbanistici.

Si sceglie la soluzione più semplice ed indolore: quella del rinvio. Viene cosi approvata la legge 13 novembre 1968, n. 1187 (subito definita “legge tappo”), con la quale si stabilisce che le previsioni di piano regolatore generale, che comportano vincoli nei confronti dei diritti reali, aventi contenuto espropriativo, cessano di avere vigore qualora entro cinque anni dall'approvazione del piano regolatore medesimo, non siano approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionata.

Le tensioni sociali del 1968-69

e la legge per la casa

Gli anni ‘60 si erano aperti con la speranza di una riforma profonda dei modi in cui si esercitava il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Gli anni ‘70 si aprono senza che quest’obiettivo sia stato raggiunto, ma in un clima di grande sommovimento su tutti i terreni Si aprono infatti con le grandi tensioni del Sessantotto studentesco e operaio, si sviluppano, attraverso una serie di crisi politiche e di attentati dinamitardi, attorno ai temi dell’intervento pubblico nel settore della casa, degli espropri, dell’attuazione dell’ordinamento regionale, dei tentativi di programmazione economica.

Il quadro istituzionale dell’urbanistica cambia considerevolmente. La drammaticità degli scontri sociali sulle questioni del territorio e della città sembrano ridare fiato alla riforma urbanistica. La politica della casa entra a far parte dell’armamentario della pianificazione. L’istituzione delle regioni introduce un soggetto pubblico potenzialmente decisivo. Sebbene non si raggiunga una vera riforma del regime dei suoli, vengono introdotte alcune significative innovazioni, in parte vanificate dalle sentenze della Corte costituzionale. Mentre da un lato sembra procedere, attraverso tappe parziali, un disegno di riforma, dall’altro lato si mettono in moto forze controriformatrici, le quali agiscono a volte con gli attentati terroristici, a volte con sottili tattiche di svuotamento delle leggi innovative.

La questione della casa era stata al centro delle lotte sociali. Per la prima volta dalla rinascita della democrazia uno sciopero generale (il 19 novembre 1969) aveva avuto per oggetto una serie di questioni (casa, servizi, trasporti, squilibri territoriali) che esulavano dallo stretto terreno contrattuale. Il confronto tra sindacati e movimenti spontanei da un lato, Governo e parlamento dall’altro, si svilupparono per alcuni anni, punteggiati da attentati dinamitardi e crisi di governo. Un primo risultato si raggiunse nell’autunno del 1971, con una nuova legge per la casa[xxxv].

La legge affronta quattro questioni: la programmazione e il coordinamento dell’edilizia pubblica, le espropriazioni, le modifiche alla legge 167/1962 e il finanziamento di alcuni primi programmi d’intervento. Quest’ultima parte ha carattere dichiaratamente transitorio; più rilevanti e strutturali le altre.

La legge innova profondamente i meccanismi della programmazione pubblica dell’edilizia. Anzichè una miriade di enti, ciascuno caratterizzato da regole, soggetti e procedure diversi (unificati solo “a valle”, a partire dal 1962, da una politica urbanistica unitariamente costituita dai PEEP), la legge prefigura un sistema secondo il quale: spetta allo Strato l’allocazione di tutte le risorse pubbliche nazionali destinate alla residenza nei diversi settori e tipologie d’intervento e nelle diverse regioni, in funzione dei fabbisogni regionali; spetta alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l'edilizia all’interno dei loro territorio; spetta ai comuni la programmazione locale, e spetta ai comuni e agli Istituti per le case popolari la realizzazione e le gestione degli interventi.

Le nuove norme espropriative unificano i procedimenti e i valori del’indennità per tutte le possibili finalità (dai PEEP ai parchi nazionali, dagli interventi nei centri storici alle opere di urbanizzazione). Ancorano tutte le indennità al valore agricolo: per i fondi aventi una effettiva utilizzazione agricola l’indennità è correlata alle colture e alle altre attività aziendali, per i terreni già urbanizzati l’indennità è fissata con un valore parametrico (correlato a quello della cultura più pregiata). Generalizzano la possibilità di assegnare le aree espropriate in concessione, come alternativa alla cessione in proprietà. Ribadiscono infine che l’indennità non deve in alcun modo tener conto dell’incremento di valore acquisito dall’area per effetto delle destinazioni di piano o dall’aspettativa della realizzazione delle opere.

Le modifiche alla legge 167/1962 tengono conto delle esigenze di correzione e miglioramento maturate in quasi un decennio d’applicazione. In particolare viene abolita la disposizione che consentiva ai proprietari di aree comprese nel PEEP di operare direttamente senza essere espropriati: norma che aveva provocato, in molte zone, un aumento consistente del prezzo delle aree comprese nei PEEP.

L'attuazione delle regioni a statuto ordinario

Secondo la Costituzione italiana la competenza legislativa in materia urbanistica è delle regioni. Questa indicazione si saldava, nel dibattito degli anni ’60, con l’esigenza, affiorata fin dagli anni ‘50 nella cultura urbanistica (e già contenuta in nuce nella legge urbanistica del 1942), di promuovere una pianificazione territoriale, strettamente connessa alla programmazione economica, a partire dal livello regionale. Ma per tutti gli anni ‘50 e ‘60 avevano visto la luce solo le regioni “a statuto speciale” (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Friuuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige), la cui formazione era dovuta più a esigenze d’ordine politico o diplomatico che alla volontà di realizzare il disegno costituzionale[xxxvi].

I quindici consigli regionali a statuto ordinario sono eletti per la prima volta nella primavera del 1970, e l'effettivo trasferimento dei poteri avviene nel febbraio del 1972, in base a decreti del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda l’urbanistica, accanto al potere di legiferare già attribuito dalla Costituzione, alle regioni vengono trasferite tutte le funzioni amministrative che la legge del 1942, e le successive leggi di modifica e di integrazione, affidavano agli organi centrali e periferici del Ministero dei lavori pubblici: l'approvazione degli strumenti urbanistici (piani territoriali di coordinamento, piani regolatori generali comunali e intercomunali, piani di ricostruzione, regolamenti edilizi e programmi di fabbricazione, piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate) e dei piani per l'edilizia economica e popolare; il controllo e la vigilanza sull'attività edilizia ed urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario viene anche trasferito il potere di redigere e di approvare i piani territoriali paesistici previsti dalla legge per la tutela delle bellezze naturali del 1939.

Agli organi centrali dello Stato è riservata la funzione di “indirizzo e coordinamento” delle attività amministrative regionali “che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”. Allo Stato sono riservate inoltre le competenze relative alla rete autostradale; alle costruzioni ferroviarie, ai porti, alle opere idrauliche e di navigazione interna di maggiore importanza; all'edilizia statale, demaniale e universitaria, ecc.

Al trasferimento delle materie stabilite dall'art. 117 della Costituzione si affianca la delega delle “funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate”. Viene istituita una commissione (presieduta da Massimo Severo Giannini) le cui proposte forniscono la base al decreto del presidente della repubblica n. 616 del luglio 1977, che chiude quasi un decennio di dibattiti e di produzione legislativa circa l'ordinamento regionale.

Secondo il decreto 616/1977, l'urbanistica è “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”: tutto ciò è di competenza regionale. Allo Stato resta affidata la “identificazione, nell'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento [...], delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”.

La legge Bucalossi sul regime dei suoli

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero inutilmente e si approvò un'altra proroga biennale; poi, ancora un rinvio di un anno, finalmente accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente viene approvato nel gennaio 1977. E’ la legge n. 10 del 1977, nota come legge Bucalossi, dal nome del ministro che ne fu l'autore[xxxvii].

Alla base della legge c'è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, proposta inizialmente (come mera ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa dalla parte maggioritaria della cultura urbanistica. L'intesa fra i partiti di governo si realizza, superando le esitazioni della DC, soprattutto grazie all'impegno di Bucalossi che minaccia le dimissioni e la crisi di governo in caso di mancata approvazione. Il principio della separazione viene però affermato in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile anche agli incerti e ai contrari: non costituirà argine sufficiente rispetto alle critiche della Corte costituzionale.

Gli elementi portanti della riforma sono l'istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell'edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.

Passare dalla “licenza edilizia” alla concessione, e per di più a una concessione onerosa, ha come presupposto l’aver ammesso, almeno implicitamente, che esiste una riserva pubblica del diritto di edificare. La concessione di questo diritto è accordato al proprietario dell'area, o a chi ne ha la legittima disponibilità, per edificare opere conformi agli strumenti urbanistici, contro un determinato onere. Questo dovrebbe, sul piano dei principi, essere commisurato al maggior valore all’area viene attribuito per il fatto che essa è divenuta edificabile. In realtà la legge, privilegiandoi anche qui il compromesso rispetto al rigore, stabilisce che il contributo di concessione è formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.

La legge prevede la possibilità di non pagare la parte di contributo concessorio corrispondente a una quota del costo di costruzione, a condizione che il proprietario si impegni a convenzionare il canone d’affitto e il prezzo di vendita dell’edificio realizzato. Si tratta di una innovazione interessante, già introdotta dalla legge per la casa del 1971 all’edilizia economica e popolare che la legge Bucalossi tenta di generalizzare; essa consentirebbe alla mano pubblica di controllare contrattualmente l’esito finale del processo di urbanizzazione e costruzione della città.

L’introduzione del programma poliennale d’attuazione è comunque il più importante contributo della legge allo sforzo di razionalizzare i modi e i tempi in cui avviene il processo di espansione e trasformazione della città, per tentare di ridurne i costi e accrescerne i benefici sociali. L’esigenza di governare nel tempo l’attuazione delle previsioni dei piani regolatori, correlando l’attuazione delle opere di competenza pubblica con quelle d’interesse privato era viva da tempo. Il primo tentativo di soddisfarla fu compiuto, sia pure solo parzialmente a causa delle difficoltà frapposte dal Consiglio di Stato, dal Piano regolatore di Rtoma del 1962.

La legge prescrive sostanzialmente che i comuni, ogni tre o quattro o cinque anni, provvedano a indicare quali saranno gli interventi, pubblici e privati, previsti o consentiti dal piano regolatore vigente, che saranno effettuati o autorizzati nel periodo considerato. Per gli interventi privati inclusi nel PPA ma no attivati alla scadenza del periodo, la legge prevedeva l’esproprio delle aree e l’intervento sostitutivo del comune.

A proposito dell’abusivismo, fenomeno che era già in forte espansione, soprattutto nell’area romana, nel Sud e lungo le coste, la legge prevede, nei casi di maggiore gravità, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva. La demolizione è l'unica sanzione prevista quando l'abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.

Nel dibattito parlamentare non viene chiarito il nodo di fondo, relativo al regime di proprietà delle aree edificabili. Resta l’ambiguità nelle formulazioni sulla separazione dello ius edificandi dalla proprietà. Puntualmente, nel gennaio 1980, la Corte costituzionale si pronuncia ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica. Nel frattempo, le regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione, e le norme contro l’abusivismo saranno rimaste inapplicate.

Nuove esigenze e nuove leggi

per la politica della casa

Nonostante le riforme legislative operate a partire dal 1962 la questione della casa era ben lontana dall’esser risolta. Il settore era, nel suo complesso, estremamente articolato e ricco di sperequazioni e differenze quasi patologiche. Oltre agli alloggi abitati direttamente dei proprietari, giunti a livelli sconosciuti negli altri paesi europei, vi erano: gli alloggi privati condotti in affitto libero, per i quali si pagavano prezzi crescenti; gli alloggi privati condotti a fitto “bloccato”, cioè ancorato al valore originario senza tener conto dell’aumento dell’inflazione, per effetto di una serie di leggi che, a partire dagli anni della guerra, avevano teso a proteggere gli inquilini dei ceti meno abbienti dai notevoli aumenti dei prezzi; gli alloggi privati realizzati in aree Peep, preventivamente espropriate e assegnati a fitti convenzionati; gli alloggi di proprietà pubblica, assegnati a canone “sociale”.

Gli inconvenienti e le sperequazioni di questa situazione erano notevoli. Particolarmente pesante era il blocco dei fitti. D’altra parte, lo stesso contenimento dei prezzi operato nelle aree Peep (per effetto della decurtazione iniziale della rendita fondiaria e del controllo sul prezzo finale operato con il convenzionamento) veniva vanificato dalla “concorrenza” provocata da un “mercato libero”, libero di spingere all’insù i prezzi degli alloggi. Né era possibile limitarsi a “sbloccare” la parte vincolata dello stock privato, ciò che avrebbe provocato tensioni sociali insostenibili.

Per affrontare la questione non bastava quindi più limitarsi a costruire abitazioni economiche per le fasce più disagiate, ne limitare l’intervento pubblico alla costruzione di nuove case. Del resto, in quegli anni erano emerse due consapevolezze nuove: da un lato, il fatto che l’età dell’espansione continua e indefinita era terminata, che “più case si fanno più ce ne vogliono”, e che non si poteva proseguire con “lo spreco edilizio” [xxxviii]; dall’altra parte, il fatto che l’esigenza di disporre di un alloggio ad un prezzo commisurato al reddito e alla conseguente capacità di spesa era un “diritto sociale”, che doveva essere garantito a tutti.

D’altra parte, le leggi per la casa avevano affrontato solo episodicamente il problema del finanziamento dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa. E non era stato affrontato (salvo che nella positiva eccezione del “Peep-centro storico” di Bologna, 1972) la questione di un intervento volto al recupero dell’edilizia esistente.

Ecco le ragioni per cui maturò la necessità di affrontare l’insieme della questione abitativa tenendo presente l’insieme dello stock edilizio. Si cercò allora di superare il blocco di una parte dello stock con una politica di “prezzi amministrati” (l’equo canone) e di definire una programmazione sistematica dell’intervento pubblico nell’edilizia che affrontasse anche il problema del recupero dell’edilizia esistente (programma decennale e “piani di recupero”).

La legge per l’equo canone[xxxix]

Il convegno, dal titolo “Interpretare la neourbanità. Prospettive per l’organizzazione metropolitana. Dalla Città de-formata alla Città alleanza di città”, è stato organizzato dal Corso di laurea in Scienze geografiche dell’Università di Bologna, iretto da Pola Bonora. In calce la locandina scaricabile in .pdf

URBS, CIVITAS, POLIS

LE TRE FACCE DELL’URBANO

Per cominciare

Me sembra che non sia necessario discutere tra noi sulla realtà del territorio quale la viviamo e la conosciamo – sui caratteri e le conseguenze della crisi nella quale viviamo – e neppure ragionare troppo sulle sue cause. A proposito di queste vorrei dire soltanto si tratta, a mio parere, dell’estrema (fino adesso) manifestazione di quel “declino dell’uomo pubblico” di cui Richard Sennet ha illustrato il lungo percorso.

Oggi dobbiamo soprattutto di ragionare su ciò che è possibile fare. Su quali siano i punti di partenza su cui basarsi per uscire positivamente dalla crisi. Come diceva Cervellati “con l’ottimismo della disperazione”, possiamo forse cogliere la crisi come l’occasione di cambiare. Se è vero – come è vero – che crisi non significa necessariamente sconfitta, arretramento, regressione, catastrofe, ma semplicemente rottura d’una situazione apparentemente stabile: rottura, quindi, dalla quale si può uscire regredendo o progredendo, dirigendosi verso una situazione peggiore o una migliore.

Visto che ho adoperato questa parola, “migliore”, vorrei dichiarare subito che non sono un “migliorista”. Non ritengo sufficiente correggere, migliorare, depeggiorare, mitigare meccanismi in sé perversi, ma sono convinto che la svolta necessaria sia radicale, che debba tendere a un assetto (della cultura, dell’economia, della società) nettamente diverso e alternativo rispetto a quello esistente. Un assetto da costruire gradualmente e pazientemente, ma verso il quale orientare ciascuno dei passi che si compiono, delle azioni che si promuovono o alle quali si concorre.

E poiché sono convinto anche dell’intrinseca positività dell’uomo (del maschio e soprattutto della femmina) ho anche fiducia nel fatto che gli elementi positivi, quindi i germi di un possibile futuro, possiamo già scorgerli nel presente se guardiamo con sufficiente attenzione a ciò che accade nella società. Naturalmente, togliendoci i paraocchi del pensiero corrente, del “pensiero unico” che ci inducono a condividere, e utilizzando invece le lenti del nostro buonsenso, nutrito dei principi e delle convinzioni che liberamente ci siamo formati.

Critica ai miei colleghi, gli urbanisti

Vorrei partire da una critica ai miei colleghi urbanisti, perché mi sembra che nei decenni più vicini abbiamo perso una convinzione, che alimentava il meglio della cultura urbanistica non solo italiana.

Mi riferisco al titolo di questo mio intervento, cioè alla consapevolezza profonda del fatto che la città, l’oggetto della nostra operazione di urbanisti, è costituita dall’insieme dei tre elementi rintracciabili nella sua stessa denominazione: la città come struttura fisica, la città come società, la città come governo.

Dimenticare la necessità di un continuo intreccio tra questi tre elementi, occuparsi della città (e più largamente del mondo urbano) solo sul versante della sua architettura, o solo su quello della società che la abita, o solo su quello della politica è causa di necessari fallimenti e non conduce a nessun risultato positivo. Può solo fornire contributi parziali (e perciò di necessità viziati) a chi tenta di fare una sintesi.

Da questo punto di vista vorrei citare un brano molto bello, scritto da uno storico ed economista francese, membro dell'Assemblea legislativa alla fine del XVIII secolo, che ho trovato molti anni fa citato nella Miseria della filosofia di Karl Marx. Il suo nome è Pierre-Edouard Lemontay:

“Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce”[1].

Penso che oggi il campo di ciascuno di noi non possa allargarsi per diventare grande come i campi che già Lemontay, due secoli fa, rimpiangeva. Dobbiamo perciò cercare di ragionare insieme, di costruire poco per volta quell’”intellettuale collettivo” che è necessario per comprendere il mondo di oggi. Perciò sono particolarmente contento di occasioni come quella di oggi, e perciò mi sembra perversa e controproducente la tendenza prevalente nel mondo degli urbanisti di rinchiudersi di ciascuno nel campo della propria certezza, della propria disciplina, del proprio brandello di verità che possiede.

La città

Ma torniamo al punto. La domanda che vorrei pormi è la seguente. Che cos’è che non ci piace nel modo in cui oggi l’urbano si è trasformato /si sta trasformando? Evidentemente ci riferiamo a un’idea di città che vediamo stravolta nell’insediamento di oggi. Ci riferiamo a un “immaginario” che non riconosciamo nella realtà.

Può essere che il nostro immaginario sia sbagliato, che non abbia qualità e caratteristiche oggi accettabili, e che quindi sarebbe giusto per noi rinunciare a esso, alla nostra idea di città, e accettarne un’altra. É quello che fanno – mi sembra – nostri illustri, intelligenti, onesti colleghi, che difendono questo insediamento che a noi sembraa disfatto e invivibile, inumano. Lo considerano come un segno dei tempi mutati, in un mutamento nel quale occorre adeguarsi. Può essere che abbiano ragione loro. Ma io oggi non ne sono affatto convinto. Perciò riparto dalla mia idea di città: un’idea di città che ha alla sua radice una cultura che mi sembra ancora viva, sebbene da molti ignorata.

La mia idea di città

Nella mia idea di città gli spazi pubblici hanno un ruolo primario. Parlo di spazi pubblici in un senso molto ampio: spazi fisici e spazi virtuali, spazi dell’urbs e spazi della civitas e della polis. La piazza, l’asilo nido e la scuola, la biblioteca pubblica e il parco fanno parte dello stesso universo del diritto di sciopero e di quello di riunione.

Per me la città nasce con gli spazi pubblici. L’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, ha generato quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.

È questa la ragione di fondo per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti i classici spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.

Non credo che sia necessario in questa sede soffermarmi su questo punto. Mi limiterò ad aggiungere che nella nozione di spazio pubblico della città sono entrate a far parte due componenti rilevanti:

- il carattere pubblico dell’esigenza che la città offra un’abitazione a tutti, a condizioni correlate alle capacità di spesa dei cittadini;

- il carattere pubblico delle regole che governano l’assetto fisico e funzionale della città nel suo insieme.

Dobbiamo vedere gli spazi pubblici come l’insieme dei luoghi – materiali e immateriali – nei quali si manifesta il momento comune, collettivo, sociale della vita di ciascuno. E allora, in questo senso credo che dobbiamo inserire, accanto ai luoghi della comunità cittadina, anche i luoghi della comunità di classe: anche la fabbrica capitalista, come il luogo nel quale – come necessario antidoto alla proprietà del capitale – si costituisce la solidarietà del proprietari della forza-lavoro.

Oggi

La mera elencazione degli elementi che costituiscono la vita urbana ci fa comprendere facilemente come tutto questo sia in profonda crisi perché investito da un processo di dissoluzione di tutto ciò che vive nella dimensione del pubblico, del comune, del collettivo, del sociale.

Gli spazi pubblici classici, tradizionali, sono privatizzati e commercializzati: dalla piazza alla scuola, dalla sanità all’università. Gli standard urbanistici, come garanzia di un livello minimo di aree da utilizzare per le attrezzature e i servizi pubblici, garantito a tutti i cittadini della Repubblica, aboliti e sostituiti da “prestazioni” erogate da porivati. La casa, interamente abbandonata al mercato e alle sue follie.

Il legame di continuità tra spazio privato e spazio pubblico egualitario (apero al ricco e al povero, al cittadino e al foresto, al giovane e al vecchio) , già messo in crisi dalla zonizzazione sociale del razionalismo, definitivamente spezzato dalla segregazione delle gated communities e del emarginazione dei diversi. Le regole, scavalcate dalle deregulation progressivamente estesa a ogni dimensione della pianificazione. La fabbrica, devastata dal ricorso sempre più massiccio ed esclusivo al lavoro precario.

Orfani della politica

É possibile opporsi a questo trend e concorrere a un’uscita diversa dalla crisi attuale?. Io penso che, poiché è necessario, è anche possibile.

Trenta o quarant’anni fa la risposta l’avremmo cercata nella politica. Ma oggi la politica non c’è più: quella dei partiti si è ridotta alla mera conquista e conservazione del potere, indipendentemente da ogni finalizzazione a un progetto di società ispirato a principi di equità, solidarietà e libertà. Conta solo il risultato elettorale, il successo raggiungibile nel breve periodo. L’unico traguardo è la scadenza del mandato elettorale.

Se i partiti sono oggi caratterizzati da una visione miope, nella quale è solo l’oggi che conta e il futuro è il contenitore di promesse dimenticate il giorno stesso in cui vengono pronunciate, allora è inutile chiedere a questi partiti di farsi carico degli interessi della città, del territorio, della collettività in quanto tale: interessi che richiedono obbligatoriamente una visione di lungo periodo, una prospettiva ampia, uno sforzo prolungato nel tempo.

Oggi siamo orfani della politica: dovremmo portare tutti la fascia nera al braccio. Non per piangere, ma per ricordare che la politica dobbiamo riconquistarla.

Un filo di speranza

La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata – secondo me - a un filo molto tenue che tuttavia esiste. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.

Mi riferisco ai movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società, espressiva di principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, sia rappresentata dall’Onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario.

Le istituzioni

Assumere ciò che si muove nella società come il principale punto di riferimento non deve farci trascurare l’altro interlocutore essenziale: le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Domenico Finiguerra, il sindaco di quel piccolo comune del milanese che ha avviato con l’esempio il movimento “Stop al consumo di suolo” ha scritto parole molto benne e giuste sulla necessità di “occupare le istituzioni”, di espugnarle pacificamente, con gli strumenti della democrazia.

Le istituzioni: tutte, ma con maggiore attenzione per la prima, per il comune, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti. Tuttavia non dobbiamo dimenticare mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia.

Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, alla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Quattro obiettivi

Si può reagire al mainstream e navigare controcorrente a condizione che si assumano quattro obiettivi, che sono anche quattro impegni.

Bisogna resistere. La difesa degli spazi pubblici deve essere al centro dell’ attenzione. Non devo insistere sul fatto che mi riferisco allo spazio pubblico in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme.

Bisogna far crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali. Un esempio vistoso è il termine “vincolo”: si intende per tale qualunque destinazione del suolo che non consenta l’edificabilità di tipo urbano: è un vincolo la destinazione a una utilizzazione agricola, o all’inpianto o la conservazione di una forseta, alla ricerca in un’area archeologica, nella costituzione di un’area di libera visione di un monumento o al godimentoi di un paesaggio. “Voncolo” è tutto ciò che contrasta con l’uso mercantile, venale del suolo.

Terzo obiettivo e terzo impegno: bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.

E infine, bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più si allargherà il campo di quanti occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.

Dove sono gli intellettuali?

Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetterebbe agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Gli intellettuali, sono depositari d’un sapere che dovrebbero amministrare al servizio della società. Dovrebbero saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dovrebbero saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.

Mi sembra invece che gli intellettuali (almeno, quelli che praticano professionalmente e accademicamente la pianificazione territoriale e urbanistica) siano del tutto assenti da quello che accade nella società.

Quando se ne occupano, nel migliore dei casi (e naturalmente salve le dovute eccezioni) è per moderare, mitigare, addolcire le devastazioni più gravi. Si veda il caso dello sprawl, di questa cancrena del territorio e dell’idea stessa di civiltà urbana. C’è chi afferma che non si può che prendere atto di ciò che è stato e continua a essere, che le “villette” piacciono agli italiani e quindi bisogna incentivarne l’espansione. E che le aree devastate devono essere oggetto di razionalizzazione, adeguamento dei servizi, riprogettazione. Non si comprende che il primo obiettivo in assenza del quale qualunque intervento diventa stimolo all’ulteriore espansione della devastazione, è contrastare il fenomeno, bloccarlo, impedire che venga sottratto alla naturalità dello spazio rurale, un solo metro quadrato che non sia socialmente necessario. Solo dopo si potrà procedere a rendere civilmente abitabili le aree devastate.

[1]Citato in Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115

Non si possono variare automaticamente i piani urbanistici comunali, né derogare dalle norme dei piani provinciali e regionali, per privatizzare (“alienare” e “valorizzare”) aree ed edifici del patrimonio pubblico. Così ha stabilito la Corte costituzionale bocciando (con sentenza 340 del 16 dicembre 2009) una parte del decreto legislativo col quale il governo disponeva la “ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni e altri enti locali” mediante la redazione del “piano delle alienazioni immobiliari” (Dlgs 112/2008).

Per alienare il patrimonio immobiliare pubblico il governo aveva stabilito una procedura particolare. Regioni, comuni e altri enti locali devono individuare i singoli beni immobili “non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni” (per esempio, escludendo il municipio o il mercato comunale), suscettibili invece di vendita o “valorizzazione”. L’elenco di questi immobili costituisce il “piano delle alienazioni immobiliari”. L’inserimento nell’elenco provoca due effetti: il bene viene trasferito al “patrimonio disponibile” (quindi diventa vendibile), e cambia la sua “destinazione urbanistica”. Fermiamoci su quest’ultimo aspetto.

La norma del decreto governativo disponeva che questa modifica della destinazione urbanistica (per esempio, la decisione di destinare un museo in un albergo, o un ospedale in un residence, o una duna in un villaggio turistico) avesse a sua volta due effetti: costituiva variante automatica del piano urbanistico comunale, e non era subordinata alla verifica di conformità con le disposizioni dei piani provinciali e regionali, cioè al rispetto di questi.

Effetti gravissimi sia il primo che il secondo.

Per i piani comunali, come è noto, le leggi urbanistiche regionali stabiliscono contenuti precisi (che cosa i piani devono stabilire, su quali studi devono essere basati ecc.) e proceduredi garanzia (che consentano, tra l’altro, pubblicità delle scelte e partecipazione dei cittadini). Ovviamente anche le varianti ai piani devono seguire queste regole. Disporre perciò che l’inclusione di un immobile nel “piano delle alienazioni” equivalga a variante automatica significa autorizzare scelte non fondate e procedure non trasparenti.

Altrettanto grave il secondo effetto. I piani comunali sono subordinati alle scelte della pianificazione “sovraordinata”: alle prescrizioni dei piani provinciali e regionali: a quei piani che, tra l’altro, prescrivono – quando sono fatti correttamente - le tutele dei beni culturali e i vincoli paesaggistici, confermano le decisioni relative alla difesa del suolo e delle acque, dettano norme per ridurre il consumo di suolo. Decidere perciò che le “varianti automatiche” derivanti dall’inclusione del “piano delle alienazioni” non debbano rispettare la pianificazione sovraordinata significa consentire pesanti devastazioni del territorio e rischi per i suoi abitanti.

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittime proprio queste norme. Nell’inserire gli immobili nel “piano delle alienazioni” il comune può decidere qual è la nuova destinazione urbanistica, ma per renderla efficace deve in ogni caso seguire le regole che le leggi regionali stabiliscono: “la destinazione urbanistica – afferma la sentenza - va ovviamente determinata nel rispetto delle disposizioni e delle procedure stabilite dalle noirme vigenti”. E comunque non è ammissibile la deroga dalle disposizioni dei piani provinciali e regionali: la verifica di conformità va operata sempre e comunque.

Fortunati quindi quei territori nei quali regioni e province hanno approvato efficaci piani nei quali i patrimoni comuni (il paesaggio, la cultura, la storia, la salute, la sicurezza) sono protetti. Fortunati gli abitanti che vi vivono e i loro posteri, a maggior ragione se le norme regionali, e la buona volontà dei comuni, producono piani saggiamente elaborati e decisi mediante procedure trasparenti e partecipate. In quei territori e per quegli abitanti la tendenza alla privatizzazione e “valorizzazione” del beni collettivi può essere meno devastante che altrove.

Le catastrofi, sia naturali che storiche, strappano il velo delle consuetudini quotidiane e rivelano le realtà profonde della società che le subisce. Nel bene e nel male. Anche il terremoto dell’Abruzzo aquilano ha avuto questo effetto. Ha rivelato sprazzi di generosità nelle comunità locali e – a macchia di leopardo – in diversi ambiti della società italiana. Ma ha messo allo scoperto anche pesanti guasti nella cultura diffusa del paese. Soprattutto in due direzioni: il carattere e l’impostazione concettuale e pratica della gestione del dopo-terremoto, operata dal governo e tacitamente accettata dall’opposizione; la diffusa disinformazione operata non solo dalla televisione, ormai ridotta nella grandissima maggioranza al ruolo di amplificatore delle “verità” governative, ma anche della stampa d’informazione – con pochissime eccezioni. É capitato perfino dover leggere sulla Repubblica, giornale non benevolo nei confronti del premier, che i due titoli di merito di Berlusconi sono la soluzione del problema dei rifiuti in Campania e la gestione del dopo-terremoto in Abruzzo.

Quando la disinformazione parte dall’alto della grande stampa ed è avallata dal silenzio dell’opposizione essa si diffonde nell’opinione corrente come l’incendio in un campo di stoppie: le chiacchiere dei Bar Sport sono lì pronte a raccoglierla e propagarla. Lo testimonia anche la reazione subita da un articolo critico nei confronti dell’operato del governo in Abruzzo che avevo pubblicato nel sito web di Tiscali. In due giorni oltre seicento commenti online, la stragrande maggioranza dei quali contestavano la sfacciataggine di criticare quei due benefattori che avevano risolto tutti i problemi dei terremotati, cosa che mai i loro avversari politici sarebbero riusciti a fare.

Particolarmente utili sono i contributi come quello che ho l’onore di presentare. Il Dossier è stato diffuso, in una sua prima edizione con gli strumenti della rete. Già ha svolto un ruolo rilevante, perché è stato – insieme a pochi articoli di giornali non asserviti alle veline del governo – l’unica documentazione di ciò che stava succedendo. Spero che questo libro abbia una circolazione più ampia, convinca molti che ciò che si proclama dai megafoni del potere non è sempre vero. Anzi, spesso è menzognero. Come è apparso dalle prime battute e dalle prime informazioni che sono circolate già ad aprile e a maggio.

Allora, nei primi giorni del dopo-terremoto, a me e a un certo numero di persone abituate a guardare i fatti al di là della propaganda ufficiale, aveva colpito, all’inizio, il modo in cui il premier aveva afferrato l’occasione del terremoto per farsi propaganda. Ha colpito il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, più facili grazie alla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento che è stato adottato.

Ma a mio parere la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e, ripeto, sostanzialmente accettato, o almeno subito, dall’opposizione) di procedere alla ricostruzione. Mi riferisco a due scelte, tra loro strettamente collegate: la scelta dell’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la scelta della ricostruzione “altrove” delle case distrutte.

Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.

Con la seconda scelta si è deciso di sostituire, alla ricostruzione della città danneggiata dal sisma, venti lottizzazioni su aree scelte casualmente senza nessuna logica al di fuori dell’immediata disponibilità. Lottizzazioni, per di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: “con una cura maniacale dell’interno degli alloggi”, come scrivono gli attori del rapporto, che rivela come per l’ideologia di Berlusconi (e di chi lo fa lavorare in pace) le esigenze dell’uomo si riducono a quelle dell’individuo: la società cui appartiene non esiste e non interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo guscio, naturalmente alimentato da un televisore.

Con le scelte del dopo-terremoto si è colpita direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città, svuotata dalla società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive non è una città più di quanto non lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione), privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.

Questa, del resto, è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non ha promesso Berlusconi una “new town” per ogni capoluogo di provincia?

Che questo modo di governare sia volto all’arricchimento di qualche clan mi interesse francamente meno del fatto che questo modo uccide la città e la società. Rende vera e attuale nel nostro Abruzzo la frase di Naomi Klein: “le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case”.

Su eddyburg il dossier “Non si uccide così anche una città”

Per acquistare il volume

L’aggregazione di 124 associazioni, comitati e gruppi di cittadinanza che si è attivata per contrastare il “Piano di cementificazione del Veneto”, ha costituito solo un bellissimo momento d’incontro, di conoscenza reciproca, di condivisione d’un timore e di resistenza contro un rischio, oppure è la premessa d’un lavoro che si svilupperà nel tempo e costituirà nella Rete una forza che conterà più delle singole forze che la compongono? É evidente che questa è la speranza comune. Ne testimonia la fondatezza la comune sottoscrizione d’una carta di principi (i “Diritti del territorio”): è da l’ che si deve partire se si vuole costruire insieme qualcosa che duri. Il cammino però non sarà facile, per molte ragioni; e molti sono i punti su cui bisogna ragionare insieme. Ogni segmento della rete è figlio di una vicenda che ha radici diverse da quelle d’ogni altro, ha le sue ragioni (il suo obiettivo, le sue controparti, i suoi soggetti) che sono simili forse a molti altri, ma non a tutti. L’autonomia di ciascuno deve essere rispettata al massimo, ma questo non può impedire che la Rete esista. Ogni segmento ha risorse scarse, la sua attività è basata sul volontariato e su contribuzioni limitate, eppure se si vuole un’attività di coordinamento e di servizio utilizzabili per tutti occorre rinunciare, per la Rete, ad una parte delle risorse di ciascuno. Ciò che vale per le risorse vale per i poteri: se la rete ha un potere (di rappresentanza, di comunicazione, di distribuzione delle risorse tra obiettivi alternativi), in che modo i diversi segmenti concorrono alla formazione di questo potere? Ognuno vale per uno, oppure vanno riconosciuti pesi diversi? E i rapporti con i partiti e con le istituzioni: occorre cercare il confronto e praticare il conflitto, oppure accettarne anche la collaborazione? E a quali condizioni?

Queste sono alcune delle riflessioni che si sono sviluppate durante e dopo le due giornate dell’incontro dei comitati, associazioni e gruppi che si è svolto a Forte Marghera, tra Mestre e Venezia, e che proseguiranno in vista dell’approvazione di uno statuto: di un sistema di regole (possibilmente essenziali e chiare) che garantiscano la collaborazione in vista d’un impegno di lunga lena. Ci si potrà giovare di quello che forse è il risultato più significativo dell’incontro: il prodotto delle discussioni nei numerosi workshop, autoproposti e autogestiti da quanti hanno partecipato alla manifestazione. Da ciascuno di essi sono emerse non slo valutazioni critiche sui diversi aspetti trattati (dal problema della casa a quello dei poteri sul territorio, dall’economia solidale al pendolarismo, dalla privatizzazione dell’acqua alla strumentalizzazione dell’insicurezza, dalla precarietà del lavoro al trionfo della speculazione), ma anche indicazioni sulle cose da fare e le nuove iniziative da porre in cantiere. Non facendo leva unicamente sulle forze, generose ma gracili di Cantieri sociali – Estnord, ma coinvolgendo tutti i segmenti della rete. Forse un passo necessario è la definizione di un programma di lavoro su una molteplicità di temi, per ciascuno dei quali più gruppi collaborino assumendosene la responsabilità della gestione.

Alcuni temi, del resto, sono già indicati nella carta di principi approvata da tutti.

Lo spazio pubblico è un bene comune. Ma il concetto di “bene comune” è un concetto che è bene spiegare, come tutti quelli che indicano significati e realtà controcorrente.

Il “bene” è qualcosa che vale di per sé, per la sua identità, per l’uso che ne possono fare le persone. Un bene può essere un oggetto (una spiaggia o una terra, una casa o una statua, un pezzo di pane o l’acqua limpida che sgorga dalla sorgente), o un sentimento (l’amicizia, l’amore, il rispetto), o una relazione con qualcos’altro (la conoscenza, la partecipazione, la cura della salute). Può avere un valore venale (il pane lo devo pagare a chi lo fa, così la statua o il libro), ma è una condizione accessoria. Insomma, il bene non è una “merce”.

Qualcosa che è “comune” (un’altra parola che si tende a cancellare) appartiene a più persone: a una comunità, o a un’intera società (locale, nazionale, mondiale). Nessuno può appropriarsene individualisticamente; tutti devono poterne godere, rispettando le regole che consentono a tutti di farlo.

Sono beni comuni l’acqua e l’aria, sono beni comuni la storia dell’umanità e il suo futuro, sono beni comuni gli spazi pubblici.

Un ruolo rilevantissimo nella vita della città e del territorio (e di tutti gli uomini che formano la società, e della società nel suo insieme) hanno gli spazi pubblici. Devo precisare che cosa intendo quando parlo di spazi pubblici.

Gli spazi pubblici sono l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione; sono il luogo nel quale nella quale società e città s’incontrano, nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato.

Lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, ma permea l’intera concezione della città come bene comune: la città come spazio fisico (urbs), la città come casa della società (civitas), la città come governo (polis). Ma lo spazio pubblico è costituito anche da tutti quegli elementi della città e del territorio che sono finalizzati allo svolgimento di funnzioni che non ha senso, o non è possibile, svolgere individualmente: dalla scuola all’ospedale, dalla biblioteca al tribunale, dal campo sportivo alla palestra.

La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha avuto un suo momento significativo, in Italia, negli anni Sessanta del secolo scorso, nella conquista degli “standard urbanistici”. Vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze. Del resto, fin dfa quegli anni la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”. Oggi ci può proporre di allargare l’attenzione e l‘obiettivo dalla conquista (dalla difesa) delle attrezzature e dei servizi di prossimità (dal quartiere alla città) all’intera gamma di esigenze dell’uomo che vive su territori più ampi: la ricreazione psico-fisica nei grandi spazi naturali dei monti, delle colline e delle coste, il godimento dei grandi patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta.

Non è spazio pubblico solo l’insieme dei luoghi fisici. É spazio pubblico anche l’uso che si fa dei suoi elementi. Non a caso nella civiltà greca e in quella romana lo spazio pubblico fisico (l’agorà e il foro) erano i luoghi della politica. Lì si discuteva e si dibatteva, lì avevano voce tutti quelli cui le regole di quella democrazia dava il diritto di parlare e di dissentire, lì quelli che gestivano il potere avevano il dovere di confrontarsi con chi li criticava.

Ai giorni nostri non difende gli spazi pubblici solo chi difende il parco dall’invasione del cemento, la piazza dalla sua trasformazione in parcheggio, l’edificio pubblico dall’alienazione al privato. Difende lo spazio pubblico anche chi, come l’Onda che si sollevò impetuosa dal mondo della scuola, difende il principio della scuola aperta a tutti, finanziata con i soldi di tutti, e amministrata e gestita nell’interesse generale: appunto, difende il carattere pubblico della scuola. E difende lo spazio pubblico chi si oppone alla norme che, con l’alibi della sicurezza, vietano l’accesso agli spazi pubblici a determinate categorie di abitanti (cittadini o forestieri che siano), o addirittura, come è accaduto perfino nella civilissima Reggio Emilia in attuazione di una circolare del ministro Maroni, impediscono in talune piazze la riunione di più persone.

Oggi gli spazi pubblici sono attaccati su più fronti, da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.

Sono attaccati là dove esistono: dove si trasforma un’area destinata dalle norme sugli “standard urbanistici” , o dalle scelte di piani regolatori lungimiranti, a un’utilizzazione edilizia privata. Come a successo (un esempio tra mille) a Padova con le iniziative di cancellare con l’edilizia i “cunei verdi” dalla campagna al centro città, che erano stati disegnati dal piano di Luigi Piccinato.

Sono attaccati dalla mancanza di previsione di spazi pubblici nei nuovi quartieri e nelle periferie delle città, oppure quando si spacciano per spazi pubblici aree destinate al verde e a qualche servizio, ma posti di fatto al servizio diretto degli abitabti dei condomini circostanti. Uno spazio pubblico, per essere tale, deve essere aperto a tutti e da tutti deve essere sentito tale, non deve essere occluso da recinzioni reali o virtuali

Cancellare o indebolire gli spazi pubblici, negarne le caratteristiche fondamentali, significa cancellare o indebolire la città come intreccio di urbs, civitas, polis: di luogo fisico, di società di politica. Significa commettere un “urbicidio”.

Atti che vanno in questa direzione non sono solo quelli che ho finora ricordato. Lo è anche il tentativo, in corso ormai da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici la loro scimmiottatura: i “non luoghi” (gli ipermercati e gli outlet, gli aeroporti e le stazioni ferroviarie) caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini; la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.

L’attacco agli spazi pubblici hanno la sua matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E hanno la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.

A questi rischi occorre opporsi. E in mille luoghi d’Italia ci si oppone, con l’iniziativa di comitati, associazioni, gruppi di cittadini e di abitanti che si mobilitano a difesa del loro territorio, delle loro città, dei loro quartieri. Fra qualche giorno, il 12 settembre, a Padova, a conclusione della Scuola estiva di eddyburg si terrà un convegno nazionale organizzato da Cgil, eddyburg e Legambiente proprio su questi argomenti. Il tema è: “Spazio pubblico: declino, difesa, riconquista”.

(2 settembre 2009)

L’età del neoliberalismo è terminata

Una nuova epoca si è conclusa. Secondo i lettori più attenti del mondo in cui viviamo l’epoca del neoliberalismo è terminata. La crisi del sistema finanziario globale ha segnato la conclusione di una fase particolarmente virulenta del proteiforme capitalismo.

A partire dagli USA, ancora leader del mondo, “la fiducia su un mercato finanziario del valore di 20 volte il Prodotto interno lordo mondiale annuo (ossia vent'anni di economia reale) è crollata al primo sussurro che ‘il re è nudo!’, nonostante la retorica che accompagnava la possibilità di una sua crescita continua”[1]. Non è solo una crisi finanziaria, è il crollo di un modello economico-sociale che ha avvolto la stragrande maggioranza della popolazione della “civiltà atlantica” nella “insopportabile retorica celebrativa della libertà, intesa come diseguaglianza sociale fondata sulla santificazione della proprietà privata e dell'impresa”. Un modello culturale, prima che economico (e perciò preferisco la dizione di “neoliberale” anziché “neoliberista”).

Da questo modello gli urbanisti avrebbero potuto e dovuto prendere le distanze, a tempo debito, più che i portatori di altri saperi e mestieri. Quel modello ha infatti uno dei suoi feticci nel mercato e nelle sue magiche virtù auto-regolative. Gli urbanisti attenti alle radici e alle ragioni del loro mestiere avrebbero potuto e dovuto ricordare che esso nacque proprio per risolvere alcuni dei problemi che il mercato non era strutturalmente in grado di conoscere. Il fatto è che agli urbanisti (almeno nel nostro paese) è del tutto mancata la capacità di continuare a vedere la complessità delle condizioni che determinano la vita urbana, e quindi il terreno stesso del loro lavoro. A loro scusante occorre riconoscere che anche gli altri saperi hanno subito un consistente appiattimento. Ci sono ancora economisti che sappiano analizzare l’economia attuale senza ritenerla l’unica economia possibile? E giuristi che non si adagino nell’ermeneutica del diritto dato ridotto alla sua formale astrattezza? Eppure, anche vedere la città solo come un insieme di forme avrebbe dovuto ricordare agli urbanisti che non è il mero assemblaggio di oggetti che ha mai costituito gli spazi urbani, e che non esiste forma urbana che non sia anche forma di società.

Tant’è. Ancora oggi c’è chi si gingilla con le pratiche volte a “migliorare” la città, a renderla più “vivibile” (per chi?), più “sostenibile” (o “sopportabile”, e per chi e cosa?), affidandosi alle regole del mercato e alla loro saggia utilizzazione. Non è altro da questo, ad esempio, la “perequazione urbanistica”, grazie alla quale incrementando le rendite immobiliari (e quindi accrescendo le dimensioni dell’urbanizzazione) si ottengono i necessari vantaggi sociali (le elemosine di spazi illusoriamente utilizzabili per la collettività).

Che cos’è il mercato

Ma intendiamoci su che cosa sia il mercato. Se per mercato intendiamo il luogo fisico nel quale si scambiano i prodotti del lavoro dell’uomo, allora bisogna riconoscere che esso è una delle cause fondamentali della nascita della città e uno dei suoi luoghi eccellenti. Ed allora forse proprio riferendoci a questo mercato, al mercato come luogo dello scambio e dell’interazione tra i prodotti dell’uomo, e riflettendo su che coisa siano oggi i prodotti dell’attività umana che è opportuno e utile scambiare, è proprio a partire da qui che potremo sforzarci di riconoscere le regole necessarie per agevolare questo mercato, per configurare in funzione di esso la città di domani (a partire da quella di oggi).

La produzione dell’uomo ha sempre dato luogo a beni che appartenevano a diverse categorie. Beni finalizzati alla sussistenza, alle esigenze materiali della vita, e in gran parte costituiti da elementi appartenenti al mondo materiale. E beni finalizzati ad altre esigenze della vita: la conoscenza, i sentimenti, il godimento estetico. L’economia (capitalistica) si è formata in relazione alla prima categoria di beni. Ha inventato meccanismi tecnici, sociali, culturali (la loro importanza è in ordine inverso rispetto all’elencazione) capaci di aumentarne al massimo la produzione, fino a farla trascendere dal regno della necessità a quello dell’abbondanza, della ridondanza, dell’opulenza. Per farlo, ha dovuto ridurre in merce ogni realtà coinvolta nel processo produttivo. Ha dovuto alienare il lavoro: finalizzarlo ad altro da sé, trasformarlo, da strumento per la crescita dell’uomo a strumento per la crescita della quantità di merci.

Possiamo dire che la città ha preso forma, si è affermata in quanto tale nel percorso della civiltà assumendo come propri principi ordinatori i luoghi ordinati allo scambio dei beni: sia nella loro forma di merci (i prodotti orientati alla sussistenza) sia nella loro forma di beni (quelli della conoscenza, dei sentimenti, del godimento estetico).

La divinità imperscrutabile del neoliberalismo

Dobbiamo però, prima ancora di tentare qualsiasi operazione tendente a ricostituire a rivivere alcuni elementi di quel mercato (ossia di promuovere spazi dedicato all’ scambio di beni), sbarazzarci definitivamente d’ogni sudditanza all’altro mercato: quello delle merci del lavoro capitalistico (del lavoro alienato). Perché se invece per mercato intendiamo quella divinità imperscrutabile del neoliberalismo cui tutto è sottomesso, allora esso della città è la morte.

Riflettiamo sulle parole d’un economista vivo, cioè capace di ragionare in termini di utilità sociale (e non aziendale) dell’economia possibile; un economista, tra l’altro, che ha scritto parole lucide sul mestiere dell’urbanista e della sua pianificazione: Giorgio Ruffolo.

Secondo Ruffolo oggi viviamo “una nuova vulgata neoliberista [che] si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico”[2]. Abbandonando ogni senso critico e dimenticando la lezione liberista sui limiti del mercato, questo è insomma divenuto la misura non solo del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società.

Questa vulgata non è innocente. Dietro di essa si nasconde una pratica di classe che è stata acutamente indagata. Si tratta del neoliberalismo, che non è una forma ammodernata della vecchia concezione dell’economia e della società tipica della società borghese e della sua ideologia, ma qualcosa del tutto nuovo. Per dirla con uno dei suoi più acuti studiosi, David Harley “il neoliberalismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Esso è un progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Lo studioso americano apertamente sostiene che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e quindi come tale occorre trattarla[3].

È a questo scenario che occorre riferirsi quando si sente parlare oggi della necessità di “tener conto del mercato”. Dimenticare che la pianificazione urbanistica è una delle pratiche inventata (dalla società borghese) per risolvere problemi che lo spontaneismo del mercato era incapace di affrontare non è solo grave errore intellettuale. È anche subalternità a un disegno politico che è forse il rischio più grave che corre oggi la democrazia.

Che succede in Italia

Eppure, è quello che succede in Italia a proposito del territorio e del suo governo. Succede ovviamente a Milano, nelle modalità di “governo del territorio” esplicitamente subalterno alle scelte delle grandi società immobiliari, teorizzata da intellettuali provenienti dalla sinistra (Luigi Mazza, Stefano Moroni) e praticata dal ceto politico più omogeneo al neoliberismo. Succede in Toscana, dove l’autorevole ispiratore della politica del territorio della giunta di centrosinistra, Massimo Morisi, ha esplicitamente sostenuto che bisogna fare entrare a pieno titolo il mercato nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica, e che la pianificazione deve svolgersi su due “gambe”, tenendo conto delle finalità e delle regolazioni del pubblico e delle finalità e del dinamismo del mercato, poiché solo in tal modo si può garantire sviluppo, modernizzazione e capacità competitive. E succede nel Parlamento nazionale, dove si accetta pressoché unanimemente che le localizzazioni industriali possano avvenire (proposta di legge Capezzone e altri) senza alcuna di quelle verifiche di necessità, di adeguatezza e di coerenza territoriale che solo una corretta pianificazione del territorio può assicurare.

Verrebbe da dire che siamo alle frutta con il nostro Belpaese. Anche perché il “mercato” al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Non è quello della dinamica capitalista, ma è quello del parassitismo proprietario. Ed è un mercato il cui predominio sulla città produce (lo ha dimostrato la storia) segregazione di gruppi sociali, spreco di risorse comuni, disagio delle persone e delle famiglie, penalità al sistema produttivo e infine (tanto per adoperare un altro concetto divenuto idolo delle piazze) ulteriore motivo di “perdita di competitività” di un sistema già pesantemente degradato e inefficiente.

Le regole: quali? Come?

Liberarsi dell’illusione che il mercato possa riuscire a imprimere alla realtà della città e del territorio un ordine diverso da quello della trasformazione del cittadino in cliente, dell’uomo in consumatore di merci sempre più inutili, della persona umana a strumento cieco della produzione di merci opulente è il primo passo. E un passo necessario anche perché questo modo di orientare il processo economico restringe sempre di più l’area degli obesi e allarga sempre di più quella dei miserabili: mentre la bilancia della ricchezza pende sempre di più dalla parte del Nord mondo quella della moltitudine pende sempre più sul versante dei Sud del mondo.

Ma un secondo passo è necessario: quali regole sostituire al mercato? O più precisamente, come costruire un sistema di convenienze e penalità, di sollecitazioni e di divieti, di incentivi e di disincentivi che consentano di migliorare l’ambiente della vita dell’uomo? Anche qui, la premessa a ogni decisione tecnica è nell’assumere consapevolezza di alcuni principi, sulla cui base misurare l’adeguatezza o meno delle tecniche, dei metodi, degli strumenti, degli obiettivi specifici scelti. Naturalmente siamo in un campo in cui le opinioni possono essere molto differenti: tuttavia è necessario cimentarvisi, salvo poi a calibrare i principi in relazione a quelli proposti da altri[4].

Alcuni princìpi

In un mondo in cui concorrenza e competizione sono il modo in cui gli attori agiscono per trasformare la realtà, e in cui la vittoria la guadagna non chi ha più ragione ma chi ha più forza, occorre proporsi invece di difendere chi, oltre ad avere ragione, ha meno forza degli altri soggetti. Allora scendono subito in campo due realtà che posseggono entrambe queste caratteristiche: il territorio e i posteri.

La terra. Del territorio vorrei mettere in evidenza un primo elemento: il valore della terra non urbanizzata. Credo che la consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale debba costituire un principio essenziale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa fondamentale, oggi e domani. L’azione che compiono le forme elementari della fauna e della flora è decisiva. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale: a partire dall’oscuro lavorìo che fanno gli organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono porosa, permeabile, suscettibile di ospitare i germi della vita vegetale.

Certo, non è un principio che non abbia margini di negoziabilità, di calibratura rispetto ad altri principi anch’essi ragionevoli. Ci sono esigenze della società che possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quelle esigenze intanto hanno la stessa durata e necessità di quella di conservare la terra, e poi che non possono essere soddisfatte altrimenti.

Non è solo le terra come mera naturalità il bene che deve essere prioritariamente protetto: è anche il territorio in quanto deposito di ricchezze che il plurimillenario lavoro dell’uomo ha prodotto e che è un patrimonio per l’intera umanità. E non credo di dover argomentare sulla rivista di questo Dipartimento universitario questioni e definizioni per le quali proprio da qui sono nate riflessioni e azioni che sono entrate nel bagaglio culturale di tutti. Il territorio come natura, il patrimonio come patrimonio: questo è il primo soggetto che va difeso. C’è un altro soggetto, altrettanto rilevante, tanto ce l’elencazione avrebbe potuto cominciare da lui: è l’umanità, e in primo luogo la sua componente più debole perché solo virtuale: i posteri.

Non credo di dovermi dilungare sull’argomentazione della necessità di questo soggetto, e del principio della sua difesa. Del resto, la parte sana del dibattito sulla sostenibilità costituisce proprio la rivendicazione della necessità di salvaguardare patrimoni e risorse per le “generazioni future”; almeno fino a quando il termine “sostenibilità” non è stato assimilato a “sopportabilità”, da assoluto è diventato relativo e ha cominciato a essere non contrapposto, ma mediato con termini alternativi e sopraffattori, come sviluppo economico (di questa economia)

L’uomo. Nel campo dell’uomo, oltre al principio della tutela degli interessi dei posteri che n’è un altro che merita grande attenzione, poiché è anch’esso in gran parte sopraffatto: l’equità tra gli uomini. Un’analisi critica dell’impiego concreto di termini correnti nelle pratiche urbanistiche rivela che a questo proposito di commettono grandi e nefaste mistificazioni. Di continuo vengono proposti obiettivi apparentemente condivisibili da tutti, quali vivibilità, riqualificazione, rigenerazione. Come si fa a non ritenere unanimemente condivisibile l’obiettivo di rendere più vivibile una quartiere o una città, di aggiungergli qualità, di rigenerarne il funzionamento e l’aspetto? Eppure basterebbe porsi la domanda chiave per chi persegue l’obiettivo dell’equità: per chi? Per quali soggetti sono concretamente predisposte, finanziate e attuate quelle operazioni mirate a raggiungere vivibilità e sostenibilità attraverso la riqualificazione e rigenerazione della città? E allora si scoprirebbe che quei termini così gradevoli e accattivanti, in realtà servono a costruire quartieri e città dai quali i deboli, i privi di redditi sufficienti, e via via fasce più estese degli abitanti, vengono esclusi, allontanati, sfrattati.

La società. La storia ha cambiato il rapporto tra la terra e l’uomo. Oggi si sa che il rapporto tra uomo e terra (e territorio) non più essere gestito dal singolo abitante della terra: il partner di ciò che c’è nel territorio è la società. È alla società che spetta quel complesso di attività che si chiama governo del territorio. Attraverso quali strumenti? Attraverso quali istituzioni?

Storia e ragione hanno concorso a dimostrare che, essendo il territorio un sistema, il governo del territorio deve essere anch’esso sistemico. Il territorio pretende metodi di governo per i quali il tutto sia più importante delle sue parti. Ecco perché lo strumento principe è la pianificazione: la pianificazione vera, quella che interpreta, valuta, decide tenendo conto dell’insieme dei problemi e degli interessi; non quella che insegue gli eeventi e decide pezzo oper pezzo. E se gli interessi sono in conflitto tra loro? Ciò è inevitabile in una società divisa, quale è quella che storicamente conosciamo. Ecco allora la grande parola: democrazia. Parola ambigua, utilizzata per coprire modi molto diversi di assicurare il rapporto tra amministratori e amministrati. Forse una parola che esprime una tensione, rispetto alla quale le istituzioni sono sempre inadeguate a esprimere compiutamente.

Pianificazione democratica, insieme a consapevolezza del valore della terra e ricerca dell’equitàsociale, sono quindi tre principi fondamentali da assumere.

Elementi di metodo

Questi non sono ovviamente tutti i principi basilari sulla cui base tentar di individuare quali regole possano guidare, al posto della cecità interessata del mercato, ma sono sufficienti a delineare alcuni primi elementi. Li elenco rapidamente.

La pianificazione del territorio consiste, in ultima analisi, nel costruire un bilancio tra la domanda di trasformazione di spazio e l’offerta di spazio trasformabile. Credo che si debba continuamente tener presente questa caratteristica della pianificazione. Analizziamone brevemente i termini.

Domanda. Le esigenze della società provocano la necessità di trasformazioni del territorio: per realizzare abitazioni, fabbriche, attrezzature, infrastrutture e cos+ via ho bisogno di intervenire su singole componenti dello spazio e di operare in esse trasformazioni orientate alle nuove utilizzazioni. La prima domanda è da porsi è la seguente: quali trasformazioni sono socialmente necessarie, cioè sono motivate dall’esigenza di migliorare la condizione della società sul territorio? Una cosa è, per esmpio, migliorare l’accessibilità all’istruzione o dotare di unì’abitazione conveniente chi ne ha bisogno, altra cosa è l’esigenza di migliorare il valore d’una determinata proprietà o di un determinato comparto della produzione di merci. La valutazione della domanda di trasformazione è parte del primo passo di una pianificazione corretta: ad esso alludeva la pratica, quasi totalmente abbandonata, di basare le scelte della pianificazione su un rigoroso e trasparente calcolo dei fabbisogni..

Offerta. Il territorio, nel suo insieme (sistema) e nelle parti che lo compongono, presenta diverse esigenze di conservazione. Anche la valutazione delle diverse esigenze di conservazione (e, corrispettivamente, delle diverse possibilità di trasformazione) costituisce l’altra parte del primo passo d’una pianificazione corretta. È perciò prioritaria una lettura attenta, rigorosa, completa, libera da qualsiasi preconcetto che non sia quelli di individuare le caratteristiche proprie del territorio, che ne determinano la qualità e il valore sociale per l’umanità nel suo complesso. Una lettura prioritaria rispetto a qualsiasi altra considerazione o valutazione riferita specificamente al territorio. E altrettanto prioritarie devono essere, a mio parere, le concrete decisioni che ne derivano.

Cominciammo a ragionare su questa tesi quando, con alcuni colleghi, lavorammo da una parte al nuovo piano della città storica di Venezia e, dall’altra parte, all’attuazione della “legge Galasso”, in particolare per il piano paesaggistico dell’Emilia-Romagna. Fu allora, tra il 1980 e il 1985, che cominciammo a valutare e sperimentare la possibilità di ogni atto di pianificazione. Una prima componente, che definivamo “strutturale”, abbastanza rigida e ferma nelle sue determinazioni, costruita con un iter “lento” che coinvolgesse la responsabilità di diversi attori espressivi degli interessi generali, doveva avere tra i suoi contenuti essenziali proprio quello di definire le regole che l’esigenza di tutelare l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio pongono a qualunque trasformazione. Una seconda componente, che definivamo “programmatica”, avrebbe dovuto decidere - nell’ambito e nel rispetto delle regole stabilite dalla componente strutturale – quali delle trasformazioni ammesse fosse da praticare nel breve periodo in relazione alle esigenze sociali, alle opportunità economiche, alle scelte politiche dell’amministrazione.

Il racconto del modo in cui eravamo approdati a questa proposta, e qualche cenno sul modo limitato, deformato, pasticciato fino alla perversione con cui quel metodo è stato applicato è stato più ampiamente descritto in un ampio contributo pubblicato in una pubblicazione del Centro Osvaldo Piacentini[5].

Due condizioni

Riferirsi a principi e a metodi per individuare le regole necessarie a fare ciò che il mercato non sa e non può fare è certamente necessario. Ma è bene aver presenti anche alcune condizioni che sarebbero necessarie perché le regole abbiano efficacia, e che invece nella nostra società sono presenti solo limitatamente. Vi accennerò soltanto, perché trattarle con una certa sufficienza richiederebbe spazi e tempi di maggiore ampiezza.

La prima condizione cui mi riferisco è la piena disponibilità, da parte della collettività, del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà.

Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deveo stabilire che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, non appartiene al proprietario ma alla collettività.

Questa premessa era molto viva nella consapevolezza della cultutra e della politica dei veri liberali e della sinistra, qualche decennio fa: ora sembra scomparsa: la rendita, anzichè una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.

La seconda condizione, per fortuna meglio raggiunta in molte situazioni, è la presenza, nelle amministrazioni pubbliche, di uffici affidati a persone capaci, motivate, autorevoli, capaci di esprimere al meglio una seria e rigorosa cultura della pianificazione pubblica. Chi mi aiutato a rafforzare questa convinzione è stato un mio maestro amatissimo, ben noto nell’ambito(nel contesto) dal quale questa rivista nasce: Edoardo Detti, Daddo. Uno dei miei vanti è che non ci sia, in nessuna città o provincia d’Italia, un piano che venga definito “piano Salzano”. Fin dalle prime esperienze professionali ho sempre preteso, per collaborare con un’amministrazione, che vi fosse, o che fosse rapidamente costituito, un ufficio adibito alla pianificazione.

Perché questa non si esaurisce nel disegno, e neppure nell’adozione e nell’approvazione di un documento tecnico, di un “piano”. Essa è un’attività continua e sistematica, è il metodo permanente di lavoro dell’amministrazione pubblica. Non può essere tale se non è basata su un ufficio che sia, appunto, capace, motivato, autorevole, che sappia collaborare con intelligenza e rigore culturale e professionale con i politici. Nella speranza che questi comprendano il ruolo della pianificazione, l’ampiezza del suo respiro, la responsabilità che comporta. Sarebbe molto utile, quindi, che gli urbanisti pubblici abbiano anche, tra le loro capacità, quella di essere buoni maestri per i loro amministratori.

[1] Ugo Mattei, “Beni a perdere”, il manifesto, 2 dcembre 2008

[2] Giorgio Ruffolo, “La società non può essere sacrificata al dio mercato”, la Repubblica, 14 agosto 2001

[3]David Harvey, Breve storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, 2007.

[4] Per la distinzione tra “valoori” e “principi” si veda Gustavo Zagrebelsky, "Valori e conflitti della politica", la Repubblica, 22 febbraio 2008

[5] E. Salzano, “L’articolazione dei piani urbanistici in due componenti: come la volevamo, come è diventata, come sarebbe utile”, Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentini, n.11-12, anno 10, aprile 2008, tomo 2.

Un piano urbanistico o territoriali deve essere un piano: deve essere uno strumento che esprime le scelte sul territorio di una determinata istituzione, in termini tali che esse siano comprensibili ed efficaci: che cioè siano chiare per tutti i soggetti coinvolti, e che inducano effettivamente le trasformazioni proposte. Altrimenti un piano è un insieme di chiacchiere.

Il primo aspetto critico del Ptrc è proprio questo: è un insieme di scritti spesso condivisibili, ma è del tutto inefficace proprio là dove le analisi sono più corrette, gli obiettivi più giusti, gli auspici più condivisibili. Là dove, ad esempio, si argomentano la necessità di interrompere il consumo di suolo, di tutelare il paesaggio e l’agricoltura, di assumere come obiettivi a qualità e non alle quantità.

Chi non si accontenta dell’apparenza e cerca la sostanza e va a questa (al fascicolo delle Norme tecniche d’attuazione) scopre il piano è una truffa. Nessuna delle affermazioni condivisibili verrà tradotta in pratica: comuni e province, che sono i principali esecutori del piano, sono lasciati liberi di seguire i suggerimenti, oppure di fare esattamente il contrario. Una sola cosa è chiara: guai a intralciare in alcun modo l’attività edilizia; se questa entra in contrasto con altre finalità, destinazioni, progetti, questi devono cedere il passo.

Le uniche cose efficaci del Ptrc sono quelle che la Giunta regionale riserva a se stessa: la infrastrutture per la viabilità (quelle che più se ne fanno, più aumenta il traffico e più ce ne vogliono), gli approdi turistici, le “cittadelle aeroportuali”, i nuovi insediamenti previsti lungo la grande viabilità e soprattutto ai nodi del sistema autostradale. Attorno a questi, aree di due chilometri di raggio sono sottratte alla potestà della pianificazione comunale. Lì si concentreranno nuovi grandi interventi terziari (per il commercio, gli uffici, la ricettività turistica, la ricreazione) contribuendo all’ulteriore svuotamento dei centri urbani esistenti dalle attività che ne assicurano la vitalità. In compenso a questa sottrazione di potere si lasciano le mani libere ai comuni di lasciar costruire praticamente dappertutto. Contravvenendo alla legge, la regione ha rinunciato ad applicare le norme del Codice del paesaggio, quindi a proteggere la più nobile delle risorse regionali. Ma è stata tra le prime ad applicare il “piano casa” di Berlusconi, che affida la soluzione di un problema drammatico per i senza casa all’arricchimento di chi la casa l’ha già.

Sotto le brillanti apparenze (luccicanti specchietti per le allodole) il Ptrc rivela la strategia territoriale ed economica dell’attuale maggioranza regionale: puntare tutto sulla crescita della rendita immobiliare. Quella dei grandi investitori, gestita dalla giunta regionale, e quella piccola e piccolissima, affidata al bricolage degli interessi polverizzati sul territorio, lasciata ai comuni. Il pensiero liberale e l’economia classica avevano compreso che lasciare le briglie sciolte alla rendita significa privilegiare gli impieghi parassitari del reddito: quelli che, a differenza del salario e del profitto, aumentano le ricchezze personali senza alcuna ricaduta d’interesse generale. E in più, come comprendiamo oggi, significa distruggere il paesaggio, la natura, la bellezza, che costituiscono la nostra vera risorsa.

I punti della critica cui ho qui accennato sono sviluppati in un corposo documento che, a nome di oltre un centinaio di associazioni, comitati e gruppi di cittadini attivi abbiamo consegnato alla regione (è accessibile qui: http://eddyburg.it). Il risultato di questo lavoro è che siamo riusciti a discutere delle proposte della regione in decine e decine di incontri, e a far crescere la consapevolezza che un Veneto diverso da quello proposto dal Ptrc è necessario e possibile.

La buona cultura urbanistica italiana dell’ultimo mezzo secolo ha sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio. Prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne. Elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.

I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare Edoardo Detti (al cui insegnamento Sandro Roggio qui accanto rinvia) e alla sua difesa delle colline di Firenze. Ricordare, scavalcando l’Appennino, la difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti. Ricordare il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo. E, per restare vicini a Castelfalfi, ricordare l’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.

La buona cultura urbanistica ha compreso che non solo le forme, ma anche le comunità devono essere tutelate. L’azione di tutela non è mera conservazione, ma amorevole accompagnamento e guida delle dinamiche della vita che consenta il prolungamento nel tempo delle regole, gli equilibri, i connotati (le “invarianti strutturali”) che la qualità di quei paesaggi, urbani e rurali, hanno costruito e mantenuto fino a oggi. Non solo le forme vanno tutelate, ma il loro rapporto con gli uomini: con le società che quei luoghi hanno abitato e spesso ancora abitano, li hanno costruiti e mantenuti per secoli e ancora possono essere aiutati a farlo.

Una società che cambia, ovviamente, negli individui che la compongono, negli obiettivi che la muovono, nei valori che la alimentano. Ma la saggezza ispirata da quei paesaggi storici e dalla loro storia sollecita a conservare, nelle trasformazioni, la fedeltà ai principi basilari e alle regole di fondo che hanno presieduto alla loro costruzione e consentito la loro durata. Così, le diverse funzioni che coabitano nelle città e nei paesi storici possono cambiare, ma deve essere conservata la mescolanza di ceti e mestieri, l’equilibrio tra residenti e forestieri e tra quotidianità ed eccezionalità e lo stretto rapporto tra la forma e le attività che caratterizzano il costruito e quelle che caratterizzano e disegnano il non costruito, il rurale.

Nulla di tutto questo è riconoscibile dei progetti proposti per Castelfalfi. Dove una volta il costruito prendeva risorse dal non costruito per accrescere il proprio benessere e restituiva forma del territorio agrario, paesaggio, domani dominerà esclusiva la monocultura turistica, la quale tutto prende al paesaggio senza nulla restituire. Gli stessi soldi prodotti dallo sfruttamento del territorio tornano alle multinazionali che lo sfruttamento hanno organizzato.

Una bella confezione

che racchiude un uovo vuoto

Nel mondo dominato dal consumismo siamo abituati a vedere (e siamo spesso obbligati a comprare) confezioni che avvolgono oggetti che magari sono di scarsissima utilità, o di utilità discutibile, o addirittura del tutto inutili. Si tratta di confezioni che ingannano il consumatore ingenuo e lo spingono a comprare gli oggetti solo perchè sono avvolti nelle affascinanti, ricche, lussuose confezioni, che non servono a nulla se non ad alimentare il business dei rifiuti.

Così sembra, a un primo esame, il PTCR approvato dalla Giunta Galan. Una serie nutrita, ricca, spesso intelligente di analisi, descrizioni, quadri conoscitivi, ragionamenti, perorazioni, delineazione di obiettivi e strategia, espressioni di volontà, che avvolgono un prodotto (le norme tecniche d’attuazione) del tutto inconsistente.

Ma se proviamo a leggere le norme, accanto alla loro inconsistenza formale scopriamo che esse rivelano l’ideologia e la strategia della regione, e quindi preannunciano le scelte di merito che, in modo del tutto discrezionale, la regione compirà nel concreto.

Il prologo: rivela e ribadisce

le intenzioni

Il prologo delle norme tecniche d’attuazione, parole prive di efficacia precettiva, già rivela comunque una cosa interessante. Si parla dei “vincoli giuridici gravanti sul territorio veneto”. La questione dei “vincoli” meriterebbe un ragionamento serio: rinvio al breve articolo che ho scritto in proposito per numero 15 di Carta: in due parole, chi demonizza i “vincoli” ritiene che l’unica utilizzazione ragionevole del territorio sia quella edilizia.

La Giunta dichiara che provvederà successivamente (non si sa quando) ad applicare l’unico strumento legislativo che richieda di porre vincoli di tutela del paesaggio, l’ambiente, i beni culturali: il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Rinuncia cioè all’unico strumento che potrebbe dare efficacia al piano e a tradurre le intenzioni proclamate in fatti. Non solo, ma promette che, disattendendo al suo dovere (come proclama l’articolo 9 della Costituzione e reiterate sentenze della Corte costituzionale) non aggiungerà vincoli di livello regionale a quelli già prescritti a livello statale.

La giunta afferma esplicitamente che il piano non è efficace. Sempre nel Prologo alle norme, quando definisce “Il PTRC di seconda generazione”, dichiara che è un piano “di idee e scelte, piuttosto che di regole, un piano di strategie e progetti, piuttosto che di prescrizioni”. Le norme stabiliscono più avanti che “le strategie e i progetti” li fa la Regione, scavalcando le autonomie degli enti locali.

Il prologo ritorna ancora sull’argomento, e precisa che “il PTRC persegue gli obiettivi non mediante prescrizioni imposte ai cittadini e limitative dei loro diritti”. Di quali diritti si preoccupa il piano è chiaro, i diritti dei proprietari immobiliari, quelli che sono interessati allo “sviluppo del territorio”, senza fastidiosi “vincoli”.

Progetti strategici

La questione del potere emerge fin dai primissimo articoli. L’articolo 5 contiene la ricca polpa del Ptrc: i “progetti strategici”. Questi sono strumenti che sottraggono la potestà delle scelte agli istituti rappresentativi della democrazia: decide la regione, e al tavolo dei decisori l’unico che partecipa in rappresentanza del comune è il sindaco. Il Consiglio, comunale o provinciale, non conta più nulla. Guardiamo alcuni dei “progetti strategici” (ma la Regione si autorizza a inserirne altri): l’attività diportistica (se vuole, ne progetta quanti ne vuole e li pianifica in barba al comune); l’ambito portuale veneziano; la neonate “cittadelle aeroportuali” (accanto agli aeroporti può autorizzare i comuni a “introdurre forme di valorizzazione delle aree sottoposte a vincolo […] attraverso misure di perequazione e compensazione che interessano aree contigue”, cioè regali di cubature); le aree circostanti le stazioni ferroviarie della rete metropolitana regionale e i caselli autostradali; quelli che il piano definisce “hub principali della logistica” (Verona Quadrante Europa, un analogo sistema policentrico tra Padova, Venezia e Treviso), e una serie di altri “terminal intermodali”. Ciascuno, ovviamente, col suo contorno di cemento, mattoni, asfalto, e soprattutto affari.

Campagna edilizia

La valorizzazione del territorio agricolo e dei paesaggi rurali sono proclamati a ogni pie’ sospinto nelle chiacchiere. Nel merito, tutto il territorio rurale è suddiviso in quattro tipi di aree: agricoltura periurbana, agropolitane in pianura, ad elevata utilizzazione agricola, ad agricoltura mista a naturalità diffusa. Pensate che, per contrastare il consumo di suolo e difendere naturalità e agricoltura, da tali aree sia esclusa l’urbanizzazione? Tutt’altro. Nelle prime e nelle seconde bisogna “localizzare prioritariamente lo sviluppo insediativo”, in quelle ad agricoltura periurbana bisogna “garantire l’esercizio non conflittuale delle attività agricole rispetto alla residenzialità”, in quelle “agropolitane” bisogna addirittura “garantire lo sviluppo urbanistico attraverso l’esercizio non conflittuale della attività agricole”. E nelle stesse aree ad elevata utilizzazione agricola bisogna “limitare”, non vietare, “la penetrazione in tali aree di attività in contrasto con l’obiettivo della conservazione delle attività agricole e del paesaggio rurale”

Le norme, insomma, non solo non forniscono cartografie definite, criteri certi, limiti, indici, parametri oggettivi, metodi per salvaguardare le risorse naturali, ma addirittura sollecitano a non creare conflitti alla tranquilla crescita dell’edilizia nelle residue zone rurali del Veneto.

La continua preoccupazione di tutelare la possibilità dei proprietari di edificare sul loro terreno traspare in ogni norma. Perfino nel definire la rete ecologica, per la quale il piano non dà nessuna prescrizione tassativa, l’unica preoccupazione è nella direzione dell’edificabilità: bisogna ispirarsi “al principio dell’equilibrio tra la finalità ambientale e lo sviluppo economico” e bisogna evitare “per quanto possibile la compressione del diritto di iniziativa privata”!

Capannoni e grattacieli industriali dappertutto

Per il sistema produttivo il piano definisce una gran quantità di tipologie territoriali, con una fantasia eccezionale. Vi sono i “territori urbani complessi”, i “territori geograficamente strutturati”, quelli che sono invece “strutturalmente conformati”, e poi le “piattaforme produttive complesse regionali”, le “aree produttive con tipologia prevalentemente commerciali”, nonché le “strade mercato”. Ma accanto a queste, che sembrano occupare,nell’indeterminatezza della cartografia, quasi tutto il territorio di pianura e di collina, il piano individua le “eccellenze produttive”, che attraversano orizzontalmente tutte le aree predette e che “la Regione valorizza mediante appositi interventi e progetti che ne assicurino lo sviluppo”.

In tutte queste aree (che non sono né perimetrate nelle cartografie né caratterizzate da regole definite) bisogna “contrastare il fenomeno della dispersione insediativa” individuando “linee di espansione delle aree produttive”, definendo “modalità di densificazione edificatoria sia in altezza che in accorpamento”.

Molto simili sono le indicazioni del piano per le aree urbane. Dietro il titolo accattivante “Città, motore del futuro” si rivela la medesima strategia. Nessun vincolo allo sprawl, al consumo di suolo, alla continua espansione disordinata e frammentata della città sul territorio rurale: guai a porre “vincoli”! In aggiunta alla prosecuzione e all’intensificazione dello “svillettamento” (del resto ulteriormente stimolato dalla recentissima legge perr lo sviluppo dell’edilizia), si sospingono comuni, province, costruttori, proprietari a densificare le aree urbane esistenti, compattare, riempire, annaffiare il terreno di mattoni, cemento e asfalto per far crescere grattacieli.

Nelle relazioni si fornisce la giustificazione: c’è un drammatico problema della casa, un grande fabbisogno insoddisfatto di abitazioni. Ma si trascura il fatto che chi ha bisogno di un alloggio è il giovane o l’immigrato, il quale non ha le risorse per accede a un mercato caratterizzato da prezzi sempre più alti: un mercato nel quale, come spiegano gli economisti seri, l’accrescimento delle costruzioni non porta a una riduzione e dei costi, ma anzi ad un loro aumento.

La strategia

La strategia della Giunta del Veneto è ben descritta in un documento preliminare al piano: quello scritto da Paolo Feltrin, esperto di politiche amministrative, dedicato a “La seconda modernità veneta e il territorio”. Sembra la relazione di un urbanista, e trova preciso riscontro nelle scelte contenute nella normativa.

L’analisi della situazione territoriale del Veneto è precisa, nella sua efficace sinteticità. Tutti i fenomeni più rilevanti sono descritti: dalla prevalenza dei modelli abitativi unifamiliari e sparpagliati (lo “svillettamento”, lo sprawl), l’inefficienza del sistema della mobilità (addebitato all’insufficienza della rete stradale), il ruolo assunto dai caselli autostradali (sempre più caratterizzati dalla presenza di strutture del terziario) la desertificazione della rete dei centri storici (giustamente addebitata all’alto livello dei canoni di locazione e alla concorrenza delle nuove strutture commerciali). Il fatto è che questi elementi, che vanno letti tutti come elementi di crisi da correggere o rimuovere, vengono visti come dati ineliminabili, segni di vitalità di un sistema che deve essere assecondato (e razionalizzato) nel suo trend.

Su questa linea, peraltro condivisa da una parte della cultura urbanistica italiana, si arriva ad affermazioni francamente aberranti. Come quando si afferma che c’è ancora tanta campagna nel Veneto sicche il consumo di suolo non è un problema reale, poiché la percentuale di terreno rurale è di molto superiore a quella delle terre coltivate (come se l’attività economica del settore primario fosse l’unica ragione della salvaguardia del suolo dall’urbanizzazione). O quando si afferma che si devono assumere decisamente i caselli autostradali come le nuove polarità da incentivare. ribadisce così, per un verso (la prosecuzione dello svillettamento) e per l’altro (l’enfatizzazione delle autostrade), il cancro della tendenziale esclusività della motorizzazione individuale.

Che fare

Per concludere: il Ptrc non ha nessuna capacità regolativa, non esercita nessuna tutela di ciò che va tutelato, non fa nessuna scelta nelle infinite trasformazioni che si possono compiere sul territorio. Ciò significa che, da un lato, esso costituisce il quadro più favorevole per l’ulteriore scatenamento degli “spiriti animali” di quel capitalismo italiano intriso di rendita ben più che di profitto, volto all’appropriazione parassitaria delle risorse ben più che dal loro impiego nell’innovazione e in uno sviluppo socialmente, o anche solo economicamente, paragonabile a quello di altri paesi europei. Ed è, dall’alto lato, un quadro nel quale la massima discrezionalità e capacità autonoma d’intervento è lasciata ai poteri forti, in primo luogo a quelli della regione (della sua giunta), che comunque governa i rubinetti della spesa diretta e indiretta.

Ma è anche un insieme di elementi nel quale vi sono due aspetti da cogliere positivamente. In primo luogo, c’è una messe di documenti analitici che forniscono un quadro oggettivo della situazione reale del territorio, in tutte le sue componenti essenziali. A quel patrimonio informativo possono attingere quanti vogliano proporsi di promuovere una strategia diversa, e alternativa a quella della maggioranza regional. Ma in secondo luogo, c’è la delineazione d’una strategia di potere che stimola (che deve stimolare) a coglierne le contraddizioni per costruirne un’altra, alternativa e diversamente capace di guadagnare consensi per contrastare così la strategia, l’ideologia e il gioco di potere espressi nel Ptrc.

Il complesso dei documenti approvato salla Giunta è visibile nel sito della Regione Venbeto. Ciò che dicono in pubblico gli uomini della Giunta è leggibile qui.

Ciò di cui stanno discutendo governo e regioni ha pochissimo a che fare col tema. La questione della casa è del tutto marginale. É un pretesto che Berlusconi ha scelto per rilanciare l’attività economica responsabile della distruzione del territorio fin dagli anni del dopoguerra: l’edilizia senza freni né vincoli. Non è certo consentendo ai proprietari di case e capannoni di ampliare i volumi di cui già dispongono che si ottengono alloggi a prezzi accessibili alle persone che costituiscono oggi la domanda inevasa di case. Questa domanda è costituita dagli immigrati, richiamati dalla richiesta di forza lavoro, dalle nuove famiglie, dai lavoratori precari, da quanti hanno trovato un lavoro distante dal luogo dove lavorano. Si tratta di una domanda, prevalentemente di alloggi in affitto, che l’attuale mercato della casa non può soddisfare: altrimenti, non sarebbe così consistente il numero delle case vuote, in attesa di compratore. Non è certo l’incremento dei volumi esistenti la risposta.

Si parla anche di edilizia sociale realizzata dai costruttori e data in affitto per un certo numero di anni a prezzi contenuti. Ma a quali condizioni? Spesso si tratta di aree destinate alla formazione di spazi pubblici, nelle quali si lascia che i proprietari costruiscano residenze impegnandosi a darle in affitto per qualche anno, oppure di aree agricole nelle quali il comune concede ai proprietari un’opportuna variante urbanistica. Così, dopo qualche anno il proprietario avrà avuto in regalo un’area divenuta edificabile. Intanto, la città cresce a dismisura, e quella esistente si intensifica e appesantisce.

Quello scelto da Berlusconi è certamente un modo per aumentare la quantità di volumi edificati, e quindi il carico urbanistico: la necessità di strade, fogne, altre infrastrutture, servizi scolastici e sanitari, spazi pubblici. Tutti beni che diventano più scarsi via via che gli standard urbanistici sono dimenticati o cancellati, e che le risorse che dovevano servire per realizzarli (gli oneri di urbanizzazione e di concessione) vengono dirottati ad altri fini. Ed è un modo per ottenere un risultato che sta profondamente a cuore agli attuali reggitori della cosa pubblica: liberarsi di quelle insopportabili pastoie costituite dalle regole della pianificazione urbanistica, territoriale e paesaggistica. Liberarsi dalle regole tese a risparmiare la terra dove non è necessario invaderla con la repellente crosta di cemento e asfalto che sempre più cancella i nostri patrimoni.

Marco Boschini e Michele Dotti, L’anticasta. L’Italia che funziona, EMI 2009. Con interventi di : Jacopo Fo, Maurizio Pallante, Alex Zanotelli, Franca Rame, Francesco Comotto, Chiara Sasso, Gianluca Finiguerra, Alessio Ciacci, Andrea Segrè, Luca Falasconi, Ezio Orzes, Rossano Ercolini, Ignazio Garau. Il libro può essere ordinato a Commercio equo

Che si fa per evitare che il territorio venga devastato, cementificato, impermeabilizzato, distrutto nelle sue qualità, invaso da rifiuti d’ogni genere, trasformato da risorsa a rischio per la vita degli uomini, negato nella sua natura di patrimonio comune e ridotto a merce, materia bruta di arricchimenti individuali? In Italia, oggi, poco o nulla.

Pochi decenni fa era diverso, almeno in vaste parti della penisola, in regioni che erano modelli cui tentar di adeguarsi. Ma non serve guardare all’indietro, salvo per imparare che un altro modo di trattare il territorio è possibile: e se lo è stato, può tornare a esserlo. Non serve la nostalgia, serve guardare avanti, e in primo luogo comprendere.

Come sempre nei periodi cupi bisogna cominciare dalle idee: sono le idee che guidano i fatti, e sono le parole che esprimono le idee. Quindi sforziamoci di ragionare su alcune parole del territorio. Poi cercheremo di comprendere che cosa si più fare.

Le ideologie

Intanto sgombriamo il campo da un equivoco. Non è vero che le ideologie siano scomparse. Chi lo sostiene e non è ignorante lo fa strumentalmente: per nascondere il fatto che c’è un’ideologia dominante, che condiziona i nostri pensieri e i nostri atti. Se ce ne accorgessimo, ci comporteremmo diversamente, perché i nostri pensierideterminano le nostre azioni.

Se non pensassimo che l’affermazione individuale è il valore primario e la premessa necessaria della felicità riscopriremmo la felicità dello stare insieme, del lavorare insieme per un comune destino. Se non pensassimo che la civiltà “occidentale” è la migliore dell’universo ci interesserebbe comprendere gli altri, visitare le altre culture con rispetto – e così riusciremmo a comunicare anche la nostra senza sopraffazione. Se non pensassimo che sviluppo significa aumentare la quantità di merci (e quindi di ricchezze materiali) prodotte, scopriremmo che sviluppo può significare invece crescita della capacità di comprenderci, di conoscerci, di amarci, di esplorare nuovi mondi della geografia e della storia, del pianeta e dello spirito, di contribuire allo sviluppo di tutti.

E magari comprenderemmo che, anziché disporre di una casa in proprietà (una per noi, e una per ciascuno dei nostri figli) sarebbe meglio se ci fosse un’ampia disponibilità di case in affitto, di buona qualità edilizia e urbanistica, alla portata dei redditi di ciascuno, nei luoghi dove sono necessarie. Scopriremmo che anziché avere in casa una lavatrice e un asciugatoio, e il piccolo scoperto privato con le panche e il barbecue, e lo stenditoio sul terrazzino di casa, sarebbe più conveniente poter disporre di queste utilità, efficienti e funzionanti, negli spazi comuni del complesso in cui abitiamo, come succede nei paesi più civili del nostro da mezzo secolo a questa parte. Comprenderemmo anche che in Italia ottenere queste cose significa combattere battaglie difficili, sconfiggere nemici potenti, e che quindi abbiamo bisogno di costruire subito le solidarietà necessarie per diventare più forti e più convincenti degli altri.

Il primo passo da compiere per vivere meglio sul territorio (e nella società) è allora comprendere qual’è l’ideologia dominante, saperla criticare in ogni aspetto della nostra vita, saper individuare le sue radici, e collaborare con chi – come noi – si sforza di costruire una “contro-ideologia”. Una ideologia, un insieme di principi, di priorità, di regole, di speranze, alternative rispetto a quelle che ci condizionano (e ci opprimono).

La terra

Chiamiamo terra il territorio vergine, dominato dalla natura. Dobbiamo avere consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa compiono le forme elementari della fauna e della flora. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale. A partire dall’oscuro lavorìo che compiono i vermi e gli altri organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono la terra porosa, permeabile, suscettibile di ospitare e nutrire i germi della vita vegetale.

Le esigenze della società possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non può essere soddisfatta altrimenti. E bisogna sentire comunque questa scelta come una perdita, che è stato necessario subire ma che ci si deve proporre di risarcire, restituendo alla natura qualche altro frammento del pianeta che non è più necessario all’urbanizzazione.

Il territorio

Il territorio è qualcosa di più che la terra. Il territorio è il prodotto della storia (del lavoro e della cultura degli uomini) e della terra (della natura e del suo oscuro lavorìo). Le civiltà umane hanno aggiunto qualità alla natura: non sempre, e non tutte. A volte, per accrescere la qualità nuova, hanno distrutto qualità preesistenti. Non possiamo ricostruire quello che c’era e oggi non c’è più, ma possiamo imparare a comportarci in modo diverso da quei nostri avi che hanno distrutto invece di proseguire il lavoro dei loro predecessori.

Anche le qualità prodotte dalla storia dobbiamo conoscerle, amarle, rispettarle. Non solo ci rivelano spesso bellezza e saggezza, ma ci raccontano la storia, la nostra storia, la storia della civiltà che è parte di noi. Senza conoscenza della storia può esistere il presente, ma non può esistere un futuro migliore

Dobbiamo conoscere, amare e rispettare tutte le qualità presenti nel territorio. Nelle loro parti, e nel sistema che costituiscono nel loro insieme.

Sistema

Il territorio non è un semplice magazzino. Gli elementi che lo costituiscono hanno ordine tra loro, sono connessi in modo che una modifica in un punto, un’azione su uno di essi, modifica tutte gli altri.

Estrarre ghiaia e sabbia dall’alveo di un fiume riduce la quantità di materia inerte che arriva al mare, quindi comporta l’erosione dei litorali. Irrorare con prodotti velenosi un’area permeabile rende pericolosa l’acqua in tutta la regione alimentata dalla sottostante falda acquifera. Rendere artificiali le sponde di un tratto di fiume ne aumenta la velocità e la portata, e può provocare inondazioni e distruzioni a valle.

Non parliamo poi delle trasformazioni provocate dalla cattiva urbanistica. Aprire un supermercato alla periferia della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc; al tempo stesso, stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti. Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico.

La pianificazione

Se il territorio è un sistema, anche le azioni che lo trasformano devono essere viste in modo sistemico. L’uso del territorio e le sue trasformazioni devono essere governate nel loro insieme. Il metodo che è stato inventato quando si è compreso che il territorio doveva essere governato è la pianificazione (territoriale e urbana). Essa è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

I conflitti

Il territorio è un patrimonio; è un insieme di risorse; è un sistema. Esso è anche l’ambiente nel quale si svolge la vita dell’uomo. Man mano che l’umanità si è sviluppata (in tutti i sensi in cui questo termine può essere adoperato) è diventata sempre più ricca e complessa la rete delle relazioni che legano gli uomini tra loro, che costituiscono la società. Il territorio quindi non è più l’habitat del singolo uomo, ma è divenuto l’habitat della società.

Le trasformazioni indotte da ogni singolo uomo si sommano tra loro e modificano l’intero sistema. Le esigenze di ciascuno non possono essere soddisfatte se non affrontando (e soddisfacendo) le esigenze di tutti. Il territorio è un patrimonio che deve essere utilizzato nell’interesse di tutti.

Ma il territorio, e le risorse che in esso sono depositate, possono essere utilizzati in modi diversi, possono servire interessi diversi. Il territorio è perciò anche il luogo dei conflitti tra diversi gruppi sociali.

La pianificazione è anche il metodo (e il complesso di strumenti) attraverso i quali i conflitti vengono regolati. Di conseguenza la pianificazione non può essere governata da individui o gruppi che esprimano interessi di una parte sola della società: deve essere governate dalle istituzioni e dalle procedure mediante le quali si manifesta la sovranità della comunità nel suo insieme.

La pianificazione è insomma appannaggio esclusivo del potere pubblico.

Le regole

Poiché il territorio è soggetto alle azioni di una pluralità di attori, la pianificazione deve esprimersi mediante un insieme di regole, che costituiscono al tempo stesso i limiti e le opportunità per le azioni che ciascuno ha la capacità e il potere di esercitare.

Le regole devono valere per tutti: in tal senso devono essere eque. Ma esse non sono né oggettive né neutrali. Nella situazione presente (ma in qualche misura in tutte le situazioni) esse premiano alcuni interessi, ne penalizzano altri. È essenziale che sia chiaro a tutti (che sia trasparente) chi dalle regole della pianificazione urbanistica è premiato e chi è colpito.

Nella concreta situazione italiana il conflitto dominante è tra due gruppi di soggetti: (1) quelli interessati alla valorizzazione economica della propria proprietà, cioè quelli che utilizzano il territorio come una macchina per accrescere la loro ricchezza personale; (2) quelli interessati a veder soddisfatte le loro esigenze di cittadini: accesso a un’abitazione a prezzo ragionevole, disponibilità di spazi e servizi pubblici efficaci e comodi, assenza di rischi e di bruttezze, possibilità di godere delle diverse qualità del patrimonio comune.

In questa fase della vita pubblica italiana il primo gruppo di interessi è indubbiamente il più forte. È esso in particolare che domina il processo delle decisioni, che conosce gli strumenti mediante i quali si formano e trasformano le regole.

La prima funzione delle regole è quindi quella politica e didattica: prima di definire le regole tecniche occorre definire un gruppo di regole che costituiscono i principi che la collettività sceglie per governare il proprio territorio.

I principi

Per chiarire ciò che intendo potrà servire un esempio: l’enunciazione dei “principi” che apre le norme del Piano strutturale (”Statuto dei luoghi”) del comune di Sesto Fiorentino (FI). Si tratta di alcune affermazioni abbastanza semplici, che dovrebbero costituire la base delle specifiche regole del piano e dei conseguenti comportamenti.

Città, società, territorio

La città, il territorio dal quale è nata e di cui essa fa parte, gli uomini e la società che la costruiscono, la abitano e la utilizzano, fanno parte di un unico sistema.

La pianificazione è finalizzata a garantire un rapporto equilibrato tra comunità e territorio, nel rispetto dei principi enunciati nel presente Statuto dei luoghi e nei limiti dettati dalle leggi vigenti.

La tutela dell’ambiente

Si attribuisce priorità logica e culturale alla tutela dell’integrità fisica del territorio, intesa come preservazione da fenomeni di degrado e di alterazione irreversibile dei connotati materiali del sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera, considerati singolarmente e nel complesso, con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalle forme di insediamento dell’uomo.

In funzione di tale priorità il piano strutturale subordina le trasformazioni fisiche e funzionali del territorio a specifiche condizioni ed esplicita gli elementi da considerare per la valutazione degli effetti ambientali delle trasformazioni previste o prevedibili.

I luoghi e la loro identità

Si riconosce che i diversi luoghi che compongono il territorio comunale possiedono ciascuno una specifica identità, derivata dalla loro “biografia” ovverosia dal modo in cui, nel tempo, gli abitanti e il territorio hanno interagito.

Il piano strutturale individua come “Unità territoriali organiche” gli ambiti all’interno dei quali possa essere formata o promossa o tutelata la formazione di comunità stabilmente legate al territorio e dotate di sufficienti dotazioni elementari e, sulla base di questo principio, determina l’organizzazione del territorio.

Il piano strutturale inoltre promuove la preservazione delle testimonianze materiali della storia, e la conservazione delle caratteristiche, strutturali e formali, che ne siano espressioni significative.

Il territorio come patrimonio per domani

Si riconosce la necessità e la responsabilità, nei confronti delle generazioni future, di non disperdere la straordinaria ricchezza e bellezza del territorio comunale così come ci sono state tramandate attraverso il secolare lavoro della natura e dell’uomo.

Il piano strutturale è volto prioritariamente, pertanto, al recupero e alla valorizzazione dell’esistente e, in armonia con i principi sanciti dalla legge urbanistica regionale, considera prioritariamente il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti rispetto ad ogni ulteriore consumo di suolo.

La città e il territorio più vasto

Si riconosce l’appartenenza di Sesto Fiorentino ad un territorio più ampio di quello comunale e coincidente, a seconda degli aspetti considerati, con l’area della Piana, l’area metropolitana, la provincia, il bacino idrografico e la regione.

Sulla base di questo principio e del principio di sussidiarietà, il piano strutturale stabilisce, in accordo con le previsioni degli altri enti territoriali, la localizzazione e le forme d’uso degli elementi di rilevanza sovracomunale.

La città come casa della società

Si riconosce la città come luogo di massima espressione della vita civile e della vita politica nel quale la convivenza sociale facilita l’esercizio attivo dei diritti individuali.

Il presente piano è volto pertanto a favorire la convivenza sociale attraverso:

- un sistema di regole di uso del territorio che garantiscano la massima diffusione dei diritti primari di cittadinanza quali la salute, la mobilità, la libertà di cultura e di istruzione pubblica, la casa, la sicurezza sociale;

- una specifica attenzione agli spazi pubblici affinché siano resi attrattivi, sicuri e utilizzabili da tutti, con particolare attenzione per i cittadini più deboli come i bambini, gli anziani, i portatori d’handicap;

- la definizione di un assetto della mobilità che temperi l’esigenza di spostarsi con quella di garantire la salute e la sicurezza dei cittadini.

In particolare, il piano strutturale si pone l’obbiettivo specifico di formare un “sistema delle qualità”, organizzando la città e il territorio a partire dal pubblico e dal pedonale, in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, i luoghi dedicati alla ricreazione e quelli finalizzati al consumo comune (dell’istruzione, della cultura, dell’incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell’amministrazione e della giustizia e così via).

La città come costruzione collettiva

Si riconosce la necessità che i vantaggi derivanti ai singoli cittadini dalle trasformazioni urbanistiche siano temperati a favore della qualificazione complessiva della città (prevedendo la cessione di aree per le attrezzature o realizzandone alcune, compensando gli effetti sull’ambiente, e così via).

Il presente piano pertanto stabilisce quali prestazioni debbano essere richieste, nel complesso, alle trasformazioni urbanistiche, demandando agli strumenti attuativi il compito di definire nel dettaglio le modalità attraverso le quali garantirne il raggiungimento e i rapporti fra pubblico e privato.

Lo strumento della pianificazione

Si riconosce l’istituto della pianificazione come lo strumento necessario per garantire la coerenza, nello spazio e nel tempo, dell’insieme delle trasformazioni del territorio, assicurando la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte e la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Naturalmente non basta che i principi siano scritti nelle norme: occorre che essi siano posti preliminarmente in discussione, che arrivino a tutti gli abitanti, che costituiscano l’oggetto di molte riunioni nel corso dei quali si illustri, si articoli, si modifichino le formulazioni. Bisogna che questa discussione sia accompagnata dall’illustrazione e il dibattito sul territorio: sulle sue caratteristiche, rischi, problemi, regole che esso stesso pone alle trasformazioni. E bisogna che la fedeltà a questi principi sia il parametro sulla cui base i cittadini verificheranno e valuteranno le scelte degli amministratori.

Uno scoglio: la rendita

Perché, se si vuole che il territorio sia amministrato con saggezza e lungimiranza, sono così importanti le regole? E perché l’urbanistica non può non essere “regolativa” e “autoritativa”? La risposta è semplice: regole forti sono l’unico strumento disponibile per cercar di contenere gli effetti della proprietà privata dei suoli e, nell’ambito del sistema economico sociale italiano, dell’appropriazione privata delle rendite urbane.

Per poter governare efficacemente il territorio la collettività deve avere la piena disponibilità del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà: quindi, avere regole forti adoperate da un potere pubblico autorevole e determinato.

Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deve essere consapevole che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, di per sé non appartiene al proprietario ma alla collettività.

Questa premessa era molto viva, qualche decennio fa, nella consapevolezza della cultura e della politica dei veri liberali e della sinistra. Ora sembra scomparsa: la rendita, anziché una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.

Chiarissima è la strategia di cui il “piano casa” di Berlusconi è un tassello. Il territorio viene trasformato da due tipi di interventi: le grandi opere (autostrade e aeroporti, ferrovie, “nuove città”, complessi commerciali, stadi ecc.) e gli interventi di riorganizzazione e completamento delle aree urbane. In ogni paese moderno la coerenza dell’insieme di queste trasformazioni è affidato alla pianificazione urbana e territoriale. Anche in Italia è stato così, a partire dalla legge del 1942. La pianificazione si è via via evoluta, dando spazio (in Italia a partire dal 1985, legge Galasso) alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, e ampliando (sebbene ancora in misura del tutto insufficiente) la possibilità dei cittadini e delle associazioni di intervenire sulle decisioni.

A un certo punto tutto questo è cambiato. Si è iniziato con le grandi opere: quelle sottratte alla pianificazione sono diventate sempre di più. Si è proseguito con i grandi complessi: a Venezia, in questi giorni, due nuove “città” volute dai poteri forti per valorizzare terreni sulla Riviera del Brenta e sul bordo della Laguna ricevono dai piani una mera ratifica. Ora il quadro si completa sottraendo alla pianificazione, quindi al controllo pubblico preventivo, anche le operazioni mediante le quali le città si trasformano: lasciate all’interesse individuale esse diventeranno più mattoni e cemento, e meno verde, piazze, servizi per tutti.

La forte componente demagogica di B. accresce il rischio di questa strategia, che proseguirà finché non si leverà dalla società un BASTA forte, argomentato, radicato in mille lotte e in una matura consapevolezza dei rischi e, soprattutto, delle possibilità alternative.

Scatenare gli “spiriti animali” della speculazione edilizia più forsennata e rozza per dare uno choc all’economia, un colpo alla burocrazia e un volano enorme all’edilizia: questo, secondo le sue parole, il progetto di politica urbanistica dell’uomo che gli italiani, aiutati da una legge elettorale balorda, hanno scelto per governare. Si potranno aumentare del 20% le cubature di tutti gli edifici residenziali esistenti e della stessa quantità le aree coperte dagli edifici ad altra destinazione. Si potranno demolire e ricostruire, con il 30% in più, gli edifici costruiti prima del 1989. Tutto questo in deroga ai piani regolatori e ai pareri degli uffici: basta la certificazione di un tecnico.

Siamo alla follia. Si cancellano non pochi decenni, ma alcuni secoli di tentativi di regolare un mercato (quello dell’utilizzazione del suolo a fini urbani) che, lasciato alla spontaneità, stava distruggendo le città e rendendone invivibili le condizioni per gli abitanti e le attività. La regolamentazione del territorio nell’interesse collettivo non nasce nei paesi del socialismo reale, e neppure in quelli del welfare state, ma agli albori del XIX secolo nei paesi del capitalismo maturo. Arrivò più tardi nei paesi in cui le debolezza dell’imprenditoria moderna lasciava ampio spazio alla rendita, come l’Italia. Qui la regolamentazione urbanistica venne introdotta, nell’epoca fascista, dopo un conflitto che vide, all’interno di quel mondo, la vittoria delle forze del profitto su quelle della rendita: fu nel 1942, quando la legge del fascista Gorla fu approvata contro le resistenze dei difensori del privilegio indiscriminato della proprietà privata.

Aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) significa compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. Significa privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra. Non dimentichiamo che scatenare l’attività edilizia indiscriminata provocherà la distruzione di paesaggi, di beni artistici e culturali, di testimonianze storiche e di bellezza: insomma, di tutte le componenti del patrimonio comune, già così debolmente tutelati nel nostro paese. Non è un caso che uno dei presidenti regionali che darà il via al provvedimento è quel Cappellacci, viceré della Sardegna in nome di Berlusconi, cui lo champagne di festeggiamento del trionfo elettorale fu offerto da quel tale che aspetta di costruire 300mila mc sulla necropoli punica di Tuvixeddu-Tuvumannu.

E riflettiamo sul fatto che affidare le decisioni delle demolizioni e ricostruzioni e degli ampliamenti edilizi al parere tecnico di professionisti pagati dagli stessi operatori immobiliari interessati significa sottrarre ogni decisione non a una parassitaria burocrazia, ma ai pareri di qualificati funzionari pubblici e alla possibilità dei cittadini di concorrere, mediante le procedure della pianificazione urbanistica e l’intervento diretto di partecipazione, alle scelte di trasformazione dei territori sui quali vivono. Da quale palazzo o palazzetto della politica nascerà il segnale di una protesta che fermi la marcia verso la devastazione?

Mi sembra che gli articoli (28 agosto; 3 e 7 settembre) che il manifesto ha dedicato al nuovo ponte veneziano non accennino a una questione che secondo me è essenziale. Quel ponte, che secondo Orsola Casagrande e Calatrava è meraviglioso, che secondo Massimo Cacciari non avrebbe potuto costare meno di quello che è costato, non serve a nulla. Se spendere quindici milioni di euro per fare una cosa assolutamente inutile è un esempio di buona amministrazione, allora chi ha inventato quel ponte e chi ha deciso di realizzarlo meriterebbero un premio. Quindici milioni di euro per accorciare di due o tre minuti il tragitto da piazzale Roma a Lista di Spagna sono davvero troppi. Gli unici a cui il ponte può servire sono i futuri proprietari e utilizzatori dell'ex sede del Compartimento ferroviario, che è al suo piede. Chi saranno? Vedremo.

Può essere che quel ponte sia una meraviglia dell'architettura. Ma è proprio la città storica di Venezia il luogo che ha bisogno di nuovi monumenti (a quindici milioni l'uno)? Non sarebbe stato meglio investire quei soldi per restaurare l'edilizia storica e conservarne la proprietà al patrimonio pubblico, cioè ai cittadini? O investirlo nelle periferie? Certo, il ponte aumenterà l' appeal di Venezia nei mass media . Molte più persone verranno a visitare la città. Le frotte di turisti cresceranno ancora. Gli affari delle bancarelle di junck aumenteranno. Scompariranno altri negozi di salumieri, fornai e fruttivendoli, per essere sostituiti da gelatai, pizzerie e dalla paccottiglia che affligge tutti i luoghi del turismo stupido. Poco importa se si ridurranno ancora le case disponibili per chi a Venezia lavora, se i vaporetti saranno sempre più intasati, se le calli e i ponti, invasi da frettolose carovane di turisti «mordi e fuggi», saranno ancora meno disponibili a chi vuole ammirare i tesori della città.

Purtroppo l'dea di città degli attuali successori della Serenissima è identica a quella che hanno i governanti di tutte le altre città che, per accrescere il proprio reddito, competono contro le altre per strappar loro masse più consistenti di consumatori. Magari altrove stanno un po' più attenti a non distruggere, per arricchire pochi mercanti, il patrimonio di cui sono venuti in possesso. Credo che siano queste le critiche che il ponte della Costituzione (il nome è l'unica scelta giusta a proposito di quell'oggetto) solleva, oltre a quella espressa in nome dei disabili. E non è facile nasconderle sotto una pietra, come il sindaco vorrebbe. La storia ricorderà gli errori, e i nomi di chi li ha commessi e celebrati. C'è solo da aspettare.

Ha vinto la ragione. La pressione dei cittadini veneziani e del Comune, l'appello dell'opinione pubblica internazionale e della cultura europea e mondiale, il solenne monito del Parlamento europeo, hanno infine prevalso. Il Parlamento della Repubblica è riuscito a far sentire la sua voce e il suo peso. E il Governo dopo aver dato l'impressione di non saper far altro che giocare allo scaricabarile, ha avuto un soprassalto di buon senso e di dignità: ha ritirato la candidatura di Venezia per l'Esposizione universale del 2000.

Ricordiamo tutti la vicenda. L'idea di fare a Venezia una Expo era stata lanciata da Gianni De Michelis nell'autunno 1984, alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative. Le reazioni di una parte consistente dell'opinione pubblica veneziana e italiana furono immediate, ma De Michelis avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell'Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell'industria, si assicurò l'appoggio di prestigiosi esponenti della cultura, costruì una solida piattaforma d'intesa con i dorotei veneti fingendo d'allargare l'impatto dell'Expo all'intero Veneto. Con procedure discutibili, una "prenotazione" ufficiale per l'Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), il quale svolse l'istruttoria preliminare.

Sembrava che i giochi fossero fatti.Mentre lavoravano i promotori dell'Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta sarebbe stata una rovina per Venezia. Si accumularono materiali di conoscenza e di analisi che consentirono di comprendere (e di far comprendere) in che modo l'Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle "pietre" della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l'assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi.

Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell'area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto.Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno svi luppo economico e sociale non effimero.

Nota. Il testo cartaceo del giornale in mio possesso porta la data del 13 giugno 1990, mentre nell'archivio online dell'Unità il facsimile in .pdf è scaricabile alla data 12 giugno 1990

Siamo ancora nel pieno del balletto dei decreti Nicolazzi. Più che seguirne le poco aggraziate “figure” (ciò che del resto faremo nelle pagine interne) ci sembra opportuno proseguire in una riflessione già avviata nel numero scorso. Se il Nicolazzi ha potuto trovare, e ancora trova, un pur contrastato credito ciò non è solo dovuto alle “manovre dell’avversario”, o al qualunquismo imperante che farebbe degli itali anile facili prede d’ogni demagogia. Esistono – questo è il punto che vogliamo riprendere – complicità oggettive anche nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica.(Adoperiamo questo termine, certo insufficiente, perché ci sembra che esso esprima, sia pure in modo ellittico, il complesso delle azioni volte a costruire metodi e strumenti d’intervento sul territorio che ne rendano il governo efficace, trasparente, politicamente orientato).

Esistono, insomma, assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica. Oggi, nel 1982, alcuni sorridono degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell'lnu anni 50, dei metodi "ingegneristici" di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico. E altri, ugualmente, sorridono delle generose intemperanze e approssimazioni dell'Inu post sessantottesco, del tumultuoso ingresso del problema della casa nei contenuti della gestione urbanistica, della scoperta dell'insufficienza di una politica solo “quantitativa" per la fuoriuscita dalla crisi abitativa, del defatigante impegno nell'elaborazione e nella critica propositiva delle piattaforme legislative. Sono motivati quei sorrisi? Quanto meno, non sono sufficienti e proprio per ciò, stimolano a capir meglio.

Non c'é dubbio. Il patrimonio di elaborazioni e iniziative dell'urbanistica italiana deve essere assunto criticamente. In ogni momento, come ogni analogo patrimonio ideale e politico, pretende d'essere superato. Superato, però, non liquidato. Da più d'un segno, ci sembra invece di sentir aria di liquidazione. È un caso se l'impegno degli urbanisti; di molti urbanisti, abbandona la ricerca e la sperimentazione delle regole e dei metodi generali per il controllo e il governo delle trasformazioni urbane e territoriali, ed enfatizza invece il momento del progetto, dell'intervento singolare, dell'opera unica e conclusa? se l'urbanistica tende a rientrare nel ventre di una delle sue matrici; l'Architettura? È un caso se non v'è più una rivista che metodicamente e sistematicamente persegua l'obiettivo di documentare, con rigore e completezza, le più significative esperienze di pianificazione, proponendosi di rappresentarle prima d'interpretarle? se le polemiche si sviluppano nel chiuso delle corrispondenze personali anziché sulle pagine aperte delle riviste? E un caso se uno strumento decisivo per il governo del territorio, preconizzato e proposto dagli urbanisti old style dal 1959, tentato a Roma agli albori del centrosinistra e in Lombardia nella fase nascente del regionalismo (parliamo del Ppa), viene lasciato cadere come un ingombrante ferrovecchio appena può cominciarne una generalizzata sperimentazione? se la stessa problematica dei Peep e dei Pip viene considerata obsoleta, o meramente strumentale rispetto alle nuove frontiere della grande progettazione post modernista?

Gli urbanisti potranno senza dubbio cercare gli alibi, e trovarli fuori dalla sfera delle proprie responsabilità e competenze. Le sordità e gli interessi dei `politici', la neghittosità delle regioni e dei comuni, la farraginosità dei dispositivi legislativi ed amministrativi, l'incompletezza, e quindi la criticabilità, delle esperienze compiute dall'urbanistica "tradizionale". Ma oggi ci sembra, l'impegno nostro deve essere volto altrove: a cercare, e a superare, le ragioni delle nostre insufficienze; a trovare, nello sviluppo e nel superamento della nostra specifica eredità culturale le ragioni di un più preciso servizio della nostra disciplina alla società nella quale viviamo. Ogni nuova evasione rispetto a questo compito, ogni nuova fuga (in avanti o all'indietro), altro non significherebbe che cedere all'imbarbarimento, del quale il ministro Nicolazzi è l'interprete efficace, anche se forse inconsapevole.

Abbiamo spesso avuto occasione di accennare specialmente negli ultimi numeri della nostra rivista, ma non solo in quelli - alla questione dell’organizzazione del consumo. La fugacità degli accenni, peraltro, e la novità della questione, ci hanno procurato alcune lettere da parte dei nostri lettori. In esse ci si chiede di precisare, in modo meno indiretto ed allusivo di quanto ci è stato finora concesso dagli argomenti trattati- argomenti che ci portavano a toccare quasi marginalmente, e in apparenza addirittura perincidens, iproblemi del consumo e della sua organizzazione - sia che cosa per quest'ultima si intenda, sia perché una moderna e razionale strutturazione dei modi nei quali il consumo avviene - costituisca una inderogabile necessità per lo sviluppo della nostra economia e dell'intero sistema e. Ed infine ci è stata posta una questione più delicata e complessa: come sia possibile cioè, organizzare, specializzare, inserire in un contesto di economicità, un complesso di funzioni e di atti che interferiscono in modo o ed immediato con la famiglia - e dunque con la cellula più intima e riservata della società - senza impoverire e minacciare la sua esistenza.

Ma un equivoco vogliamo tentare anzitutto di dissipare, prima di provarci a chiarire i dubbi sollevati dai nostri lettori, e a rispondere alle questioni da essi poste. L'equivoco, cioè, nel quale si incorre da parte di taluni, di confondere l'organizzazione del consumo con quella della distribuzione. V'è infatti chi ritiene che l'ammodernamento dei modi nei quali avviene - in Italia – lo scambio; che lo sfoltimento radicale della catena distributiva; che l'intervento massiccio di quelle nuove strutture di mediazione tra produzione e consumo, di cui il self-service e il supermercato sono alcuni efficaci e vistosi esempi; che queste iniziative insomma possano portare ad una radicale trasformazione del consumo; che, anzi, ad esse possa senz'altro ridursi la questione dell'organizzazione del consumo.

In realtà. non abbiamo mai taciuto o sottovalutato l'importanza del momento distributivo, ed i lettori ce ne daranno facilmente atto. Abbiamo altre volte osservato, ad esempio, che un’efficiente ed agile rete distributiva pretende una produzione di un certo tipo: quella consentita da un sistema produttivo moderno, dal quale siano scomparse le forme attualmente prevalenti della piccola e piccolissima azienda, incentrate sul secco predominio del momento proprietario su quello imprenditivo. E tuttavia, ci sembra opportuno aggiungere adesso che è del pari necessario vedere che una moderna distribuzione, una distribuzione organizzata secondo moduli economici e rigorosi, non può assolutamente fare a meno di un'adeguata organizzazione del consumo.

Anche partendo dalla distribuzione, in altri termini, ci si rende facilmente ragione dell'obiettiva, autonoma, distinta esistenza della questione del consumo; ci si rende conto, in una parola, che un consumo organizzato in forme premoderne costituisce un muro invalicabile, un invincibile ostacolo, al pieno manifestarsi e all'espandersi delle più razionali tecniche e strutture distributive. Così, infatti; le iniziative ancora sporadiche di ammodernamento radicale - almeno sul piano tecnologico - vengono costrette a restare delle singolari curiosità, o al massimo delle manifestazioni ulteriori del privilegio della metropoli della consolidata sperequazione cioè tra le varie zone economiche e sociali che compongono il nostro paese.

Il consumo, cenerentola del capitalismo

Come avviene il consumo in Italia? E' facile rendersi conto di quanto esso sia legato strettamente alla vita familiare, e come esso subisca l'ordinamento rigidamente privatistico di questa. Una sola persona, priva di ogni oggettiva qualificazione tecnica, presiede alle innumerevoli incombenze della gestione domestica. La spesa, la scelta delle merci, la formulazione del bilancio e la suddivisione delle sue voci, la preparazione dei cibi, la pulizia della casa, delle stoviglie, la cura degli indumenti e la loro sostituzione, la sorveglianza dei minori anche ben oltre le necessità della partecipazione della donna all'equilibrio della vita familiare: questi sono solo alcuni dei compiti materiali svolti, ogni giorno, dalla casalinga. E però l'attività di quest'ultima, mentre da un lato è assolutamente empirica e non specializzata. dall'altro - e di conseguenza - avviene in forma del tutto gratuita. Essa è quindi, per un duplice ordine di motivi, completamente priva di ogni metro economico, di ogni ordine previsto, di ogni tecnica razionale, di ogni necessaria disciplina: il servaggio delle casalinghe - costrette ad una fatica di cui nessuna remunerazione è possibile - viene così a coprire, a nascondere, a rendere scarsamente avvertibile dall'opinione pubblica la reale e gravissima dispendiosità con il quale il servizio domestico viene gestito. Come meravigliarsi, dunque, se sono l'anarchia e l'individualismo le leggi dei consumo familiare? Eppure. come la produzione e lo scambio -- e di conseguenza la distribuzione - anche il consumo è un aspetto dell'attività economica, e dovrebbe sottostare alle leggi che di questa regolano l’esistenza. Ma il capitalismo - come più volte detto - è incentrato sulla produzione, ha nell’industria il suo cuore e il suo feticcio; è portato organizzare la distribuzione solo in quanto questa è l'aspetto finale del processo produttivo. E il consumo, il momento economico al quale - sul piano del diritto naturale - tutti gli altri sono subordinati, è invece lasciato completamente in balìa di forme compatibili solo «con l'economia chiusa del mondo feudale».

Un processo economico moderno, un processo economico che voglia utilizzare nel modo più completo, che voglia trasformare in valore tutta la potenzialità di lavoro di tutta la parte della popolazione capace di erogare forza-lavoro, che voglia quindi riportare sotto il segno rigoroso della legge dell’economicità, da un capo all’altro, l’intera catena percorsa dalle merci, non può in alcun modo ignorare il consumo, lasciare questo momento decisivo alle forme privatistico-familiari nelle quali esso oggi avviene.

Indubbiamente, in un momento in cui si sta uscendo - in tutto il mondo, nei modi più vari, con formule compromissorie o tendenzialmente rigorose, in modo radicale o con incertezze e remore più o meno, pesanti — dal privatismo e dall’indvidualismo produttivo, l’organizzazione del consumo è possibile solo attraverso la fuoruscita di tutto un settore della vita sociale delle formule privatistico-familiari.

Chi, ad esempio, abbia una qualche dimestichezza con l’urbanistica e l’edilizia può già scorgere decine di possibilità concrete, di strumenti già pronti all’uso, che potrebbero essere utilizzati per una nuova strutturazione dei consumi. Le lavanderie di caseggiato, le cucine comuni, i servizi specializzati di pulizia e manutenzione degli alloggi, i locali e” gli spazi estemi di gioco dei bambini, la razionale ubicazione dei servizi scolastici, dei mercati, degli altri servizi di quartiere, l’organizzazione degli ambienti di soggiorno, di ricreazione, di riunione comune: e ogni lettore potrà per suo conto continuare l’elencazione dei servizi, delle merci, di cui le attuali possibilità delle tecniche permettono un più razionale uso.

Le ragioni della famiglia

E' d'altra parte cosa verissima che la crisi nella quale l'istituto familiare versa, trova un qualche mascheramento appunto nella conduzione privatistico-familiare della gestione domestica. Si può affermare, in altri termini, che molte-famiglie il cui nucleo spirituale è venuto a spegnersi trovano oggi l'unico cemento, l'unico motivo di coesistenza, nella gestione dell'azienda economica «famiglia», nella sua base proprietaria, nel comune affrontare i pesi e le fatiche fisiche della sua esistenza.

Liberare la famiglia dalla gestione domestica condurrebbe dunque, su questo piano, a un duplice ordine di conseguenze. Da un lato, affrancando il nucleo familiare dai motivi più materiali, più fisicamente routiniers della sua vita, riverrebbero a porre in primo piano i motivi più profondi e perenni, le ragioni intime e fondamentali della sua esistenza. Dall'altro lato, tuttavia, una crisi che è ancora dissimulata e contenuta verrebbe in tal modo a esplodere; numerosissime sarebbero le famiglie oggi ancora esteriormente salde - una ripresa delle quali resta quindi pur sempre possibile - che, una volta rotto il guscio superficiale che dava loro una fittizia coerenza, verrebbero a dissolversi.

[…]

È facile intuire l’importanza economico-sociale e le condizioni politiche connesse alla prospettiva di un’efficiente organizzazione del consumo. Organizzare razionalmente il consumo ha certo, come prima, immediata conseguenza, la riduzione del suo costo: e non crediamo occorrano elaborate dimostrazioni per convincerne il lettore. Sono dunque vitalmente interessate alla questione forze sociali decisive, quali ad esempio quelle sindacali. Se infatti il fine precipuo del sindacato è quello di difendere, di affermare, la capacità di consumo del salariato, e se la logica del sistema capitalistico non permette, oltre certi limiti - i limiti pretesi dal profitto e, ancor di più, dalla necessità obiettiva di accumulare quote importanti del capitale - di aumentare la fetta di reddito che spetta al salariato, è chiaro allora che sarebbe una battaglia del tutto connaturale al sindacato quella condotta per una razionale organizzazione del consumo, attraverso la quale, a parità di salario, diviene possibile ottenere una maggiore capacità di consumo.

In secondo luogo, poi, l’affidare la gestione domestica a personale specializzato, che presta la sua opera contro regolari remunerazioni, permette la scomparsa di una categoria avvilita ed insofferente - quella delle casalinghe - la cui esistenza è cagione prima dell’attuale impossibilità di risolvere la questione femminile. La liberazione di milioni di donne dal peso materiale, soffocante, di una gestione domestica che è pesantissima per le forme in cui avviene, oltre a costituire una base necessaria per una piena emancipazione della donna (una emancipazione che non significa certo, riteniamo, indistinzione sul piano naturale dell’uomo e della donna, ma invece parità di condizioni materiali di partenza, uguale rapporto con la realtà economica), rende anche disponibile una massa di forza-lavoro - e dunque di creatori di valore - altrimenti condannati a faticare in modi dispendiosi e a-economici.

Ma può una società come la nostra, fondata su una struttura economica torpida e anarchica, nata per l’iniziativa prematuramente senile di una borghesia impotente, diretta da un personale politico incapace e arruffone permettere simili prospettive, utilizzare siffatti tesori nascosti? C’è, in altri termini, nel nostro sistema sociale, l’esigenza di liberare le grandi riserve esistenti di forza lavoro? Tutto ci risponde certamente di no. Nel quadro degli attuali equilibri politici, l’organizzazione del consumo - ove per avventura, a semplice titolo di ipotesi potesse in qualche misura realizzarsi - coinciderebbe fatalmente con l’estromissione brutale delle braccia superflue da attività nelle quali, bene o male, riescono oggi a sopravvivere. Per risolvere questo come altri decisivi problemi italiani, il privatismo conservatore è insufficiente, i costi da esso pretesi insopportabili.

Se pensiamo all’agro campano lo vediamo come un territorio sconvolto prima dall’esplosione edilizia, e poi occupato, negli spazi residui, dalle spazzature del Nord e del Sud. È davvero difficile per noi immaginare che cos’era prima della devastazione. Ci aiuta un innamorato di questa terra (e della terra in generale) l’autore di questo libretto. Antonio di Gennaro riesce a restituirci un’immagine vivissima della “terra lasciata”. Ci riesce allineando brani dei racconti di persone, più fortunate di noi, che ebbero la fortuna di scoprire le mille inaudite ricchezze di questi fertili suoli. Collegando con il suo racconto brani di Goethe, Galanti, Sestini, Dickens l’autore dipinge l’affascinante ritratto del frutto del poderoso lavoro plurimillenario che la natura e l’uomo hanno compiuto collaborando, e ci rende consapevoli del livella altissimo di produttività e di bellezza che era stato raggiunto, del “capolavoro” (annotate questa parola) che era stato raggiunto. Un’opera la cui qualità non risiede solo nella struttura e nella forma della campagna e nei suoi incredibilmente ricchi prodotti, ma anche nei rapporti virtuosi che la legano alla città, in uno scambio che rende migliori entrambi.

Bellezza perduta, utilità perduta, ricchezza perduta. Perché, come? Manlio Rossi Doria e Pasquale Coppola, Antonio Cederna e Vezio De Lucia aiutano di Gennaro a raccontarci i modi e le ragioni per cui il “capolavoro” si è trasformato in un immondo ammasso, perché e come il sistema di aree agricole pregiate intorno alla città, è stato deliberatamente trasformato in “spazi vuoti, invisibili e inaccessibili ai più perché occultate da una cortina di degrado” ed è diventato “la grande discarica utilizzata dai Casalesi per smaltire i rifiuti industriali provenienti dal nord”.

Gli interessi, le forze e le debolezze, gli strumenti adoperati per distruggere sono raccontati con efficacia in un racconto che si legge d’un fiato, ma che fa riflettere a lungo. E dopo aver descritto “il progetto pluridecennale di distruzione di Campania felix”, e il significato profondo di ciò che ancora rimane,di Gennaro formula la sua proposta. Non ve la racconto; vi do la parola chiave: “Partenone”. Un progetto impegnativo, ma possibile. Richiede una virtù che è indispensabile perché la civiltà sopravviva: la capacità di guardare, a un tempo, alla nostra storia e al nostro futuro: memoria e lungimiranza.

Il 1° marzo, rispondendo a una interrogazione dei consiglieri comunali comunisti, socialisti e democristiani, l'assessore al lavoro del Comune di Torino confermava la voce secondo cui la Fiat aveva intenzione di assumere 15mila nuovi addetti negli stabilimenti di Rivalta Torinese, reclutando forza-lavoro nelle regioni meridionali. Il giornale della Fiat, nel riportare la notizia, affermava che l'irrisoria aliquota di forza-lavoro locale disoccupata è “il motivo che spinge le industrie a cercarsi mano d'opera nel Sud”. (la Stampa, 19 marzo, 1969).

Le reazioni della stampa è dei partiti

Preoccupazione e allarme suscitava l'autorevole conferma dell'iniziativa del monopolio torinese in alcuni organi di stampa. L'Avanti (19 marzo) poneva in evidenza, nel sommario del “pezzo” dedicato alle 15mila nuove assunzioni, “i problemi non facili da risolversi”, e, “pur non sottovalutando gli aspetti positivi della questione”, criticava il fatto che, “anche in questo caso, le decisioni di uno dei gruppi importanti della economia italiana fossero state presesenza cercare una preventiva consonanza con gli indirizzi della Programmazione”.

Riassumendo e sintetizzando “l'atteggiamento dei partiti politici di fronte a questo nuovo fatto che investe l'economia torinese e nazionale”, l'organo socialista affermava che “i socialisti, nel prendere atto di questo fatto, ritengono necessario affrontare il problema delle infrastrutture inserendolo in un contesto di programmazione serio e concreto”, mentre i democristiani avrebbero sostenuto“ che, prima di tutto, si imponeva la occupazione delle forze esistenti sul mercato torinese”. Viceversa - sempre secondo l'organo del PSI - per i comunisti “il discorso si pone nel contesto del fallimento della politica meridionalistica”.

In effetti, il collegamento tra l'iniziativa della FIAT è l'accentuarsi degli squilibri tra Settentrione e Mezzogiorno è al centro dei commenti riportati su L'Unità (20 marzo).Il quotidiano comunista ricordava, innanzitutto, come il gioco non fosse nuovo, ed abbia avuto “negli anni del boom la sua maggiore espressione: allora centinaia di migliaia di operai furono fatti affluire dal meridione e dalle isole” provocando costi sociali elevatissimi per cui gli industriali non hanno dovuto investire una lira. Il segretario regionale della CGIL, Garavini, sottolineava “il drammatico costo sociale” dei “trasferimenti massicci di forza-lavoro” provocati dalle “autonome iniziative della Fiat” e chiedeva quale fine avessero fatto i propositi e le promesse di investimenti nel Sud, strombazzati da Agnelli nel caldo della polemica per l'Alfa Sud.

Sulotto, segretario della Federazione torinese del PCI, denunziava il processo attraverso il quale, mentre “l'Italia del Nord si integra sempre più con i paesi del MEC, il Mezzogiorno diventa terra di abbandono, di emigrazione verso il Nord e verso l'estero”.

Nelle stesse pagine dell'Unità, in un commento redazionale dal titolo “Chi programma in Italia”, Ugo Pecchioli affermava a sua volta: “ecco gli effetti della programmazione del centro-sinistra: da un lato intere parti del territorio nazionale (nel Mezzogiorno prima di tutto, ma anche nelle campagne, nelle zone collinari e montuose del Nord) che degradano economicamente e socialmente. a livelli infimi, e dall'altro alcune zone settentrionali in cui cresce a dismisura una concentrazione di imprese industriali che rende l'esistenza degli uomini sempre più soggetta a difficoltà e asprezze, che comporta costi sociali elevatissimi che si scaricano su comuni in crisi, dissanguati, vessati da governo e prefetti”.

Una nota della CGIL

Il 21 marzo la stampa informava di una interpellanza rivolta al Ministro del Bilancio dall'on. Compagna, del PRI, e di una presa di posizione della CGIL. II primo, indicava nella possibilità di “realizzare una impegnativa operazione di trasferimento nel Mezzogiorno di aziende complementari dell'industria automobilistica uno dei provvedimenti da adottarsi per evitare che la mano d'opera disponibile nel Mezzogiorno sia utilizzata mediante l'emigrazione”. La CGIL, dal canto suo, affermava tra l'altro che “gli attuali programmi Fiat di espansione degli impianti e della occupazione, se confermati, aggravano la tendenza in atto alla emarginalizzazione industriale del Mezzogiorno depauperando ulteriormente le regioni meridionali dalla forza-lavoro più qualificata che dovrebbe costituire la base stessa dello sviluppo economico, mentre nel contempo acutizzano tutti i problemi sociali e aggravano i costi economici connessi alla emigrazione nelle zone del paese già ad alto sviluppo”.

Queste tempestive reazioni - in cui alle tradizionali impostazioni meridionalistiche e alle preoccupazioni municipali del comune torinese si affiancavano le esigenze dello sviluppo nazionale espresse dai portavoce organismi politici e sindacali del proletariato italiano provocavano, ad alcuni giorni di distanza, due ambigue “messe a punto”: l'una, del titolare del Ministero del bilancio e della prograrnmazione, Luigi Preti; l'altra della azienda automobilistica torinese.

La replica del programmatore

Il ministro Preti, in una dichiarazione pubblicata dalla stampa il 24 marzo, coglieva innanzitutto l'occasione per recitare. l'ennesima litania in gloria del centro-sinistra, ormai contestato autorevolmente anche dal suo interno. “Questa possibilità di nuova occupazione - affermava infatti il ministro - rappresenta un elemento positivo ed è il segno di un intensificarsi (il corsivo è nostro) del ritmo di sviluppo economico, conseguente all'azione del governo di centro-sinistra”. Il governo comunque, proseguiva il ministro, ha il compito di “indicare e promuovere, nel quadro della programmazione economica, l'espansione equilibrata della occupazione e una attenta localizzazione degli investimenti. tenendo particolarmente presente l'opportunità di evitare quelle negative conseguenze che non possono non derivare da emigrazioni di massa. Problemi di cosi rilevante portata non possono non essere esaminati (...) nella sede della contrattazione programmata che ha lo scopo di armonizzare gli interessi aziendali e gli interessi prevalenti dell'economia del paese”.

Dichiarazione assai cauta sul merito dell'iniziativa Fiat. come si vede, e palesemente corriva con la strategia sottesa a quella iniziativa. Non a caso infatti (la scelta delle parole ha sempre un senso) Preti inneggia all'intensificazione del ritmo di sviluppo economico. Ma non e proprio uno sviluppo esclusivamente intensivo quello in virtù del quale si accrescono continuamente i livelli accumulativi negli attuali poli dello sviluppo. a spese del resto del paese? Non sono forse inevitabili, nel quadro di uno sviluppo intensivo, l'aggravarsi degli squilibri territoriali e settoriali, l'abbandono del Mezzogiorno e dell'agricoltura la secca eliminazione della questione meridionale e di quella agraria attraverso il meccanismo spontaneistico dell'emigrazinne?

Quale “contrattazione programmata”?

Nè vale il proporre il ricorso a una contrattazione programmata intesa” come armonizzazione degli interessi aziendali con quelli generali. Il problema non è quello di mediare tra le esigenze generali dello sviluppo del paese e gli interessi aziendali delle singole impre-e. E infatti, la stessa logica degli interessi aziendali è proprio quella che conduce all'accentuarsi di quegli squilibri che, viceversa, le esigenze generali dello sviluppo del paese impongono di superare e risolvere, sicché “armonizzare” o mediare gli uni c gli altri può voler dire soltanto ridurre la programmazione o alla mera registrazione delle decisioni aziendali o alla vacua esercitazione oratoria.

Il problema non è quello di “armonizzare” obiettivi della programrnazione e interessi aziendali nell'ambito del sistema di convenienze date. Il problema è, viceversa, quellodi modificare dalle radici l'attuale sistema di convenienze in funzione del quale le aziende, pubbliche e private, oggi agiscono; utilizzando a tal fine tutti gli strumenti di cui la mano pubblica dispone (e non sono pochi, nè di scarso rilievo), e “armonizzando” in tal modo, senza ambigue contrattazioni più o meno “programmate”, le politiche aziendali. Il problema, insomma, è stabilire che cosa deve essere prodotto, per chi e dove; e alle tre domande deve essere data una risposta unitaria e coerente. Chi potrà mai ragionevolmente impedire alla Fiat di ampliare i suoi impianti a Torino, finchè la Fiat produrrà per la motorizzazione privata? Che senso avrebbe produrre a Cosenza o a Trapani o a Nuoro automobili, se il mercato è essenzialmente nel triangolo industriale e nei “poli” maggiori? Una diversa politica di localizzazioni pretende la formazione di un mercato diverso da quello omogeneo alla spontaneità ciel sistema.

Risponde la Fiat: ragazzino, lasciami lavorare.

Di fronte al nullismo del ministro programmatore, di fronte alle proteste necessarie, ma in definitiva superficiali, delle sinistre la Fiat non ha avuto un gioco difficile. II monopolio dell'automobile ha replicato infatti, il 24 marzo, che “le assunzioni attualmente in corso non presentano alcun aspetto di eccezionalità”, poiché esse in parte corrispondono ad “un naturale avvicendamento delle maestranze occupate”, e in parte sono dovute «alla normale espansione della produzione”. Facciamo quello che abbiamo sempre fatto, risponde in sostanza la Fiat, e non intendiamo dar conto a nessuno.

Nè d'altronde, prosegue la nota dell'azienda torinese, “è stato predisposto alcun reclutamento specifico e diretto dimaestranzenel Sudd'Italia”: le “maestranze meridionali, i figli dei contadini immiseriti delle campagne del Mezzogiorno, dei pastori sardi o abruzzesi, i terremotati della Sicilia e i disoccupati cronici di Napoli o Palermo, saranno reclutati in modo “generico e indiretto”; affluiranno a Torino senza che nessuno debba spingersi a Foggia o a Crotone per ingaggiarli, come al solito; come al solito, caricheranno sui drammatici treni del Sud le loro famiglie, le loro masserizie, la loro miseria. Quanti hanno già racimolato i soldi per il biglietto, quanti hanno già venduto la casa e la terra, appena i giornali hanno scritto dei 15mila nuovi assunti a Torino?

Il Ministro è sodddisfatto, i torinesi meno

Le precisazioni della Fiat sono valse comunque a tranquillizzare il ministro cui è affidata la programmazione economica. Egli infatti, in una nuova dichiarazione del 27marzo, prende atto con soddisfazione delle opportune precisazioni della Fiat, e non aggiunge nulla di nuovo alle precedenti dichiarazioni.

Meno soddisfatta, e assai più attenta interprete delle “precisazioni della Fiat”, è invece la stampa moderata torinese. Questa comprende infatti che la Fiat non smentisce nulla, e si preoccupa del fatto che il governo, una volta di più tende ad assumere un atteggiamento neutrale (per non dire pilatesco). Così la Gazzetta del Popolo (27 marzo) chiede un intervento governativo; non nel senso. beninteso, di opporsi all'iniziativa del monopolio torinese, perchè “nessuno può essere contrario alle assunzioni e neppure a nuove iniziative industriali nell'area torinese, perchè in un'economia industriale ad alta tecnologia e produttività é antistorico pensare al blocco dello sviluppo. Nel senso, invece, di richiedere che vengano realizzali gli altri poli di sviluppo previsti nella regione piemontese, e che vengano compiuti quegli investimenti pubblici in strade, trasporti. infrastrutture, e abitazioni che sono necessarie a un tempo. per aumentare le “economie esterne per le aziende industriali nell'area torinese” e per prepararsi alla “nuova ondata di immigrati meridionali”.

Lungi dal considerare l'episodio dei 15mila nuovi addetti come il frutto di unequivoco, la stampa più vicina agli industriali torinesi rilancia la palla e gioca al rialzo. Essa così svela lucidamente la logica dei processi cumulativi, che invece. evidentemente sfugge al novello Candide che è il Ministro Preti.

Una programmazione che segue la spontaneità del mercato

E' facile comprendere, in conclusione, che l'episodio della Fiat è perfettamente coerente con la logica della programmazione, del centro-sinistra; più di un commentatore lo ha rilevato.

Tale programmazione, infatti. siriduce indubbiamente (secondo la definizione che ne ha dato Claudio Napoleoni su la Rivista Trimestrale. nell'ormai lontano 1962) a “un complesso di politiche le quali non soltanto non hanno lo scopo di porre il processo di sviluppo sotto una regola diversa da quella fornita dal puro meccanismo di mercato, ma hanno anzi il fine di accompagnare tale meccanismo (...) senza mutarne le caratteristiche essenziali”.

Se è così, poco vale evidentemente minacciare la Fiat col bau-bau della “contrattazione programmata”. Ne basta protestare, come fa Marcello Ferrara su L'Unità (5 aprile), perchè “Roma propone, Agnelli dispone”. o affermare soltanto che “la via è quella della lotta e che occorre passare decisamente al contrattacco”: bisogna sapere anche per che cosa lottare, quale programmazione sostituire a quella di Preti e del centro-sinistra, bisogna decidere che cosa la Fiat deve fare, e non solo che cosa non deve fare.

e.s.

Nota

L’articolo, siglato e.s., è stato scruitto per la rivista Polis, pubblicato sul n. 1, agosto 1969 (Napoli, tipografia Napoletana). La rivista era redatta da Giuseppe Basile, Alessandro Dal Piaz, Edoardo Del Gado, Vezio De Lucia, Raffaele Molino, Antonio Oliva, Edoardo Salzano (responsabile), Lucio Scandizzo.Della rivista uscirono due numeri.

L’episodio descritto aprì una stagione di vertenze sindacali che sfociarono nel grande sciopero generale nazionale del 19 novembre 1969 per la casa, i trasporti, i servizi sociali e la lotta agli squilibri territoriali. Fu la prima volta che in Italia le organizzazioni sindacali dei lavoratori scendevano in campo per affrontare i temi della città e del territorio. Il movimento per la riforma urbanistica, già in moto dall’inizio degli anni 60, ebbe un forte impulso sebbene si concentrasse su temi più limitati: in particolare, quello della casa, che però trascinava con se la questione degli espropri e della realizzazione dei quartieri per l’edilizia economica e popolare (il rafforzamento degli istituti e delle procedure avviate con la legge 167 del 1962). Al tentativo di attuare una politica della casa che limitasse il peso della rendita immobiliare er desse ai poteri pubblici gli strumenti necessari corrispose una stagione di attentati dinamitardi e di tentativi di colpi di stato. Sull’argomento vedi, in particolare, i libri di Vezio De Lucia, Se questa è una città, Donzelli, ed Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza.

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