Incrementare il turismo. Fare del turismo il volano della ripresa. Imparare a sfruttare l’Italia, paese particolarmente adatto - per le sue eccezionali qualità storiche, artistiche, paesistiche, climatiche - a un turismo d’élite non meno che a un turismo di massa. Eccetera. Sono auspici con insistenza ricorrenti sulle bocche di politici di ogni livello, leader di partito, ministri, presidenti di regione, sindaci di piccoli comuni periferici. Puntualmente seguono, pronunciate con virtuosa convinzione, frasi del tipo “Anche perché il turismo non inquina”, “Molto meglio che alimentare consumi inutili”. Eccetera.
Nessuno, ch’io sappia, ha mai avuto nulla da obiettare. Incredibile. Nessuno sembra riflettere un attimo sulla sorte di città uniche e preziose (vedi Firenze, Venezia, il centro storico di Roma, ma gli esempi potrebbero essere infiniti) addirittura stravolte dal turismo di massa. E non solo per via delle folle stipate e faticosamente semoventi all’interno di stradine minime, vicoli e callette, nati quando gli umani erano meno di un decimo di quelli oggi viventi sulla Terra, e solo una quota minima di loro abitava in città, la maggioranza essendo allora residente e operante nelle campagne. Stradine vicoli callette che addirittura la massa dei visitatori impedisce, a sé e agli altri, di vedere, e che d’altronde pur restando (quando accade, e accade sempre più di rado) gli stessi di quattro cinque sei più secoli fa, nella struttura muraria, nelle facciate, nei tetti, negli infissi, risultano radicalmente trasformati, privi di senso, se la bottega del vecchio artigiano è stata sostituita da un fast food, e il negozio d’abbigliamento di antica tradizione si è trasformato in una jeanseria, e accanto a una celebre cattedrale staziona una bancarella traboccante di “ricordini” in alabastro e finto murano, e dovunque c’è un minimo di spazio sono tavoli e sedie di caffè trattorie pizzerie a occuparlo, e i rifiuti si ammucchiano in libertà e in vigoroso aumento.
Nessuno sembra ricordare che è stato il turismo, ricco o povero, di massa o d’élite, la causa prima della mostruosa cementificazione delle coste, non solo italiane, ma spagnole, greche, turche, nordafricane, e via via del mondo intero, invase da alberghi albergoni pensioni seconde e terze case. Che sempre il turismo, nelle sue diverse pratiche e accezioni, alla caccia di sempre nuovi e più lontani “paradisi incontaminati”, è tra i responsabili dell’abbattimento di foreste millenarie per far posto a villaggi turistici e centri commerciali, del dissesto ecologico di interi arcipelaghi, e (con il moltiplicarsi di natanti di tutti i tipi e misure, di porti grandi e piccoli, di depuratori malfunzionanti o inesistenti, di bagnanti distratti o maleducati) del crescente e sempre più allarmante inquinamento dei mari di tutte le latitudini; e quindi della distruzione di irripetibili fondali, della perdita di un altissimo numero di specie vegetali e animali, il corallo in primis, di uno squilibrio cui non pochi studiosi attribuiscono anche tsunami sempre più numerosi e violenti.
Men che meno qualcuno sembra considerare quale cospicuo apporto alla generale crisi ecologica rappresenti la mobilità che per definizione al turismo appartiene, qualunque sia il mezzo di trasporto. Automobile, con relativa produzione di gas serra, e insieme crescita esponenziale di produzione di macchine, di autostrade, di problemi di traffico urbano ed extraurbano, di malattie dell’apparato respiratorio. Aereo, con analogo ma enormemente più alto contributo all’effetto serra, e non piccolo contributo alla cementificazione del mondo mediante la moltiplicazione di aeroporti di ogni dimensione. Treno, con minore ma non trascurabile impatto ambientale connesso al numero crescente dei convogli, all’apertura di nuovi tunnel, all’alta velocità, e così via.
So benissimo, nel dire queste cose, di attirare la dura riprovazione non solo di quanti, direttamente o indirettamente, sul turismo di massa vivono e prosperano, ma anche di coloro che lo vedono come una conquista sociale, come il diritto di accesso da parte di tutti (o quasi) a quello che era privilegio di pochi, come nuova opportunità esperienziale e cognitiva da annoverare sul piano del diritto alla scuola e al sapere nella sua interezza, come strumento di sensibilizzazione e arricchimento mentale. Ma siamo certi che questa sia la funzione, e questo sia il risultato, del tipo di viaggi e vacanze “tutto compreso”, così come vengono organizzati e offerti, a prezzi di “assoluta competitività”, insomma il tipo di turismo più diffuso, in quanto accessibile a quelle masse che un tempo dal turismo erano escluse?
Viaggi per gruppi massicci, organizzati come catene di montaggio, secondo tempi strettissimi e obbligati, tappe di un giorno o due quando non addirittura di poche ore in famose città d’arte e soste di qualche minuto di fronte ai monumenti più significativi, il tutto a volte sostituito da un giro in bus con la voce della guida a indicare il Colosseo, il Louvre, il Partenone. Sempre però lasciando largo spazio a foto e filmati, e puntualmente prevedendo visite al vecchio mercatino o al nuovissimo shopping center per gli acquisti ricordo, includendo nel programma ristoranti “etnici” con cibi tradizionali da tempo adattati ai gusti dei visitatori, serate in locali di folklore anch’esso debitamente riveduto e corretto; in un sapiente gioco di rimando e accumulo tra mercato turistico e tutti i possibili mercati collaterali. Quanto può tutto questo contribuire all’apertura mentale, all’arricchimento culturale, al fervore immaginativo di una persona? E analogamente - fatta salva la “ricreazione” fisica - quanto può servire a questi scopi la vacanza in terre sempre più lontane, che proprio l’afflusso turistico non solo rende sempre più somiglianti all’occidente (nell’edilizia, nel traffico, nella cucina, nell’intrattenimento, nella crescente disponibilità di merci di produzione occidentale appunto) ma separa dal contesto generale del paese, in un processo che non ne risana ma ne contamina e squilibra la realtà, sovente creando due economie parallele, una (relativamente prospera) in dollari, l’altra (poverissima) in moneta locale?
Il fatto è che il turismo è soggetto a quel processo di assimilazione di ogni attività individuale e sociale alla merce (alla progettazione, alla produzione, alla commercializzazione, al consumo delle merci), che sempre più definisce sotto ogni aspetto l’attuale forma del sistema capitalistico, cioè il neoliberismo; il quale solo all’aumento del prodotto finalizza il proprio agire, del tutto trascurandone i contenuti, la qualità, le conseguenze. E’ un processo che riguarda ormai la totalità dei servizi, inclusi quelli che più dovrebbero restarne immuni, in quanto riguardano quella che Engels chiamava “produzione delle persone”, appunto distinguendola dalla produzione di merci: cioè non solo sanità, istruzione, ricerca scientifica, informazione di ogni tipo, ma anche le tante altre attività che hanno una significativa ricaduta sociale e culturale, che intervengono nella formazione dell’immaginario e dell’inconscio collettivi, di cui anche il “divertimento” in tutte le sue manifestazioni (ivi compreso il turismo) è parte non certo secondaria.
C’è qualcosa da fare? Non molto, temo, finché le sinistre non si accorgeranno che adeguarsi alle politiche economiche della destra, continuando a inseguire crescita, competitività, profittabilità, ecc., imponendo la quantità come categoria portante del nostro esistere, così come oggi accade, ci sta conducendo alla catastrofe, e non solo ambientale. Dopotutto il turismo, così come viene proposto e praticato oggi, appartiene a questa logica. Forse però, anche senza uscire da questa logica (cosa per ora difficilissima), si potrebbe riflettere che puntare sul continuo aumento del turismo per la ripresa economica, significa distruggere proprio quello che fa del nostro paese una meta turistica privilegiata, e dunque pervenire all’effetto opposto.
O si potrebbe almeno smettere di affermare che il turismo non inquina?