(il testo è oggi ripubblicato anche in Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese, Roma, Newton Compton editori, 1991, pp. 183-85)
La guerra agli alberi che fiancheggiano le strade italiane non si farà più, o almeno sarà condotta con criteri meno micidiali di quelli impiegati finora. Una circolare firmata dal ministro dei Lavori Pubblici e inviata all’ANAS, alle province ai comuni, alle prefetture e ai vari ministeri interessati mette un freno agli indiscriminati abbattimenti e prescrive le norme per garantire la “salvaguardia del patrimonio arboreo in rapporto alla sicurezza della circolazione”: non solo, ma per la prima volta in un documento ufficiale si parla della necessità di realizzare, anche nelle strade di nuova costruzione, un vero e proprio “paesaggio stradale”.
La condanna degli alberi era stata annunciata alla conferenza di Stresa del 1959, e la strage segnò la massima punta tra il 1962 e l’inizio del 1965: più di centomila alberi tagliati di cui oltre 23.000 solo negli ultimi mesi del ’64. La strage avrebbe dovuto estendersi ai settecentomila alberi esistenti lungo i trentaseimila chilometri di strade statali a partire dall’agosto del ’64, quando l’ANAS decise di eliminare quelli che sorgevano a meno di 150 metri dalle curve e ameno di 80 centimetri dal ciglio della carreggiata, per il resto risparmiando un albero ogni trenta metri. Fu quello il momento in cui l’ANAS mostrò tutta la sua arretratezza tecnica: da un lato pretendeva di adeguare la rete stradale italiana al traffico crescente rubacchiando qualche centimetro a destra e a sinistra a spese degli alberi; dall’altro mostrava di ignorare completamente sia i dati sulla minima responsabilità degli alberi negli incidenti, sia il parere di paesaggisti, naturalisti ed esperti in comportamento stradale circa l’utile funzione degli alberi proprio agli effetti della sicurezza di guida.
Fin dal 1959, infatti, il presidente dell’Automobile Club aveva dichiarato che, in base a un’indagine su settemila chilometri di strade statali, “solo in pochissimi casi si era potuto identificare nell’albero la causa vera e propria dell’incidente”. Nel 1961 “Medicina sociale” riportava una statistica in base alla quale gli urti contro ostacolo fisso (tra cui gli alberi) risultavano pari all’1,8 per cento del totale degli incidenti. Alla conferenza di Stresa del 1964 veniva reso noto che, su settemila incidenti del 1960, gli urti contro ostacolo fisso erano apri ad appena lo 0,8 del totale. L’anno dopo “Italia Nostra” calcolava che nel 1963 gli urti contro ostacolo fisso non avevano superato il 4 per cento degli incidenti: infine, da una statistica della polizia stradale risultava che nel 1964 gli urti contro alberi erano pari al 2,13 per cento del totale degli incidenti.
L’albero appariva dunque come l’ultimo elemento da prendere in considerazione nella casistica degli incidenti le cui cause vere, come è ovvio, risiedono nell’incoscienza dei guidatori e nell’imperfezione tecnica delle nostre strade. Ci si domandava infatti che senso avesse prendersela con gli alberi, quando si tollerava la presenza, ai lati delle strade, di paracarri, pali, muri di cinta, fossati, cunette e l’assenza di fasce di rispetto, di aree di parcheggio e riposo, di corsie pedonali, e via dicendo; quando nessuna norma urbanistica vieta ancora il sorgere di costruzioni a tre metri dal ciglio, così che le strade statali si trasformano in strade urbane, moltiplicando all’infinito le possibilità di incidenti. E ancora: quale diritto aveva l’ANAS di prendersela con gli alberi lungo le vecchie strade, quando sulle stesse autostrade di nuova costruzione si era incapaci di adottare efficaci misure di sicurezza, come dimostrano le scarpate dei rilevati, la collocazione dei pilastri dei viadotti, la minima misura dello spartitraffico, il più stretto d’Europa, causa di continue, mortali fuoriuscite a sinistra?
D’altra parte si sottolineava la funzione positiva delle alberature: esse sono un invito alla moderazione della velocità, stimolano l’attenzione contro la sonnolenza, favoriscono la “guida ottica” (mostrano cioè a distanza e in anticipo l’andamento e il tracciato della strada), formano un ambiente vario e riposante, evitano i “colpi di luce”, causa di disturbi di vario genere.
Indifferente alle statistiche e al parere degli esperti, l’ANAS tirava diritto. Organizzò anche, nel corso delle periodiche rilevazioni del traffico nazionale, uno strano referendum fra gli automobilisti, distribuendo una scheda con tre domande: gli alberi sono un elemento di pericolo? costituiscono un elemento paesaggistico essenziale? desiderate che siano eliminati? E fece gran caso del fatto che il 56 per cento aveva risposto affermativamente alla prima, il 51 per cento negativamente alla seconda, e il 54 per cento affermativamente alla terza. Si trattava però di un referendum senza senso: il problema era stato posto in maniera rozza, presentato senza alternative e in modo da sollecitare la risposta desiderata; né poteva essere altrimenti, dal momento che era stato indetto da chi era interessato a una determinata soluzione, anziché da un ente neutrale e specializzato in sondaggi di pubblica opinione. Restava dunque ancora da dimostrare quale fosse l’atteggiamento degli automobilisti nei confronti degli alberi: l’unico referendum attendibile era stato promosso dalla rivista “L’Automobile” nel 1962, e si era risolto, tra la sorpresa generale, con la maggioranza di risposte favorevoli alla conservazione degli alberi; e così un successivo sondaggio fra i soci del Touring Club. Come dire che la gente comune, in certi casi, è assai meglio di tanti persuasori occulti e palesi.
Finalmente, preoccupato delle dimensioni che il fenomeno andava assumendo e delle proteste sempre più energiche degli enti di cultura, alla fine del 1964 il ministro Mancini nominava una commissione, della quale facevano parte anche urbanisti e paesaggisti, col compito di studiare il problema con argomenti che non fossero soltanto le seghe a motore dell’ANAS. Si dovette arrivare al marzo del 1965 perché venisse preso l’ovvio provvedimento della sospensione di tutti i tagli in attesa che la commissione concludesse i suoi lavori: le vecchie abitudini contratte dall’ANAS negli anni facili costituivano un serio ostacolo, e la fissazione di tagliare gli alberi ebbe la sua parte nei motivi che portarono, nel novembre di quell’anno, all’allontanamento del direttore generale Giuseppe Rinaldi.
I lavori di quella commissione hanno portato alla circolare cui abbiamo accennato in principio. In essa si parla, come di cosa essenziale, del rispetto per “le alberature, i boschi, la flora esistenti”, e si mette in rilievo la necessità di “assumere un più sensibile atteggiamento” di fronte ai problemi del paesaggio. Il taglio degli alberi viene considerato come un’eccezione, da limitare “ai soli casi strettamente necessari” (per lavori di sistemazione e adeguamento di “tratti” stradali, per ragioni di visibilità presso gli incroci, curve, passaggi a livello ecc.), mentre si riconosce, “per altrettanto validi motivi”, cioè per il loro “interesse culturale”, l’esigenza di salvaguardare i complessi arborei esistenti. Il taglio, in quei “casi strettamente necessari”, viene sottoposto a una serie di controlli per cui l’ente proprietario è tenuto a chiedere il parere della Soprintendenza, dell’Ispettorato forestale, dell’Ente provinciale del turismo, dell’osservatorio fitopatologico, ecc. Si raccomanda il trapianto degli alberi rimossi, si accenna a servitù ed espropri di terreni in fregio alle strade, si raccomanda alle amministrazioni di prevedere nei bilanci stanziamenti per “sostituzione, reintegro o impianto di piantagioni”. Per le strade di nuova costruzione, si esigono progetti dettagliati e si danno le norme per le distanze minime, a seconda del tipo di strada e delle piantagioni da sistemare.
È, in sostanza, la prima volta che l’autonomia dell’ANAS viene sottoposta a una serie di controlli; e che la creazione del paesaggio stradale viene considerata un elemento integrante della progettazione, come da gran tempo avviene in tutti i paesi civili. C’è tuttavia da rammaricarsi di tre lacune: primo, manca una disposizione che, in caso di necessario allargamento della strada, obblighi, in linea di principio, alla conservazione dei filari e alla creazione di una carreggiata interamente nuova; secondo, la scelta dei casi “strettamente necessari” è ancora lasciata all’ANAS e quindi soggetta agli umori dei suoi funzionari, anziché a un organismo permanente, culturalmente e tecnicamente preparato; terzo, non si fa cenno alla funzione che le vecchie strade devono svolgere nel quadro della viabilità nazionale: è chiaro che nell’età delle superstrade e delle autostrade, le vecchie vie alberate non sono più fatte per le grandi velocità e le lunghissime percorrenze, ma devono servire ai traffici locali, o trasformarsi gradatamente in strade turistiche; di qui, ancora una volta, l’inutilità, anzi il danno, dell’abbattimento degli alberi. Comunque sia, siamo lontani dai tempi in cui l’ANAS annunziava “la sistematica abolizione delle alberature poste ai margini delle strade” e pensava di importare dalla Malesia alberi “elastici”.
Nota: su eddyburg a proposito della sentenza 2011 sul Codice della Strada che imporrebbe di eliminare gran parte delle alberature stradali italiane si vedano anche l'articolo di Fabrizio Bottini e quello di Alberto Cudstodero dal Corriere della Sera