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Antonio Cederna
1987, Territorio, ambiente e dintorni
1 Agosto 2007
Scritti di Cederna
Scritto esattamente vent’anni fa (luglio 1987). I dati andrebbero aggiornati, le valutazioni dovrebbero essere ribadite

Da: Cederna A.- Santucci A.- Scolaro G., Il "rovescio"della città, Introduzione di Emiliani A., Bologna, Labanti e Nanni, 1987

Perché in Italia è così difficile proteggere l’ambiente e la natura, e utilizzare in modo ragionevole il territorio?

Chi oggi intraprendesse il grand tour potrebbe alla fine scrivere quella “guida dell’Italia alla rovescia” di cui da gran tempo si sente la mancanza, in cui illustrare i maggiori scempi e disastri: pinete litoranee lottizzate, aree archeologiche insidiate dall’edilizia, mare in gabbia e coste trasformate in congestionati suburbi, fiumi ridotti a cloaca, colline e corsi d’acqua devastati dalle cave, case e industrie costruite in zone franose, preziose zone umide trasformate in campi di patate, monumenti famosi incastonati fra i casamenti della periferia, boschi abbandonati, montagne scorticate e ricoperte da fili e tralicci, pendici di vulcani urbanizzate, parchi nazionali occupati da condominii e tagliati da strade rovinose, scarichi fumanti di rifiuti, la macchia mediterranea privatizzata dal reticolo edilizio, e via dicendo. Un insensato sparpagliamento del costruito elimina ogni distinzione tra città e campagna, annulla ogni identità fisica e storica, un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto va man mano sostituendosi alla crosta terrestre.

E il lettore verrebbe a sapere che in vent’anni ben tre milioni di ettari di terreno agricolo (un decimo dell’Italia) sono stati fatti sparire, e che se non si pone rimedio si può prevedere che tra cent’anni tutta l’Italia verde sarà scomparsa. Che da questo saccheggio (ispirato alla più completa ignoranza delle caratteristiche di paesaggio, territorio, suolo) deriva in gran parte il dissesto idro-geologico che ci affligge, le alluvioni bi-trimestrali, le tremila e più frane all’anno (un morto ogni dieci giorni). Che da anni imperversa il più folle spreco edilizio, per cui abbiamo ottanta milioni di stanze per 56 milioni di italiani, mentre sempre più acuta è la crisi degli alloggi (ma ben quattro milioni sono gli alloggi vuoti), senza parlare del flagello dell’abusivismo, per cui nel Mezzogiorno due case su tre sono fuori legge.

Che l’Italia è alla coda della graduatoria universale per quanto riguarda aree protette (solo l’1,5 per cento del territorio, contro medie del 10 per cento negli altri paesi, terzo mondo compreso).

Che non un solo parco pubblico degno del nome è stato realizzato nelle città, per il riposo, la ricreazione, il tempo libero di giovani e adulti, mentre grandiose realizzazioni sono in corso in tutta Europa, da Vienna a Parigi a Monaco, eccetera.

Le radici di questa arretratezza sono profonde e diffuse. Troppi politici e amministratori considerano anche il territorio come merce da barattare, terra di nessuno ovvero proprietà di chi riesce ad arraffarlo. Il mondo accademico (che pomposamente si definisce “comunità scientifica”) è assorto nei propri pensieri, ossequioso verso il potere, incapace salvo eccezioni di azioni coraggiose. Gli uomini di cultura sono da sempre indifferenti ai problemi della vita associata, e considerano “anime belle” chi si batte per la difesa dell’ambiente. Gli addetti ai lavori, architetti e urbanisti, salvo una valorosa minoranza, disprezzano la cultura della conservazione e smaniano di lasciare ovunque la propria “impronta”, spropositando che senza architettura la natura non varrebbe niente. La stampa, per quanto più attenta di una volta, è vittima del culto demenziale della notizia, e “notizia” significa fatto clamoroso, catastrofe, incendio, alluvione, eccetera, per cui troppo spesso si riduce a semplice registrazione tardiva di fatti compiti, con tanti saluti all’altro culto sbandierato, quello dell’attualità. Quanto alla scuola sappiamo il poco che si fa per educare i giovani al rispetto, alla conoscenza, al giusto comportamento.

Al fondo di tutto ciò ci dev’essere una qualche radicata malformazione culturale. Semplificando si può dire che le principali componenti della nostra cultura non hanno dato buoni frutti. L’idealismo ci ha insegnato che la natura non esiste, che il paesaggio è uno stato d’animo, cioè un’apparenza soggettiva e inafferrabile. Il cattolicesimo (ovvero, la tradizione giudaico-cristiana) ha dissacrato il concetto che della natura aveva il mondo classico, e ne ha fatto despota l’uomo. Il marxismo ha per troppo tempo sottovalutato i problemi del territorio, considerandoli sovrastrutturali, e rimandandone la soluzione alla palingenesi universale. Il risultato è la convinzione, fatta propria dalla moderna società industriale, che il progresso si identifichi con l’urbanizzazione a qualunque costo, il benessere con la crescita continua della produzione, e quindi con il cieco consumo delle risorse, spazio, suolo, territorio, ritenuti pressoché illimitati.

Se le cose stanno così, c’è spesso da chiedersi come sia possibile prendersela troppo con la maleducazione della gente qualunque, che sporca, getta la cicca accesa, strappa i fiori, malmena gli animali domestici e stermina quelli selvatici, sega gli alberi davanti alla casa per “vedere il panorama” (che nei giochi di parole crociate è definito “soggetto per cartoline”); o prendersela troppo con gli amministratori del villaggio, ultimi esponenti di un’incultura generalizzata, tutta intrisa di disprezzo per l’ambiente naturale, considerato oggetto di violenza. Chi mai direbbe che siamo il paese di San Francesco, il santo più immeritato e meno italiano, che ha detronizzato l’uomo dal suo dominio sulla natura e ha predicato la tenerezza, la fratellanza con ogni altra cosa animata e inanimata, che predicava agli uccelli rapaci, raccoglieva da terra le lumache perché non venissero calpestate e raccomandava di lasciare in ogni orto un pezzo di terra non coltivata perché potessero liberamente crescere le erbacce.

Non tutto è nero, certo. Cresce la “domanda di natura”, si organizzano gruppi di pressione su singoli problemi, fervida è l’attività delle associazioni protezionistiche, la magistratura interviene più frequentemente, una legge recente ha esteso il vincolo ambientale a intere categorie di beni (coste marine, fiumi e laghi, boschi e foreste, montagne al di sopra di una certa quota eccetera): ma è necessario intensificare l’azione per immunizzare la gente contro i perniciosi demagogici luoghi comuni diffusi da tutti coloro che dal saccheggio del territorio traggono le loro fortune.

Dicono ad esempio che la difesa dell’ambiente naturale costi troppo: quando la verità è esattamente il contrario, perché è la mancata opera di prevenzione o tutela che rovescia sulla collettività ingenti costi sociali: basta pensare ai tremila miliardi di danni che ogni anno ci procura il dissesto idrogeologico, o a quel che costa, per ricordare un disastro recente, l’inquinamento dell’Adriatico, che annienta la pesca e scaccia i turisti.

In realtà, la difesa della natura rende molte volte di più di quello che costa. Il turismo di soggiorno ed escursionistico promosso dalle aree protette e dai parchi arreca benefici economici duraturi alle popolazioni: il milione di visitatori del parco d’Abruzzo mette in giro quaranta-sessanta miliardi l’anno; e si è calcolato che, qualora venissero istituiti i parchi nazionali da tempo annunciati, sarebbero trentamila i posti di lavoro, diretti o indotti, che verrebbero creati (ma ancora si aspetta l’altra legge fondamentale, quella in difesa della natura e per l’istituzione di parchi e riserve). Senza dire dei benefici non monetizzabili, il valore infinito delle risorse e degli equilibri naturali più segreti e complessi, essenziali sia alla sicurezza del suolo sia all’elevazione culturale: perché a tutti sia concessa quell’esperienza liberatoria che è la contemplazione, la comprensione, lo studio dell’ambiente incontaminato. Gli sciocchi dicono che “non si deve mummificare la natura”, come si trattasse di un cadavere: mentre la natura è un laboratorio formicolante di vita che solo la conservazione può garantire: una vita, quella dei pesci, degli aironi, degli stambecchi, delle farfalle, dei lombrichi eccetera, dalla quale dipende per direttissima la vita degli uomini.

Dobbiamo dunque impegnarci per favorire una drastica riconversione culturale, basata su alcuni principî elementari. Suolo, territorio, ambiente sono una risorsa scarsa, limitata per eccellenza, da utilizzare con estrema parsimonia e rigore scientifico.

Non è possibile un autentico progresso economico e sociale senza una preventiva, lungimirante costante politica ecologica che metta fine agli sprechi e quindi ai costi della degradazione ambientale e dell’inquinamento: continuare a consumare le risorse col criterio dell’“usa e getta” è semplicemente suicida.

D’altra parte, la risorsa scarsa, limitata, irriproducibile per eccellenza è il suolo, il territorio: ogni sforzo dunque va fatto per porre fine al consumo irresponsabile che ne è stato fatto in decenni di sprechi, leggerezze e saccheggi.

Se si continuasse col passo attuale della cieca espansione edilizia, stradale, industriale eccetera, tra poco più di un secolo tutta l’Italia sarebbe ricoperta di una continua, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto, tale da distruggere ogni produttività agricola e cancellare la stessa fisionomia paesistica, naturale, culturale di quello che fu chiamato il Bel Paese. Bisogna dunque che coll’aiuto di urbanisti ambientalisti ecologi, le pubbliche amministrazioni (comuni, provincie, comunità montane, regioni eccetera) si decidano a fare sistematicamente i conti, a fornire cifre relative al consumo di suolo e territorio perché tutti possano rendersi conto del disastroso traguardo che ci sta davanti se non si cambia rotta: un’Italia a termine, destinata ad essere consumata e finita nelle prossime tre o quattro generazioni.

Gli amministratori sono restii a fare calcoli e a fornire le cifre, perché sono un essenziale strumento di conoscenza che può mettere in crisi il partito dei saccheggiatori: ma qualcuno ha cominciato a informare la pubblica opinione. I dati sono ancora parziali: ma come le “proiezioni” fatte alla televisione dopo la chiusura dei seggi elettorali esaminando un numero assai limitato di schede, già possono dare attendibili indicazioni su quello che sarà il risultato finale. Dunque, dai calcoli del CENSIS coi dati dell’ISTAT, risulta quanto segue.

Il suolo agricolo utilizzabile nell’ultimo decennio è diminuito del 9,4 per cento, perché distrutto dall’avanzare dell’urbanizzazione o perché abbandonato.

Regione per regione, è diminuito dell’8 per cento nel Veneto e in Lombardia, dell’11 per cento in Calabria, del 12 per cento in Liguria, Piemonte e Sicilia, del 16 per cento in Sardegna, del 17 per cento nel Friuli-Venezia Giulia. Nell’ultimo trentennio le aree non più classificabili come utilizzabili a fini produttivi hanno raggiunto la dimensione di circa 5 milioni di ettari (una superficie pari a Piemonte più Lombardia): il consumo è proceduto a un ritmo medio di 150.000 ettari all’anno.

In particolare, le aree metropolitane, cioè urbanizzate, sono raddoppiate: l’espansione delle città ha divorato la campagna al ritmo di 25-35.000 ettari all’anno. In sintesi, come ha calcolato Giuliano Cannata della Lega Ambiente, dal ’70 all’81 i terreni perduti, perché abbandonati o occupati da edifici, strade, industrie, cave, discariche eccetera, sono passati dal 12,5 al 20,6 per cento del totale, pari a consumo medio dello 0,7-0,5 per cento all’anno: nell’ultimo ventennio circa 3 milioni di ettari di terreni agricoli sono andati distrutti (e sono un decimo dell’Italia). Come dire che se si continuasse ad andare avanti così, “tutto il territorio italiano, dal Cervino a Capo Passero, sarebbe finito in poco più di cento anni”.

Questa prospettiva suicida è il risultato di quella distorsione mentale che il CENSIS chiama “rimozione del territorio”. Con incoscienza l’abbiamo considerato come un vuoto da riempire, una res nullius, un oggetto di baratto e una fonte di lucro: i comuni hanno confezionato strumenti urbanistici grottescamente sovradimensionati, senza alcun rapporto coi reali fabbisogni, praticamente considerando tutto edificabile. Qualcuno ha calcolato che se si sommassero le cubature previste dai piani regolatori e programmi di fabbricazione, l’Italia risulterebbe capace di ospitare, sulla carta, una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica.

Il deprimente spettacolo che offre il nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. Un inverecondo sparpagliamento edilizio sommerge pianure e colline, abolendo ogni distinzione fra città e campagna, e sommerge le aree agricole, nel disprezzo per gli aspetti paesistici, per l’ambiente naturale. L’edilizia dilaga a nastro lungo le strade, a ragnatela nelle periferie urbane: al costruito si accompagna l’asfalto, le discariche di rifiuti, i terreni vaghi, degradati, l’abbandono (a ogni ettaro costruito ne corrisponde mediamente un altro in attesa di essere liquidato).

È il “deserto abitato” che avanza nel disordine totale, rendendo a poco a poco irriconoscibile l’Italia: una clamorosa smentita alle regole elementari del vivere associato, un’incolta irrisione a ogni norma elementare di pianificazione urbanistica, un crescita dissennata che aumenta paradossalmente proprio mentre cala l’incremento demografico.

Due sono le indagini recenti che danno un’idea drammatica della situazione: una riguarda l’area metropolitana milanese e la Lombardia in generale, l’altra la provincia di Roma. Come è stato documentato recentemente dal “Centro documentazione e ricerche” della regione Lombardia, nell’area metropolitana milanese (oltre un centinaio di comuni, 180.000 ettari) il consumo di territorio ha ormai raggiunto il 33 per cento, in nove anni (1963-1972) ne è stato distrutto più che nel secolo precedente, e si procede al ritmo dell’1 per cento all’anno, anche se è finita la grande espansione economica e demografica. Il piano territoriale comprensoriale ha posto dei limiti alle previsioni comunali, e si propone di contenere l’espansione complessiva entro il 50 per cento, entro il duemila, che è già una “soglia di allarme”: se invece le cose continuassero ad andare per il verso sbagliato, osserva Gianni Beltrame, direttore del comprensorio, tutto il suolo verde e agricolo dell’area metropolitana milanese sarebbe finito entro 67 anni.

Al consumo di territorio per incontrollato avanzare di urbanizzazione, si aggiunge quello dovuto al degrado (brutta parola diventata ormai di uso comune), cioè a quell’insieme di interventi in vario modo offensivi e distruttivi, che vanno dall’attività selvaggia delle cave alle discariche di rifiuti all’isterilimento del suolo nelle sudicie frange periurbane. Come ha osservato l’economista Mercedes Bresso al convegno, in Lombardia le cave, “vera e propria industria del dissesto”, compromettono circa 20.000 ettari, pari al 2 per cento della superficie regionale. Ad essi va aggiunto un 1-2 per cento di discariche e di depositi di rifiuti, più un 8 per cento di “degrado diffuso” (spazi compromessi da utilizzazioni precarie, fasce di rispetto stradale, variamente occupate, depositi di materiali industriali, fabbricati in stato di abbandono eccetera): si arriva così all’11-12 per cento di territorio degradato, pari a circa 100.000 ettari, quasi il 10 per cento del suolo utile lombardo. Disordine, spreco, inquinamento delle falde idriche, erosione del suolo, distruzione di terreno agricolo: quanto costa il risanamento, il ripristino, il recupero di un terreno così devastato? Si valuta che il costo sarebbe di 35-40 milioni ad ettaro: quindi, in Lombardia occorrerebbe spendere 3.500-4.000 miliardi, che diventano almeno 10.000 se l’operazione venisse estesa ai casi che richiedono interventi complessi (sgomberi, abbattimenti, eccetera). Ecco quali sono i costi sociali scaricati sulla collettività dal saccheggio del territorio.

Altri dati allarmanti vengono forniti dall’indagine condotta dall’Assessorato al bilancio e alla programmazione della Provincia di Roma, circa le destinazioni d’uso previste dagli strumenti urbanistici dei 118 comuni che la compongono. Il risultato è che, senza contare Roma, è prevista l’edificazione (tra zone di espansione, di completamento e turistiche) di 2.300.000 stanze per altrettanti abitanti: se si aggiungono i 7-800.000 vani residui previsti dal piano regolatore di Roma (tra edilizia privata e pubblica) si arriva a più di 3 milioni di stanze: come costruire ex novo un’altra Roma accanto all’esistente. A tanto più giungere il sonno della ragione, l’allegra incoscienza urbanistica (intanto, da anni, il territorio della provincia romana viene consumato al ritmo di tre ettari al giorno).

La prospettiva è dunque certamente catastrofica: il “giardino d’Europa” corre alla rovina, e rischia di essere tutto consumato entro poco più di un secolo, a meno che mentalità, cultura e politica non cambino radicalmente. Che fare? Occorre mettere finalmente da parte il mito anacronistico, folle e rovinoso della crescita illimitata fatta solo di sprechi, e decidersi a considerare il territorio come il bene più prezioso perché scarso e limitato, quindi come bene collettivo da conservare gelosamente. Non si salva ciò che non si conosce: è urgente impegnarsi alla conoscenza scientifica del territorio e del suolo nei loro aspetti produttivi, fisici, geo-morfologici, ambientali, paesistici, naturalistici (uno studio del genere è stato fatto dal comune di Padova), e imparare a rispettarli.

Dobbiamo rovesciare il nostro modo di agire: non più urbanizzare alla cieca risparmiando eccezionalmente (quando pure a fatica ci si riesca) qualche area eminente, ma trattare tutto il territorio come un parco in linea di principio inedificabile, alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni eventuale intervento. Altrimenti assisteremo alla distruzione del nostro stesso spazio di vita, e a poco a poco la terra ci sarà strappata di sotto i piedi.

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