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Guglielmo Epifani
C'è del nuovo nella CGIL. Che ne pensa il segretario?
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
Il Sindacato torna a occuparsi del territorio? Parrebbe di si, a leggere il numero speciale di Carta dedicato alle Camere del lavoro. Sottotitolo: "La nuova proposta di sei sindacati territoriali della CGIL - Vertenze locali per reinventare città e democrazia". Qui l'intervista al Segretario generale della CGIL, raccolta da Pierluigi Sullo, che apre il fascicolo

Intervista a Guglielmo Epifani di Pierluigi Sullo

Guglielmo Epifani era già impegnato nel braccio di ferro con il governo a proposito del Documento di programmazione economica e finanziaria [Dpef], quando gli abbiamo chiesto di fare questa conversazione sulla proposta di una serie di Camere del lavoro, le organizzazioni di base e territoriali del sindacato. L'«autunno sarà caldo», aveva fatto sapere la Cgil, una volta ascoltati i propositi del governo Berlusconi e all'indomani del taglio del dieci per cento delle spese dei comuni. Dunque, il momento era delicato, e il tempo scarso.

Eppure, come si può leggere in queste pagine, Epifani ha scelto di discutere a fondo le tesi delle Camere del lavoro. Un paio di anni fa, quando in un'altra intervista gli chiedemmo cosa pensasse del reddito di cittadinanza, Epifani rispose «per la mia cultura, al centro resta il lavoro, però capisco che è un tema sul quale bisogna discutere». L'apertura è un metodo, dunque.

Ma in più, certamente, il sistematico taglio, da parte del governo delle destre, della spesa sociale, al centro come nelle città, la «riforma» delle pensioni e così via, c'entrano molto, con la discussioni sulle vertenze locali che le Camere del lavoro propongono, e con la partecipazione cittadina.

Pare ci sia del nuovo, nel sindacato. L'inizio di «un progetto nazionale di rapporti diretti tra le Camere del lavoro» - come lo chiama Cesare Melloni, segretario della Cgil di Bologna - propone una innovazione nella struttura stessa della Confederazione: si pensa a un sindacato «a rete», «orizzontale», e non più solo «verticale» e centralizzato. È così?

É utile avviare una sperimentazione di rapporti diretti fra le strutture sindacali territoriali nella stessa misura in cui nella realtà produttiva e sociale si sono di fatto avviate molteplici relazioni fra i sistemi territoriali.

Le filiere produttive, così come i processi migratori, mettono in rapporto le strutture sindacali di categoria e confederali per gestire «situazioni di fatto», spesso a «valle» di decisioni già assunte dalle imprese o dalle istituzioni. Nel nostro caso, l'innovazione che si vorrebbe adottare con la sperimentazione di rapporti diretti fra strutture territoriali riguarda la possibilità di co-progettare una linea di intervento sindacale quando ancora è possibile incidere sulle decisioni dei diversi attori. Insomma un sindacato «a rete», più «orizzontale», può, in molti casi, essere molto efficace nello svolgere meglio la funzione sociale alla quale è chiamato.

Nelle intenzioni di chi propone quel progetto, si tratta di «ridare forza e progettualità al lavoro» affrontando lo squilibrio di potere tra capitale e lavoro «dal lato - cito da una delle relazioni al convegno di Sasso Marconi - del sistema territoriale e nella forma urbana». Che nesso vede, il segretario generale della Cgil, tra mondo del lavoro e «forma urbana»?

La forma urbana riproduce, mediato, nello spazio della città, gerarchie sociali che sono imposte direttamente nel rapporto di lavoro.

Questo fatto è diventato di immediata evidenza nel corso di questi anni, quando si sono indebolite le funzioni di riequilibrio sociale delle politiche di welfare e sono emersi bisogni e domande che si scaricano sulla condizioni di lavoro.

Il caso più eclatante è costituitoo dalla legge Bossi-Fini, che pone in carico al datore di lavoro di mettere a disposizione un alloggio per il lavoratore-migrane, il quale si trova così ad essere subalterno in azienda e ricattato come cittadino, proprio perché subalterno nelprapporto di lavoro.

In forma meno evidente, anche le politiche di incentivazione degli asili aziendali o della mutualità integrativa aziendale ripropone un doppio legame fra sfera del lavoro e sfera della cittadinanza, con effetti di «fidelizzazione del lavoratore che fanno leva sulla dipendenza nel rapporto di lavoro.

La iniziativa sindacale sul territorio deve, perciò rilanciare la necessità di investimenti per politiche di welfare locale, anche come sostegno alla partecipazione al lavoro e come strumento sociale di redistribuzione del reddito, svincolata dalla condizione e dal rapporto di lavoro.

La «forma» urbana riproduce la diseguaglianza e la gerarchia sociale anche nella distanza crescente fra centro urbano, sempre più «vetrina» affluente ed esclusiva, da una parte, e periferia anonima, sempre più sinonimo di marginalità sociale e di ghettizzazione etnica, dall'altra.

In sintesi, si può dire che la convergenza di interessi e di valori fra figura del lavoratore e la figura del cittadino i ichiede una cultura ed una pratica sindacale capaci di cogliere le diverse e complesse dimensioni della condizione umana nell'epoca della globalizzazione.

II punto di partenza delle Camere dei lavoro è la critica dello sviluppo. Sembra, dice Dino Greco, segretario della Cgil di Brescia, che basti mettere il segno «più» davanti a «Pil», e tutto o quasi è risolto. La mia impressione è che la Cgil, quando parla di «declino industriale» del paese, sembri alludere a un problema soprattutto quantitativo; poi, basta aggiungere l'espressione «di qualità», pensando soprattutto alla competizione globale, e l'obiezione è respinta. Sbaglio?

La Cgil, e certamente le sei Camere del lavoro impegnate in questo percorso, hanno come punto di partenza non una critica generica allo sviluppo, ma una critica specifica e argomentata a una forma di sviluppo attenta per l'appunto solo all'aspetto quantitativo [il segno «più» davanti al Pil] e che passa fatalmente per la sostanziale subordinazione del lavoro e dei diritti ad una logica tutta costruita sull'impresa. Si tratta, in sostanza, della storia di questi anni, scritta a quattro mani dall'ex presidente di Confindustria, D'Amato, e dal presidente del consiglio: attacco ai diritti del lavoro e dei lavoratori [vedi la legge 30; la legge Bossi-Fini sui lavoratori-migranti; la pratica degli accordi separati ...], sistema di incentivi finalizzati a finanziare le imprese senza alcuna priorità né selezione, rottura del sistema concertativo, attacco frontale al sistema dei servizi. È proprio questa impostazione che non poteva che portare al declino del Paese, amplificando gli effetti di una crisi più generale ed alimentando l'incapacità di cogliere le opportunità di ripresa.

Per la Cgil, battaglia contro il declino, industriale e non solo, è innanzitutto quindi battaglia per la qualità dello sviluppo, che vuol dire innovazione, non solo del sistema produttivo ma anche del prodotto; ricerca tecnologica; formazione e qualificazione; coesione sociale come valore aggiunto per il sistema Paese nel suo complesso; scommessa su un sistema che preveda, tra i principali fattori di sviluppo, la valorizzazione dell'apporto del lavoro. E ovviamente, un sistema di relazioni industriali che faccia del confronto e della ricerca di soluzioni condivise, il suo perno di riferimento.

Le parole «locale» e «comunità», non molto amate dal linguaggio tradizionale della sinistra, tornano spesso nel discorso delle Camere del lavoro. Che dicono: non solo la tutela e lo sviluppo di un welfare che voglia ricucire la società, ma la stessa qualità della produzione industriale, devono modellarsi sulle società locali, pena cadere nelI'anomia dell'omologazione imposta dalla globalizzazione, i cui modelli di produzione e consumo sono già dati. Cosa ne pensi?

Credo sia giusto, per le Camere del lavoro che operano sul territorio, e perciò complessivamente per la Cgil, porre il tema della qualità dello sviluppo in chiave innanzitutto «territoriale». In una fase in cui i processi di globalizzazione rischiano di produrre la sostanziale estraniazione delle comunità, ma anche delle istituzioni locali e della società corrispondente, dai livelli decisionali, è strategico porre con forza il tema della definizione di condizioni che consentano di stare nella competizione come sistema territoriale strutturato che offra coesione sociale, lavoro qualificato ed esperto e garantito, infrastrutture all'altezza, trasporti e reti di ricerca e innovazione.

In questo senso, trovo legittimo e positivo sostenere che la qualità e le caratteristiche della produzione industriale devono tenere conto della società locale, anche per definire modelli di produzione e di consumo innovativi. Penso, ad esempio, a come collegare ricerca, innovazione tecnologica ad un nuovo modo di «vivere bene», riservato non solo a ricchi e dintorni e che perciò arricchisca complessivamente la comunità e il suo territorio.

È plausibile, secondo te, un modello di vertenza territoriale come quello che le Camere del lavoro propongono e che punterebbe a creare un «fondo sociale» locale? Può, questo modello, coesistere con gli altri livelli di attività sindacale?

Certo che sì. Il problema delle risorse disponibili sul territorio è ormai a livello di guardia e, con l'attuale impostazione di politica finanziaria seguita dal governo, che mortifica le autonomie locali, rischiamo davvero situazioni difficili per la tenuta dei servizi. Del resto, come si diceva prima, sono sempre più evidenti i nessi tra cittadinanza, lavoro, politiche di sviluppo territoriale, che comprendano i temi della partecipazione e della responsabilità sociale del sistema delle imprese.

La proposta di costituire un «fondo di sostegno alla qualità dello sviluppo e della coesione sociale» prova a costruire una modalità innovativa per drenare nuove risorse, finalizzarne l'utilizzo a priorità sociali condivise, quelle che costituiscono [se non risolte] elementi forti di strozzatura del sistema e della sua stessa competitività: la casa, i servizi all'infanzia, la non autosufficienza...

Non mi pare ci possa essere un problema di compatibilità di questo percorso con il resto dell'attività sindacale; viceversa qui si tenta di dare una parte di orizzonte comune alla contrattazione aziendale e di secondo livello e alla contrattazione che si svolge sul territorio e che, in alcune delle Camere del lavoro impegnate in questa iniziativa, è particolarmente diffusa e regolarmente praticata.

In sostanza, si può produrre una nuova, feconda integrazione tra i diversi ambiti negoziali che li rafforza e li valorizza entrambi e che guarda esplicitamente al modello di sviluppo ed alla sua qualità: la proposta del «fondo» può in qualche modo rappresentare un possibile strumento di tutto questo.

Nelle ultime elezioni amministrative, molti hanno notato, ad esempio Sergio Cofferati, che le alleanze opposte alle destre hanno avuto maggior successo quando hanno saputo creare «coalizioni» con le nuove forme di partecipazione cittadina. Non ti sembra che l'iniziativa delle Camere del lavoro sia in sintonia con questa tendenza? E cosa pensi dei progetti «neomunicipali», cioè appunto della sperimentazione democratica a livello locale?

Farei intanto un osservazione. Nelle elezioni amministrative si è andati meglio laddove si è riusciti a tenere insieme le due cose: da una parte gli schieramenti politici e di partito, che hanno svolto la

loro parte, dall'altra ìl mondo vario e complesso della partecipazione cittadina. Bologna è stato un po' l'emblema di tutto questo: una alleanza politica che ha visto insieme in modo convinto tutte le componenti di partito [e che ha retto anche rispetto alla formazione delle giunte comunale e provinciale], ìn una logica, però, e con la capacità di coinvolgere tutto il mondo dell'associazionismo. Se non sbaglio, Cofferati ha potuto contare sull'appoggio dei partiti, da Di Pietro a Rifondazione, e, nello stesso tempo, di 82 associazioni locali.

L'iniziativa delle Camere del lavoro si inscrive in qualche maniera, e in modo sostanzialmente originale, dentro questo nuovo modo di fare la politica sul territorio. Anche qui il caso Bologna è emblematíco: la Camera del lavoro ha messo in piedi un proprio percorso programmatico sulla città, prima ancora che fosse avanzata la candidatura Cofferati, costruendo una proposta precisa e articolata, frutto di una serie di confronti pubblici ai quali ha partecipato una parte consistente dell'associazionismo, del mondo universitario, della società civile. Quella proposta [«Un'altra idea di città»] ha rappresentato un punto importante di riferimento per il programma, ma anche per la campagna elettorale del candidato sindaco.

Quanto ai progetti «neomunicipali», credo siano esperienze da costruire e seguire con attenzione: c'è una voglia di ritorno ad essere partecipi, a stare nelle discussioni, a «uscire dal guscio», che va sostenuta e consolidata. Definire forme di partecipazione democratica che aiutino in questa direzione può essere utile e interessante: il bilancio partecipato è il primo strumento che si potrebbe utilizzare, sapendo che le persone non vogliono essere solo informate, ma vogliono poter incidere sulle scelte che rícadono sulla propria vita. Allora bisognerà approfondire, analizzare e poi progettare, definendo procedure e metodi adeguati ed efficaci. Si farà più fatica, ma siamo convintì che nulla potrà essere più efficace e produttivo, per amministrare bene le città e le province.

Nel suo ultimo articolo, Tom Benetollo ha scritto che si deve difendere l'«autonomia del sociale» dalle «spire» della politica dei partiti. In caso di ritorno al governo dei centrosinistra, e con la nuova direzione di Confindustria, la Cgil potrebbe tornare alle forme di «concertazione» del decennio scorso?



La concertazione per la Cgil è sempre stata un metodo e mai un fine, la condivisone di obiettivi e la messa in comune di volontà. Senza obiettivi condivisi, la concertazione non può esistere. La concertazione invoca la presenza, accanto alle parti sociali, del governo e delle istituzioni locali. In Italia esistono centinaia di accordi di concertazione ogni anno, e nessuno ha nulla da ridire.

La concertazione, quindi, non annulla l'autonomia delle parti sociali: in questo quadro, anzi, solo il mantenimento di un autonomo punto di vista critico delle parti può portare ad un pratica concertativi corretta. Quando si polemizza con la concertazione, si pensa ad un punto di vista specifico e ben preciso [gli accordi del 1992 e 1993]: anche su questo i giudizi della Cgil sono ampiamente conosciuti e non vale la pena di ripeterli.

La Cgil concerterà quando ci saranno le condizioni, ricorrerà al conflitto quando sarà necessario, con l'obiettivo di governare i processi reali, partendo dalla rappresentanza degli interessi e dei bisogni reali che rappresentiamo, senza mai smarrire la mappa dei propri valori fondamentali.

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