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Andrea Segrè
Zero sprechi contro la crisi
12 Aprile 2013
Nostro pianeta
Una breve interessante riflessione sui famosi limiti dello sviluppo o sostenibilità che dir si voglia, ma che coinvolge virtuosamente anche i nostri stili di vita.

Una breve interessante riflessione sui famosi limiti dello sviluppo o sostenibilità che dir si voglia, ma che coinvolge virtuosamente anche i nostri stili di vita. L'Unità, 12 aprile 2013 (f.b.)

Vivere a spreco zero: un auspicio semplice, un verbo a due parole messe in fila per enunciare una piccola rivoluzione, non solo grammaticale. Una visione che si è già tradotta in azione, il presente che vive e vede il futuro. La via d’uscita da una crisi economica, ecologica, etica, estetica – tante «e» – che non solo sembra senza fine ma è anche estrema – un’altra e – nelle sue profonde e crescenti disuguaglianze. Senza fine perché è in crisi ciò che sta a monte dell’economia e delle altre «e»richiamate: la politica. Che non riesce più a proporre nulla di nuovo, una visione lungimirante, che preveda – nel senso letterale del verbo – un investimento sul futuro, prestando attenzione prima di tutto ai giovani, alla loro formazione e al loro lavoro.

La nostra, quella italiana in particolare, è una politica poco sostenibile. Ma non nel senso dei sui costi, anche quello certamente. Una politica che non vede la sostenibilità - per definizione la durata nel tempo - come orizzonte. L’epoca che stiamo vivendo non ha pari nella storia dell’umanità per il livello di conoscenza e il progresso raggiunti. Ma è altrettanto impari nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze, delle tecnologie. Ricchezza e povertà, fame e sazietà, sviluppo e sotto- sviluppo: tutto si oppone.

E la forbice fra chi ha e chi non ha si allarga sempre di più. Nella crisi, e tutti i dati disponibili lo confermano, i poveri aumentano e stanno sempre peggio, mentre i ricchi diminuiscono ma stanno sempre meglio. In Italia come altrove nel mon- do. È falso, come dice Zygmut Bauman, che la ricchezza di pochi è la via maestra per il benessere di tutti. Le disuguaglianze crescono sempre più velocemente, come se il tempo scorresse in un’altra dimensione che non si misura più nella «lunga durata», quella di Ferdinand Braudel per intenderci, ma nel fast and low, veloce e minimo, scarso, basso.

EGUALI E DISEGUALI

Tuttavia, se è vero che «tutti gli esseri umani nascono uguali», questa retorica ci suggerisce che in realtà non lo siamo, almeno nell'accesso alle risorse e alle opportunità, punto di partenza molto spesso della discriminazione sociale. Anche solo considerando il punto di vista economico, i dati della Banca d'Italia pubblicati alla fine del 2012 fanno ben comprendere il nostro squilibrio: il 10% delle famiglie italiane ha in mano il 45,9% della (cosiddetta) «ricchezza complessiva del Paese». In altre parole, a proposito di parole (molto) usate negli ultimi tempi, nel nostro Paese cresce lo spread fra ricchi, sempre di meno ma più ricchi, e poveri, sempre di più e più poveri. Del resto, già don Lorenzo Milani nella sua Lettera a una professoressa diceva: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali».

Ma accanto alla disuguaglianza sociale, creata dai sistemi economici e politici, vi è anche quella naturale. Che di per sé non è affatto catastrofica. Il sociologo tedesco Ulrich Beck spiega questa «naturalizzazione» dei rapporti sociali di disuguaglianza e di dominio: «Mentre la disuguaglianza delle opportunità di vita dovuta al reddito, al titolo di studio, al passaporto (…) reca per così dire scritto sulla fronte il suo carattere sociale, la disuguaglianza radicale delle conseguenze climatiche si materializza nel moltiplicarsi o nell’intensificarsi di eventi naturali di per sé “familiari” (inondazioni, uragani), a cui non sta scritto sulla fronte che sono il prodotto delle decisioni sociali».

Ma quanto tempo potranno durare queste tanto crescenti quanto insopportabili disuguaglianze? Che mondo è questo? Un mondo che deve durare nel tempo, che deve mantenere la sua musica, che è la vita, allungando le note e la loro risonanza come si fa con il pedale del pianoforte, sustain in inglese. La sostenibilità dunque, meglio ancora durabilité in francese: durare, mantenersi nel tempo, di generazione in generazione, essere capaci di adottare una visione-azione di lungo periodo, sia in campo economico sia ecologico, per tenere conto dei diritti di chi verrà dopo di noi e delle conseguenze future delle nostre azioni dell'oggi. Le risorse naturali alla base dei nostri bisogni fondamentali – il suolo, l'acqua, l'energia – non sono infinite e neppure scarse come sostiene qualcuno. Se le dobbiamo consumare – ci servono per vivere – dobbiamo anche consentire la loro rigenerazione nel tempo, che poi è il compimento della sostenibilità. La società sostenibile deve dunque rinnovarsi continuamente. Del resto, rinnovare contiene anche il verbo innovare che significa ricercare e sperimentare, nuovi prodotti, processi, tecnologie. Paradossalmente, l’ideale è proprio partire da un fenomeno assai negativo nella percezione comune: lo spreco. Di cibo, di acqua, di tempo, di vite, di risorse...c’è sempre qualcosa o qualcuno che si spreca. Eppure la stessa parola fornisce la strada, la formula. Basta dividerla in due e aggiungerci un meno e un più: lo «spr» è la parte negativa, l’«eco» quella positiva. Dobbiamo ridurre l’eccesso, il surplus, il troppo e far crescere l’eco, la casa grande (Natura) e piccola (Uomo). Lo «zero» numera, al minimo, l’obiettivo. Che in questo modo diventa il più alto, pur essendo il più basso in assoluto.

Vivere a spreco zero si gioca dunque fra due sostantivi che sono la base dello stare al mondo: sostenibilità e rinnovabilità, ovvero durare e rigenerare. Una società fatta di donne e uomini che, nella riduzione al minimo assoluto dello spreco, dell’eccesso, dello sperpero, del surplus, dell’eccedenza, dell’inutile, del di più, vive (sta al mondo appunto) per durare nel tempo rinnovandosi continuamente. Un’utopia? No, se l’utopia la consideriamo come un orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: «serve per continuare a camminare»(Eduardo Galeano).

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