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Marco Guerzoni
«Volta la carta la ze finia». Luigi Meneghello, il paesaggio nella lingua
20 Luglio 2007
Scritti ricevuti
Un affettuoso saluto d'addio allo scrittore veneto, scritto per eddyburg all'indomani della scomparsa (27 giugno 2007)

E’ morto Luigi Meneghello. Il TG ne ha dato notizia la sera scorsa, lapidario, sul finire della trasmissione, dopo l’ultima notizia, quella che riguardava Lele Mora e il suo amico Corona: «E’ morto a Thiene, Luigi Meneghello, saggista dialettale veneto, che da tempo viveva in Inghilterra, tra le sue opere ricordiamo Libera nos a Malo. Arrivederci e buona serata».

Se ne va sottovoce Meneghello, così com’è stato il ritmo della sua vita e delle sue opere, premiate e riconosciute solo di recente, e non certo con enfasi particolare. La sua opera più nota – Libera nos a Malo – è del 1963, pubblicata dal coraggioso e pionieristico editore Feltrinelli, approdata poi presso Rizzoli nel 1975, per essere diffusa al grande pubblico – negli Oscar della stessa casa editrice – solo dieci anni dopo, a oltre vent’anni dalla prima uscita.

Quando la lingua italiana, nel dopoguerra, era il giusto collante di una neonata e gracile Repubblica, Meneghello sceglieva due volte d’andare contro corrente. Da un lato il dialetto alto vicentino (di Malo), piegato, adattato per un pubblico non veneto, a raccontare le piccole e straordinarie saghe familiari, di una terra che stava transitando sommessamente dall’agricoltura alla «protoindustria». Perchè solo la fonia del dialetto, le sue allegoria, la forza evocativa, è il coadiuvante audace per costruire il discorso attorno ad una società così particolare come quella veneta tra le due guerre mondiali del secolo scorso.

D’altro lato, ancora contro corrente, il Piccolo Maestro, il partigiano che nel ’44 dall’Università di Padova, coi suoi coetanei sognanti, si oppone al fascismo e si fa partigiano nelle montagne venete, stabilisce, subito dopo la guerra, che la lotta partigiana non aveva dato vita al Paese che stava nei sogni di quegli stessi Piccoli Maestri, alla scuola di Toni Giuriolo. Dopo l’esperienza nel Partito d’Azione – da lui giudicata deludente - Meneghello si trasferisce in Inghilterra, dove fonda e dirige un corso di letteratura italiana. Era il 1946. Vi rimarrà stabilmente fino ad oggi.

«(..) la politica è la regina di tutte le cose. Toni Giuriolo – il nostro maestro – ci aveva insegnato, e non solo a parole, ma fecendotelo capire, che la politica è inseparabile dall’assetto della tua mente, mi pareva evidente….però non è durato molto questo “affaire” con la politica. Nell’immediato dopoguerra, il partito che incarnava la mia idea di politica è andato a farsi benedire fin dal primo congresso. Il nuovo partito perfetto, avrebbe dovuto essere il partito d’azione. Purtroppo nessuno votava per noi, neanche le nostre fidanzate mi sa, perché i voti che prendevamo erano uguali al numero degli iscritti (...). Dopo i primi due anni del dopoguerra, mi sono accorto che le cose andavano male, che il Paese aveva scelto diversamente, si era diviso in due campi, e ho pensato: in questo mondo non ho più niente di utile da fare. (...) Poi c’era la voglia di andare a conoscere altre civiltà contemporanee (...). Arrivavi in un paese, l’Inghilterra, che era considerato reazionario o conservatore e trovavi invece che il senso dello “spartire” tra la gente, spartire le durezze, le difficoltà, le privazioni, era incomparabilmente più diffuso che da noi. Noi parlavamo di socialismo e loro lo realizzavano» [1].

Della sua storia e della sua produzione letteraria, inevitabilmente e irriducibilmente battagliera, rimangono quei passi memorabili legati a un paesaggio veneto (e italiano!) misterioso e scomparso, dove la ricerca filologica e linguistica sono servite a «globalizzare» immagini di una quotidianità epica. Fa quasi sorridere pensare a Meneghello che negli anni sessanta, racconta agli studenti britannici, in un «gramlot» angloveneto, la storia e i personaggi di Malo nel vicentino, avamposto sconosciuto di un confuso Paese in via di normalizzazione. Che cos’avranno pensato quegli studenti ascoltando il professore italiano «dispatriato» (così lui si definiva) che leggeva «un libro scritto dall’interno di un mondo dove si parla una lingua che non si scrive[2]»?

Sbaglia chi vede in gente come Meneghello e nella sua opera (o in quella di Zanzotto, o Rigoni Stern) il fertile humus per indottrinamenti neolocalistici, per sentimenti bigotti di difesa del «particolare», in contrasto con lo spavento o la paura per un mondo che avanza e propone (o impone) sparizione delle tradizioni, standardizzazioni degli stili di vita, eliminazione delle differenze. Al contrario, la capacità così singolare e sim-patica di evocare il passato, la tradizione, «un mondo perduto», fa emergere la voglia non tanto di recuperarlo quel mondo, ma di salvare, «manutenere» e riprodurre alcuni valori, universali e per definizione senza tempo. Valori come il paesaggio, la socialità, l’amicizia, la tolleranza, che sono cristallizzati nel lessico dialettale di Meneghello. Parole e termini e modi di dire, che evocano questi valori come nessun altra lingua o codice evocano. Uno stile che inconsapevolmente (forse) abbandona la prosa per farsi poesia, diventando suono e immagine.

«C’erano luoghi inesprimibilmente ameni lungo il torrente: boschetti di acacie, praticelli come quello in fondo al Prà, oltre il doppio anello dei platani, un margine d’erba più basso del prato comunale, quasi al livello del torrente. Il dirupo del torrente lo chiude scendendo con uno speroncino di roccia aggirato da una traccia di sentiero nel sasso. Sopra la roccia un aspro recinto di spine rinserra il brolo antico del prete, aggrappato alla costa che spiove, e da questa parte affatto inaccessibile.»[3]

La silente scomparsa di Meneghello, ascoltata al TG, farebbe smettere di sorridere, se non si continuasse a leggerlo, con l’esplicito invito a giocare col dialetto, a sorridere dei paradossi della nostra terra, della nostra gente e dei nostri tempi. Liberaci dal letame (il luàme) o dal male, è in fondo la stessa preghiera.

«Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago»[4].

[1] Mazzacurati C., Paolini M. (2006), Luigi Meneghello. Dialoghi, Fandango Libri, Roma.

[2]Meneghello L. (1986), Libera nos a Malo, Oscar Mondadori, Milano.

[3]Ibd, pag. 93.

[4]Ibd, intro.

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