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Romano Prodi
Voglio luoghi in cui tutti possiamo vivere meglio
23 Maggio 2006
Articoli del 2005
Il testo integrale delle lettera del candidato premier, postata sul suo sito (www.romanoprodi.it) l’11 novembre 2005. “La trasformazione urbana, richiede una regia”; pubblica, naturalmente.

Care amiche e cari amici, qui di seguito, sottopongo alla vostra attenzione una mia riflessione sul tema delle periferie che tanto sta facendo discutere.

Tutt’altro che una novità, le mie parole sulle periferie e il loro malessere sono l’espressione di una mia preoccupazione antica: ne ho sempre parlato nei miei interventi in giro per l’Italia ed era un tema affrontato già nel 1995 in una delle 88 tesi per il Programma dell’Ulivo, la numero 65 intitolata “Ricostruire la città costruita: una politica per la città”. Ne cito alcuni passaggi: “occorre cambiare completamente direzione - vi si legge -…riqualificare l’esistente…valorizzare le periferie…ricostruire la città costruita , come nell’esperienza di alcune amministrazioni locali, in modo da riqualificare la città, promuovendo luoghi e spazi per la comunità. Di importanza dominante è affrontare il problema drammatico delle periferie (dove si concentra il maggior malessere di vita del nostro paese) con interventi sui servizi, le infrastrutture, il verde pubblico e privato, con la manutenzione delle zone comuni”.

In quelle poche righe, frutto del lavoro di tanti, è già indicata sinteticamente una direzione per affrontare un problema che si è progressivamente aggravato nel tempo ed è il frutto di una somma di elementi. Da quelli che hanno a che fare con la pianificazione territoriale e con un’edilizia non pensata per la comunità e per le persone che ci devono vivere e non solo dormire, a quelli della disoccupazione e della scarsità di servizi, da quelli della povertà e dell’esclusione sociale fino a quelli (più recenti per il nostro Paese) legati ai flussi di immigrazione.

So benissimo che non siamo Parigi. Ma penso che occorra cogliere per tempo, anche da noi, i segnali di disagio piccoli o grandi che siano. E i segnali ai quali mi riferisco - lo hanno detto in questi giorni diversi esperti di scienze sociali- non riguardano soltanto le situazioni più drammatiche di alcuni quartieri di alcune città soprattutto del nostro mezzogiorno (e non solo) ma anche la vita quotidiana di città ricche. Sono segnali, per esempio, le famiglie che iscrivono i figli nelle scuole di quartieri diversi da quelli in cui vivono, le persone che evitano, più o meno giustificatamente, di attraversare certe zone cittadine, caseggiati o quartieri che vengono progressivamente abitati (dati in affitto o venduti da cittadini italiani) soltanto da persone straniere. Tutti fenomeni che segnalano una comunità che si sta frantumando e nella quale gli anziani vivono in solitudine, i bambini crescono senza spazi per loro, e dove rimangono a vivere le famiglie con più problemi.

La “geografia della città”, cioè la trasformazione urbana, richiede “una regia”. Non nego che molte amministrazioni abbiano già cominciato da tempo ad affrontare il problema con anche qualche buon risultato. Ma gli equilibri raggiunti sono delicatissimi e sempre da tenere sotto osservazione. Su di essi infatti si scaricano sempre le nuove emergenze. Si può dotare un quartiere di servizi e far funzionare un centro di aggregazione sociale, illuminare le strade e rinnovare l’arredo urbano, e tanto altro. In questo modo si riesce a ridar vita a quel quartiere. Ma se, in modo non programmato (e oggi le occasioni sono moltissime), ti arrivano improvvisi insediamenti di nuclei familiari con tanti problemi, devi ricominciare da capo. Programmare una città vuol dire arrivare a capire prima (e, quindi, prevenire) ed evitare che i problemi si concentrino in una sola area. Altrimenti fai i quartieri “ghetto”.

Ecco perché condivido l’opinione secondo cui le città devono tornare al centro dell’agenda politica italiana. Sempre più spesso la città entra nel dibattito politico per le pur giustificate preoccupazioni sulla sicurezza e non come il luogo in cui crescono le persone, i nostri figli, dove dobbiamo vivere noi stessi, i nostri anziani e i nuovi cittadini. Un luogo che richiede anche innovazione amministrativa, tecnologica, sociale, ed economica.

Qualche giorno fa, su “La Stampa”, la sociologa Chiara Saraceno ha efficacemente sottolineato le diversità e le somiglianze tra la situazione francese (dove i problemi sono vissuti in particolare dalla terza generazione di immigrati) e quella del nostro Paese (dove invece il disagio riguarda tanto ancora gli italiani). E proprio sui quartieri in disagio si rovesciano quasi inevitabilmente i problemi degli immigrati. Finiamo così con il chiedere ai più deboli di farsi carico anche della convivenza con altre culture.

La politica deve dunque occuparsi primariamente delle origini del disagio che sono ancora una volta il lavoro precario o mancante, la casa che non c’è, la scarsità di servizi, una scuola che promette troppo poco.

Occorre inoltre una grande attenzione quotidiana allo spazio intorno a noi, una vera e propria “politica della manutenzione”, perché è importante vivere in luoghi “curati”. Io sono nato in una città, Reggio Emilia, in cui si è sempre teorizzato che una scuola bella è un ulteriore maestro: “l’ambiente è un insegnante in più. In ambienti migliori si apprende meglio”. Lo diceva il pedagogista che ha progettato la “celebre” rete delle scuole materne reggiane. Ed è per questo che mi dispiace che le periferie siano spesso così esteticamente brutte.

Per tutte queste ragioni, ci vuole sinergia tra politiche economiche e del lavoro, politiche dell’immigrazione, politiche sociali soprattutto finalizzate all’inclusione, politiche urbanistiche ed abitative, affinché sappiano creare case e quartieri vivi e non ghettizzanti, con verde e spazi comuni, in cui la gente possa vivere meglio. Bisogna tornare ad impegnarsi nell’edilizia sociale (siamo rimasti molto indietro rispetto agli altri Paesi europei).

E, dunque, nessun equivoco. A queste cose pensavo quando, intervenendo qualche giorno fa ad un gruppo di studio sul welfare alla Fabbrica, ho lanciato l’allarme sulle nostre periferie. Oggi prendo atto che la mia preoccupazione è condivisa da più parti, a cominciare dal ministro dell’Interno le cui parole non sono interpretate da nessuno come l’invito a provocare rivolte incendiarie in giro per l’Italia. Me ne rallegro: segno che qualche spazio di confronto, benchè faticosamente strappato a strumentali polemiche di parte, ancora sussiste.

Lo ribadisco: Parigi non è qui ma, se non agiamo per tempo, potrebbe non essere così lontana. L’ho detto anche in relazione al fatto che questa Finanziaria che interviene in un momento di grande crisi del Paese in cui si allarga sempre di più la forbice tra ricchi e poveri, taglia risorse proprio a quelle amministrazioni locali che dovrebbero aiutare le periferie più disagiate.

Io voglio luoghi in cui tutti noi possiamo vivere meglio

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