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Isabella Bossi Fedrigotti
Vita (e morte) da ciclisti
26 Luglio 2013
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Una sacrosanta richiesta di maggiore attenzione e investimenti per un modo di trasporto spaventosamente penalizzato sul versante della sicurezza.

Una sacrosanta richiesta di maggiore attenzione e investimenti per un modo di trasporto spaventosamente penalizzato sul versante della sicurezza. Corriere della Sera Milano, 26 luglio 2013 (f.b.)

È successo ancora. L'altra notte un ciclista settantenne è stato travolto e ucciso sul colpo da un'automobile in viale Monza. Sembra che stesse attraversando, esattamente come aveva fatto Beatrice Papetti, la sedicenne di Gorgonzola rimasta vittima, poco più di due settimane fa, di un pirata della strada, sulle strisce pedonali. Si dirà adesso che i passaggi pedonali sono, appunto, riservati ai pedoni, esattamente come i marciapiedi. E si ripeterà anche che i ciclisti — ormai più o meno famigerati, stando alle accuse convergenti di chi va a piedi e di chi va in automobile — non rispettano niente e nessuno, che passano con il rosso, che vanno in contromano, che di notte non hanno luci e che, in sovrappiù, sono anche maleducati.

Tutto vero, ma intanto sempre più si rivelano anello debole della catena del traffico, addirittura più debole dei pedoni, in quanto solo una minoranza osa salire sui salvifici marciapiedi mentre la maggioranza resta allo sbaraglio in strada. Anello debole che soccombe: non a caso ogni giorno in Italia un ciclista perde la vita e quaranta finiscono feriti in ospedale; e la Lombardia si segnala, assieme all'Emilia Romagna e al Veneto — regioni dove per antica tradizione circolano più biciclette — per il maggior numero di vittime.

Che saranno mai, si può pensare, trecentocinquanta ciclisti su un totale di circa seimila morti all'anno per incidenti stradali? Sono, invece, infinitamente troppi: calcolando come valore medio 1, il rischio di mortalità per loro è, infatti, il 2,18, il più alto in assoluto: per i motociclisti è l'1,96, per gli automobilisti lo 0,78 e per i camionisti lo 0,67. E, tanto per aggiungere qualche dettaglio al triste catalogo, si contano più vittime tra uomini e donne sopra i sessantacinque e tra i ragazzini che hanno età compresa fra i nove e i quattordici anni.

Cha fare allora? Che si diano multe a chi pedala contromano, a chi passa con il rosso, a chi al buio non ha luci adeguate, ma che si costruiscano piste ciclabili, possibilmente protette da un cordolo o, in alternativa, che si permetta alle biciclette di salire sui marciapiedi, almeno quelli più larghi. Resterà il problema della maleducazione, della pretesa dei ciclisti, in quanto convinti di essere «virtuosi», di avere più diritti degli altri, ma se ci fosse una legge che proibisce la villania, metà dei cittadini si ritroverebbe, probabilmente, multata, pregiudicata. Quando l'anno scorso una giornalista londinese venne travolta e uccisa da un camion mentre andava in redazione in bicicletta, il suo giornale, ilTimes, lanciò una campagna di sensibilizzazione internazionale per rendere le città più sicure per i ciclisti, che ebbe una certa risonanza anche in Italia, sebbene delle urgenze segnalate dal quotidiano inglese si fosse da noi preso in considerazione praticamente soltanto l'obbligo del casco, del quale, comunque, poi non si è più parlato. Sarà una piccola cosa, per lo più, è vero, detestata dalle signore, però qualche vita di ciclista la potrebbe forse salvare.

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