Vent´anni dopo nella sinistra italiana non è come nei romanzi, non è cambiato quasi nulla. «La svolta dell´89, la fine del Pci nel ‘91, dovevano essere l´inizio di una storia nuova della sinistra italiana che poi non si è realizzata. Meglio, è stata impedita con ogni mezzo dalla nomenclatura». L´analisi di Achille Occhetto, l´ultimo segretario del Pci, è spietata. «Esasperata, direi. E´ esasperante una sinistra che impiega quattordici anni per tornare all´Ulivo, ucciso nella culla nel ‘96 per una manovra di palazzo. È come se il coraggio si fosse esaurito tutto alla Bolognina. Ma forse è vero che già allora, nel modo in cui i dirigenti affrontarono il dibattito, erano affiorati antichi vizi, un certo opportunismo»
Non sarà per caso pentito della svolta?
«Al contrario, ma tutto avvenne troppo in fretta. Io pensavo a un cambiamento epocale, a una grande svolta libertaria della sinistra. Non mi accorsi che il gruppo dirigente la considerava soltanto il male minore, un astuto stratagemma per mettersi al riparo e anzi garantirsi l´ingresso nei salotti buoni. Il lutto per la fine del comunismo venne elaborato con cinismo, come un via libera alla pratica del peggiore compromesso»
L´immagine era quella di un leader solitario, circondato dallo scetticismo, pure non dichiarato, degli altri dirigenti. Era così?
«Sì, quella scelta fu compiuta in parte in solitario, sfruttando in fondo il mito dell´obbedienza al capo tipica dei partiti comunisti. Pochi erano davvero convinti, uno di questi era Fabio Mussi. Molti altri si fermavano alla superficie, non dico al marketing, al cambio del nome e del simbolo, che infatti è stato poi replicato senza cambiare la sostanza»
Chi era i padri culturali della svolta?
«I grandi del pensiero libertario italiano, da Gramsci ai fratelli Rosselli, Gobetti, Salvemini. Fra i politici dell´epoca Brandt e Olof Palme, i maestri del pacifismo e dell´ecologismo. Ma anche qui m´illudevo. Nei fatti ha trionfato un vecchio modello togliattiano, l´ossessione del potere per il potere»
In quello che lei considera il fallimento della svolta è stata però decisiva la rovinosa sconfitta della «gioiosa macchina da guerra» nelle elezioni del ‘94.
«Ma la responsabilità di quella sconfitta era in gran parte dei centristi. L´ex Dc di Martinazzoli non accettò di far parte di una coalizione di centrosinistra. Come avrebbe dovuto fare due anni più tardi. Rimasero aggrappati alle macerie del Muro di Berlino, come del resto tutti in Italia continuano a fare, a destra e a sinistra. Conviene. Non esiste un paese dove la vita pubblica, al di là delle rutilanti apparenze, sia più bloccata su vecchi temi, oltre che vecchie facce. E non è soltanto colpa di Berlusconi, la sinistra ha dato il suo contributo»
Non è un giudizio ingeneroso nei confronti dei suoi ex compagni di partito, sono tutti conservatori mascherati?
«Ma guardiamo i fatti. Chiunque si sia allontanato dalle pratiche della nomenclatura, chiunque fosse considerato per un verso o per l´altro fuori dagli schemi, è stato usato per la sopravvivenza e fatto fuori appena possibile. Non parlo del mio caso, sarei un narcisista. Ma dello stesso Romano Prodi, di Sergio Cofferati, di Walter Veltroni»
È anche vero che sia lei che Prodi, Cofferati e Veltroni vi siete arresi piuttosto rapidamente, le pare?
«Vede, il problema è lo stesso di allora, dell´89. Mi ero reso conto benissimo che per affrontare un vero cambiamento bisognava aprire le porte alla società, uscire dalle fumose stanze dei vertici di partito. Ma l´ingresso degli esterni, il rinnovamento anche generazionale del partito, venne vissuto come una minaccia, un´intrusione, un´invasione di campo dell´antipolitica. Lo stesso è accaduto con i comitati per l´Ulivo di Prodi, con il rapporto di Cofferati con i movimenti e infine col progetto di Pd aperto di Veltroni. La questione centrale del Pd è identica a quella del Pds e sta nel rapporto chiuso con la società. Ogni volta si cambia il simbolo, il nome, l´immagine e per un po´ s´illude l´elettorato, ma poi la logica della nomenclatura prevale e i consensi tornano a disperdersi»
Nel rapporto con gli esterni si riferisce a Vendola, Di Pietro, Grillo, al popolo viola e in generale a un´area a sinistra del Pd che è oggi l´unica in espansione, insieme alla Lega?
«Certo. E chi fa il politico di professione dovrebbe pure domandarsi perché è in espansione e perché invece il Pd è inchiodato nei sondaggi intorno al 25 per cento. Mi colpisce soprattutto l´ostracismo nei confronti di Nichi Vendola. Posso capire che Di Pietro e Grillo vengano considerati lontani, in certo senso estranei alla storia della sinistra, ma perché Vendola? E´ uno che viene da una storia tutta dentro la sinistra e rappresenta comunque una grande risorsa. Che vinca o no le primarie, è l´unico in grado di portare a un´alleanza di centrosinistra milioni di voti che altrimenti andrebbero persi alla causa. È incredibile che i dirigenti del Pd considerino Vendola un fenomeno estemporaneo, una specie di fricchettone che gioca con Internet. Si vede che neppure le batoste insegnano loro nulla. E quella presa in Puglia era piuttosto sonora»
A distanza di vent´anni, dove pensa di aver sbagliato, di che cosa si sente responsabile?
«Abbiamo sbagliato allora per la fretta, nell´urgenza storica. Abbiamo sbagliato a non spiegare che il mondo era cambiato profondamente, non soltanto per il crollo del comunismo, e bisognava tornare a studiare la società. Ancora oggi la visione del mondo del lavoro della sinistra italiana è legata a vecchi schemi, a modelli sociali tramontati negli anni Ottanta. C´è un gran fermento di fondazioni che non studiano nulla e sono soltanto trucchi per fondare correnti. Nella storia del vecchio Pci, io che ho dovuto chiuderla, salvo tante cose e altre ne rimpiango. E quella che rimpiango più di tutte è questa, l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare per capire i grandi mutamenti sociali»