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Rosetta Loy
Vedi alla voce Complice
6 Maggio 2004
La Resistenza
Una pagina di storia da ricordare, oggi che si tenta di accreditare la tesi che “di notte tutti i gatti sono grigi, che fascisti e antifascisti erano uguali, partigiani e repubblichini avevano ragione entrambi. I gatti sono tutti ugualmente grigi solo la notte: nella notte della smemoratezza. Rosetta Loy, su l’Unità del 10 ottobre 2003, ci aiuta a ricordarlo

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Una pagina di storia da ricordare, oggi che si tenta di accreditare la tesi che “di notte tutti i gatti sono grigi, che fascisti e antifascisti erano uguali, partigiani e repubblichini avevano ragione entrambi. I gatti sono tutti ugualmente grigi solo la notte: nella notte della smemoratezza. Rosetta Loy, su l’Unità del 10 ottobre 2003, ci aiuta a ricordarlo

Viviamo in uno strano tempo dove accadono guerre che avevamo creduto non dover vedere mai più. Solo che oggi vengono addobbate con nomi «soft»: guerra umanitaria, enduring freedom, guerra preventiva, simili a quei belletti spalmati sui defunti perché i parenti possano, in quelle guance dipinte di rosa e in quelle bocche rosse, illudersi sulla rigidità cadaverica. Lo stesso progetto di edulcorazione sembra spandersi come un miele sulla storia alle nostre spalle, o più precisamente su una certa storia che ha marchiato di tragedie l’Italia, e succede sempre più spesso che nei discorsi su Mussolini si rimanga invischiati in una sorta di melassa quasi tornasse l’eco dell’agitarsi dei gagliardetti e la mascherata delle divise, i roboanti proclami del Mare Nostrum. La mia generazione cresciuta fra «Credere Obbedire Combattere», «È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende», «Noi tireremo diritto» con il calce l’inconfondibile firma, ha dovuto faticare non poco per liberarsi dall’apoteosi di una violenza che ci avvolgeva in un tripudio di glorie a venire, e mai avvenute.

Ma abbiamo anche imparato a fiutarne subito l’odore.

La data di oggi porta a riflettere sull’addolcimento che ha ammorbidito anche le «leggi razziali» fasciste, mettendole a confronto con quelle naziste. È una vecchia storia questa di buttare sempre le colpe sulle spalle dei tedeschi. Un velo pietoso viene oggi disteso sulle leggi che difendevano la nostra purezza di «razza ariano nordica» (chissà se ne penserebbe Bossi di un calabrese o un lucano «ariano nordico»), le prime leggi razziali a interessare un paese europeo, dopo la Germania. Esecrabili, anche se non ancora criminali; e arricchite di infiniti codicilli persecutori durante il corso disastroso della guerra. Ma è soprattutto sulle disposizioni adottate dalla Repubblica Sociale dopo l’8 settembre che l’amnesia è totale. Un colpo di spugna è passato sui diciannove mesi in cui la Repubblica di Salò rimase attiva. Eppure il giorno stesso della sua costituzione, il 23 settembre del 1943, quella Repubblica sanciva «la deportabilità degli ebrei di cittadinanza italiana». Una sola frase che equivaleva a una condanna a morte in quanto significava Auschwitz. Ma questo era solo l’inizio: il 10 e l’11 ottobre i quotidiani in edicola informavano gli italiani che tornavano in vigore le norme antiebraiche abrogate dopo il 25 luglio e annunciavano ulteriori misure intese a «mettere definitivamente gli ebrei in condizione di non poter più nuocere agli interessi nazionali» (chissà quale minaccia rappresentavano delle persone in maggioranza private del lavoro, della scuola, e di buona parte dei loro beni). Il 6 novembre Mussolini aveva già sul suo tavolo il progetto di legge «inteso a regolare la questione razziale, appoggiandosi alla legislazione germanica in materia, nota sotto il nome di legge di Norimberga». Progetto trasformato nel «manifesto programmatico» presentato il 14 novembre, alla prima assemblea del nuovo Partito Fascista a Verona, manifesto che al punto 7 stabiliva che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». La stessa assemblea quel giorno dichiarava che il nuovo stato era «programmaticamente antisemita». E con tutta tranquillità il 20 novembre il ministro dell’Interno Buffarini Guidi poteva disporre, con l’ordine di polizia n. 5, l’«arresto di tutti gli ebrei a qualsiasi nazionalità appartengano e il loro internamento in campi provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento appositamente attrezzati».

Sempre quello stesso anno, il 16 dicembre, il Consiglio dei ministri, presieduto da Mussolini, approvava lo schema destinato a diventare decreto legge il 4 gennaio del ’44 che imponeva ai capi delle provincie di procedere «immediatamente alla confisca di tutti i beni di qualsiasi natura (aziende, terreni, fabbricati, crediti vari, valori depositati nelle banche, mobili di arredamento, soprammobili, stoviglie, lenzuola, vestiario ecc.) delle persone di razza ebraica».

Nel marzo del ’44 furono ancora elaborati alcuni progetti legislativi che estendevano la persecuzione a tutte le persone con più di un bisnonno ebreo. Progetti che fortunatamente non fecero a tempo a essere realizzati e l’ordine di arresto (e conseguente deportazione) continuò a colpire «solo» le vittime già individuate, ossia tutti quelli che avevano otto o sette bisnonni ebrei, praticamente tutti quelli che ne avevano cinque, una parte imprecisabile ma consistente di quelli che ne avevano quattro, un ristretto gruppo di chi ne aveva tre o due. Ma lascio qui la parola a Michele Sarfatti il cui libro «Gli ebrei nell’Italia Fascista» raccomando soprattutto a chi è colpito da amnesia o è stato scarsamente informato.

Scrive Sarfatti: «Dal 1° dicembre 1943 i capi delle Provincie della Rsi cominciarono ad allestire i campi di internamento provinciali e i questori a programmare gli arresti. Le operazioni iniziarono presso le abitazioni degli ebrei, perquisite alla ricerca di arrestandi e poi sigillate perché poste sotto sequestro. Gli arresti furono in linea generale attuati da reparti non «specializzati» della polizia ordinaria. Il capo della provincia di Vercelli trovò del tutto ovvio chiedere ai podestà, nella loro qualità di ufficiali di pubblica sicurezza, di collaborare «pienamente con gli altri organi di polizia». Anche da parte italiana, tra i corpi che contribuirono con un apporto specifico all’arresto degli ebrei, vi furono quelli incaricati della sorveglianza al confine con la Svizzera. Fiero dei cinquantotto arresti eseguiti «dai primi di ottobre ad oggi» e dei «rilevanti valori» sequestrati in tali occasioni, il 12 dicembre 1943, il comandante della II legione «Monte Rosa» della Guardia nazionale repubblicana confinaria scrisse al capo della provincia di Como: «È così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica - rifugio di rabbini tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi Fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie della Guardia Nazionale Repubblicana che indefessamente, su tutti i percorsi anche i più rischiosi con qualsiasi tempo e a qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati, vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda».

Forse non è inutile ricordare che gli ebrei bulgari furono gli unici, nei paesi alleati dei tedeschi, a non finire in un campo di concentramento perché il Re si rifiutò di firmare l’ordine. Re Boris morì poco dopo in circostanze misteriose, probabilmente ucciso. Ma nessuno dei suoi sudditi fu deportato.

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