Colpisce, in questa campagna elettorale rissosa e poco propizia ad una reale discussione sui contenuti, il numero di appelli, decaloghi, proposte sul nostro patrimonio culturale. La situazione preagonica del Ministero per i beni e le attività culturali è ormai conclamata: le cronache quotidiane ci raccontano sia del degrado dei monumenti, sia delle difficoltà sempre più pesanti che affrontano musei e biblioteche pubbliche. Crolli e chiusure sono i sintomi della condizione di totale irrilevanza cui il Ministero è ridotto da troppi anni e almeno tre ministri. Associazioni ambientaliste, intellettuali, giornalisti ne richiedono, unanimemente, una radicale riforma. Renato Esposito ed Ernesto Galli della Loggia si sono spinti oltre, proclamando la necessità di istituire un Ministero della Cultura che costituisca niente meno che l’antidoto all’attuale “paralisi della coscienza nazionale” ed elabori un nuovo “ruolo dell’Italia in Europa”.
Davvero improbabile che una specifica struttura dell’amministrazione statale possa essere investita di un compito così vasto e complesso, per cui caso mai occorre ripartire dalla scuola e dall’educazione, ad ogni livello e pensando ad un processo interdisciplinare che coinvolga anche patrimonio culturale e paesaggio. Ma la provocazione di Esposito e Della Loggia ha l’indubbio merito di ribadire una gerarchia di priorità verso la quale il mondo politico dimostra un consenso superficiale e puramente mediatico. Basta leggersi quell’Agenda di Mario Monti che alla voce cultura ha riservato una striminzita paginetta con molte banalità, mentre una delle sue candidate, l’ex presidentessa del Fai, per ribadire quale sarà il suo impegno a favore del patrimonio culturale ha auspicato che «la cultura sia, naturalmente dopo il lavoro, naturalmente dopo l’emergenza dei nostri conti, naturalmente dopo altre emergenze, una delle grandi priorità del Paese» (Giornale dell’Arte, 1/2013)
E’ esattamente quello che non vogliamo più: la tutela del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio deve essere al primo posto dell’agenda di chi ci governerà perchè significa in primo luogo lavoro: per i tantissimi giovani precari che già adesso, in condizioni davvero poco dignitose, garantiscono la tenuta del nostro sistema, scavando nei cantieri archeologici, catalogando libri e documenti, consentendo l’apertura di musei, siti, biblioteche, altrimenti chiusi.
E ancora lavoro ottenuto attraverso un’opera di manutenzione e riqualificazione delle nostre città, dei nostri centri storici e di un territorio che in Italia coincide con il paesaggio. La prima grande opera che, attraverso la prevenzione dei danni sempre più ingenti provocati dai disastri naturali, consentirebbe ingenti risparmi sui bilanci dello Stato.
La cultura non viene nè prima, nè dopo le grandi emergenze che conosciamo, ma le attraversa tutte. E si fonda su quell’infrastruttura fondamentale che sono patrimonio culturale e paesaggio. Da lì occorre ripartire, ripensando radicalmente al Ministero per i beni e le attività culturali, non solo in termini di aumento della qualità e quantità delle risorse – economiche, di personale, di competenze – ma anche e soprattutto di rapporti funzionali fra le strutture dello Stato e della Repubblica.
Ancora prima di ogni costruzione o riforma ministeriale, infine, occorre tornare, dopo un decennio di apnea intellettuale, ad una visione politica del patrimonio culturale e del paesaggio degna di questo nome.