Sinistra che era utopica, e ora si scopre atopica: c’è contraddizione? Mi pare di no. Certamente no: utopia e atopia possono tranquillamente coesistere, mescolando l’una i propri potenziali guai a quelli dell’altra.
E ha ovviamente ragione Eddy quando osserva, nella sua postilla all’articolo di Ilvo Diamanti sulla “Sinistra senza Luoghi”, che sembra mancare del tutto qualunque conoscenza di territorio, o forse meglio qualunque rapporto fra questa conoscenza e le idee di governo del futuro.
Ma mi tornano in mente, chissà perché, le facce di un gruppetto di giovani (studenti, presumo) che qualche anno fa alla fine di un convegno, dove fischiava prepotente il vento delle grandi categorie dello spirito, si sono avvicinati al tavolo dei relatori, puntando occhi speranzosi sul sottoscritto (che si aspettava invece di vederli virare verso le superstar accademiche locali). Il loro più audace portavoce, mi chiedeva poi rispettoso come avessi mai potuto escogitare un sofisticato metodo di indagine territoriale come quello che avevo esposto poco prima.
Gettandomi nell’imbarazzo più totale: quale metodo avevo citato? A quale teoria, a me evidentemente sconosciuta, si stava riferendo il mio giovane speranzoso interlocutore? Come potevo al tempo stesso non deluderlo, e cercare di uscire alla svelta da quell’equivoco?
Poi, ascoltandolo un po’ meglio, un raggio di sole ha squarciato le tenebre: il misterioso “metodo di indagine territoriale” che avevo appena esposto, interessando tanto i giovani della platea (e magari annoiando gli altri relatori), era quello di andare a vedere direttamente, e prendere qualche appunto. Fine.
L’interesse di quei ragazzi si era risvegliato perché parlavo di cose che conoscevano, facevano parte della loro vita quotidiana. Cose che però non ritrovavano mai, o quasi mai, nelle riflessioni sul “territorio” con cui si cimentavano nelle aule universitarie: ricche di affascinanti categorie, giudizi, definizioni, quanto disperatamente estranee al mondo tangibile fuori dall’aula. Insomma utopia e atopia in quel caso avevano chiaramente finito di sovrapporsi, confondendosi l’una con l’altra.
E si trattava fra l’altro di un caso alto e raffinato di confusione, ben diverso da quello più o meno praticato dal nostrano centrodestra, riassunto dall’articolo di Diamanti, e che vorrei qui riassumere con lo slogan di “ Earthquake Theme Park”, parco a tema del terremoto.
Cos’è infatti, essenzialmente, un parco a tema? Diamo un’occhiata ai fatti: si recinta un pezzo di territorio, ci si costruisce dentro uno spazio altamente simbolico, “falso” in quanto propone un’immagine del mondo dichiaratamente improponibile fuori da lì, e si fa pagare l’ingresso per godersi la simulazione. Poi scesi dalla giostra si varcano i cancelli nell’altra direzione, e arrivederci alla prossima visita! Manca qualcosa? Ovviamente si.
Mancano il resto del territorio, e tutto ciò che territoriale non è, ma su cui il parco a tema (sin dai suoi esordi, non solo Disneyland, ma anche esempi più antichi come i Sacri Monti) proietta nello spazio e nel tempo la propria luce. È esattamente quello che il centrodestra, ognuna delle varie componenti a modo suo, ma con una manovra complessivamente efficacissima, pratica da anni, e che ha raggiunto il suo punto più alto col terremoto in Abruzzo, e la trasformazione appunto di quel territorio in un recinto fatato, dove le favole sapientemente diventano realtà, e i luoghi carburante ad alimentare il motore dell’immaginario e del consenso. D’altra parte, anche gli altri aspetti diciamo così minori (le piccole giostre di paese che scimmiottano e/o replicano localmente il grande parco a tema) continuano imperterriti a funzionare: dall’ascolto vero o presunto degli interessi dei produttori di ricchezza, alla tutela della qualità degli spazi di convivenza, marchio “sicurezza”.
Come nei migliori parchi a tema, poi, a proiettare la luce della giostra sul resto della città e sulle tenebre della campagna ci pensano i mezzi di comunicazione, se si sanno usare bene. Quel recinto simbolico invade così il resto del mondo: sogno realizzato, o meglio quasi sul punto di realizzarsi, se non fosse per i soliti disfattisti dell’opposizione (per inciso: erano opposizione, al sogno si intende, anche quando erano al governo).
E sull’altro versante? Di solito, silenzio, o borbottio, qualche volta scimmiottature dell’originale, che ovviamente non riproducono affatto l’originale, e non si vendono come l’originale. L’utopia ridotta a misteriosa categoria dello spirito, oggetto di fede, soprattutto intangibile nella vita quotidiana. L’atopia, che si traduce anche nel pensare (quasi automaticamente) ai leghisti appena si avvista un gazebo bianco all’orizzonte. Poi magari si scopre che è una promozione di formaggi, ed è proprio da quel modello che le camicie verdi hanno copiato: non si potrebbe imparare almeno quello? A guardare e imparare, prima di lanciarsi in grandi utopie?
Intendo dire PRIMA, non INVECE: una distinzione che spesso si sorvola.
(*) Nota: curiosamente, Uto-Ato era anche un tormentone cabarettistico di gran successo negli anni ’70, lanciato dall’architetto Mario Marenco in una delle trasmissioni televisive di maggior successo di Renzo Arbore