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Alberto Asor Rosa
Uscire dall'era berlusconiana
4 Novembre 2010
Articoli del 2010
In sintesi: per ora evitiamo la catastrofe e ricostituiamo le regole della convivenza, con tutti quelli che ci stanno; poi vedremo il resto. Il manifesto, 4 novembre 2010

Non sono certo che l'era berlusconiana sia finita. Sono invece certo, certissimo, che ogni giorno che passa il proseguimento dell'era berlusconiana porta il paese sempre più verso la catastrofe.

Perché non proviamo a ragionare per punti, secondo le regole di una buona sequenza logica? Ora, il punto iniziale di ogni corretto ragionamento oggi, quale che ne sia poi lo sbocco finale, - quale che ne sia, ripeto, lo sbocco finale, - è che il proseguimento dell'era berlosconiana porta il paese sempre più verso la catastrofe: catastrofe politica, istituzionale, economica, sociale, civile, morale. (Intendo «catastrofe» nel suo senso più vasto: dissoluzione dei legami di unità nazionale; sfascio dei meccanismi decisionali; incapacità ormai definitiva di risollevarsi dal baratro).

Vorrei proprio vedere gli argomenti di chi si provi a dimostrare che le cose non stanno così (anzi, è proprio su questo fondamentale discrimine dell'analisi che si verifica la prima, grande e per ora decisiva separazione dei due elementari, generalissimi fronti: fra chi è tuttora a favore della prosecuzione dell'era berlusconiana; e chi le è ormai decisamete contrario). Ma se le cose stanno così, come non arrivare rapidamente (e quasi facilmente: naturalmente non ne ignoro le immense difficoltà, come dirò, ma per ora m'interessa fissare il punto logico) alla seguente riflessione: per tentare di evitare la catastrofe (se siamo ancora in tempo), non c'è che da mettere fine il più rapidamente possibile all'era berlusconiana.

Mettere fine seriamente all'era berlusconiana dipende, non c'è dubbio, da molti fattori e da molte forze, se guardiamo alle cose in profondità, e cioè agli innumerervoli germi portatori di catastrofe, che l'era berlusconiana ha generato, proliferato e scatenato in tutte le direzioni e con molteplici travestimenti. Ma nell'immediato dipende innanzi tutto dalle scelte parlamentari del partito finiamo. Ho manifestato all'inizio simpatia per il complesso di ripensamenti, non solo politici ma culturali, cui la nascita di questo tentativo di creare una destra autentica e pulita, si è richiamata (andando incontro, anche a molti mugugni di sinistra). Ora però provo lì'impressione di un avvitamento dell'esperimento intorno a ragioni fondamentalmente tattiche e di opportunità. Se ciò dovesse avvenire, l'esperimento rivelerebbe di avere fiato corto e prospettive poco ambiziose: male, molto male, per un movimento nascente (o rinascente su nuove basi). Il secondo punto della sequenza logica, dunque, è affidato essenzialmente alle decisioni prossime future del Fli. Mi rendo conto che a qualcuno possa dispiacere, ma è così.

Del resto, io credo che, non solo per Fini e i finiani ma un po' per tutti sia ormai arrivato l'hic Rhodus hic salta. Non è vero che incombe ancora, sulle aule del sempre più malmesso Parlamento italiano, il cosiddetto Lodo Alfano? Allora, il terzo punto della sequenza logica è: una legge che protegga dalla «persecuzione giudiziaria» (strano concetto, peraltro!) le alte cariche di uno Stato è pensabile e ammissibile, forse, in una situazione di totale normalità istituzionale ed etico-politica. Ma una legge che cala su di un paese disastrato nel momento stesso in cui un'ondata di sporcizia e di fango sommerge, ormai strutturalmente e direi geneticamente, alcune di quelle figure, - anzi una, quella per cui tutto l'osceno teatrino è stato immaginato e montato, - come può essere giustificata, accettata e tranquillamente votata? Il cosiddetto Lodo Alfano dunque non è più votabile in nessuna delle forme più o meno attenuate in cui è stato presentato e discusso. Più esattamente: chiunque voti oggi il Lodo Alfano è fuori da qualsiasi ipotesi di ricostruzione democratica. Anche qui, a qualcuno può dispiacere, ma è così.

Il punto successivo è una domanda: esistono le condizioni per cui questa scelta che si preannuncia dirompente (perché, bisogna saperlo, di una scelta dirompente si tratta) si realizzi e faccia fronte agli innumerevoli ostacoli che le saranno frapposti? (Il ricorso alla piazza ventilato più volte negli ultimi giorni disegna un ulteriore scenario della catastrofe nazionale: quello eversivo). Le condizioni parlamentari esistono. Anche in questo caso con un ulteriore requisito: a un governo, per quanto provvisorio, di «ricostruzione democratica» non possono in nessun modo essere chiamati a partecipare quanti hanno costituito in questi anni il tessuto solidale dell'era berlusconiana, e cioè (et pour cause) il medesimo Berlusconi, qualsiasi altro esponente del Pdl in quanto rappresentative del Pdl e in Lega: possono, anzi dovrebbero partecipare senza esclusione alcuna, tutti gli altri, o per meglio dire, tutti quelli che in un modo o nell'altro, prima o poi, hanno contribuito a mettere la parola fine, all'era berlusconiana.

Insisto: un governo siffatto dev'essere estremamente serio e robusto, altrimenti non reggerà all'urto. Se non sarà così, - lo dico molto sinceramente, - meglio imboccare dall'inizio un'altra sequenza logica. Un «governicchio» che nasce deliberatamente a tempo, quali che ne siano le finalità, non serve a niente, anzi è destinato a peggiorare le cose. Per essere un governo serio e robusto, non potrà limitarsi alla riscrittura della legge elettorale, misura per altro da prendere fra le prime: la gente non capirebbe, penserebbe che un gigantesco terremoto è stato provocato solo per far vincere i perdenti. E allora cosa?

Esiste innanzi tutto l'amplissimo e praticabilissimo campo delle regole, nel quale forze eterogenee dal punto di vista della tradizione e delle prospettive, possono trovare un'intesa, diciamo, «costituzional-repubblicana»: i problemi della comunicazione e della libertà (sostanziale) di espressione; la separazione dei poteri; la difesa della legalità e il rispetto della magistratura; la lotta alla corruzione e all'evasione fiscale; la rivendicazione e la difesa dell'unità nazionale (non sarebbe auspicabile che per il 150°, il quale attende finalmente da una qualche parte un soffio vitale di entusiasmo e di condivisione, ci sia un governo italiano autentico di patriottismo repubblicano?). Insomma, i prodromi della «ricostruzione democratica», che precedono e condizionano tutto il resto. Ma forse non è impossibile pensare, con il medesimo spirito, che anche la lotta per la difesa e il rilancio della scuola pubblica, dell'Università e della ricerca, possa essere inscritto in questo capitolo, dopo la vergognosa stagione gelminiana.

E l'economia? Sì, è vero, in quel campo eterogeneo di forze, di cui stiamo parlando, esistono, per dirla con estrema approssimazione, sia i sostenitori di Marchionne sia i sostenitori della linea Fiom. Ma forse nell'immediato anche questa contraddizione si può ragionevolmente affrontare, se il problema è, come dicevo, evitare la catastrofe, la catastrofe non giova agli operai, di sicuro molto meno che ai padroni; oggi più di sempre, direi. E forse, sempre nell'immediato, salvare l'economia nazionale, che sta andando anch'essa come tutto il resto verso la catastrofe, si può, al tempo stesso frenando, impedendo, invertendo di rotta la débâcle operaia.

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