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Ted Kennedy
Uscire dal nuovo Vietnam
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Un articolo dall'America, su la Repubblica del 30 gennaio 2005. E' comunista?

Quarant´anni fa l´America era impegnata in un´altra guerra in terre lontane. All´epoca, nel 1965, avevamo in Vietnam una quantità di truppe e di caduti pari ad oggi in Iraq.

All´inizio pensavamo di vincere. Pensavamo che l´abilità e il coraggio delle nostre truppe fossero sufficienti. Pensavamo che la vittoria sul campo avrebbe comportato la vittoria nella guerra e pace e democrazia per il popolo vietnamita.

In Vietnam perdemmo di vista gli obiettivi della nostra nazione. Abbandonammo la verità. Venimmo meno ai nostri ideali. Le parole dei nostri leader non furono più degne di fede. Nel nome di una causa sbagliata proseguimmo la guerra troppo a lungo. Non comprendemmo la realtà intorno a noi.

Non capimmo che la nostra stessa presenza ci stava creando nuovi nemici e faceva fallire gli obiettivi che ci eravamo proposti di raggiungere. Non possiamo permettere che la storia si ripeta in Iraq.

Bisogna correggere la rotta, subito. Dobbiamo farlo per i soldati americani che pagano con le loro vite. Dobbiamo farlo per il popolo americano: non possiamo permetterci di spendere le nostre risorse e il nostro prestigio nazionale continuando la guerra nel modo sbagliato. Dobbiamo farlo per il popolo iracheno che anela ad un paese che non sia un campo di battaglia permanente e ad un futuro libero dall´occupazione permanente.

Le elezioni in Iraq questo fine settimana sono l´occasione per stabilire un approccio nuovo e onesto. Serve un nuovo programma che ponga obiettivi equi e realistici di autogoverno in Iraq e studi insieme al governo iracheno scadenze precise per l´onorato rientro in patria delle nostre forze.

Il primo passo è porci di fronte ai nostri errori. Gli americani sono giustamente preoccupati sul motivo per cui i nostri 157.000 soldati si trovano in Iraq - su quando torneranno a casa - e sui motivi del fallimento della nostra politica.

Anche se l´amministrazione continua a negarlo non c´è dubbio che ha guidato male la nazione portandola ad impantanarsi in Iraq. Il presidente Bush è corso alle armi in base a rapporti di intelligence pretestuosi e alla tesi sconsiderata secondo cui l´Iraq rappresentava un´area critica nella guerra globale al terrorismo, che in qualche modo era più importante dare avvio ad una guerra in Iraq piuttosto che portare a termine quella in Afghanistan e catturare Osama bin Laden, e che il pericolo era tanto imminente da non poter concedere tempo agli ispettori Onu di completare la ricerca di armi di distruzione di massa.

Come in Vietnam, la verità è stata la prima vittima di questa guerra. Quasi 1.400 americani sono morti. Più di 10.000 sono rimasti feriti e decine di migliaia di uomini, donne e bambini iracheni sono stati uccisi. In Iraq le armi di distruzione di massa non c´erano, ci sono però oggi 157.000 americani.

Mai abbiamo avuto conferma più dolorosa e potente del detto che chi non trae insegnamento dalla storia è destinato a vederla ripetersi.

A dispetto del chiaro insegnamento impartito dalla storia il presidente resta ostinatamente aggrappato alla falsa speranza che il punto di svolta sia dietro l´angolo.

Ponendo fine al regime di Saddam Hussein si pensava di limitare la violenza e di portare in medio oriente un´irresistibile ondata di democrazia. Non è stato così. La cattura di Saddam Hussein doveva secondo le previsioni porre freno alla violenza. Non l´ha fatto. Si pensava che il passaggio di sovranità sarebbe stato la svolta. Non lo è stato. L´operazione militare a Fallujah doveva spezzare le reni agli insorti. Non lo ha fatto.(...)

Noi tutti ci auguriamo che le elezioni di domenica portino frutti positivi. Gli iracheni hanno il diritto di decidere sul proprio futuro. Ma l´elezione di domenica non è un toccasana per la violenza e l´instabilità. Se i sunniti e tutte le altre comunità non si convinceranno di avere un interesse nel risultato e un ruolo effettivo nella stesura della nuova costituzione irachena, le elezioni potrebbero aggravare l´alienazione, l´escalation della violenza e portare ad un maggior numero di morti - per noi e per gli iracheni.

Il responsabile della Cia a Baghdad ha recentemente avvisato che la situazione di sicurezza si sta deteriorando ed è probabilmente destinata a peggiorare con un´escalation di violenze e un intensificarsi degli scontri tra fazioni. Come può un presidente aver permesso tutto ciò?

La politica del presidente Bush sull´Iraq non è, come egli ha affermato in campagna elettorale lo scorso autunno, un "successo catastrofico", bensì un "fiasco catastrofico". Gli uomini e le donne appartenenti alle nostre forze armate prestano servizio onorevolmente e con grande coraggio in condizioni estreme, ma la loro presenza a scadenza indefinita sta fomentando il conflitto.(...)

La guerra ha fatto dell´Iraq una calamita per il terrorismo, cosa che prima non era. Il presidente Bush ha aperto un nuovo fronte non necessario nella guerra al terrorismo e per questo motivo stiamo perdendo terreno. Il consiglio nazionale di intelligence della Cia ha confermato questa valutazione nel rapporto emesso due settimane fa.

La rivolta ha in larga parte sviluppo locale. In base alle stime del nostro governo è estesa e sta allargando le fila. La sua forza è quadruplicata dal passaggio di sovranità di sei mesi fa - da 5.000 unità a metà del 2004 a 16.000 lo scorso ottobre, fino alle oltre 20.000 attuali. L´intelligence irachena stima che possa contare 30.000 combattenti e fino a 200.000 fiancheggiatori. È chiaro che non ne conosciamo le esatte dimensioni. Tutto ciò che possiamo dire è che la rivolta si sta estendendo e che diventa più agguerrita e flessibile. Usa bombe più grandi e più potenti. Gli attacchi sono più sofisticati.

Al di là dei partecipanti attivi la rivolta vanta il tacito sostegno di migliaia di iracheni qualunque che hanno un ruolo di favoreggiamento a rifiuto dell´occupazione americana. E´ alimentata dalla rabbia di un numero sempre maggiore di iracheni - non solo lealisti di Saddam - giunti alla conclusione che gli Usa o non sono in grado o non hanno la volontà di garantire una sicurezza di base, lavoro, acqua, elettricità e altri servizi.

L´antiamericanismo è costantemente in crescita. In tutto il paese sono diffusi cd che illustrano la rivolta e canti che inneggiano ai combattenti. Sono tornate in voga poesie scritte decenni fa durante l´occupazione britannica dopo la prima guerra mondiale.

Abbiamo le forze armate migliori del mondo, ma non possiamo contare in primo luogo sull´azione militare per porre fine ad una violenza di ispirazione politica. Non possiamo sconfiggere gli insorti militarmente se non affrontiamo con efficacia il contesto politico in cui la rivolta si sviluppa. I nostri militari e gli insorti lottano per conquistare la stessa cosa - i cuori e le menti della gente - e questa è una battaglia che non stiamo vincendo.

Il primo passo per affrontare questa crisi con saggezza è definire obiettivi sinceri e realistici.

Innanzitutto l´obiettivo della nostra presenza militare dovrebbe essere permettere l´istituzione di un governo iracheno legittimo, efficace, non di imporlo.

La costruzione di una democrazia funzionante non avviene dal giorno alla notte. Possiamo e dobbiamo progredire in tal senso, ma gli iracheni potrebbero impiegare molti anni a portare a termine l´impresa. Dobbiamo adeguare il nostro orizzonte temporale. Il processo non potrà avviarsi sul serio fino a che gli iracheni non saranno pienamente padroni di tale transizione. La nostra continua, opprimente presenza non fa che ritardare il processo.

Se vogliamo che l´Iraq sviluppi un governo democratico stabile l´America deve assistere, non controllare, il nuovo governo creato.

Se gli iracheni non avranno l´impressione che i loro leader non sono marionette, l´elezione non potrà rappresentare il punto di svolta auspicato dall´amministrazione.

Ai fini di rafforzare la propria legittimità agli occhi del popolo iracheno, il nuovo governo dovrebbe iniziare a disimpegnarsi politicamente dall´America e noi da loro.

La realtà è che l´amministrazione Bush sta continuando a tirare le fila in Iraq e gli iracheni ne sono consapevoli. Noi abbiamo scelto la data del passaggio di sovranità. Noi abbiamo appoggiato l´ex agente della Cia Iyad Allawi come leader del governo ad interim. Noi abbiamo scritto le norme amministrative e la costituzione ad interim che oggi governa l´Iraq. Noi abbiamo fissato la data delle elezioni e il presidente Bush ha insistito perché abbiano luogo, anche se molti iracheni miravano ad un rinvio.

È tempo di ammettere che abbiamo un´unica scelta. L´America deve restituire l´Iraq agli iracheni.

Dobbiamo lasciare che gli iracheni decidano da soli, ottengano autonomamente consenso e governino il loro paese.

Dobbiamo ripensare la regola del vasaio, "chi rompe paga e i cocci sono suoi". L´America non può essere per sempre il vasaio che modella il futuro dell´Iraq. Il presidente Bush ha mandato l´Iraq in pezzi ma se vogliamo che torni intero gli iracheni devono avere la sensazione che appartiene a loro, non a noi. (...)

Da parte sua, l´America deve accettare il fatto che gli sciiti costituiranno la maggioranza in qualunque governo emerga dal voto. Il sessanta per cento della popolazione in Iraq è sciita e una maggioranza sciita è il logico sbocco di un processo democratico in Iraq.

Gli sciiti però devono comprendere che la stabilità e la sicurezza in Iraq saranno raggiunte solo salvaguardando i diritti delle minoranze. Bisogna concedere l´opportunità di partecipare alla stesura della costituzione e al governo anche a chi non ha voluto partecipare alle elezioni o era impossibilitato o troppo spaventato per farlo.

Gli sciiti devono anche comprendere che il sostegno americano non viene garantito a tempo indeterminato e che il ruolo dell´America non è quello di difendere un governo iracheno che escluda o emargini importanti fasce della società irachena. E´ troppo pericoloso per le forze armate americane schierarsi in una guerra civile.

L´America deve adeguarsi alla realtà che non tutti gli ex baathisti verranno esclusi dalla vita politica irachena nel nuovo Iraq. Dopo la caduta della cortina di ferro in Unione sovietica e nell´europa dell´est molti ex comunisti continuarono a partecipare alla vita politica. L´attuale presidente polacco - strenuo alleato del presidente Bush in Iraq - era a suo tempo un membro attivo del partito comunista e fece parte del governo che impose la legge marziale in Polonia negli anni ?80. Se i comunisti possono cambiare così, non c´è ragione che non posa farlo un ex membro del partito baathista.

Se gli iracheni intendono negoziare con gli insorti e questi ultimi sono disposti a rinunciare alla violenza e a partecipare al processo politico, dovremmo permetterlo. Persuadere i rivoltosi sunniti ad usare le urne e non le pallottole, è nell´interesse anche degli Sciiti.

In secondo luogo affinché la democrazia metta radici, bisogna dare agli iracheni un chiaro segnale che l´America ha pronta una vera strategia di ritiro dal pese.

Gli iracheni non credono che l´America non ha intenzione di protrarre a lungo termine la propria presenza militare in Iraq. La nostra riluttanza a palesarlo ha alimentato il sospetto tra gli iracheni che le nostre motivazioni non siano schiette, che aspiriamo al loro petrolio e che non ce ne andremo mai. Fino a quando sembrerà che la nostra presenza sia destinata a protrarsi l´impegno americano a favore della democrazia nel loro paese sarà ai loro occhi poco convincente.

Passate le elezioni e avviato il processo di transizione democratica il presidente Bush dovrebbe immediatamente dichiarare l´intento di negoziare un calendario per il ritiro delle forze di combattimento americane con il nuovo governo iracheno.

Almeno 12.000 militari americani e forse più dovrebbero partire immediatamente, per dare un segnale forte circa le nostre intenzioni e allentare la sensazione di occupazione che pervade il paese.

L´obiettivo Americano dovrebbe essere quello di completare il ritiro militare il prima possibile nel corso del 2006.

Il presidente Bush non può evitare questo tema. La risoluzione del consiglio di sicurezza che autorizza la nostra presenza militare in Iraq può essere riesaminata in ogni momento su richiesta del governo iracheno e una revisione è prevista a giugno. L´autorizzazione Onu alla nostra presenza militare termina con l´elezione di un governo iracheno permanente al termine di quest´anno. Il mondo sarà nostro giudice. Dobbiamo avere un piano di ritiro in atto per quella scadenza. (...)

Discorso tenuto il 27 gennaio alla Johns Hopkins school of International Studies

(Traduzione di Emilia Benghi)

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