Ringrazio gli organizzatori di questa serata, perché mi danno la possibilità di portare la voce di un'associazione bolognese di cittadini e di urbanisti, che si chiama Compagnia dei Celestini.
Quattro anni fa ci siamo messi a ragionare sui motivi per cui a Bologna la qualità della vita si fosse così deteriorata, perché la città fosse meno amichevole d'un tempo. E abbiamo cominciato a ragionare con gli strumenti analitici che avevamo a disposizione, riattivando un dibattito pubblico che si era assopito, producendo analisi che hanno "resistito" nel tempo - grazie al loro rigore - anche all'assalto dei nostri più agguerriti oppositori.
Sapete tutti infatti che l'urbanistica è un tema molto spinoso, e che spesso sta sulle pagine dei giornali, in modo più o meno diretto, e di conseguenza chi "critica" e chi propone "cose fuori dal coro" ha in genere vita difficile: noi sopravviviamo - passatemi il termine - grazie al rigore delle nostre analisi e al divertimento che prova solo chi non ha padroni a cui rispondere.
Il titolo del mio contributo un po' lo anticipa: le cose che dirò sono tese a rivendicare l'utilità pubblica dell'urbanistica e della pianificazione. L'urbanistica deve servire per vivere meglio, per far vivere meglio i cittadini. Deve cioè organizzare un sistema democratico di regole e di opportunità orientate ad aumentare l'equità sociale e l'equilibrio ambientale nel suo complesso: in una parola l'urbanistica deve servire per sostanziare i diritti fondamentali di cittadinanza.
Credo sia necessario, oggi più di ieri, sottolineare questa necessità del governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali perchè negli anni novanta si è smesso - a Bologna e anche in altre parti del Paese - di credere che l'urbanistica potesse realmente concorrere a realizzare questi princìpi, e conseguentemente si è scelta un'altra strada: si è scelto di non pianificare, si è scelto di trasformare la città "navigando a vista", volta per volta, caso per caso, senzaobiettivi di lungo respiro, ma soprattutto si è persa la "bussola" dell'interesse pubblico. Si trasforma la città, piccoli o grandi lotti che siano, costruendo soprattutto palazzi, villette, condomini, senza chiedersi cosa ci guadagnano i cittadini e la città nel complesso dalle trasformazioni che si compiono.
La classe politica sembra aver rinunciato ad una delle principali responsabilità che le spetta per "statuto": cioè progettare il futuro della città che governa. Che poi il progetto abbia le "gambe" (passatemi il termine) nei poteri economici che hanno la forza e l'interesse legittimo e positivo di costruirla questa città, è evidente e fuori discussione: la città è costruita prevalentemente, da sempre, per mano di operatori non pubblici, con i quali si deve trasparentemente discutere e negoziare.
Ma quello che è necessario ritrovare, perché a me sinceramente sembra essersi perduto, è la capacità che solo un governo pubblico è legittimato a fare: costruire un progetto con obiettivi e regole "del gioco", chiare, durature e indiscriminanti, a cui deve riferirsi chi ha le opportunità e gli interessi per trasformare suoli ed edifici.
Questo progetto ripeto non può che essere pubblico, perché solo un governo pubblico può e deve prendersi cura, cioè tutelare e promuovere, anche chi non ha potere, chi non ha interessi immobiliari, chi non è proprietario di suoli o di edifici: cioè la stragrande maggioranza dei cittadini.
Queste cose le dico non per dare lezioni a qualcuno, ma perché servono ad inquadrare il senso del mio contributo.
Perché la strada che si è intrapresa a Bologna ha mostrato di essere fallimentare: un fallimento oggi documentabile e che ha radici ben definite.
A Bologna - ma non solo a Bologna - nell'ultimo decennio del secolo scorso, si è subito pesantemente il fascino del «neoliberismo deregolativo», che altrove aveva cominciato a farsi vivo già dagli anni ottanta.
Negli anni ottanta, a Bologna, si era invece scelta un'altra strada: si era cercato di costruire un progetto per il futuro della città con un Piano, un buon Piano Regolatore, che puntava a non espandere ulteriormente il suolo urbano ma a compiere operazioni di vera riqualificazione. Era un Piano dimensionato con quote di sviluppo residenziale credibili e sostenibili.
Ma quel Piano così adottato nel 1985 fu tradito e stravolto nella sua versione definitiva, approvata 4 anni dopo, a seguito di un drammatico conflitto politico all'interno della giunta di sinistra: aumentarono notevolmente gli indici edificatori, saltarono molte altre garanzie circa la sostenibilità delle operazioni urbanistiche; da una previsione di circa 6 mila alloggi da costruire in 10 anni se ne inserirono 19 mila.
Quello che si cominciò ad attuare all'inizio degli anni novanta era dunque un Piano stravolto, inadatto a guidare lo sviluppo di Bologna, inadatto a creare opportunità per gli operatori del mercato e vivibilità per i cittadini.
A 14 anni di distanza quel Piano, talmente era sovradimensionato, è rimasto inattuato per quasi la metà delle sue capacità edificatorie e laddove lo si è attuato esso ha mostrato drammaticamente tutti i suoi limiti: gli indici edificatori elevati hanno prodotto comparti urbani densi e massicci, privi di qualità e in cui ci sono serie difficoltà di reperimento di suoli per i servizi di quartiere. E di conseguenza sono emersi problemi di congestione e di traffico, e anche di degrado diffuso.
Di fronte a questa condizione, nella seconda metà degli anni novanta, invece di scegliere di "rifare il Piano", cioè di rimettere mano alle regole e alle strategie per la trasformazione della città, si è scelta la strada della deroga dal Piano: significa che si è deciso di procedere inseguendo gli stimoli che il libero mercato proponeva all'amministrazione pubblica, senza che quest'ultima avesse degli obiettivi chiari e di lungo periodo a cui riferire quegli stimoli che venivano dagli operatori di mercato.
Si è aperta così la stagione della così detta riqualificazione urbana, o dei programmi integrati: una stagione transpartitica, a cui Guazzaloca ha contribuito continuando e peggiorando una situazione già in essere.
Non entro nel merito di questa strumentazione (i Programmi Integrati e di Riqualificazione appunto) perché credo sia qui inopportuno. Racconto invece che cos'ha prodotto questa stagione, negli ultimi sette anni.
Nonostante Bologna non sia mai stata un polo della grande industria manifatturiera o "pesante", e di conseguenza non abbia subito, nei tempi recenti, fenomeni di dismissione produttiva o di crisi funzionale di grandi comparti urbani, di dimensione in qualche modo paragonabile a quelle di altre aree del Paese (per esempio a Napoli – Bagnoli, o a Sesto San Giovanni), Bologna è stata martellata per gli ultimi 7 anni da una costante e unica attività «urbanistica»: quella di una «riqualificazione» che ha riqualificato - a nostro parere - soprattutto la speculazione edilizia.
L’attività di sostituzione e ridefinizione funzionale di tessuti già urbanizzati o interstiziali attraverso interventi di media e piccola dimensione ha prodotto infatti, in questi ultimi anni, effetti di non secondario rilievo, sia dal punto di vista delle quantità messe in gioco dai così detti "programmi integrati" prima e poi da quelli di riqualificazione, realizzati o in fase di realizzazione (si tratta in totale quasi tremila nuovi alloggi), sia dal punto di vista dell’impatto che la sommatoria di questi nuovi fatti urbani ha generato (e genererà) sulla città.
Un primo aspetto di questa «stagione urbanistica» bolognese riguarda la completa assenza del rapporto fra le singole operazioni e una strategia urbana che chiarisca l'interesse collettivo derivante dai singoli interventi: si tratta cioè, senza dubbio, di azioni indipendenti l'una dall'altra, che esauriscono la loro ragione nella mera trasformazione edilizia dell'area, con un rendimento ingente e diretto solo per i soggetti privati interessati dalla trasformazione (proprietari di aree e costruttori).
In secondo luogo le quantità edilizie messe in gioco, dimostrano che gli interventi di trasformazione sono di assoluto rilievo nella dinamica complessiva di Bologna, relativamente all’ultimo decennio: si tratta di oltre 50 interventi[1], tutti in deroga dal PRG, che investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq di Superfici Utile, della quale il 70% destinata a residenza (soprattutto per il libero mercato della proprietà), a cui corrispondono circa 2.500 - 3.000 nuovi alloggi.
Per inquadrare il significato di questi dati bisogna ricordare che il PRG vigente, nella versione adottata nel 1985, aveva calcolato un fabbisogno decennale di meno di 6.000 alloggi - come ho ricordato prima: una stima che sostanzialmente non è stata smentita dai dati della produzione edilizia degli anni novanta, di poco superiore alla media di 500 alloggi l’anno; un dato questo che rappresenta bene la capacità effettiva di assorbimento dei nuovi alloggi da parte del mercato libero.
Con i programmi complessi, tra il 1998 e oggi si «aggiunge» quindi alla città un carico urbanistico pari a cinque/sei anni di attività edilizia (tutto questo in deroga da un PRG con ingenti quantità edificatorie ancora da attuare).
Terza questione: molti degli interventi per i quali si sono richiamate le procedure della riqualificazione, oltre a non lasciare intravedere un disegno urbano di riferimento, aprono uno squarcio sulle asserite situazioni di degrado urbano (ambientale, sociale, funzionale ecc.) da riqualificare.
Nei fatti, numerosi degli interventi proposti agiscono su aree completamente inedificate, spesso destinate dal PRG a zone per servizi pubblici (verde, parcheggi, scuole ecc.), con vincoli più volte reiterati e scaduti; le trasformazioni che sono state proposte sembrano quindi originate e motivate da problematiche importanti (i vincoli scaduti), ma che hanno poco a che fare con la riqualificazione.
Quarto: la questione dei tempi e della presunta velocità di trasformazione delle aree tramite la deroga dal Piano. I tempi di trasformazione delle aree selezionate si sono rivelati del tutto simili agli strumenti di pianificazione ordinaria; ci sono, ad esempio, interventi selezionati nel 1997 che ad oggi debbono ancora trovare la definitiva concertazione tra le parti: condizione che rivela, definitivamente, l'inconsistenza della tesi secondo cui procedere «caso per caso», derogando dal Piano Regolatore, è il mezzo più veloce per trasformare la città.
Quinto e ultimo punto: le "contropartite" per la collettività. La asserita «complessità» delle operazioni urbanistiche, sia in termini progettuali che di relazione con le diverse compagini sociali ed economiche, non ha movimentato risorse straordinarie e dunque, anche per questo aspetto, il «sacrificio» della pianificazione urbanistica non è servito a dotare la città di attrezzature pubbliche di significativa consistenza.
La destinazione abitativa, come ho già ricordato, è stata largamente dominante in tutte le operazioni di «riqualificazione», ma paradossalmente non ha contribuito, se non in misura marginale, ad una politica per la casa: dalla concertazione si sono ottenute quote irrilevanti di edilizia sociale, a fronte di prezzi degli alloggi a libero mercato collocati costantemente ai margini più alti delle classifiche nazionali.
Insomma, mi pare che a fronte di questi risultati si debba avere il coraggio politico di riconoscere l'inutilità, per la collettività, delle operazioni urbanistiche che in questi anni sono state nominate col termine «riqualificazione», per le quali si è abbandonata la prassi garantista della pinaificazione a favore di un sistema di contrattazioni miopi e fuori dalla sovranità democratica delle assemblee elettive: assemblee ridotte a semplici organi di ratifica di contrattazioni eseguite nella "riservatezza", per usare un eufemismo.
Questi fatti, a mio parere, non lasciano dubbi sull'opportunità di chiudere una stagione che a Bologna ha peggiorato la qualità della vita dei cittadini, ha depotenziato il ruolo e la responsabilità dell'amministrazione cittadina nel progettare strategie per il futuro, ha eroso le conquiste sociali connaturate a quell'urbanistica riformista che a Bologna era gemmata.
Credo, per finire, che sia venuto il momento di riprendere una strada che rimetta al centro delle trasformazioni urbane l'interesse pubblico e la responsabilità politica, assieme a tre importanti valori: la trasparenza (che vuol dire anche la partecipazione) dei procedimenti urbanistici; il rigore nelle valutazioni di un territorio sempre più fragile e limitato; e l'equità nel trattamento di tutti cittadini, anche di chi non è interessato a concessioni edilizie, ma ha il diritto a una città vivibile.
Mi pare che l'urbanistica, in questo senso, sia uno strumento di governo necessario.
Grazie
[1] Ci si riferisce alla somma degli interventi relativi ai bandi pubblici OdG 70 e OdG 136, concertati e non concertati.