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Sergio Scotti Camuzzi
Urbanistica, diritto e politica: la querelle sugli ex scali ferroviari di Milano
16 Dicembre 2017
Milano
arcipelagomilano.org n. 41, 12 dicembre 2017.Lo afferma un giurista:l’urbanistica è tecnica, ma prima è politica e dunque diritto. (m.c.g.) con postilla.

arcipelagomilano.org n. 41, 12 dicembre 2017.Lo afferma un giurista:l’urbanistica è tecnica, ma prima è politica e dunque diritto. (m.c.g.) con postilla.

In diritto hanno ragione i ricorrenti – Italia Nostra e gli altri, ciascuno per quanto gli interessa e tutti nell’interesse comune – a far annullare, perché illegittimo, lo sciagurato “Accordo di programma” che il Comune di Milano, la Regione Lombardia e il Gruppo F.S. hanno sottoscritto sulla “rigenerazione” urbana dei sette scali ferroviari che – venuta meno la loro destinazione al servizio ferroviario – sono tornati nel patrimonio pubblico dello Stato o, addirittura, del Comune di Milano.

Nell’accordo di programma ci sono protagonisti in più e protagonisti in meno di quello che sarebbe stato necessario e legittimo: in più ci sono certamente il fondo immobiliare Savills – un soggetto privato che non c’entra con il programma urbanistico oggetto dell’accordo, nel quale avrebbe potuto inserirsi dopo, ma come attuatore (e avrebbe dovuto inserirsi a seguito di pubblico concorso); in meno c’è la neocostituita Città Metropolitana di Milano, direttamente interessata, data la sua competenza concorrente con quella del Comune (e forse addirittura di essa sostitutiva), al governo del territorio insieme alla Regione.

Ma cosa c’entra il gruppo F.S., che invece è parte dell’accordo – e vi fa la parte del leone? Chi mai ha stabilito che sono sue (di sua privata proprietà) le aree dismesse del servizio ferroviario, e che solo a tale scopo, con tale specifica destinazione, le F.S. (allora Azienda dello Stato, ma oggi divenuta SpA “privata”) avevano in uso/concessione?

Ci sono due parole che servono a fissare le idee e a dimostrare che il c.d. “Accordo di programma” è un contratto senza base giuridica, che serve soltanto, in realtà, a privatizzare beni e funzioni pubbliche; e che esso è uno strumento di speculazione edilizia a favore di possenti Signori del mercato, ai quali, per ingenuità o per inesperienza, o per servilismo, i politici/rappresentanti del popolo, e i pubblici burocrati ai loro ordini, cedono le chiavi della Città, a loro delegando le funzioni di governo del territorio. Sono le parole “abdicazione” e “monopolio”.

Anche a prescindere da altre censure (pure pesanti) su sue particolari clausole, delle quali diciamo più avanti, l’Accordo si rivela radicalmente illegittimo se si considerano due effetti fondamentali che esso produce:
1) di abdicare, da parte del Comune/Città Metropolitana (e della Regione), alla loro funzione fondamentale di governo del territorio, e di abdicarvi a favore di un ente formalmente (e sostanzialmente) privato (che, quindi, provvederà a tale governo anzitutto nel suo proprio interesse);

2) di creare, in capo a tale ente (in sostanza, al Gruppo F.S.), una posizione di monopolista: invero, l’edificabilità in Comune di Milano, ora e per i prossimi 30 anni, sarebbe assorbita da quella correlata agli ex scali ferroviari: cosicché chi vorrà costruire dovrà acquisirne i diritti dal “concessionario” individuato dal c.d. Accordo di programma e da tale Accordo promosso a gestore/governatore del territorio e monopolista dei diritti edificatori nella Città di Milano. Per questo aspetto, l’Accordo merita una segnalazione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Queste sono le anomalie fondamentali dell’Accordo censurato e impugnato. Alle quali vanno aggiunte – perché indiziarie di chi sia l’autore dell’Accordo, donde esso provenga (che esso, che non nasce da un dibattito trasparente e democratico, ha origine in privati colloqui in riservate stanze: ma quali?) e perché sintomatiche della sua non temperata propensione a favore di una parte – due clausole che nessun autorevole e accorto negoziatore della parte pubblica avrebbe accettato, se non “costretto”:

1. Quella che il cessionario, a fronte della proprietà delle aree, assume l’impegno di corrispondere al Comune 50 milioni di euro: allorquando stime attendibili valutano i ricavi dell’uso edilizio delle aree stesse in non meno di 600 milioni di euro;

2. Quella – di evidente importazione da culture giuridiche estranee alla nostra tradizione e al nostro ordinamento costituzionale – che stabilisce che l’impegno del cessionario di dare al Comune quei 50 milioni decade ove mai taluno osasse impugnare l’Accordo in sede giurisdizionale: clausola capestro vistosamente contraria al diritto di ricorso costituzionalmente garantito ai cittadini. Una clausola siffatta basta da sola a squalificare l’Accordo, inficiandone in radice la legittimità.

Ancora una volta è al diritto, e quindi alla Magistratura, che occorre far capo per frenare gli abusi di un’Amministrazione della cosa pubblica asservita dai politici (pseudo rappresentanti del popolo e che di tale “rappresentanza” abusano) ai loro interessi di casta, di tribù, di mercato – come li si voglia qualificare – anziché al bene comune.

postilla

L’articolo di un giurista, Scotti Camuzzi, pone in evidenza con chiarezza le gravi illegittimità procedurali dell’indecente Accordo di Programma sul riuso dei sette scali ferroviari milanesi. Su questo accordo si stanno accumulando molteplici ricorsi ed esposti da parte di associazioni, professionisti e cittadini: - il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avanzato da Italia Nostra che ha denunciato la rinuncia del Comune a dirigere la riqualificazione delle aree, cedendo a Ferrovie dello Stato il timone dell’intera operazione, con l’esito che “questo operatore potrà trarre profitto dalla gigantesca speculazione immobiliare che metterà in pericolo la qualità della vita e il futuro della città”; - due ricorsi al TAR della Lombardia, recentemente depositati da parte di cittadini; - cinque esposti, presentati da soggetti interessati a vario titolo, all’Anac, al Garante della concorrenza, alla Commissione europea, alla Corte dei conti e alla Procura della Repubblica. L’articolo conferma altresì il danno erariale per la collettività che scaturirebbe da un accordo sleale quale è quello che si sta configurando: un ricavo netto di ben 600 milioni di euro, come ha cautelativamente calcolato Roberto Camagni, sui quali il Comune dovrebbe ricevere il 50%, sulla base della nuova legge sul contributo straordinario (art. 16 comma 4 del TU sull’Edilizia) e che il Comune sembra intenzionato a non esigere accontentandosi delle briciole (www.arcipelagomilano.org/archives/47304 ). Si annuncia una lunga battaglia in difesa dei beni comuni a rischio di privatizzazione con il consenso inaccettabile dell’amministrazione locale: una amministrazione, quella di Milano, che da lungo tempo ha rinunciato alle sue responsabilità in materia di governo pubblico del territorio. (m.c.g.)

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