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Anna Marson Edoardo Salzano Enzo Scandur
Urbanisti per un nuovo impegno
13 Febbraio 2017
Per comprendere
I tre firmatari di questo documento hanno colto l’occasione dell’ampio dibattito provocato dalla querelle relativa allo stadio della Roma per affrontare un argomenti di portata più vasta. Lo pubblichiamo nella speranza che sia utile a sviluppare un dibattito sul modo migliore per combattere il modello neoliberistico di governo del territorio

I tre firmatari di questo documento hanno colto l’occasione dell’ampio dibattito provocato dalla querelle relativa allo stadio della Roma per affrontare un argomenti di portata più vasta. Lo pubblichiamo nella speranza che sia utile a sviluppare un dibattito sul modo migliore per combattere il modello neoliberistico di governo del territorio

NOI URBANISTI CI IMPEGNIAMO…

Quanto sta accadendo a Roma - il caso della realizzazione del nuovo stadio – evidenzia in modo eclatante come l’urbanistica sia ormai relegata, dall’ideologia neoliberista dominante da tempo, a un ruolo subalterno e quindi miseramente perdente, rispetto alla centralità che un tempo possedeva nella progettualità riformista.

Basti pensare ad Adriano Olivetti presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, a Carlo Doglio che sperimenta in prima persona in Sicilia la ‘pianificazione della libertà’, alle conquiste sociali degli anni ’60 e ’70 in tema di standard collettivi, alla lunga marcia per separare diritto di proprietà e diritto di edificazione, al dibattito sul ruolo dell’urbanistica e della pianificazione del territorio rispetto ai mezzi e ai fini della programmazione economica, alla più recente acquisizione di come le scelte urbanistiche debbano necessariamente far propri i limiti ambientali del contesto in cui intervengono.

Di questa nobile tradizione disciplinare oggi restano soltanto poche tracce nei generosi quanto politicamente marginali appelli lanciati in rete da gruppi di intellettuali sempre più minoritari.

Ciò chiama in causa i partiti e i “movimenti”, che hanno allegramente ridotto, quando non liquidato, le questioni urbanistiche dai propri programmi, ma anche l’intera comunità degli urbanisti, troppo spesso proni a legittimare questa deriva e a rovesciare il loro ruolo a facilitatori degli interessi immobiliari.

Al centro della questione – emblematico il caso di Roma - l’interpretazione di ciò che è “pubblico interesse”. Lo stadio, se visto dal punto di vista della tradizione romana panem et circenses, potrebbe essere considerato opera di pubblico interesse, e in quanto tale è previsto dalla legge 147/2013. Ciò che viene legittimato dal Comune di Roma con la delibera 132/2014 è invece la qualifica di "pubblico interesse" per un progetto che comprende un milione di metri cubi con destinazione prevalente a uffici per ospitare multinazionali e attività commerciali, secondo il progetto presentato dai proprietari/costruttori, alla realizzazione del quale viene subordinata la costruzione compensatoria di alcune opere pubbliche per la città.

L’interpretazione del “pubblico interesse” vede quindi il “pubblico” affidato agli “interessi” finanziari dei proprietari fondiari, dei costruttori, delle banche creditrici, pronti a mettere in campo tutte le relazioni e i poteri di cui dispongono per assicurarsi la legittimazione “pubblica” dei loro profitti. E’ un copione che tende a ripetersi in molti luoghi, indipendentemente da chi governa le città e le regioni. Pratiche in controtendenza, da parte di singoli assessori, sono estremamente faticose e non riescono comunque a cambiare il contesto delle decisioni, rispetto alle quali prevalgono le mediazioni dei sindaci, dei presidenti e dei consiglieri eletti. Né il tentativo generoso di limitare i danni, con un corpo a corpo negoziale sui singoli progetti, riesce a restituire priorità effettiva agli interessi collettivi nelle trasformazioni della città e del territorio.

L’abbandono di ogni prospettiva seriamente riformatrice in materia di governo del territorio da parte delle maggioranze elette che governano le nostre città e i nostri territori contribuisce a rendere ancora più esasperata la disuguaglianza tra chi riesce tuttora a privatizzare i benefici delle decisioni pubbliche e chi – il popolo delle periferie -, assiste impotente a trasformazioni che non modificano affatto le sue condizioni di indigenza, privazione e marginalità. Una città può accrescere la propria ricchezza contemporaneamente al crescere della povertà e miseria di gran parte dei suoi abitanti.

Le politiche europee da un lato costringono le amministrazioni a svolgere un puro ruolo di ragioneria contabile, privatizzando anche le aziende municipalizzate sane e tagliando le spese per i servizi collettivi, esito di tante lotte e conquiste sociali, dall’altro sostengono la ricerca verso obiettivi effimeri come le smart city, l’uso di tecnologie che deresponsabilizzano gli abitanti, la ricerca di “successo” competitivo, piegando a ciò la stessa ricerca universitaria.

Mentre masse di cittadini già impoveriti vedono peggiorare le loro condizioni di vita giorno dopo giorno, tutti (o quasi) i governi locali subiscono il fascino delle grandi opere e dei grandi eventi, cavalli di troia per speculazioni, tangenti e scambi di favori proposti come ricetta magica.

Anna Marson, Enzo Scandurra, Edoardo Salzano


P.S
Questo articolo è stato ripreso dai siti Officina dei saperi e Società dei territoriliste/i, dove si possono inviare adesioni

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