Lo scenario dell'Italia nel luglio 2008, a due mesi dalle elezioni politiche che la segneranno per cinque anni, è fin troppo semplice. Una maggioranza di ferro è stata consegnata a una destra senza confini, arbitrata da Silvio Berlusconi, nella quale è scivolata senza più identità l'ex Alleanza Nazionale, ammesso che ne avesse una negativa o positiva. La Lega invece l'ha conservata, funziona da minoranza nella maggioranza di governo, fuori di esso non avrebbe peso, ma parla con voce sua. Un'alleanza, quella fra Berlusconi e Bossi, fra due che necessitano l'uno dell'altro, senza grande empatia.
Berlusconi tende a modellare il paese su un'immagine aziendale, Fini segue, Bossi ha invece un'ipotesi federalista. Tremonti è tanto suo quanto berlusconiano. Berlusconi ha per priorità la garanzia di non essere disturbato dal sistema giudiziario, del quale quel che più teme è l'obbligo dell'azione penale. E' rapidamente riuscito a mettere in riparo se stesso, celandosi fra altre cariche pubbliche (Presidente della Repubblica, del Consiglio, della Camera e del Senato, questi due in verità non più che transitori speaker), nessuna delle quali ha obiettato. A settembre cercherà di riportare i pubblici ministeri sotto l'egida del Ministero della giustizia, come in altri paesi che peraltro evitano di abusarne. Se potesse farebbe di tutta la giustizia una funzione del governo e non un suo contropotere. Ai vizi, che ci sono, della casta dei giudici si dovrebbero sostituire solo quelli dell'esecutivo, anzi degli esecutivi, inclusi quelli periferici. La Lega starà al gioco, anche se non le facilita la popolarità. Essa è più vicina culturalmente a Di Pietro che al Cavaliere,ma ha bisogno assolutamente del federalismo fiscale, al quale Berlusconi non terrebbe gran ché, mentre le sinistre non sanno proporre una politica pubblica trasparente, unitaria e perequativa; per cui avremo un crescere delle differenze fra livelli regionali di vita (istruzione e sanità) e di rapporti sociali. Se a questi si aggiunge la tendenza del governo e della Confindustria, mortale per la Cgil, ad abolire il contratto nazionale, la frammentazione in regioni e corporazioni sarà ricostituita dopo poco più di mezzo secolo di primato nazionale unitario e repubblicano. Questo andazzo, unito al grandinare di misure legislative, fra le quali primeggiano i decreti e viene privilegiato il voto di fiducia - vizi dei quali il certosinistra non si era privato - hanno determinato in tre mesi una modifica della Costituzione di fatto che non credo abbia precedenti altrove. Anche se Nicolas Sarkozy persegue una analoga ridefinizione dei poteri, ma non senza incontrare qualche difficoltà in una più robusta tradizione dello stato. Comune è la tendenza antiparlamentare, e poggia su un'opinione pubblica che è tornata a prediligere il decisionismo nella speranza che le risolva alcuni problemi urgenti di vita, fra i quali primeggiano la concreta difficoltà di arrivare alla fine del mese e il fantasmatico bisogno di sicurezza che, agitato dalla destra, viene coperto per ignavia dalle opposizioni. Che Berlusconi e Sarkozy siano stati eletti a furor di popolo e perdano non pochi consensi alcuni mesi dopo depone di una crescente immaturità dei cittadini, sempre più determinati da scontentezza e risentimento perché non trovano nel supermercato della politica il prodotto che più gli conviene, l'interesse generale non costituendo più una priorità nella società individualista e «mucillaginosa ». Questo equilibrio di malumori fra ceti medio bassi emedio alti, che ha messo le redini del governo in Italia in un personaggio di bassa cultura e in Francia in uno di stile un po' meno volgare, non sembra facilmente intaccabile a tempi brevi. E' vero che riceverà sul muso l'onda d'urto della crisi,ma non c'è più una sinistra in grado di trasformare il malcontento in coscienza e proposta alternativa. Questo è l'appordo della famosa «transizione » delle repubbliche postbelliche. Restano i movimentima, da noi, eccessivamente locali, quindi strutturalmente minoritari, separati e quindi non in grado di esercitare un'egemonia. A quarant'anni dal trionfo del 1989 le magnifiche sorti e progressive della società liberista, aperta e aconflittuale, si sono ridotte a questo piccolo e un po' ripugnante cabotaggio. Sarebbe fin divertente, sotto il profilo storico, constatare - come negli Usa gli studi Paul Krugman e in Italia quelli di Isidoro Mortellaro - che non c'è mai stato un così ingente ritorno in campo di una proprietà pubblica protezionista, deprivata di ogni qualità sociale, mera forma statale di sostegno a un sistema proprietario inciampato in qualche sua trappola, dalla guerra del petrolio alla crisi dei subprime. Nonché in presenza di due giganti asiatici in fieri, i mostri della «democrazia» indiana e del «comunismo » cinese, sui quali il vittorioso Occidente riflette il meno possibile. Tanto più che le sedi storiche di riflessione del Novecento, le sinistre, non esistono più. O ne esistono deboli tracce, come in Francia e in Spagna. Può darsi che lo scandalo italiano - totale scomparsa delle sinistre radicali dalle Camere - venga sanato dalle elezioni europee del 2009 attraverso un sistema elettorale a bassa quota di sbarramento; ma si deve ammettere che una sinistra che appare o scompare grazie al puro meccanismo elettorale è mal ridotta. Solo caso a parte la Germania, dove sorge dopo oltre mezzo secolo una Linke, per ora non molto di più che come difesa sociale elementare. Meglio che niente, dopo quasi un secolo fra nazismo e il tormentoso dopoguerra. In Italia non c'è stato alcun tormento. Il Pci si è dissolto, più lentamente ma in modo analogo all'Urss, e non con una maggiore elaborazione culturale, negando alla propria storia altra qualità che di essere stato un «errore», più o meno delittuoso. Non è humus sul quale ricostruire qualcosa. Quanto al Partito socialista nel dopoguerra italiano è sempre stato debole, né il Pci aveva colto l'interesse di lasciargli uno spazio, per cui neanche da quella parte viene uno straccio di cultura che possa chiamarsi tale. La fusione a freddo fra Ds e Margherita si è tentata su un terreno culturalmente basso e reticente, e socialmente subalterno a un capitalismo debole. Sono diversamente instabili sia l'anima cattolica, sia quella ex Ds, vaga in Veltroni, un poco più solida in D'Alema, lontane ambedue dalla relativa solidità delle pur indebolite socialdemocrazie nordiche. Per qualche tempo qualcuno di noi, chi scrive inclusa, ha pensato che fosse l'ora del centro, ma credo che ci siamo sbagliati. C'è, mi si perdoni il termine, un incarognimento di molti livelli di società diversamente risentiti, che toglie spazio alla tradizione democratica e si intesse nel restringersi dei margini di mediazione sociale - fra debolezza intrinseca dell' Italia e rombo di una crisi occidentale crescente. Il tutto nel silenzio del sindacato e delle sinistre «radicali» seguito alla sconfitta politica. Non so che cosa avvenga in Corso d'Italia, non essendovi più la scusa del governo amico. L'assenza di reazione del più grande sindacato italiano al tempestoso muoversi del governo fa paura. L'isolamento della Fiom non ha più spiegazioni. La gestione del caso Alitalia e oggi quella del pubblico impiego sotto l'impazzare di Brunetta, sono sconcertanti. E sconcertante è il silenzio di Rifondazione. Si è arrivati da viale del Policlinico persino a dire che la priorità era riflettere rifugiandosi in un buco mentre fuori grandinava di tutto. Come se si potesse parlare o tacere solo se si è o non si è rappresentati alle Camere. Ed è meglio ignorare quel che ogni tanto si sente provenire dalla stanza in cui le mozioni di Rc si sono sbarrate. Non è bello quel che ogni tanto ne arriva. Altro che eccesso di astrattezza e razionalità della politica, i partiti sono famiglie passionali in cui scorre il sangue e più piccole sono più sangue scorre. C'è solo da sperare che un sussulto di responsabilità metta fine alla lotta di tutti contro tutti e ricostruisca per Rc un terreno di sopravvivenza. In questo quadro non si può risparmiare una flebile riflessione sulla stampa scritta e parlata. Essa è oggi una pura cronaca suggerita dal governo o dalla pochezza politica di tutto il resto. Dove sta l'indipendenza del giornalismo, di una sua visione o griglia di lettura? Non occorrerebbe essere eroi per far qualcosa di più che appiattirsi sui portavoce dei ministri. Dei famosi grandi quotidiani indipendenti uno, il Corriere, è passato senza esitazione con il governo, e Repubblica è imbranata quanto il Veltroni che aveva ardentemente sostenuto. Salvo il rispetto per l'Unità e Liberazione, comunque legati ai partiti, nulla resta sulla scena di una sinistra riflessiva in Italia se non il manifesto. Ma ci rendiamo conto? Anche se in difficoltà, anche se inquieto e infelice. Ma soltanto il manifesto e basta. Ansimante ma non morto. Sarebbe da intrecciare una frenetica danza. Forse lo faremo dopo questa pesante estate. Nella quale tutti gli umani si riposano al mare o sotto il fogliame. I gatti si ritirano sotto un mobile, e così si appresta a fare il vostro affezionato micio settimanale.