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Gabriele Polo
Un'altra piazza
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Non tutti ritengono che le esercitazioni antiterrorismo siano una cosa necessaria. Non solo perchè le parate non sostituiscono una preparazione seria dei corpi di vigilanza, ma anche per le ragioni esposte su il manifesto del 4 ottobre 2005

Chissà se il presidente Ciampi avrà inserito la parola «piazza» nel suo Dizionario della democrazia, che da domani va in libreria? C'è da dubitarne, conoscendo l'ex governatore della Banca d'Italia. Eppure la storia democratica di questo paese - ma vale anche per buona parte dell'Europa - con la «piazza» come spazio della politica ha avuto molto a che fare. Non solo nel bene, ma anche nel male, come ci ricordano il primo fascismo, la polizia di Scelba, qualche bomba non troppo lontana. Era una «dialettica» che oggi qualcuno può considerare primitiva, ma che ha segnato il nostro Novecento. Cancellarla non è un bene. Come non è un bene trasformare la «piazza» in qualcosa d'altro, da luogo della politica a teatro di una rappresentazione malefica. E' ciò che è accaduto ieri a Roma - e qualche giorno fa a Milano - con un'esercitazione antiterrorismo utile solo come promemoria per un inevitabile domani. Perché i veri protagonisti delle manovre di ieri non sono stati i poliziotti, gli infermieri, i vigili del fuoco: loro erano solo comparse mandate in strada per convincere gli spettatori - cioè tutti noi - a prepararsi al peggio. Una simulazione che non è servita a testare l'efficienza dei soccorsi dopo un attacco terroristico ma a rendere «normale» e «plausibile» la vita quotidiana in guerra. «Ecco il futuro che vi attende», questo è il messaggio. Che ammette una duplice resa: la politica non può risolvere i conflitti in corso, intelligence e uomini in armi non possono prevenire la violenza. E che, nelle sue punte estreme, rivendica la giustezza della scelta - questa sì profondamente politica - della via militare che non vuole nemmeno prendere in esame l'idea di disertare la guerra, pena la bolla di traditori dell'Occidente. Quasi fossimo nel 1571 a Lepanto, o nel 1683 a Vienna.

Povera piazza, riempita di figuranti e manichini, attorniata da paure e belliche grida. Ridotta a luogo delle passività, a rappresentazione del peggio. In perfetta continuità con lo spirito berlusconiano che fa appello alle insicurezze più profonde per esorcizzare il pericolo (sempre un po' comunista) dei barbari pronti a sbranare la dolce vita dei lustrini televisivi su cui il presidente del consiglio ha costruito le sue fortune e la sua popolarità. Violentata - la piazza - nella sua concretezza di corpi in movimento che possono produrre un agire comune - cioè la politica - per diventare il luogo del contrasto al male o l'annuncio del male stesso quando non si riempie a comando ma come prodotto di un sentire comune.

E quanta fatica costa ridarle vitalità, quanti dubbi incontra, anche a sinistra, considerarla un luogo positivo, una risorsa. Come è difficile per la nostra opposizione pensare di scendere in strada senza la paura che qualcosa possa sfuggire al controllo degli stati maggiori. Perché tra le virtù della piazza - quella non simulata - c'è l'imprevidibilità di chi la riempie e le dà vita. Nutrendo la pratica della democrazia. Come dovrà accadere domenica prossima e, poi, alla manifestazione dei sindacati contro la finanziaria. Affinché non si tratti di altre esercitazioni.

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