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Mario Tronti
Una voce libera, che fortuna
26 Febbraio 2012
Sinistra
Un intervento nel dibattito aperto da Rossanda. La questione non è se dirsi comunisti, è ricostituire oggi una forza politica che riprenda quelle ragioni. Il manifesto, 26 febbraio 2012

Rossana Rossanda, da lontano, ripetutamente, ci suggerisce, ci sprona, qualche volta ci sferza. È una fortuna, per tutti noi, avere una tale voce libera, oltretutto cara, di stimolo e di confronto. A volte, come nell'ultimo, «il manifesto» del 18 febbraio, «Un esame di noi stessi», viene avanti un discorso puro e semplice di verità. L'esame di se stessi, il tentativo di raggiungere un'autoconsapevolezza delle proprie ragioni di vita, è una dimensione alta dell'essere umano, purtroppo ancora privilegiata, a disposizione dei pochi che possono permettersela. Dimensione eterna. La modernità l'ha poi declinata e assai complicata nella forma dell'agostiniano inquietum cor nostrum, o nello scetticismo libertino alla Montaigne. E tra Otto e Novecento è andato a cercarla negli abissi insondabili dell'inconscio. Comunque, è indubbio che il fermarsi un momento per chiedersi: a questo punto, chi sono, o che cosa sono diventato, è un buon esercizio di intelligenza di sé e del mondo. Ancora più necessario, e forse più difficile, quando si tratta di dire: chi siamo e che cosa siamo diventati.

Ma la smetto subito con queste supponenti considerazioni e passo a vie di fatto. Mi pare che Rossana Rossanda abbia fatto un discorso di questo tipo: ha preso le difficoltà recenti e crescenti del giornale per leggerle come metafora delle difficoltà recenti e crescenti, non di quella sinistra come parola ormai «assai vaga», ma di quella precisa sinistra che ha insistito fin qui a chiamarsi comunista. Ho colto nella voce di Valentino Parlato, quando mi invitava ad intervenire sulla questione, una preoccupazione, che è, penso, di molti compagni e compagne. Che comunisti non ci si possa dire più nei tempi brevi, porta come conseguenza, come ne ha rapidamente dedotto Giorgio Ruffolo, che non ci si possa più dire tali anche nel tempo lungo, quando, come si sa, saremo tutti morti? È un bel problema. Non si risolve qui. Non si risolverà negli anni immediatamente a venire. Lasciamo alle generazioni del XXI secolo la questione aperta. Sui nomi di senso, di significato simbolico, io applico quella categoria somma della politica moderna, che è la Prudenza. Non abbandono un nome finché non ne ho trovato un altro al suo livello di espressività, mutate tutte le circostanze. Non dimentichiamo che la nostra parte sta scontando il purgatorio di aver opposto alla «distruzione creatrice» del capitalismo la decostruzione dissolutrice del socialismo.

Una volta si diceva che per raggiungere un certo obiettivo, ci voleva «ben altro». Oggi si dice che bisogna andare «ben oltre». Dietro le voci soliste che cantano la canzone dell'andare oltre la sinistra, c'è il coro numeroso e chiassoso che ripete il ritornello: non c'è più né destra né sinistra. Nella loro lingua, non c'è vuol dire che non ci deve più essere. Lì abbasso il volume e smetto di ascoltare. C'è, pronto all'uso, un altro nome per definire e per far vedere quel campo di forze che sta di fronte all'interesse capitalistico in modo autonomo, centrato sul mondo del lavoro e con intorno tutte quelle figure, e quelle domande, e quelle questioni, e quelle dimensioni, che solo in riferimento ad esso acquistano senso e soprattutto prendono forza, come soggettività alternativa? Linke, Gauche, Left, Izquierda: fosse per me, direi di questo soggetto, politico, solo Sinistra, con un rosso di bandiera e nessun altro simbolo. Tutti capirebbero, senza bisogno di pubblicitari della comunicazione. E comunque non è dal nome e dalla bandiera che bisogna ripartire. Prima ancora del famoso «che fare», c'è oggi di fronte a noi un inedito «chi essere».

Due obiezioni, di fondo. Una. Quelli che si dicono sinistra, oggi, nella parte maggioritaria, danno un'immagine, appunto, molto più vaga, non riconoscibile nel senso forte detto sopra. Risposta: ma allora non si tratta di cambiare il nome, si tratta di cambiare l'immagine di chi lo porta, ceto politico, programma, azioni, intenzioni. Due. Quella rossa Sinistra potrebbe mai essere partito a vocazione maggioritaria? Risposta: e perché, no? Basta, anche qui, non ascoltare la cantilena: vecchia, residuale, la testa rivolta all'indietro, novecentesca, che poi è sempre il massimo dell'insulto, e tutto il fuoco di sbarramento dell'egemonia dominante.

Se c'è, qui e ora, nella contingenza e nell'epoca, un bisogno storico è il bisogno di Sinistra. La crisi, generale, di questa forma di capitalismo lo ripropone in grande. E questa crisi lo ripropone sulla spinta del fallimento di tutto intero un ciclo che si è approssimativamente definito di globalizzazione neoliberista, ma che è stato in realtà nient'altro che un'età di restaurazione per un comando assoluto del capitale-mondo su tutti i mondi della vita, che nei trent'anni gloriosi avevano preso parola di autonomia, di rivendicazione, di conflitto, e di speranza non per l'innovazione ma per la trasformazione. Il fallimento sta nel risultato di società sempre più insopportabilmente divise tra l'alto e il basso, tra privilegi e povertà, tra mito del benessere e disagio dell'esistenza. Non passa quasi giorno che istituti vari di rilevazione non ci informino sul divario crescente tra redditi di lavoro e profitti di capitale. E allora? È una legge di natura o è un difetto di società?

Che cos'è Sinistra se non, su questo, alzare la voce e chiamare alla lotta? Abbiamo di fronte un anno, due anni, decisivi. Qualcosa può accadere nel direttivo di testa dell'Europa. Il signor Sarkozy e la signora Merkel potrebbero non essere più al loro posto di comando. E il famoso dopo Monti sarebbe bello e risolto. L'ambiguo Obama troverebbe alleati più sicuri. Un fronte di resistenza al super potere che la gabbia d'acciaio delle compatibilità finanziarie impone ai movimenti della politica, potrebbe assicurare più agevoli percorsi di governo. Perché questo è il vero problema. Non tanto portare al governo le sinistre, ma rendere praticamente, cioè appunto, politicamente, possibile un governo della Sinistra. In questo contesto, la discussione se dirci o meno ancora comunisti, non mi sembra proprio la cosa più urgente. Figuriamoci! Oggi spaventa perfino la parola socialdemocratico, che non ha mai spaventato nessuno, nemmeno i capitalisti, che hanno benissimo convissuto con quelle esperienze di governo, e che pure, in tempi recenti, hanno spinto le terze vie a dirsi liberaldemocratiche. Oggi l'unico spettro che si aggira per l'Europa è il rischio di default dei loro conti in rosso, derivati, è il caso di dirlo, da un'improvvida gestione dei loro interessi. È qui, in questo anello debole, che bisognerebbe andare a colpirli, se ci fosse in campo una forza anche per poco con memoria, orgogliosa, di quello che è stato il movimento operaio. Ricostruire questa forza, è il programma massimo che ci sta di fronte. La cosa semplice, difficile da farsi, più o meno come il comunismo, nelle disperate condizioni attuali. Abbiamo letto gli atti di un incontro, in quel di Londra, sull'idea di comunismo: ecco, lì, pensatori che parlano oscuro, non sapendo che fare in politica l'hanno buttata in filosofia, ricominciando da Platone. Il comunismo che riconosco è quello: Manifest der kommunistischen Partei, 1848. Lì comincia una storia. La fine della storia, per quanto mi riguarda, coinciderà con la fine di un'esistenza. Nel frattempo - viviamo politicamente nel frattempo - c'è da combattere e possibilmente sconfiggere un avversario di classe. Quando vedo incedere la figura del professor Monti, non ho dubbi. Poi, posso anche stringere con lui un compromesso, provvisorio. Ma dalla parte opposta: la parte del torto, come recitava un bello slogan di quest'altro manifesto, in quanto parte di una sacrosanta ragione.

Il problema è di far vivere il giornale, non quello di cambiare la ragione della sua vita. La ricostruzione di una forza politica, di un soggetto unitario, per una Sinistra modernamente popolare, armata di idee e riconosciuta dalle persone, richiederà anche un giornale unico, di popolo e di cultura. può giocare qui la sua di storia: che è quella delle origini, ma anche quella che in questi decenni ha visto generazioni di lettori in diretto colloquio con generazioni di collaboratori, con diverse idee e sensibilità e culture, però, appunto, viste da una parte. È stato il laboratorio di quello che adesso può esserci. Non è per domani, forse è per dopodomani. Ma per il dopodomani deve lavorarci da oggi. E' un filo, che non va spezzato, va ricongiunto al prossimo punto d'attacco.

L'articolo di Rossana Rossanda a cui fa riferimento Mario Tronti è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2) e Alberto Burgio (24/2)

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