Finalmente il dibattito sul prossimo referendum si sta animando. Personaggi di rilievo levano la loro voce contro lo scempio costituzionale, ultimo retaggio dal governo Berlusconi. E che Dio ce la mandi buona.
A quanto è stato detto finora in proposito vorrei aggiungere qualche parola su un aspetto particolare della materia, che non mi pare sia stato trattato. Aspetto particolare ma non secondario, in quanto riguarda le donne, che – come noto, anche se raramente considerato – non costituiscono un gruppo minoritairo, ma sono più della metà del popolo italiano,:qualcosa cioè di cui tener conto anche solo per .brutale calcolo elettorale.
Ora le italiane, nella loro specificità di genere, sono forse coloro che, grazie alla Costituzione nata dalla sconfitta del fascismo, hanno compiuto il più vistoso passo avanti nella loro condizione civile e sociale. Non mi riferisco solo al diritto, finalmente loro riconosciuto, di votare e di essere votate, conquista di per sé basilare. Penso all’impianto complessivo della nostra Carta Costituzionale, fondata sul reciso rigetto di disuguaglianze e discriminazioni di ogni tipo. Ciò che è stato garanzia, anzi presupposto indispensabile, di tutte le conquiste via via conseguite dalle donne in questi sessanta anni di vita della Repubblica italiana.
Penso alla cancellazione di norme giuridiche che con tutta chiarezza sancivano disparità civile e penale tra uomo e donna (basti ricordare il “delitto d’onore”). Penso al varo di un nuovo Codice di famiglia, enormemente più aperto e moderno rispetto alla normativa precedente. E alla legge di parità nel lavoro, al diritto di accedere a tutte le professioni, alla conquista del divorzio, alla possibilità di interrompere la gravidanza, alla legge sulla violenza sessuale, e a tutta una serie di provvedimenti anche minori, intesi a eliminare, a ridurre, a erodere via via quella disparità di diritti e di condizione che lungo tutta la storia ha caratterizzato il rapporto tra i sessi.
Certo, gran parte di queste novità legislative non erano formalmente previste dalla Costituzione del ’46. Molte sono frutto della stessa evoluzione sociale, con l’aumento della scolarità per tutti, la maggiore mobilità orizzontale e verticale, il veloce complessivo mutamento del costume: tutte cose che hanno inciso fortemente sulla realtà delle donne, hanno contribuito a risvegliarne le coscienze e animarne la protesta, fino alla loro partecipazione di massa alla rivoluzione femminista. E però tutto questo trovava legittimazione e supporto nei diritti esplicitamente riconosciuti alle italiane, come agli italiani, dalla Carta costituzionale. Che a questo modo consentiva alle donne di realizzarsi nella pienezza della loro responsabilità personale e sociale. O quanto meno consentiva loro di pretenderlo, di combattere per ottenerlo. Ciò che prima, e non solo durante il fascismo, era inconcepibile.
Ora (dicono i fautori del SI’) tutto questo attiene alla prima parte della Carta costituzionale, quella che la riforma non modifica. Ma questo è vero solo tecnicamente. In realtà le due parti sono strettamente connesse. Anzi è previsto che la seconda debba essere la coerente attuazione della prima. Intervenire pesantemente sulla seconda (come nella riforma in questione) significa indebolire o addirittura rimettere in causa i principi base dell’intero documento.
E ciò è tanto più facile nei confronti di una materia, come la parità civile e sociale tra i sessi, in realtà ancora lontana da una piena attuazione. Una materia su cui pesa tutta la storia umana, sempre e dovunque – seppure in misure e in modi diversi – caratterizzata dalla subalternità femminile; e contro la quale è sempre pronta a risvegliarsi, dalle viscere del corpo sociale, l’antica misoginia.
Nella fattispecie, alcune norme previste dalla riforma berlusconiana, come l’affidamento alle regioni di materie importantissime, tra cui istruzione e sanità, creerebbero (come è stato ampiamente illustrato dai più qualificati costituzionalisti) pesanti disuguaglianze, fatalmente destinate a ricadere sulle spalle delle donne.
Dicevo prima come la parità tra uomo e donna affermata dalla Costituzione sia ancora lontana da una piena realizzazione. E indubbiamente la divisione del lavoro tra i sessi rappresenta tuttora, nonostante gli innegabili progressi, uno dei momenti di più grave sperequazione. Casa, famiglia, figli, lavoro di cura, impegno riproduttivo nelle sue molteplici forme, ancora sono dati dal senso comune come “naturale” compito della donna: anche quando è regolarmente inserita nel mercato del lavoro, e magari titolare di un’attività meglio retribuita di quella del marito.
La cosa non sta più scritta nelle leggi, ma sì nella tradizione, nella cultura, nella consuetudine, nelle rigidità mentali che governano tanta parte dell’agire maschile, e talvolta anche femminile. Ora, nel caso di una riduzione degli orari scolastici, o di tagli alle prestazioni sanitarie (eventi tutt’altro che improbabili, specie nelle regioni più povere, se la riforma dovesse avere corso) è facile immaginare a chi toccherebbe sopperire a queste mancanze. Senza dubbio alcuno, alle donne. E potrebbe essere una grave battuta d’arresto nel loro cammino verso la libertà. Altro che svecchiamento, modernizzazione, progresso, dalle destre vantati come obiettivi primari e dati come risultati sicuri della loro riforma.
Le donne hanno insomma una ragione in più, e non da poco, per andare alle urne e votare NO. Una ragione che le riguarda direttamente. E questo, poiché le donne sono “più della metà”, può fare la differenza. Per