il manifesto, 30 marzo 2017 (c.m.c.)
Una giustizia minore e un diritto diseguale. L’approvazione, ieri, del decreto Orlando-Minniti sancisce l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di diritto «etnico» per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria «propria» con deroghe significative alle garanzie processuali comuni. Deroghe non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale.
È questa la ragione principale che ha indotto me e Walter Tocci a non partecipare al voto di fiducia richiesto dal governo sulle misure di «Accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, e per il contrasto dell’immigrazione illegale». Con questo gesto abbiamo inteso esprimere il nostro giudizio fortemente negativo su un provvedimento di legge che introduce una profonda lesione nel nostro sistema di garanzie. Una normativa che, appunto, non prevede appello per il richiedente asilo che ha ricevuto un diniego alla domanda di protezione.
La possibilità di impugnare i provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali è limitata al primo grado e fortemente affievolita poiché, salvo casi eccezionali, non è previsto il contraddittorio: ovvero che il richiedente asilo compaia davanti al giudice e possa esercitare pienamente il suo diritto alla difesa.
Così una procedura che regola tutte le iniziative giudiziarie, comprese le liti condominiali, il furto di un chinotto in un supermercato e l’opposizione a una sanzione amministrativa, non viene applicata nel caso di un diritto fondamentale della persona, come la protezione internazionale, riconosciuta dalla nostra Costituzione.
L’alterazione di questa procedura e la sua riduzione a due gradi di giudizio ha conseguenze ha conseguenze pesanti sulla vita dei richiedenti asilo e sui diritti di cui sono titolari. Ne discende che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato proprio ai soggetti più vulnerabili. E volendo entrare ancor più nel merito della questione, quanto emerge nel corso del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione territoriale, in alcuni casi e per una serie di ragioni, potrebbe non bastare per disegnare il quadro completo della vita di quella persona e far emergere gli aspetti più delicati da un punto di vista umanitario.
A questo serve l’udienza col giudice, e la presenza di un certo numero di esiti favorevoli al richiedente asilo in quella sede con il conseguente riconoscimento di una forma di protezione, nonostante la decisione della commissione territoriale, non può che confermare quanto sia indispensabile garantire quell’impianto complesso – con il contraddittorio e con i suoi tre gradi di giudizio – previsto dal nostro ordinamento.
Le esigenze di riduzione dei tempi di queste procedure, dato il contesto difficile e faticoso in cui il nostro Paese si sta muovendo e si muoverà nei prossimi anni, non vanno certo trascurate. Superare tutti i limiti evidenti emersi nella gestione del fenomeno migratorio deve essere un obiettivo per tutti perché migliorerebbe le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche dei territori coinvolti nell’accoglienza. Ma il risparmio del tempo nelle procedure non può corrispondere a un risparmio di garanzie e diritti.