Insieme agli edifici dell'Aquila la cosa più fragile, in Italia, è la memoria. Sembra quasi che i terremoti non siano un genere di catastrofe con la quale conviviamo da millenni. Soprattutto la mia generazione, ormai classe dirigente, sembra dimenticare di essere cresciuta guardando in televisione sobrie immagini in bianco e nero dei terremoti nel Belice, ad Ancona e a Tuscania, in Friuli. E poi l'Irpinia e l'Appennino umbro-marchigiano.
Ogni volta abbiamo guardato con stupore le macerie, abbiamo pianto morti, abbiamo assistito alle discussioni sulla «ricostruzione» e in alcuni casi alle successive polemiche sul cattivo uso dei fondi e su «famiglie che dopo quindici anni ancora abitano nei container». Chi poi come me è anche architetto sa bene che tecniche e normative si sono evolute e hanno cominciato a offrire, a chi voglia usarli, da un lato difese e protezioni abbastanza efficienti contro la violenza dei terremoti, dall'altro programmi e schemi di comportamento molto efficaci per impostare la ricostruzione.
Dal Friuli in poi il progresso tecnico-scientifico e la buona volontà amministrativa hanno permesso di rendere sempre più efficienti i meccanismi di prevenzione e i modi di reazione fino a un caso di ricostruzione davvero virtuosa come quella umbromarchigiana del terremoto del 1997, anche in quell'occasione caratterizzato da danni enormi al patrimonio storico-artistico e a quello edilizio. Per tutta questa serie di notizie, che i politici italiani dovrebbero conoscere bene, l'uscita del premier sulle «new town» è sembrata una di quelle da non prendere troppo sul serio, destinata a eccitare la fantasia e il fuoco di fila dei «commenti degli esperti» sui giornali piuttosto che a muovere azioni politiche e amministrative concrete.
Dati per scontati gli argomenti a favore del metodo «Aquila 2» - costa meno, si può fare più antisismica e magari più ecologica, produce occupazione e offre un'occasione di lavoro semplice e redditizia all'industria delle costruzioni - non ci vuole molto a mettere in luce le controindicazioni più pesanti: la perdita di memoria delle comunità, un territorio progressivamente popolato di città-fantasma, l'occupazione progressiva del poco suolo ancora disponibile, la distruzione di una delle ultime risorse - il turismo ambientale - che tengono in vita questo territorio.
Basta andarsi a fare un giro a Gibellina Nuova - la miglior «new town» post-sisma d'Italia costruita dal sindaco più illuminato e progressista con gli architetti più bravi e politicamente impegnati - per misurare la difficoltà di impiantare «a freddo» una comunità urbana. La città ha ancora un aspetto vagamente fantasmatico e tutti ci vanno solo per poter vedere l'indimenticabile opera di Burri, il «cretto» di cemento che imprigiona le rovine del vecchio paese. Quindi, visto che Burri non c'è più e che non possiamo pensare di riscattare centinaia di paesi abbandonati con altrettante opere di land-art, l'idea delle new-town rimane una trovata sensazionalistica e poco praticabile, se non per frammenti edilizi, addizioni specifiche che andranno a sostituire quelle costruzioni che davvero non vale la pena o non è il caso di ricostruire, all'interno di un progetto complessivo.
Brasilia e Chandighar in tutta questa discussione non c'entrano niente, sono città/opere d'arte, centri politici e amministrativi inventati a tavolino e realizzati dai maestri nel pieno dell'illusione eroica del modernismo, alimentati dal fatto di essere «nuove capitali» di giovani democrazie. L'Italia, come altri paesi, ha ricostruito se stessa centinaia di volte sulle proprie rovine, e l'impressione è che la sua identità profonda sia più in questa sua capacità di rigenerarsi e stratificare piuttosto che nel ricominciare ogni volta daccapo.
A prescindere da come si ricostruirà, l'aspetto più eclatante del sisma aquilano è certamente nel numero eccessivo di edifici recenti - costruzioni «antisismiche» in cemento armato - o recentemente restaurati che sono crollati all'istante, senza garantire nessuno di quei «rallentamenti» e «attenuazioni» del fenomeno che salvano in genere gli abitanti dai terremoti. Questa sì che è una notizia grave, soprattutto se messa insieme ad altre. Come quella che solo due anni fa l'area è stata inserita nelle zone di rischio sismico di primo grado (!), come il fatto che la normativa sismica in Italia, appena aggiornata, è rigorosa e adeguata e quindi chiaramente, in questo caso, non rispettata, come la costatazione, che non può non far pensare molto male, che tra gli edifici recenti che hanno reagito male ci sono alcuni edifici pubblici, il che vuol dire gare, appalti, ribassi eccetera.
L'Italia in passato ha fatto il gravissimo errore di separare, come fossero il bene e il male, la cultura della conservazione dell'antico da quella della progettazione del nuovo. Le conseguenze sono state gravissime: la conservazione è diventata immobilismo testardo e ottuso, il nuovo è diventato «brutto», casuale, non progettato, abbandonato a figure professionali inadeguate a un mercato spietato e impermeabile alle leggi. Per l'ennesima volta la fragilità con la quale il nostro territorio reagisce alle catastrofi naturali ci mette davanti a questo problema. Non è chiaro, dalle prime reazioni, se la risposta andrà a incidere su questa cultura e saprà trarre vantaggio dalle esperienze precedenti o se ci si limiterà a risarcire le comunità «dando aiuti» e incentivando l'industria edilizia.