Se a qualcuno venisse in mente di ricostruire una sinistra in Italia saprebbe da dove cominciare. Sabato a Roma, una folla enorme ha detto a tutti che a forza di accontentarsi del meno peggio si può finire nel peggiore dei modi: assomigliare sempre più a chi si combatte. Cosicché, alla fine della corsa, potrebbe succedere di aver sprecato energie e speranze a tutto vantaggio dell'avversario. Una strana eterogenesi dei fini. Le centinaia di migliaia di uomini e donne che sabato hanno manifestato avevano un nemico comune: la precarietà nel lavoro; la precarietà della vita decuplicata dall'essere entrata la guerra nella normalità delle cose; la precarietà degli ultimi, i migranti e di tutti i penultimi che li precedono e che li si vorrebbe in guerra contro gli ultimi per consentire lunga vita allo stato di cose esistente. La precarietà è un dramma collettivo, ancora più pericoloso di Berlusconi perché non si riesce a sfrattarla dal governo del paese, chiunque lo governi.
Sabato abbiamo tirato un sospiro di sollievo, e non soltanto noi del manifesto che con altri uomini e donne di buona volontà abbiamo contribuito al successo di un appuntamento decisivo per chiunque abbia a cuore un futuro per la sinistra e, prima ancora, per una società solidale: tutte e due da ricostruire, partendo però da quel che non si è piegato al pensiero unico, nel sociale come nel politico. E non tutto quel che si muove a sinistra, non tutti quelli che sono convinti della possibilità di costruire un altro mondo, erano in piazza a Roma. Bisognerà tornare a parlarci e ad ascoltarci per riprendere un cammino comune. In Italia non c'è soltanto la post-democrazia plebiscitaria, ci sono persone, movimenti, esperienze politiche utili, non residuali, non necessariamente settarie e divise. Quel popolo sofferente ma potente più di quanto esso stesso non creda dev'essere ascoltato, deve ottenere risposte materiali e politiche. Non c'è molto tempo a disposizione.
Tutto bene, allora? Superate a colpi di slogan, bandiere e striscioni le difficoltà e le divisioni di ieri? Certamente no, quella data sabato in piazza alla politica italiana era tutt'altro che la spallata finale. Era un inizio, importantissimo ma pur sempre un inizio. Ci saranno resistenze, ostilità, persino nel nostro campo. Forse anche dentro quelle forze politiche che con generosità hanno contribuito alla riuscita del 20 ottobre. Figuriamoci poi se non ci saranno difese corporative nel ceto politico che vive ogni respiro della società - di quella società che ha consentito di rimandare a casa Berlusconi - come un problema, un rischio da scongiurare, una critica da silenziare con ogni mezzo. Allora, che il governo cada come vuole la destra del paese e della maggioranza o che riesca a passare la nottata, la difesa della strada aperta sabato non può essere delegata a nessuno.
Quel milione di persone, e i tanti che hanno scelto di guardare le immagini in tv, devono mettersi in testa che il destino è nelle loro mani.
I segnali negativi non mancano. Il primo è arrivato ieri dal direttivo della Cgil che invece di tuffarsi in un mare più navigabile e conferire al processo di rifondazione della sinistra idee, cultura e organizzazione, ha aperto il processo al dissenso interno, a chi più ha mantenuto un rapporto con i lavoratori percependone la precarietà, la delusione, la solitudine. Con la motivazione che bisogna salvare il governo e impedire ogni modifica del protocollo, ogni miglioramento essendo impossibile, pena produrre squilibri a una maggioranza traballante: brutto segnale, rischia di accelerare la frattura tra lavoratori e sindacati che l'esito della consultazione ha solo nascosto. Non è un attacco solo contro la Fiom e chi si è battuto contro il protocollo, ma contro tutti noi. Che però, da sabato, siamo meno soli. E abbiamo un compito in più: aiutare la Cgil a salvarsi, anche da se stessa.