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Renata Lovati
Una donna in agricoltura
15 Luglio 2010
Consumo di suolo
Vita quotidiana e riflessioni generali attorno al ruolo dell’attività primaria in una metropoli che prova ad essere sostenibile almeno dal basso. Arcipelago Milano, 13 luglio 2010 (f.b.)

Sono ancora poche le possibilità di lavoro in agricoltura per chi deve partire da zero e la politica dovrebbe farsi carico di agevolare il ritorno alla terra, ora che la ricerca di nuovi stili di vita inverte i flussi migratori fra le città e le campagne. Dovendo raccontarvi il mio percorso culturale e professionale devo premettere che mi ritrovo in una fase della vita in cui credo di avere messo in discussione tante certezze, aprendomi a delle scelte un po’ incerte ma senz’altro molto stimolanti. Non è facile riassumere in poco tempo il percorso di una vita, ma cercherò di farlo in poche parole, soprattutto per lasciare spazio ad altri interventi.

Mi occupo da quasi trenta anni dell’allevamento della vacca da latte e ho trascorso parecchio tempo in un mondo prevalentemente maschile, questo mi ha aiutato a pormi degli obiettivi cercando di migliorare le caratteristiche genetiche e produttive della mia mandria, ma ha anche contribuito ad accettare dei criteri di produzione e allevamento che negli ultimi anni mi mettevano a disagio e mi lasciavano insoddisfatta. D’altronde con tre figli, un marito, i nonni da seguire, l’orto, la stalla, un po’ d’impegno sociale e di attenzione alla politica del quotidiano, grossi spazi di tempo per ripensare o meditare sulla mia professionalità non ne rimanevano.

Soprattutto non ricevevo stimoli, ero uscita dall’università avendo appreso che la vacca da latte è una macchina eccezionale per trasformare erba e foraggi in latte e formaggi, ma le tendenze moderne mi spingevano a produrre grosse quantità di trinciato di mais, e a produrlo con i mezzi più moderni.

Apportando concimazioni chimiche al terreno, e lottando contro le malerbe con l’uso dei diserbanti chimici. Così ho incominciato a ripensare agli anni di studio, alla tesi di gruppo che avevo svolto in Val di Scalve, e mi sono accorta che i risultati del mio lavoro erano già stati superati dopo qualche anno di pratica agricola. Avevo con i miei compagni avviato la bellissima esperienza di gestire per pochi mesi una piccola stalla in cui svezzare con un sistema precoce le vitelle che, degli allevatori esageratamente fiduciosi, ci avevano affidato e alcuni anni dopo, nella mia stalla, ritornavo io stessa a usare il latte di vacca nello svezzamento e abbandonavo il latte artificiale.

La situazione del mercato, le quote, avevano ribaltato in poco tempo i risultati economici della mia tesi. Nonostante un dubbio avesse incominciato a farsi strada nella mia testa, ho continuato a rincorrere indici genetici, morfologici, produttivi, a compiacermi dei risultati ottenuti, però tanto più le mie vacche diventavano produttive più aumentava il divario tra il prezzo del latte e i costi sostenuti per produrlo. Avviata la stalla nel 1980 con una ventina di ettari siamo riusciti negli anni a raddoppiare la superficie coltivata passando dall’agricoltura convenzionale all’integrata, producendo la base foraggera della razione ma dovendo comprare all’esterno una grossa quota di mangimi.

Con la costante ascesa del prezzo dei mangimi, causato in parte dagli effetti climatici e dalle estati siccitose (problemi di aflatossine nel mais) e dalle speculazioni finanziarie nell’anno in cui il petrolio superò i cento dollari a barile, la gestione economica della stalla è diventata sempre più problematica. In questa situazione molti allevatori hanno continuato a credere nella crescita infinita, ad aumentare i capi, altri a chiudere, qualcuno a cercare altre vie. Io cercavo fiduciosa di resistere, un po’ perché ogni tanto guardavo la foto della stalla di brune dei miei nonni che durante i tempi della guerra erano riusciti a far studiare cinque figli mantenendoli al collegio, e un po’ perché ho sempre creduto che la piccola azienda zootecnica costituisca una forma di presidio e di difesa del territorio.

Fu la scelta di mio marito di trasformarci in azienda agrituristica a innescare il primo cambiamento, e a qualificare la nostra attività avviando dei contatti molti positivi con altre aziende.

Come spesso succede l’aprirsi a nuove idee e a contatti con l’esterno arricchisce enormemente il proprio bagaglio culturale e così mentre lui creava un Consorzio Agrituristico e incominciava una collaborazione nel comitato agricolo del Parco Sud, io decidevo di dedicare del tempo all’associazione Donne in Campo e alla creazione di un distretto equo solidale del Sud Milano (DES).

L’incontro con il DES, che ha come sostenitori molti gruppi di acquisto solidali, consumatori che prediligono il biologico, e la mia partecipazione a un seminario di Terra Madre sui cambiamenti climatici e l’agricoltura ecocompatibile, ha poi indirizzato la scelta più recente, e cioè la conversione all’agricoltura biologica.

Questa scelta comporterà da una parte una riduzione del numero di capi per ridimensionare il peso del carico animale sulla superficie coltivata, e dall’altra la ricerca di un diverso sbocco del latte prodotto che in parte verrà probabilmente caseificato e consumato all’interno del distretto. Ma comporterà anche la riduzione della coltivazione del mais, e l’avvicendamento di nuove colture con cui aumentare le produzioni proteiche riducendo drasticamente l’acquisto dei mangimi. Ce la faranno le mie vacche così selezionate negli anni?

Per adesso almeno le asciutte si godono il pascolo e hanno imparato a mangiare l’erba… Il resto sarà una sfida perché se un tempo pensavo che potessero essere biologiche le aziende che territorialmente erano favorite dall’essere isolate dai grandi centri urbani, ora ritengo che il cercare di produrre alimenti biologici all’interno delle fasce perturbane diventi una forma di presidio agricolo di fronte all’eccessiva urbanizzazione e al devastante consumo di suolo. E’ ormai fondamentale creare sinergie con i cittadini più attenti e sensibili alla difesa dei beni comuni prima che” la città cancelli la campagna “, come ha recentemente scritto in una sua relazione l’urbanista Edoardo Salzano. Certamente, l’ho capito in questi ultimi mesi andando a visitare aziende biologiche, questa è una scelta che ancora oggi pochi allevatori possono capire, ma certamente molto si potrebbe fare per cercare di diminuire l’uso delle sostanze chimiche in agricoltura, concimi, diserbanti, insetticidi, pesticidi, erbicidi, razionalizzando l’uso dei farmaci e dei presidi sanitari, ma soprattutto molto si deve fare per ridurre l’impatto dei combustibili fossili usati in agricoltura.

L’agricoltura industrializzata, basata sulla chimica, sui combustibili fossili, sui sistemi alimentari globalizzati, che si fondano a loro volta sui trasporti ad alta intensità energetica e a lunga distanza, ha un impatto negativo sul clima. I sistemi agricoli multifunzionali e biodiversi e i sistemi alimentari localizzati sono essenziali per garantire la sicurezza alimentare in un’era di cambiamento climatico. Le battaglie di Vandana Shiva per difendere i diritti dei contadini indiani nel continuare a prodursi le loro sementi, nel rifiutare le colture OGM e nel richiedere l’accesso all’acqua, non sono poi così lontane dalle nostre realtà, perché tutti i difetti delle monocolture industriali si stanno evidenziando ormai sempre di più. Il diffondersi della diabrotica da una parte, e la moria delle api dall’altra sono segnali preoccupanti di uno squilibrio creato dalla diffusione del seme conciato con prodotti dannosi all’ambiente e il cui uso, è dimostrato, è assolutamente inutile adottando tecniche agronomiche appropriate e il ripristino delle rotazioni colturali.

La direttiva nitrati, che in Italia come sempre si cerca di rimandare, ci impone delle riflessioni profonde sui metodi di allevamento, e sulle scelte programmatiche che hanno teso ad accorpare e a ingrandire le aziende agricole dimenticando nozioni fondamentali che impongono il rispetto degli equilibri tra la fertilità della terra, il suo sfruttamento e la densità di animali allevati. Ripensando agli anni dell’Università ricordo alcuni insegnamenti fondamentali ma l’esperienza più significativa è stata senz’altro quella delle tesi di gruppo. Ci insegnò a lavorare insieme, a progettare il piano di sviluppo della Comunità Montana, a rapportarci con gli allevatori, a far uscire dalla facoltà i docenti più disponibili e portarli sul territorio, a misurare le nostre nozioni sulle consuetudini delle pratiche agricole tradizionali, un’esperienza unica che non credo sia paragonabile al tirocinio che venne poi proposto agli studenti prima di laurearsi.

Se dovessi dare un consiglio ai ragazzi che studiano oggi agricoltura, li inviterei a rendersi più partecipi per difendere i beni comuni che l’amministrazione pubblica e la politica governativa continua a sacrificare in nome di un progresso e uno sviluppo che emargina i più deboli e arricchisce sempre gli stessi. Aria, terra, acqua, elementi fondamentali per garantire il vostro futuro sono sempre più mercificati.

L’aria sempre più inquinata, la terra consumata, l’acqua privatizzata, non scordiamoci che l’agricoltura, con le attività forestali, è indispensabile alla sopravvivenza umana, occorre garantire nuovi spazi e con coraggio avvicinarsi alle attività agricole.

Vorrei concludere con un commento di Carlin Petrini che proprio all’inaugurazione dell’edizione di Terra Madre del 2008 più o meno disse: “Se l’economia mondiale è messa in crisi da meccanismi che hanno premiato virtuosismi finanziari e accentuato i problemi della carenza di cibo e il dramma di intere popolazioni, è attraverso una nuova rivoluzione industriale che si potranno dare nuove risposte alla crisi dei modelli di sviluppo fin qui proposti, ma questa rivoluzione sarà fatta dai contadini di tutto il mondo che produrranno beni non effimeri riportando la terra e le sue risorse al centro dell’attenzione.”.

Da Cascina Isola Maria.

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