CRONISTI nelle ultime quarantott’ore hanno dato fondo a tutte le risorse del lessico e dell’immaginazione per descrivere quanto sta accadendo tra Palazzo Chigi, il Quirinale e gli altri palazzi della politica. E anche in Vaticano e nelle sacre cappelle dove si amministra la religione da parte di un gerontocomio nel quale i settantenni sono considerati giovani e i sessantenni poco più che ragazzi.
Alcuni ci sono egregiamente riusciti. Francesco Merlo, commentando l’irre-orre dell’Udc ha scoperto l’inedita prassi di dimettersi il venerdì lasciando aperta la porta al re-immettersi il lunedì. Concita De Gregorio ha evocato Fellini per descrivere una città che di botto si è trovata con due sedi vacanti, percorsa da cortei di suorine, preti in clergyman, cappuccini in sandali e saio che incrociavano all’altezza della galleria Colonna intitolata ad Alberto Sordi fitte schiere di portaborse e di «peones» provenienti o diretti verso Montecitorio, circondati da paparazzi come ai tempi della Dolce vita. Mancava Anita Ekberg; in compenso furoreggiavano le tre veline di «Striscia» dedite al rito della «baceria», che consiste nell’amorosa aggressione del Vip di giornata per potergli stampare sulle guance il rossetto d’un bacio-ricordo. Ad evitare quel rischio Follini pare abbia usato l’automobile tre volte di seguito per percorrere centocinquanta metri dalla Camera all’ufficio di Gianni Letta che nel frattempo tagliava la torta e stappava spumante per festeggiare il suo settantesimo compleanno nel bel mezzo d’una rissa politica in salsa berlusconese (auguri).
Va detto come ultimo tocco che le lettere di dimissioni firmate venerdì dai ministri e sottosegretari dell’Udc e indirizzate al presidente del Consiglio e al capo dello Stato sono rimaste sulla scrivania di Follini fino alla tarda mattinata di ieri, quando finalmente sono state rimesse ai destinatari istituzionali e la crisi di governo si è formalmente aperta.
In questo quadro dai lineamenti comici e grotteschi si è tuttavia consumato un evento non privo di elementi drammatici. Eccone l’elenco. La solitaria e insolita fermezza dei moderati post-democristiani, costretti a rompere un sodalizio decennale con il capo del populismo italiano e con il gruppo di avventura che lo circonda. La disperazione di Berlusconi, costretto alle dimissioni ma aggrappato fino all’ultimo minuto alla sua postazione di capo di governo, dal quale 15 milioni di elettori l’hanno strappato con la forza del voto.
Il declino malinconico (per lui) e inarrestabile di Gianfranco Fini, ormai ex aspirante al titolo di delfino e successore del re, stretto e quasi schiacciato tra Forza Italia e Lega, con un partito penalizzato dagli elettori e dilaniato da una lotta senza quartiere tra i suoi colonnelli.
Infine (e soprattutto) gli italiani che dopo quattro anni di governo berlusconiano, tessuto di promesse non mantenute e di annunci mai seguiti dai fatti, si trovano ora al centro di un disastro economico, politico, istituzionale e morale, causato dalla leggerezza con la quale la maggioranza degli elettori rilasciò nel 2001 una sorta di delega in bianco a quel gruppo avventuroso e dilettantesco che ha portato il paese a queste distrette.
Sì, ci vorrebbe Fellini per raccontare in immagini il rapido procedere d’un simile degrado, ma ci vorrebbe la penna di Gogol per penetrare al fondo d’una vera e propria mutazione antropologica che ha colpito una società intera facendole perdere i frutti d’un lungo e faticoso cammino che l’aveva portata a gareggiare con i paesi più ricchi e sviluppati del mondo e che ora la fa galleggiare al fondo delle classifiche internazionali da dove potrà risollevarsi solo prendendo coscienza di quanto è accaduto e pagando con severi sacrifici l’errore compiuto quattro anni fa.
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Quanto sta per accadere nei prossimi giorni è ancora alquanto oscuro. Una sola cosa è certa: Silvio Berlusconi dovrà salire nelle prossime ore al Quirinale e presentare a Ciampi le dimissioni del suo governo. Secondo la prassi il presidente della Repubblica lo inviterà a restare in carica per l’ordinaria amministrazione e aprirà le consultazioni con i presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari. Il reincarico è certo, ma credo non possa esser conferito prima di un incontro sia pur brevissimo di Ciampi con i rappresentanti del Parlamento: il ritiro di un’importante componente politica del governo pone infatti il problema di accertare se vi sia ancora una maggioranza o se anch’essa, insieme al governo, non si sia dissolta. Accertamento che non basta leggere nei giornali e nelle dichiarazioni televisive ma che deve essere registrato nelle forme istituzionalmente previste.
I seguiti, lo ripeto, sono ancora oscuri. Dipendono infatti dal negoziato sul programma e sulla composizione del governo, che è già in corso all’interno della ex coalizione di centrodestra, finora con esiti negativi, ribaditi ancora una volta da Follini in una dichiarazione resa alla stampa alle 17.30 di ieri.
Programma. I due documenti finora redatti da Berlusconi - Letta e consegnati il primo a Fini la scorsa settimana e il secondo (che ne è quasi la fotocopia) a Follini venerdì, impostano assai genericamente i lineamenti di una politica economica che è esattamente l’opposto di quella fin qui seguita nei quattro anni trascorsi dal 2001. Non entriamo nel merito di quelle proposte, ma ciò che conta per la storia deriva dal fatto che i due principali membri della coalizione hanno imposto questa svolta programmatica addebitando alla politica fin qui adottata la responsabilità della recente sconfitta elettorale. Non ci potrebbe essere conferma più lampante che la linea precedente altro non è stata che un cumulo di errori, di vacui annunci, di successi vantati ma inesistenti e di impegni non mantenuti.
A un presidente del Consiglio credibile sarebbe sufficiente presentare a un suo (ex) alleato un documento accettabile pur nella sua genericità, ma a un personaggio antropologicamente bugiardo e riconosciuto come tale questo non basterà per riguadagnare il consenso della sua maggioranza parlamentare (quello popolare è un altro paio di maniche molto più arduo da riconquistare).
L’Udc e forse anche Alleanza nazionale pretenderanno un testo parlamentare molto più concretamente impegnativo e soprattutto una struttura di governo che modifichi alcuni punti particolarmente sensibili: l’Economia, le Riforme, l’assetto della Rai e la politica delle telecomunicazioni.
Se il negoziato andrà a buon fine è anche possibile (anche se alquanto grottesco) che l’Udc si re-immetta nel governo.
Altrimenti non resta altra strada che quella dell’appoggio esterno e probabilmente delle elezioni immediate entro la fine di giugno. Il tempo è dunque strettissimo e il negoziato tra le rissose correnti del centrodestra non ha molti margini. Dovrà essere intenso quanto breve. Se ci sarà fumata bianca torneranno tutti insieme e procederanno fino alla fine. Si riaffideranno così alle mani di un «boss» la cui antropologia non è correggibile.
Credo che questo sia il vero rovello di Follini: l’ipotesi di rientrare nella gabbia sia pur dorata dalla quale è riuscito ad evadere per il bene della sua parte e del Paese.
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Post Scriptum. Queste convulse vicende politiche hanno inevitabilmente lasciato in seconda fila altri due grotteschi eventi la cui importanza, di fatto e di principio, è tuttavia di grande rilievo. Si tratta delle due Opa rispettivamente lanciate da una grande banca olandese sulla Antonveneta e da una grande banca spagnola sulla Banca Nazionale del Lavoro. La cronaca di queste operazioni è stata ovviamente seguita con l’attenzione dovuta dai giornali e un aspetto è balzato in piena evidenza: la volontà del governatore della Banca d’Italia di far fallire le due operazioni e la sua attiva partecipazione a conciliaboli continui da lui stesso promossi per organizzare cordate «nazionali» in opposizione al possibile ingresso delle due banche europee nel mercato italiano del credito.
Se le manovre guidate dal governatore sboccassero in altrettante Opa più favorevoli agli azionisti delle banche contese, non ci sarebbero obiezioni di merito anche se non rientra nei compiti della Banca d’Italia di discriminare gli operatori europei non italiani. Ma qui non si tratta di contro-Opa, bensì di cordate camuffate ma assolutamente evidenti. Per di più, nel caso Antonveneta, alla testa della cordata ispirata dal governatore c’è la Banca Popolare di Lodi, la quale sta bruciando nella fornace d’un rastrellamento a prezzi altissimi del titolo Antonveneta gran parte delle proprie risorse fino al punto ormai prossimo se già non superato di impegnare l’intero suo capitale che dovrebbe invece garantire i depositanti.
Un governo e un ministro dell’Economia nel pieno delle loro attribuzioni avrebbero dovuto richiamare fermamente il governatore il quale sembra usare la preziosa indipendenza garantita al suo Istituto per interferire su terreni che non sono di sua competenza bensì del mercato, regolato sul tema specifico da apposite leggi. E, aggiungo e sottolineo, un’opposizione consapevole avrebbe dovuto far sentire energicamente la sua voce in difesa del mercato, delle sue regole, degli azionisti e soprattutto dei principi della libera concorrenza tra imprenditori europei. Il fatto che ciò non sia avvenuto con la dovuta energia suscita in noi stupefatta preoccupazione.