Formigoni sarà ricordato anche per la sua intensa attività edilizia simbolicamente rappresentata dal nuovo Palazzo della Regione Lombardia. Adesso l'edificio è stato segnalato dal Council of Tall Buildings and Urban Habitats di Chicago, quale migliore grattacielo per la sezione riguardante l'Europa. Altre menzioni sono andate alle Absolute Towers (Mississauga, Canada) dello studio MAD Architects, a un grattacielo a Sydney del gruppo Ingenhoven architects e Architectus, e alla Doha Tower di Jean Nouvel. L'orgoglio del Governatore è così grande che non ha perso tempo per ingaggiare un critico (Gillo Dorfles) e un architetto (Italo Rota) per magnificare la «nuova idea di futuro» espressa dal «primo palazzo di governo dopo il Castello Sforzesco».
Poiché non si può impedire a un'associazione di lobbisti americani di premiare i più stravaganti edifici del mondo, qualche riflessione è invece d'obbligo sul perché un edificio di mediocre qualità architettonica e d'infelice collocazione urbanistica possa essere definito un'architettura di qualità, paragonabile ai monumenti storici di Milano. Innanzitutto va notato che la stampa (vedi il «Corriere della Sera» del 16 ottobre), e in generale i media, continuano a pubblicare l'immagine di un edificio avulso dal contesto urbano mentre il suo inserimento «a forza» lo vede giganteggiare su un nucleo di edifici residenziali preesistenti, quelli a perimetro di un vivaio, poi dismesso e trasformatosi in un piccolo bosco, abbattuto in una notte per lasciar posto al megaedificio pubblico.
Basta scaricare la cartella stampa dal sito dell'associazione americana (www.ctbuh.org ) per capire cos'è il Palazzo formigoniano spinto addosso al «Quartiere Modello» dell'ingegner Antonio Lamaro, questo sì da segnalare (e salvaguardare) quale intervento tra i più eloquenti dell'architettura razionalista tra le due guerre. Ci si accorgerebbe della morsa a tenaglia che i blocchi edilizi curvi alla base del grattacielo riservano alla nobile palazzina che chiude il «Quartiere Lamaro» raccontato con maestria filmica da Gianluca Brezza ne La casa verde. Una storia politica, un documentario da proiettare nelle scuole e nelle piazze per comprendere appieno la brutale operazione immobiliare che sta dietro l'edificazione di un'architettura magniloquente collocata nel posto più inadatto.
Ben altro da ciò che Dorfles ha dichiarato soddisfatto: «Finalmente abbiamo una città rivolta non solo al centro, ma anche alla periferia». A inquietare, della pur breve storia dell'edificio, non è tanto la surreale manipolazione subita dall'architettura dello studio Pei Cobb Freed & Partners Architects tra ideazione e realizzazione (ad esempio l'aggiunta di una piattaforma per elicotteri vicinissima agli edifici confinanti e fuori norma rispetto i limiti acustici o l'insano disegno delle aree a verde a terra e sui terrazzi), quanto l'afasia della cultura milanese davanti alla crescita neoliberista dell'area Garibaldi-Repubblica.
Eppure nessuna altra parte della città è stata così meditata, a cominciare dal Piano AR dei razionalisti milanesi redatto all'indomani della fine della guerra, fino al Concorso di idee bandito nel '92 e vinto da Pierluigi Nicolin, senza contare il numero di tesi di laurea del Politecnico, le iniziative di riviste (gli otto progetti pubblicati da «Casabella» nel '79), le esposizioni della Triennale e le diverse varianti, piani d'area e altri strumenti urbanistici redatti dall'amministrazione comunale.
Ci si chiede come sia stato possibile che una così intensa attività urbanistica e architettonica abbia dato forma allo scombinato Piano Integrato di Intervento del 2004 in cui si inserisce la nuova sede della Regione. Dove si è smarrita la riflessione sul ruolo strategico che i «grandi vuoti urbani come spazi di relazione» (Monestiroli) avrebbero avuto per la nuova forma urbis di Milano? Sono trascorsi quasi venti anni da quando si ragionava sulla necessità di far «affacciare» l'architettura delle istituzioni civili in un'area «destinata alla natura» sulla scia della lezione di Le Corbusier e Hilberseimer. Così non è stato e il «Centro Direzionale» è diventato la «turrita cittadella» già immaginata da Guido Canella: un luogo di «contenitori di una generica (e ormai anacronistica) burocrazia», ma soprattutto di grattacieli «rattrappiti e caricaturali rispetto ai modelli d'ispirazione», proprio come si è verificato senza che ciò fosse considerato uno scandalo, non meno grave di quelli che la cronaca ci racconta sul malaffare della politica.